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Italian Newbrow. Genealogia culturale di un’esperienza

11 Giu

di Ivan Quaroni

Vanni Cuoghi, Under blood red sky, (La messa in scena della Pittura 02), 2019, acrilico e olio su tela, cm45x45

Italian Newbrow è un termine piuttosto curioso. Sono stato più volte rimproverato, perfino dagli artisti che hanno aderito a questo progetto, di aver scelto un nome che sarebbe risultato incomprensibile al pubblico italiano. Avevano naturalmente ragione! E la prova evidente sta nelle molteplici deformazioni che del nome sono state fatte dai giornalisti più disattenti, per non dire dislessici: Nebrown (nuovi marroni?), Newborn (neonati?), Newboh (bho!, appunto). In effetti, Newbrow è una parola inglese difficilmente traducibile nella nostra lingua, che è intimamente legata agli sviluppi di un fermento artistico di matrice americana, quella che viene chiamata Lowbrow Art, ma che è conosciuta anche con il più fortunato nome di Pop Surrealism. Il significato letterale della parola Brow è “ciglio” o “fronte”, cioè due elementi anatomici, ma il suo senso cambia notevolmente se associato ad altre parole. Lowbrow, ad esempio, si riferisce, nella cultura pop, a qualcosa che è privo di gusto, di intelligenza, di raffinatezza. Insomma, a qualcosa che è considerato intellettualmente inferiore come, talvolta, sono state considerate le produzioni plastiche e pittoriche degli artisti pop surrealisti americani che si sono ispirati a fonti triviali e corrive della cultura di massa quali il fumetto, l’illustrazione, i cartoni animati, le vecchie serie televisive, i B-movie di genere horror e fantascientifico. Il termine Pop Surrealism è stato introdotto proprio perché molti degli artisti che appartenevano a quella compagine non si riconoscevano nell’accezione negativa del termine Lowbrow, che invece era orgogliosamente rivendicato da coloro che provenivano dalle esperienze della Custom Culture, del tatuaggio o dei comic book. 

Il motivo per cui, a un certo punto, decisi di adottare questa terminologia per definire quanto stava facendo in pittura un gruppo di artisti che operava soprattutto a Milano, è molto semplice: tra il 2005 e il 2007 eravamo tutti interessati al Pop Surrealism. Anche se alcune gallerie, come la bolognese Mondo Bizzarro, avevano già fatto da apripista, era solo da qualche anno che iniziavano a filtrare attraverso la stampa notizie relative a questa nuova tendenza pop che aveva caratteristiche del tutto diverse rispetto alla Pop Art di Warhol e Lichtenstein, come pure al New Pop di Jean-Michel Basquat, Keith Haring, Ronnie Cutrone o Kenny Scharf. 

Giuliano Sale, Private Rave in my Living Room, 2021, olio su tela, cm. 130×110

L’influsso del Pop Surrealism si mescolava e si confondeva, peraltro, con quello proveniente dalle similari, ma non identiche, esperienze degli artisti giapponesi Superflat, da Takeshi Murakami a Yoshitomo Nara, da Aya Takano a Chiho Aoshima, che avevano traslato il linguaggio dei manga e degli anime nell’arte contemporanea. 

Questo riversamento magmatico d’immagini semplici e immediate, ma anche seducenti e affascinanti, aveva irretito non solo la mia attenzione, ma anche quella di amici artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Michael Rotondi, Michela Muserra, Massimo Gurnari, Giuliano Sale e Silvia Argiolas, con i quali avevo già avuto modo di collaborare in differenti occasioni espositive. Tuttavia – ne sono certo -, questa nuova sottocultura pop cominciava a fare breccia nelle menti e nei cuori di molti altri artisti sparsi nella penisola. All’interno del nucleo di artisti che in seguito avrebbero preso parte alle iniziative di Italian Newbrow, non tutti, per la verità, condividevano questa entusiastica curiosità verso le nuove tendenze Pop, che contrastavano la convenzionale coolness intellettualistica dell’arte concettuale per aprire il campo a un pubblico più vasto e variegato. Artisti come Paolo De Biasi, Eloisa Gobbo e Fulvia Mendini rimasero sempre sostanzialmente estranei a tale influsso, sebbene usassero un linguaggio pittorico che presentava molte analogie con quel tipo di influenze. Inoltre, noi tutti eravamo cresciuti nei primi anni Duemila in un clima artistico dominato dalla cosiddetta Nuova Figurazione, un raggruppamento davvero composito di esperienze artistiche che era stato alacremente sostenuto e propagandato dai critici Alessandro Riva e Maurizio Sciaccaluga sulle pagine della rivista “Arte” e in numerose mostre in spazi pubblici e in gallerie private. Il tratto comune degli artisti neofigurativi era il ricorso a linguaggi narrativi, le cui grammatiche spaziavano dalle forme più realistiche a quelle più fantastiche e che prevedevano, talvolta, il saccheggio d’immagini d’origine mediatica (cinema e televisione) o di derivazione letteraria, fumettistica e illustrativa. 

