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Sara Forte. Silex

24 Mag

di Ivan Quaroni

 

“ Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo.”
(Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885)

SI 79 cm 40 x 70 2018 Olio e acrilico su dischi di silicio applicati su tavola

SI 79,  2018,  Olio e acrilico su dischi di silicio applicati su tavola, cm 40 x 70 cm

L’indagine formale di Sara Forte muove, almeno inizialmente, dal sostrato dell’astrazione lirica del primo Novecento. La sua necessità espressiva si addensava, in origine, intorno alle memorie delle esperienze del Blaue Reiter, agli afflati che caratterizzano le visioni selvagge di Franz Marc, imbrigliate nella perfetta geometria delle curve, e ai primi vagiti aniconici di Wassily Kandinskij, ancora pregni di folclore. Accanto a questi influssi, Sara Forte accoglieva, quasi per via elettiva, anche la lezione analitica delle scomposizioni cubo-futuriste, con il loro corredo di papier collée di visioni simultanee. Già allora si profilava la sua predilezione verso i lemmi geometrici, in particolare il circolo e la sfera, con cui l’artista smussava la ritmica partizione delle superfici percorse da sferzate verticali di colore.

Rispetto agli esiti recenti della sua ricerca, drasticamente ridotta sul piano cromatico, la massa magmatica del colore, “mai scarno […] ed effervescente”[1]- come notava Carlo Franza -, s’incaricava di esprimere tutto il contenuto emotivo e instintuale di quel linguaggio. Emergeva, cioè, un impetusvitale che sarebbe poi stato imbrigliato in una sintassi più apollinea, ripulita di ogni scoria informale.

Col senno di poi, è facile notare che perfino in quelle prime prove, affiorava, di tanto in tanto, un curioso interesse per le forme della comunicazione scritta. I suoi papier collé erano per lo più fogli di giornale, cioè brandelli prelevati dal tessuto informazionale del quotidiano. Il medium, come strumento di trasmissione d’informazioni, iniziava a profilarsi tematicamente. Il contenuto emozionale cedeva lentamente il passo a quello intellettuale, cristallizzandosi, qualche anno più tardi, nella forma ricorrente di un cartiglio avvoltolato, di un rotolo di papiro che alludeva al primo materiale scrittorio dell’antichità, dotato di maggior leggerezza e maneggiabilità rispetto alle anteriori tavolette lapidee e lignee.

Questa figura di cartiglio conico allungato fa da trait d’uniontra i dipinti del primo periodo e le recenti formulazioni della grammatica visiva di Sara Forte. Tra questi due estremi, appare chiaro che qualcosa è mutato. Di certo, c’è stato un cambiamento di prospettiva che ha prodotto un raffreddamento linguistico. Il magma cromatico si è, infatti, progressivamente disciolto in una conformazione più razionale e puntuale. La grana pittorica, prima densa e gestuale, venata dalle sensibili increspature dei collaggi di giornale, è andata distendendosi in colori piatti e linee grafiche, indici di una maggiore attenzione verso la dimensione platonica e archetipica dell’immagine.

Si ha la sensazione che la trasformazione linguistica dell’artista sia stata la conseguenza di un rivolgimento esistenziale, forse di un riordino interiore dal quale è scaturito, inevitabile, un riassetto formale della sua pittura. La modificazione grammaticale si compie tra il 2013 e il 2015, in congiunzione con i suoi primi esperimenti plastici e con l’impiego di nuovi materiali come il vetro e soprattutto il silicio.  La scoperta di nuovi supporti, che è, peraltro, uno dei temi centrali dell’arte del secondo dopoguerra – basti pensare all’alluminio fresato di Getulio Alviani, ai cellotex di Alberto Burri o ai cementi armati di Giuseppe Uncini -, lascia un’impronta indelebile nel vocabolario espressivo di Sara Forte.

SI 74 cm 35 x 60 2018 Olio e acrilico su dischi di silicio applicati su tavola

SI 74, 2018, Olio e acrilico su dischi di silicio applicati su tavola, cm 35 x 60

Dal 2014, l’artista inizia a esplorare la dimensione plastica e scultoria, spesso integrandola con quella pittorica e bidimensionale. Collabora, nfatti, con alcuni dei migliori artigiani veneziani per realizzare di una serie di sculture in vetro di Murano. Usa murrine di vetro in bacchetta, unite in fasci pazientemente plasmati ad alte temperature, per ottenere forme sinuose, del tutto simili a quelle dei suoi papiri dipinti. Qui, però, la sagoma dei suoi cartigli assume le sembianze di una pletora di architetture organiche, di utopiche strutture urbane liberamente ispirate alle Città invisibilidi Italo Calvino. Soprattutto Isaura– la città che sorge sopra un profondo lago sotterraneo e dai cui buchi verticali gli abitanti riescono a tirare su l’acqua in superficie – diventa il prototipo dell’urbe gigliata, della città laminare, la cui morfologia vitrea ricorda la foggia dei germogli di ciperacea.

