Archivio | agosto, 2016

Lo sguardo sottile di Lorenzo Lazzeri

30 Ago

di Ivan Quaroni

Chi non riesce più a provare stupore e meraviglia
è già come morto e i suoi occhi sono incapaci di vedere.”
(Albert Einstein)

cercatori di utopia 1 , 2016, olio e acrilico su tela, cm 160x120

Cercatori di utopia 1 , 2016, olio e acrilico su tela, cm 160×120

Da oltre un secolo, la rilevazione ottica e mimetica della realtà non è più affare della pittura. Strumenti più precisi come la fotografia e il video, hanno ereditato questo compito, lasciando alla pratica pittorica l’onere di interpretare la realtà ben oltre la dimensione prosaica del visibile.

Ciò significa che essa ha dovuto ristabilire più volte i propri scopi, talvolta analizzando i costrutti mentali che presiedono alla formazione della realtà fenomenica, talaltra riflettendo sulle forme basilari ed elementari della grammatica visiva (segno, colore, superficie, spazio). In ogni caso, in poco più di cent’anni, si è trasformata fino a diventare qualcosa di più di una semplice prassi operativa e, al contempo, qualcosa di diverso dalla mera espressione visiva dello spirito di un’epoca. Essa è diventata – o forse è sempre stata, senza che ce ne rendessimo conto – una funzione del pensiero umano, una branca della conoscenza che, come la filosofia, anche se con procedure del tutto diverse, ha tentato di elaborare un’interpretazione del mondo.

Recenti studi sull’intelligenza umana hanno mostrato che tale facoltà, solitamente relegata alle funzioni del “pensiero razionale”, è in verità globale e multidimensionale. Secondo Howard Gardner, psicologo e docente a Harvard, esistono numerose forme d’intelligenza corrispondenti ad altrettante facoltà intellettive, come ad esempio quella logico-matematica, quella linguistica, quella spaziale, musicale, cinestetica, filosofica, interpersonale e intrapersonale.

Smarrimento, 2016, olio e acrilico su tela, 150x100 cm

Smarrimento, 2016, olio e acrilico su tela, 150×100 cm

Tuttavia, il termine “intelligenza visiva” viene coniato per la prima volta nel 2002 da Ian Robertson, psicologo e neuro-scienziato irlandese che ha studiato le abilità cognitive legate all’immaginazione e alla capacità di visualizzazione, definendole come una sorta di sesto senso in grado di completare le esperienze compiute dai cinque sensi tradizionali. Non è un caso che anche gli storici e i critici d’arte si siano recentemente interessati ai problemi legati alla percezione visiva – già indagati dalla psicologia gestaltica – e alle possibilità d’interpretazione dischiuse dall’analisi del “pensiero visivo”, spesso connesso con la dimensione del trascendente e dell’ineffabile. Peraltro, già prima del neuro-scienziato irlandese, lo storico dell’arte e psicologo tedesco Rudolf Arnheim (Il pensiero visivo, Einaudi, 1974) era convinto che il pensiero (non soltanto quello riguardante l’arte) avesse una natura fondamentalmente percettiva e che l’antica dicotomia tra “vedere” e “pensare”, tra “percepire” e “ragionare”, era sostanzialmente falsa.

Componendo, in via del tutto teorica, gli esiti degli studi di Ian Robertson con quelli di Rudolf Arnheim, appare chiaro come la pittura e, in generale, tutte le arti rappresenti oggi la traduzione plastica e visiva di un modello di pensiero per lungo tempo considerato inferiore a quello “razionale”.

Intuitivamente, la ricerca artistica di Lorenzo Lazzeri muove da questa rinnovata consapevolezza della validità inquisitoria del pensiero visivo. L’artista toscano, attraverso le sue tele cromaticamente ridotte, lontane dalla mimesi realistica, sembra, infatti, interrogarsi sullo stato di salute dell’intelligenza visiva nella società odierna. Si chiede, insomma, se l’uomo sia ancora capace di penetrare il mondo con uno sguardo sottile, di squarciare il velo superficiale della realtà, quello che sta dietro la pellicola ottica che lo avvolge, per cogliere il senso stesso dei fenomeni. “Il vero mistero del mondo”, scriveva Oscar Wilde, “è il visibile, non l’invisibile”.

Per Lazzeri, non si tratta, dunque, di sconfinare, attraverso la pittura, nel trascendentale, ma di riscoprire la bellezza di ciò che ci circonda o, come afferma lo studioso di miti greci Walter Otto, “l’essere nella pienezza della sua manifestazione”.[1] Nel tentativo di recuperare la facoltà di vedere (ma anche d’immaginare) la sostanza più sottile dell’universo e, insieme, di restituirla intatta all’attenzione dell’osservatore, Lazzeri ricorre a uno stratagemma semplice quanto efficace, quello cioè di azzerare, o quantomeno attutire, il rumore cromatico delle sue visioni adottando una tavolozza tutta giocata su variazioni del colore bianco, solo a tratti interrotta dall’inserzione di dettagli cromatici.