La mostra cardine di quella frastagliata compagine fu Sui Generis, curata nel 2001 da Alessandro Riva al PAC di Milano con la precisa volontà di mostrare come la cultura di massa avesse plasmato l’immaginario di molti artisti (soprattutto pittori) nati tra gli anni Sessanta e Settanta. Posso affermare che il mio gusto si formò tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio sulla visione, talvolta anche scettica, di quel genere di arte. 

Fulvia Mendini, Madonnina della pera, 2016, acrilico su carta, cm 38 x 28

Per chi, come me, scriveva recensioni di anemiche mostre concettuali sulle pagine di “Flash Art”, la Nuova Figurazione rappresentava non solo una specie di guilty pleasure, ma una risposta diretta, per quanto scomposta e disordinata, all’atteggiamento snob di molta arte contemporanea, percepita come un’esoterica conventicola di affiliati che dialogavano tra loro e con i collezionisti in un linguaggio criptato, volutamente oscuro ed enigmatico. Si può dire che la Nuova Figurazione sia stata la prima forma di Lowbrow Art italiana, anzi, la prima effettivamente Newbrow, capace di contaminare l’alto col basso, il popolare con il colto, l’accademico con l’antiaccademico. 

Prima che nascesse la definizione Italian Newbrow, il gruppo di artisti con i quali ero entrato in contatto a Milano, aveva, dunque, un retroterra culturale che rispondeva favorevolmente ai segnali delle nuove sensibilità pop provenienti dagli Stati Uniti e dal Giappone. Tra il 2004 e il 2007, grazie all’intensificarsi delle opportunità espositive e delle occasioni di frequentazione, si crearono tra noi legami sempre più stretti, basati non tanto su un programma artistico condiviso, ma su una comune attitudine a privilegiare un’idea di arte immediata e comprensibile, contaminata dalla cultura di massa e dunque accessibile a un pubblico più ampio di quello tradizionalmente elitario del modo dell’arte. Non eravamo i primi a porci il problema dell’accessibilità dei linguaggi artistici, ma appartenevamo, forse, a una generazione che avvertiva con più ansia e trepidazione l’urgenza dei cambiamenti della società del tardo capitalismo, in particolare dopo lo shock dell’11 settembre e l’accelerazione dei fenomeni di globalizzazione economica. 

Personalmente, la lettura di Zygmunt Bauman, con la sua apocalittica, ma profetica, descrizione del Mondo liquido – una società moderna in cui i cambiamenti tecnologici e sociali sono più rapidi della nostra capacità di sopportarli -, mi aveva convinto che le uniche forme d’arte che avrebbero potuto interpretare la cataclismatica velocità di tali mutamenti, sarebbero state quelle che avessero saputo mutuare la semplicità e l’immediatezza comunicativa da altre forme espressive come il fumetto, l’illustrazione, il videogame, il cinema, la televisione e soprattutto il web. 

La riflessione sulla Google Generation, derivata forse dalla lettura di un articolo di Luca Beatrice, mi aveva definitivamente persuaso che il vecchio atteggiamento elitario, inaccessibile e astruso dell’arte contemporanea sarebbe presto caduto sotto i colpi della rivoluzione digitale. Per me e per gli artisti con i quali collaboravo la semplicità e la comprensibilità erano valori che la pittura doveva combinare con un intenso, gioioso, sfrontato e qualche volta drammatico vitalismo. 

Silvia Argiolas, La rossa, 2021, tecnica mista su tela, 80×60 cm

Nella formazione della mia sensibilità critica era anche l’unico modo per combinare il pessimismo di Bauman con la filosofia espansiva e appunto vitalistica di un nietzschiano eretico come Franco Bolelli, alla cui lettura ero stato introdotto da Paolo De Biasi, artista che ha avuto un ruolo importante nell’elaborazione teorica di Italian Newbrow. 