Alla produzione delle eleganti sculture in vetro, evoluzione delle organiche invenzioni plastiche dell’arte Liberty, si affianca, poi, la scoperta di un materiale nuovo, il silicio, un semiconduttore puro, sorprendentemente coerente con l’interesse dell’artista per il tema della trasmissione del sapere. Scoperto nel 1787 dal chimico, biologo e filosofo francese Lavoisier, il silicio, di colore grigio e lucentezza metallica, è presente in molti materiali magmatici, essenziale per la produzione del vetro e impiegato dall’industria elettronica per la costruzione di transistor, pannelli solari e schede madri di computer.

Sara Forte s’imbatte in questo materiale quasi per caso, visionando i prodotti di scarto di un’azienda produttrice, e ne rimane subito affascinata. Ci metterà quasi un anno a capire come integrare questo misterioso elemento nei suoi lavori, studiandone le proprietà fisiche e vagliandone le possibilità combinatorie con i colori a olio della sua pittura. Alla fine, scoprirà che la forma circolare dei dischi di silicio non solo s’inquadra perfettamente nella nuova struttura geometrica che i suoi dipinti vanno assumendo, sempre più affine al linguaggio “costruttivista”, ma aggiungerà anche una dimensione plastica e spaziale alle sue visioni auree.

Sfruttando la densità, lo spessore e la consistenza dei nuovi supporti in silicio, Sara Forte può ora articolare le sue composizioni pittoriche su differenti superfici, permettendo a forme e colori di disporsi su più piani, mantenendo, al contempo, la visione unitaria dell’immagine.

I dipinti e le sculture recenti dell’artista, in cui riecheggiano memorie delle invenzioni grafiche di Aleksandr Rodčenko e delle soluzioni plastiche di Vladimir Tatlin, riflettono una maggiore chiarezza d’intenti. La geometria, attraverso una partitura d’innesti tra cerchi, semicerchi, triangoli e trapezi irregolari, conferisce ai suoi lavori un rigore e una pulizia formale inediti.

Perfino Salvador Dalì, nei Cinquanta segreti magici per dipingere, consigliava al giovane apprendista di usare la geometria come guida alla composizione delle opere. “So che i pittori più o meno romantici”, scriveva il pittore catalano, “sostengono che queste impalcature matematiche uccidono l’ispirazione dell’artista, dandogli troppo su cui pensare e riflettere. Non esitare un attimo a rispondere loro prontamente che, al contrario, è proprio per non aver da pensare e rifletter su certe cose che tu le usi”.[2]

SI 32 Olio, acrilico su disco di silicio e plexiglas applicato su tavola Cm 40 x 40 2016 Oil, acrylic on silicon disk and plexiglas applied on wood inch 15,74 x 15,74

SI 32, 2016 , Olio, acrilico su disco di silicio e plexiglas applicato su tavola, 40 x 40 Cm

Per Sara Forte la tessitura geometrica è un punto d’approdo, l’esito di un percorso che riconosce nelle forme archetipiche la struttura fondamentale della realtà, oltre la cortina illusoria dei fenomeni. Unica concessione al mondo delle forme imperfette, quelle poste al di qua del proverbialeVelo di Maya (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione), è la persistenza del rotolo di papiro, epitome del progresso umano e della sua propensione alla trasmissione delle informazioni. Un simbolo, quest’ultimo, che riecheggia, amplificato, nella presenza del silicio, elemento base per la produzione dei computer e, dunque, esso stesso simbolo delle forme tecnologicamente più avanzate di comunicazione.

Curiosamente, il termine silicio deriva dal latino silex, che indica la selce, una pietra sedimentaria che ha ricoperto un ruolo fondamentale nello sviluppo della civiltà umana.

Formata per accumulo di silice, un composto del silicio, la selce è stata, infatti, usata come pietra focaia e impiegata per la produzione di oggetti fin dalla preistoria. In un certo senso, si può quindi affermare che l’arte di Sara Forte riassume e compendia la parabola ascensionale del nostro progresso civile e tecnologico – dagli utensili primitivi (selce) alla rivoluzione nel campo della scrittura (papiro), dall’invenzione della stampa (i collage di giornali) ai moderni strumenti di comunicazione digitale (silicio) – attraverso le evoluzioni di un lessico visivo articolato intorno all’uso di figure esatte, le stesse che si ritrovano nell’arte di Kandinskij, Mondrian, Malevič, e Albers.