L’arte non è ciò che vedi”, diceva Edgar Degas, “ma ciò che fai vedere agli altri”. E Lazzeri sceglie consapevolmente di sottrarre il colore alla tela per acuire lo sguardo dello spettatore e indurlo a rallentare i tempi di fruizione delle sue opere, sostituendo così l’abituale rapidità di consumo delle immagini con un approccio più dilatato e meditato. D’altra parte, meno sono le distrazioni sulla tela, più l’occhio del riguardante si concentra su particolari minimi.

Cercatori di utopia 22016, olio e acrilico su tela, cm 160x120

Cercatori di utopia 2, 2016, olio e acrilico su tela, cm 160×120

La strategia di deprivazione cromatica, già adottata nelle ricerche ottiche degli anni Sessanta e in quelle analitiche degli anni Settanta, trova nell’artista toscano una dimensione figurale e poetica inedita. La scelta espressiva del colore bianco, presente anche nei precedenti cicli pittorici Solo Bianco e Superbianco rapido, assume ora una diversa connotazione psicologica. Il bianco, com’è noto, contiene tutti i colori dello spettro elettromagnetico, esattamente come in acustica il rumore bianco è un suono che comprende tutte le frequenze udibili. In sostanza, esso è una sommatoria che annulla le differenze e che, per dirla con Kandinsky, “suona come un silenzio, un nulla prima dell’inizio”.

Anche nelle grandi tele di Lazzari il bianco è un inizio che, però, contiene in nuce già tutte le possibili variazioni cromatiche dei paesaggi naturali. I suoi boschi, i suoi specchi d’acqua non sono altro che paesaggi potenziali, non ancora edulcorati dalle mille variopinte sfumature della natura. Sono la risposta all’horror vacui dello sguardo contemporaneo, saturato d’immagini d’ogni tipo, che contrappone alla plenitudine indifferenziata di forme la ritrovata abilità selettiva dell’occhio interiore. È chiaro, infatti, che lo sguardo invocato dall’artista toscano, non è quello meramente ottico e retinico, ma quello immaginativo del pensiero visivo, una tavola bianca, inesplorata come i gioiosi boschi di Byron,[2]dove l’uomo ritrova la sua naturale, infantile, propensione a meravigliarsi della bellezza del quotidiano, a stupirsi di ciò che eternamente, quasi invisibilmente, si rinnova ogni giorno.

il bosco e l'incanto, olio e acrilico su tela, 2016,  90x120 cm

Il bosco e l’incanto, olio e acrilico su tela, 2016, 90×120 cm

Le grandi foreste di Lazzeri – dipinte con una tecnica mista che alterna olii e acrilici in una stratificata progressione di grigi leggeri e differenti tonalità di bianco – favoriscono una sensazione quasi immersiva, che avvolge lo spettatore spingendolo inevitabilmente ad accorgersi di piccoli dettagli, di apparizioni quasi furtive, che spezzano il rigore monocromatico della visione. Sono, per lo più, presenze umane o animali sottodimensionate rispetto al paesaggio circostante, silenziose processioni di piangenti e gruppi di bagnanti, sparuti viandanti e cervi solitari, guizzanti ballerine e sconcertanti sassofonisti calati, come surreali inserti dadaistici, in una natura titanica e ipertrofica. L’alterazione di scala, insieme alla definizione “ritagliata” di queste figure, quasi un’emulazione pittorica del collage, sortisce effetti sorprendenti. Lo sguardo dello spettatore slitta, infatti, dalla dimensione ambientale al micro dettaglio antropo-zoomorfo, inchiodandosi nella visualizzazione dell’infinitesimale.

Ma questa ginnastica oculare, questo pulsante dilatarsi e restringersi della pupilla, corrisponde anche a un meccanismo di focalizzazione mentale. Come aveva intuito Shopenhauer, “la lontananza rimpicciolisce gli oggetti all’occhio, ma li ingrandisce al pensiero”.[3] Lazzeri lo sa ed è per questo motivo che inventa quadri che irretiscono l’occhio e ingannano lo sguardo, trappole visive che potenziano la realtà aumentata della figurazione, mantenendo inalterate la qualità liriche e allusive della sua pittura.

Il titolo di questa mostra, Lo sguardo sottile, suona allora come una dichiarazione d’intenti, come l’impegno risoluto di un artista nei confronti della visione della realtà. Perché come ammoniva Galileo Galilei, “non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono”.