La necessità di dare un nome a questa nuova attitudine pittorica si scontrava, però, con la mia ritrosia a etichettare quella che ritenevo essere più una sensibilità che un linguaggio coerente e a presentarmi come guida teorica di un gruppo di artisti stilisticamente troppo variegato. D’altra parte, pur convinto che il tempo dei gruppi e dei manifesti fosse finito da un pezzo, prendevo atto del fatto che le novità più interessanti in pittura provenivano proprio da quegli artisti americani e giapponesi che erano stati capaci di “fare squadra”, proponendosi come un fronte compatto, tenuto insieme da una comune volontà nell’affrontare i problemi della rappresentazione pittorica nella società liquido-moderna.

Furono le pressioni di alcuni artisti e una circostanza fortuita a obbligarmi a decidere. L’occasione si presentò quando Giancarlo Politi visitò la mia mostra milanese Beautiful Dreamers[1], una collettiva che includeva una serie di opere di surrealisti pop americani, artisti giapponesi superflat e pittori neopop italiani. Fu allora, infatti, che il direttore e fondatore di «Flash Art» mi invitò – per la verità un po’ titubante – a curare una parte della sezione italiana della IV Biennale di Praga nel 2009, dandomi così modo di presentare le ricerche di alcuni degli artisti con cui lavoravo da tempo. 

Il nome Italian Newbrow saltò fuori, nella fretta di dover decidere un titolo per la mostra di Praga, durante una discussione con Giuseppe Veneziano e Vanni Cuoghi nello studio di quest’ultimo in via Rucellai. Mi sembrò adatto soprattutto perché univa il background italiano neofigurativo con l’eccitazione generata dal fermento Lowbrow americano. Conteneva un richiamo a quell’esperienza della West Coast americana e, allo stesso tempo, rivendicava anche il genoma fondamentalmente italiano del gruppo

Oltre alla Nuova Figurazione italiana, al Pop Surrealismo californiano e al Superflat giapponese, altri stimoli e sollecitazioni plasmarono la variegata identità artistica di Italian Newbrow: il cosiddetto New Folk newyorkese e la pittura della Nuova Scuola di Lipsia, che declinavano l’immediatezza e la forza comunicativa del Post-Pop in forme e direzioni meno convenzionali.

Laurina Paperina, Atomic Bomb, acrilico su tela, cm 120×170

Nel 2006 ricordo di aver letto un interessante articolo di Luca Vona[2] che raccontava l’emergere a New York – dopo lo shock dell’undici settembre -, di un’arte che tornava alla dimensione lirica del quotidiano, ad atmosfere più quiete e feriali ispirate all’arte folk, ai pittori autodidatti, agli artisti della domenica. Artisti come Marcel Dzama, Amy Cutler, Jules De Balincourt, Jockum Nordström, tutti di stanza a New York, dipingevano, infatti, con un linguaggio fiabesco vicino alle illustrazioni dei libri per bambini scene apparentemente rassicuranti che adombravano contenuti perturbanti. 

Questo nuovo Folk rappresentava la dimensione umbratile, lirica, intimistica, ma anche più drammatica, del Pop. Pop e Folk coglievano due aspetti dell’arte popolare, la matrice urbana e quella pastorale, quella mediatica e quella ancestrale, quella estroversa e quella intimista. Il New Folk era, insomma, la versione timida, diaristica, sognante, ma anche destabilizzante, del Pop e, perciò, all’indomani della nascita del progetto Italian Newbrow, mi era sembrato necessario aprire le fila del gruppo ad artisti come Silvia Argiolas, Elena Rapa, Marco Demis, Alice Colombo, Cristina Pancini, Diego Cinquegrana, Daniele Giunta e Mirka Pretelli che ampliavano notevolmente quella iniziale indicazione di semplicità e immediatezza della pittura dell’era liquido-moderna. 