 

Il matematico e saggista Piergiorgio Odifreddi sostiene che “come il cervello è diviso in due emisferi lateralizzati, uno dei quali (il sinistro) si esprime in maniera logica e razionale, mentre l’altro (il destro) privilegia l’espressione alogica e istintiva, così l’intera storia dell’arte è riconducibile a due grandi correnti contrapposte e complementari, che possiamo convenzionalmente chiamare razionalista e romantica”.[3]Eppure, questa rigida contrapposizione non si applica al caso di Sara Forte. È vero, piuttosto, che nella sua arte l’espressione razionale si sviluppa a partire da quella istintiva degli esordi e che il linguaggio geometrico nasce dalla raffinazione di quello inizialmente espressionista e gestuale, esattamente come il silicio è l’evoluzione tecnologica del papiro sulla scala degli strumenti usati per la divulgazione del sapere. Quella di Sara Forte è una ricerca evolutiva, un’indagine che ha i tratti di un processo di distillazione alchemica, insomma, di un percorso di progressiva purificazione formale che corrisponde all’intrinseco bisogno umano di rettificare la materia greve dell’esistenza in quella più rarefatta dello spirito. Dal basso verso l’alto, dal piombo all’oro.


Note

[1]Carlo Franza, Sulla pittura neofuturista di Sara Forte, in Sara Forte. Forma e colore, catalogo della mostra a Palazzo del Collegio Raffaello, Urbino, 2010, p. 6.

[2]Salvador Dalì, Cinquanta segreti magici per dipingere, Carte d’artisti, Abscondita, Milano, 2004.

[3]Piergiorgio Odifreddi, Le tre invidie del matematico, in Bruno D’Amore, Matematica, stupore e poesia, Giunti Editore, Firenze, 2009, p. 82.


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Giovanni Maranghi. Una storia in bianco

24 Dic

di Ivan Quaroni

“La vita è come un disegno che spetta a noi colorare.”

(Oscar Wilde)

“Il disegno è l’arte di condurre una linea a fare una passeggiata.”

(Paul Klee)

disegni PMR 01-11'14 002

Artista sospeso fra presente e futuro, fra tradizione e modernità, Giovanni Maranghi è noto per la sua attitudine strenuamente sperimentale, che lo porta ad arricchire la pratica pittorica con una varietà impressionante di tecniche e materiali. Nei suoi dipinti usa, infatti, una tecnica mista, che spazia dall’encausto su tela o tavola all’incisione su Kristal (una specie di PVC trasparente) e che coinvolge la stampa serigrafica, il fotoritocco digitale e, infine, materiali industriali come resina e plexiglass. Eppure, Maranghi può essere considerato un pittore nel senso più puro del termine. Il suo orizzonte è quello della rappresentazione iconica, che sfocia in un racconto tutto centrato sulla bellezza. Bellezza innanzitutto femminile, attraverso una carrellata d’immagini che avvalorano l’archetipo dell’eterno femminino, declinandolo in forme morbide e sinuose, tramite un affascinante campionario di pose conturbanti e seduttive. Accanto al colore, indagato in tutti i suoi aspetti, grazie al bilanciamento costante di apporti segnici e gestuali ed eleganti pattern esornativi, la linea è l’elemento fondante della sua grammatica pittorica. Una linea, tutta giocata sulle potenzialità evocative di un segno rastremato e sintetico ma, allo stesso tempo, delicato ed elegante come le donne che Maranghi ritrae.

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L’altro tipo di bellezza che l’artista include nelle sue opere, è quella legata al piacere dell’ornamentazione e del decoro, intesi sia come elementi di delizia ottica, retinica, sia come espressioni di un senso di dignità che, peraltro, rimanda al vero significato del termine latino decorum. Maranghi ha costruito la sua pittura attorno alla polarità tra figura e fondo, ma anche tra anatomia e texture, tra linea e colore, pervenendo così a uno stile ricco di stratificazioni, ma pur sempre fresco e immediato.