Il colore dell'ombra, olio e acrilico su tela, 90x120 cm

Il colore dell’ombra, olio e acrilico su tela, 90×120 cm

 


Note

[1] Walter Friedrich Otto, Il volto degli dèi, Fazi editore, 2016, Roma.
[2] George Gordon Byron, Il pellegrinaggio del giovane Aroldo: “C’è una gioia nei boschi inesplorati / C’è un’estasi sulla spiaggia solitaria/ C’è vita dove nessuno arriva vicino al mare profondo /e c’è musica nel suo boato. / Io non amo l’uomo di meno, ma la Natura di più”.
[3] Arthur Shopenhauer, Aforismi sulla saggezza del vivere, Mondadori, collana Oscar Classici, 1997, Milano.


Info

Lorenzo Lazzeri. Lo sguardo sottile
a cura di Ivan Quaroni

Galleria Susanna Orlando STUDIO
Via Stagi, 12 Pietrasanta (LU)
T +39 0584 70214
info@galleriasusannaorlando.it
www.galleriasusannaorlando.it

Inaugurazione sabato 27 agosto 2016, ore 19.00
Orario dal lunedì alla domenica 11-14 / 17-24

Ufficio stampa Studio Ester Di Leo
Tel. +39 055 223907 cel. +39 348 3366205
ufficiostampa@studioesterdileo.it   http://www.studioesterdileo.it

 

 

Addio a Tommaso Labranca

29 Ago

Una delle cose cose di cui mi pento di più, tra le innumerevoli cose di cui mi pento, è di non aver lavorato con Tommaso Labranca, scrittore, autore televisivo e conduttore radiofonico per me tra i più brillanti e, soprattutto, persona di una intelligenza e gentilezza rare. Un binomio piuttosto infrequente nel mondo dell’editoria e dello spettacolo.

Era diventato celebre come coautore, insieme a Fabio Fazio, del programma Anima mia, ma io lo conoscevo soprattutto per il suo fulminante e divertentissimo Andy Warhol era un coatto (Castelvecchi) e per essere stato uno degli animatori della letteratura pulp negli anni Novanta, insieme agli scrittori Cannibali Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Niccolò Ammanniti, Andrea G. Pinketts e molti altri. Con loro e con il waver comasco Garbo, autore, tra le altre, di canzoni come Radioclima e Quanti anni hai?, aveva dato vita al Nevroromanticismo, un progetto che fondeva la sensibilità letteraria cannibale con le malinconiche sonorità elettroniche di Japan e Ryuichi Sakamoto.

 

 

Con scrittura limpida e impeccabile, Labranca aveva demolito l’atteggiamento snobistico e cialtrone di larga parte della cultura contemporanea, riportando (almeno per quanto mi riguarda) il dibattito estetico su binari più prosaici e accessibili. Eppure era una persona raffinatissima nei gusti musicali, artistici e letterari. Gli piacevano la new wave più oscura degli anni Ottanta (la 4AD dei Xmal Deutchland e dei Modern English), la disciplina lavorativa da operaio di Andy Warhol, il gusto semplice e pecoreccio della provincia italiana, ma amava anche collezionare riviste chic come FMR. Per quel che ricordo, detestava gli atteggiamenti affettati, come l’elitarismo salottiero di Gillo Dorfles, di cui pure era stato ammiratore, o l’intellettualismo inconsistente di certo cinema italiano, che inventava personaggi campati in aria, dei quali non si sapeva neppure che lavoro facessero… Invece amava l’onestà della cultura popolare, quella pop e folk, la letteratura di genere, i B-movies e il kitsch, perché pensava che non si potesse eliminare la merda dalla nostra vita, dal momento che la merda continua a sommergerci…

Ho incontrato Tommaso Labranca una sola volta negli uffici di Tele + nell’estate del 1998. Alla fine di quella bellissima intervista, poi pubblicata nel numero di ottobre/novembre di Intervista, lo splendido bimestrale di Giancarlo Politi editore, mi chiese se mi interessava lavorare con lui alla redazione di Com’è, il programma di cui era autore dal 1997. Stupidamente declinai l’offerta per un assurdo senso di lealtà nei confronti di Claudio Cecchetto e Pierpaolo Peroni, per i quali lavoravo all’epoca della loro collaborazione con Radio Rai. Fu un errore. Un grosso errore perché Tommaso Labranca mi piaceva ed era più simile a me di quanto lo sarebbe mai stato Claudio Cecchetto (a cui pure devo molto).

Dopo l’intervista ci sentimmo un paio di volte. Mi chiese di fargli avere un numero della rivista, ma non riuscii mai a fargliela avere. Se non fossi stato così dannatamente timido avrei continuato a cercarlo e saremmo (ne sono certo) diventati ottimi amici. Per me, a distanza, lo è stato. A lui devo il primo contatto con Giancarlo Politi e i miei rapporti con Flash Art. Soprattutto, grazie a lui ho capito che la televisione e la radio mi interessavano molto meno dell’arte. Non fosse stato per quell’intervista non farei il lavoro che faccio.

Tra i miei cattivi maestri lui è stato il più gentile, il più umano, l’amico che avrei voluto avere.

Grazie Tommaso!

Questa la sua intervista:

Labranca 1

Labranca 2