La conoscenza diretta dell’arte folk fu un’esperienza collettiva e rivelatoria che si consumò negli anni tra il 2009 e il 2011 durante le nostre annuali visite all’Armory Show di New York. La scoperta dell’American Folk Art Museum, che allora si trovava proprio accanto al MoMA, ci rivelò le fonti d’ispirazione di quella nuova sensibilità artistica promossa, appena l’anno prima del nostro arrivo nella Grande Mela, dalla mostra Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger[3]

Henry Darger era una figura di artista outsider nato a Chicago nel 1892, che era stato l’autore di un voluminoso manoscritto di oltre quindicimila pagine e trecento illustrazioni intitolato The Realms of Unreal, scoperto solo dopo la sua morte avvenuta nel 1973. The Realms of Unreal è una storia folle che racconta le avventure delle figlie di Robert Vivian, sette sorelle principesse della nazione cristiana di Abbiennia, che partecipano a una eroica ribellione contro un regime di sfruttamento schiavistico dei bambini imposto dai generali “Glandeliniani”, una versione fascista dei soldati Confederati della Guerra Civile Americana. L’ immaginario di Darger, fiabesco e insieme disturbante, ha affascinato non solo artisti, ma anche scrittori, poeti e registi contemporanei. 

Nel 2006, due anni prima di imbattermi nella figura di Henry Darger, avevo curato una mostra intitolata Back to Folk[4], in cui erano esposte opere di Marcel Dzama, Raymond Pettibon, Vanni Cuoghi, Enrico Vezzi e Matteo Fato, che, pur con le dovute differenze, mi sembravano condividere una comune temperatura emotiva, una specie di fondo oscuro e passionale che trapelava, attraverso una delicata trama disegnativa, in immagini ambigue o sconcertanti. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, cm. 100×70

L’ultimo tassello di questa genealogia culturale di Italian Newbrow è, come ho accennato, costituito dalla curiosità verso le espressioni pittoriche provenienti dall’est Europa, o meglio, dall’area della ex DDR, cioè quella che era, prima della caduta del muro di Berlino, la Repubblica Democratico Tedesca. La cosiddetta Neue Leipziger Schule, che comprendeva una pletora di artisti che avevano studiato nell’Accademia di Belle Arti della città sassone e che emersero, come gruppo, attraverso una serie di mostre in Europa e negli Stati Uniti nei primi anni Duemila. Pittori come Neo Rauch, Matthias Weischer, Tim Eitel, David Schnell, Tilo Baumgartel e Christoph Ruckhäberle ci avevano stregato per quella combinazione di abilità tecniche e figurazione fantastica in cui sopravvivenze dell’arte del Novecento, tra Realismo Magico, Metafisica e Nuova Oggettività, si fondevano con una nuova sensibilità figurativa, capace di condensare la narrazione in una rappresentazione simultanea e sintetica di episodi visivi, spesso straniante e destabilizzante. Ad eccezione di Paolo De Biasi, il più continentale e mitteleuropeo, dunque più sensibile e attento alle evoluzioni della pittura d’oltralpe, per gli artisti Newbrow la Scuola di Lipsia fu una passione intellettuale, un esempio di come un gruppo compatto, appoggiato dai media e da una rete di gallerie, musei e istituzioni, potesse affermarsi sulla scena internazionale dell’arte. Ancora adesso, la nostra ammirazione per i colleghi tedeschi è incondizionata, ma la verità è che lo specifico genoma italiano del Newbrow ha sempre avuto la meglio sulle nostre passioni e curiosità. Nonostante le evidenti aperture globaliste, Italian Newbrow è stata un’esperienza maturata sul suolo italico, nel contesto di una cultura che guardava fuori dai propri confini geografici per ridefinire le proprie fondamenta in un complesso, spesso difficile, rapporto tra attualità e tradizione, tra identità ed extraterritorialità, tra retrospezione e visionarietà. 

L’arte di Italian Newbrow è infestata dagli spettri del passato, dai fantasmi della tradizione, ma è anche percorsa da una vena di traiettorie iperstizionali, di futuribili precognizioni[5] e di immersioni nella realtà ambigua e inafferrabile del presente. L’elemento citazionistico nei lavori di Giuseppe Veneziano, Paolo De Biasi, Vanni Cuoghi e Giuliano Sale, non assume mai il carattere sfacciato di un anacronismo necrofilo e mortuario che è, sorprendentemente, quello che un pubblico pigro e indolente, sovente straniero, associa alla nostra tradizione artistica. I riferimenti, le allusioni, i rifacimenti alla storia aurea della pittura italiana o europea sono sempre filtrati dall’ironia, alterati da una memoria labile, scomposti tra le pieghe di un linguaggio mutante, ibrido, in costante oscillazione non solo tra passato e presente, ma anche tra realtà e fiction. 