Questo è, in buona sostanza, il lavoro tipico di Maranghi. Quello, invece, esposto nelle sale di Palazzo Medici Riccardi è una sorta di esperimento, un progetto site specific, pensato appositamente per gli spazi del palazzo fiorentino che fu il laboratorio umanista di Lorenzo il Magnifico. Un progetto che si ricollega a una parte forse più intima e nascosta della produzione dell’artista, quella dei carnet de dessin, taccuini dove, per anni, Maranghi disegna persone, oggetti e scene di vita quotidiana che colpiscono la sua immaginazione. Sono immagini all’inizio circoscritte, come le vignette, all’interno di uno spazio quadrato o rettangolare, spesso sormontate da un titolo, che fornisce una chiave interpretativa del disegno.

In questi quaderni, pensati come una specie di diario visivo, lo stile di Maranghi si esprime in assoluta liberta, senza i vincoli formali della sua opera maggiore, cedendo a un gusto bozzettistico e caricaturale, dove l’immediatezza della notazione coglie il lato comico, buffo o perfino poetico della quotidianità, traducendo in un linguaggio semplice e sintetico un meraviglioso almanacco di personaggi e situazioni in bilico tra realtà e fantasia. I quaderni di Maranghi, infatti, più che una raccolta documentaria di fatti minimi, costituiscono un’antologia immaginifica, un catalogo sragionato – verrebbe da dire -, in cui la realtà prosaica assume aspetti imprevisti, inconsueti, secondo una logica trasfigurativa, che richiama alla memoria tanto le vignette satiriche quanto certi fantasiosi bestiari surrealisti in cui paesaggi e oggetti paiono animarsi e assumere i tratti inconfondibili del volto umano. Maranghi usa la deformazione, l’ipertrofia, l’antropomorfismo come strumenti di un racconto ininterrotto, in cui però ogni singolo episodio ha un valore autoconclusivo, in qualche modo definitivo.

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Con un tratto rapido e preciso, in fondo non così distante da quello che perimetra, e con chirurgica nettezza, le figure femminili dei suoi dipinti, Maranghi descrive un mondo pieno di gioiose contraddizioni, un universo abitato da archetipi provinciali come la Magna Mater, il Gallo Cedrone, lo Psicolabile, l’Ingordo, che sembrano usciti da una pellicola di Federico Fellini. Oltre alle donne, sempre prosperose e un po’ civettuole, in quei disegni Maranghi dà largo spazio alla città, alle strade trafficate di automobili, agli edifici storici e ai condomini, trasformando ogni oggetto in un soggetto, appunto, dotato di una fisionomia, e dunque di un’anima. L’orizzonte urbano, infatti, nei suoi taccuini è qualcosa di più di un semplice sfondo o di un’ambientazione, ma è piuttosto un protagonista. Anzi, forse è il protagonista, proprio perché traccia il campo d’azione dei suoi personaggi e fornisce loro un carattere, un background culturale.

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Oggi, a distanza di trent’anni dall’inizio dei suoi taccuini, Maranghi torna a quei disegni con occhio diverso, con spirito rinnovato, ma anche più maturo, più saldo. Rilegge quelle storie, quei bozzetti con un approccio che lo obbliga a portare quelle figure su una diversa scala. E, infatti, ne fa materia per un grande racconto corale, che corre, come una striscia ipertrofica, lungo le pareti della sala per una lunghezza di 96 metri e un’altezza di poco inferiore alle dimensioni di un uomo (150 cm.).

In questa monumentale narrazione per immagini, dove le sue sensuali donne in poltrona fanno da trait d’union con la sua recente produzione pittorica, abbiamo l’occasione di ritrovare il gusto lineare della sua pittura, un segno disegnativo qui epurato dal contrasto con il magma cromatico tipico dei suoi dipinti.

Le linee di Maranghi, con le sue morbide sinuosità, le sue volute arricciate, le sue alternanze di rette e curve, sono finalmente fruibili in un campo bianco, ora piatto, ora mosso da studiate increspature. In certi casi, infatti, l’artista accartoccia e stropiccia il supporto, per poi ridistenderlo sulla parete, dando così una più marcata profondità agli sfondi e un senso di maggiore tridimensionalità alle figure. Quello che conta, però, è il modo con cui riesce a trasferire un immaginario, tutto sommato intimo e “tascabile”, su una scala di grandezza che è, in fin dei conti, quella dell’affresco e della pittura murale. Come gli antichi maestri, Maranghi ha dovuto tener conto di un altro tipo di fruizione rispetto a quella che ha avuto la fortuna di vedere i suoi carnet, considerando il diverso impatto sugli spettatori.

Il disegno, rigorosamente in bianco e nero, salvo qualche aggiunta in rosso sanguigno, procede, in questo caso, per giustapposizioni di scene, perfino per sovrapposizioni leggere di segni e figure, lungo un percorso orizzontale, che si legge come una lunga, ininterrotta vignetta, scandita da centinaia di episodi, spesso privi di consequenzialità logica. Maranghi rompe lo schema quadrato e rettangolare degli esordi, squadernando il racconto entro una cornice dai confini labili e secondo una logica che oggi, con un po’ di sussiego, attribuiremmo all’ambito della cosiddetta expanded painting (un tipo di pittura che ambisce a superare i confini del supporto bidimensionale, per invadere finalmente lo spazio architettonico). Eppure, potremmo addirittura dire che, per la prima volta, Maranghi è stato obbligato a confrontarsi anche con un modello operativo affine a quello della performance. Anche perché, per eseguire questo grande lavoro, si è dovuto sottoporre a un regime di lavoro a dir poco agonistico, ginnico, trasformando la pratica del disegno in un’attività quasi atletica.

foto di susan

Una storia in bianco è, almeno per ora, un unicum nella produzione artistica di Maranghi, una sorta di capitolo per certi versi estraneo al suo abituale modus operandi, che tuttavia ha il merito di illustrare come il disegno sia un elemento niente affatto marginale della sua pittura. Una pittura di cui è stato spesso rilevato il carattere vividamente coloristico, finanche materico, ma che si basa, invece, soprattutto sul disegno. E, d’altra parte, tra tutti quelli a disposizione dell’artista, fin dall’alba dei tempi, il disegno è certamente il più importante e fondamentale strumento di rappresentazione (ma anche di trasfigurazione) della realtà.

Info:

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Giovanni Maranghi – Una storia in bianco
a cura di Filippo Lotti e Roberto Milani
Palazzo Medici Riccardi
Via Camillo Cavour 3, Firenze
Fino al 6 gennaio 2015
Galleria d’Arte San Lorenzo
Tel. 0571.43595

Immagine

Narcisi D’Oriente – La recensione sul Corriere della Sera

29 Ott

Biennale Italia Cina. Uno sguardo sul futuro

23 Ott

Cari amici, per chi non avesse ancora visitato la mostra alla Reggia e al Serrone della Villa Reale di Monza… Un breve articolo di Rossella Ghezzi su Corriere – Vivimilano.

La natura è il tema della prima Biennale Italia-Cina che chiama a confronto 120 artisti dei due paesi in una grande esposizione dal titolo “NaturaLmente”. Un’ampia rassegna che porta a Monza, negli ambienti della Reggia, dal Serrone agli Appartamenti Reali, sino alla Cappella e al Piazzale d’ingresso, una sessantina di autori cinesi per una vasta panoramica sulle produzioni più recenti, insieme ad altrettanti italiani, tra cui Maraniello, Plessi, Cracking Group, Griffa e Cingolani, in gioco su temi legati all’ambiente.

Emergente in tutti i campi, dall’economico al tecnologico, la Cina da un decennio è approdata anche sulla scena artistica internazionale, con autori che spesso coniugano modernità a tradizione, cultura e storia a media e tecnologie moderne. Dai video alle fotografie di grandi dimensioni, dai dipinti alle installazioni, dalle performance alle sculture, gli artisti cinesi utilizzano ogni linguaggio della contemporaneità, rivisitandolo con originalità di contenuti e di forme.

Tra gli interventi, da non perdere è la performance di Lin Jingjing, (domenica 21 ottobre, ore 12) che insieme a 100 assistenti biancovestiti, cucirà duemila rose su un tappeto verde, fiori che saranno in seguito recuperati, inscatolati, numerati e messi in vendita.

Diverse le sedi con iniziative collaterali alla Biennale, come Palazzo della Regione Lombardia che ospita installazioni di Feng Zhengjie, Mu Chen, Ke Huang, Lan Zhenghui e Zhang Zhaohui insieme a una grande opera fotografica di Li Wei. Mentre a Palazzo Isimbardi, è collocata una scultura in acciaio di Chen Wenling, modello in scala ridotta della più grande scultura del mondo che sarà realizzata a Pechino nel 2014.

La mostra è aperta nei seguenti orari:

lunedì 14.00 – 19.00

martedì, giovedì, domenica 10.00 – 19.00
mercoledì 14.00 – 22.00

venerdì e sabato 10.00 – 24.00

info

  • REGGIA DI MONZA
  • Viale Brianza 1
  • MONZA
  • Contatti: Tel. 02.54.27.55. http://www.biennaleitaliacina.org
  • Quando:Prima data: 20 ottobre 2012 – 16 dicembre 2012
  • Biglietto: 9 euro