Le polarità espressive all’interno del gruppo sono, inoltre, esasperate dalla coesistenza di linguaggi chiari, intellegibili, narrativi, come quelli di Laurina Paperina, Fulvia Mendini, Vanni Cuoghi e Giuseppe Veneziano, e di grammatiche più ambigue ed elusive, come quelle di Giuliano Sale, Silvia Argiolas e Paolo De Biasi, che resistono a ogni fascinazione mediatica e sostituiscono la linearità del racconto con libere associazioni di tropi e figure. E tuttavia i confini tra i vari stilemi all’interno della compagine non sono mai definitivi. Non esiste nell’Italian Newbrow qualcosa di simile all’ala destrae all’ala sinistra della Neue Schlichkeit. Ci sono influssi pop e impulsi folk, tentazioni metafisiche e umori espressionistici, richiami alla cronaca ed evasioni fantastiche, allusioni alla musica rock e alla mass culture e richiami all’arte, alla poesia o al cinema d’autore. Per questo risulta impossibile “compartimentare” ogni singola tendenza. Se al criterio di intellegibilità pop sostituiamo, per esempio, il gradiente d’intensità espressiva gli schieramenti cambiano. Una ipotetica linea freddapotrebbe comprendere i lavori di Mendini e Veneziano, ironici, ma privi di gestualità e grumi emotivi, mentre una linea calda includerebbe le opere pur diversissime tra loro di Argiolas, Sale e Laurina Paperina, in cui l’elemento ironico s’innesta su una matrice più gestuale, magmatica, libera. Tra queste due linee, a giudicare dai recenti esiti delle loro ricerche, dovrebbe frapporsi una linea mediana, in cui rientrerebbero le sospensioni metafisiche di Cuoghi e De Biasi dai modi espressivi più temperati. Insomma, nel tentativo di definire i diversi orientamenti all’interno di Italian Newbrow, ci si trova costretti ad ammettere che è sufficiente variare il criterio per ottenere linee e tendenze ogni volta diverse. Questa varietà formale, di per sé in continuo mutamento, si è accentuata nel corso del tempo. Come è ovvio che sia, ciascun artista ha proseguito la propria ricerca, talvolta ampliando il proprio campo d’azione dalla pittura alla scultura fino all’installazione, talaltra maturando, anche in modo radicale, il proprio linguaggio visivo. Italian Newbrow non è mai stata un’entità stabile, né nella componente puramente numerica dei suoi membri, né, appunto, nelle grammatiche espressive. D’altra parte, è un’entità figlia della società preconizzata da Bauman. Come scrivevo nel 2012, Italian Newbrow “è uno scenario artistico in continua evoluzione, che incarna il mutato clima della società liquido-moderna e, allo stesso tempo, sanziona la nascita di una nuova attitudine, […] una condizione mentale, un mood emotivo e spirituale, generato dai recenti mutamenti tecnologici e culturali”[6].

A distanza di dodici anni dalla nascita del progetto, si può dire che le cose stiano ancora così, sebbene l’accelerazione dei mutamenti tecnologici sia stata più rapida del previsto. Spero che gli artisti Newbrow continuino a evolversi per comprendere il senso di questa condizione di perpetua transizione. Una condizione che, dopotutto, appartiene alla dimensione biologica della vita stessa, con le sue costanti mutazioni e trasformazioni.


NOTE

[1] Ivan Quaroni (a cura di), Beautiful Dreamers, 1° dicembre 2008 – 13 febbraio 2009, Angel Art Gallery, Milano. 

[2] “Fortemente radicato nella cultura popolare, a tal punto da evocare gli stilemi dei “pittori della domenica”, è il New Folk, tendenza di punta della nuova figurazione americana. Mescolando sapientemente cultura “alta” con elementi vicini alla sensibilità popolare, il New Folk riesce a parlare a tutti in un linguaggio di facile comprensione. Differentemente dalla Pop Art, vengono richiamate non tanto le icone della cultura di massa, quanto piuttosto la sua stessa capacità di esprimersi attraverso codici semplici, a volte banali, e di rappresentare un mondo altrettanto semplice e -apparentemente- “banale”: quello delle persone a cui si rivolge. La naiveté dei dipinti folk è un mezzo per veicolare contenuti morali (non più solo di critica verso la società dei consumi, come accadeva nella Pop Art) che celebrano l’eroismo e la bellezza della dimensione feriale dell’esistenza, delle piccole azioni di ogni giorno, contrariamente a quell’estetica dello shock che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’arte e non solo”. Luca Vona, New York, New Folk, «Exibart», 19 settembre 2006.

[3] Brook Davis Anderson (a cura di), Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger, 15 aprile – 21 settembre 2008, American Folk Art Museum, New York. 

[4] Ivan Quaroni (a cura di), Back to Folk, 1° dicembre 2006 – 3 marzo 2007, Daniele Ugolini Contemporary, Firenze.

[5] Si vedano, ad esempio, le creature post-organiche fabbricate da Diego Dutto pubblicate in: Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow. Cattive compagnie, 8 agosto – 2 settembre 2012, Fortino, Forte dei Marmi (MC).

[6] Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow, 11 febbraio – 25 marzo 2012, Pinacoteca civica Palazzo Volpi, Como.


INFO:

Italian Newbrow

a cura di Valerio Dehò e Ivan Quaroni

Sabato 19 giugno 2021

Ex Chiesa e Chiostri di Sant’Agostino, Pietrasanta (LU)

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Neue Stimmung

3 Set

Sopravvivenze metafisiche nella pittura italiana contemporanea.

di Ivan Quaroni

“Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante, non solo d’Italia ma di tutto il mondo.”
(Giorgio De Chirico)

 

Stimmung del pomeriggio d’autunno

Il breve soggiorno torinese del maestro della Metafisica rimanda, idealmente, a quello dell’ultimo Friedrich Nietzsche, che nel capoluogo sabaudo, prima di impazzire, scrive il suo celebre Ecce Homo. In de Chirico le impressioni generate dalla permanenza torinese si sovrappongono, infatti, a quelle del filosofo tedesco, che di Torino notava la “meravigliosa limpidezza”, i “colori d’autunno” e che, con viva sensibilità, avvertiva “uno squisito senso di benessere diffuso su tutte le cose”. Parole simili echeggiano nella prosa di de Chirico, quando afferma che “La vera stagione di Torino, il cui fascino metafisico appare al meglio, è l’autunno”.[1]

L’autunno che Torino mi ha rivelato è felice, certo non di una felicità squillante e variopinta. È qualcosa di vasto, allo stesso tempo vicino e lontano, una grande serenità, una grande purezza prossima alla gioia che prova il convalescente alla fine di una lunga e penosa malattia. […] Per conto mio sono portato a credere che questa armonia, così squisita da diventare quasi insostenibile, non sia stata estranea alla follia di Nietzsche”.[2]

Torino ispira i quadri di de Chirico nel periodo tra il 1912 e il 1915. In particolare, l’artista rimane affascinato dalle grandi piazze, dalle simmetrie dei portici, dai colonnati e dalle statue, elementi che confluiranno nel suo vocabolario pittorico, insieme a quella particolare atmosfera, a “quella Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso”[3]

Nei dipinti di de Chirico non troviamo solo la trascrizione di quel sentimento, di quell’impressione, ma qualcosa di più profondo. La Stimmung – termine tedesco che si può tradurre con la parola “atmosfera” – non è uno stato d’animo umorale, come ad esempio il mood anglosassone, ma è una disposizione d’animo che si estende allo spazio, quasi una tonalità affettiva che coinvolge il luogo e il paesaggio, tracciando una sorta di linea d’ombra tra il visibile e l’invisibile. 

A Parigi, dove giunge da Torino nel 1912, de Chirico espone al Salon d’Automne alcuni di quei quadri in cui insegue quel misterioso sentimento che aveva scoperto nei libri di Nietzsche, quella malinconia dei pomeriggi autunnali delle città italiane, da cui maturerà l’idea di una pittura capace di vedere “oltre i muri”. 

“La rivelazione, il principio nuovo [dell’arte di de Chirico]”, scrive Riccardo Dottori, “riguarda una realtà che non è il semplice esistente, quella del Verismo, la realtà immediata ‘così come ci appare’ e che dobbiamo riprodurre, ma una realtà altra da ciò che vediamo e che dobbiamo rappresentare […]”[4].  “Un quadro”, afferma de Chirico, “ci si rivela senza che noi vediamo nulla e addirittura senza che pensiamo a nulla e può anche essere che la vista di qualcosa ci riveli un quadro ma in questo caso il quadro non sarà una riproduzione fedele di ciò che ha determinato la sua rivelazione ma gli rassomiglierà vagamente come il viso di una persona che vediamo in sogno […]”[5].

La rivelazione è dunque un atto divinatorio, oracolare, basato sull’intuizione di nuovi modi di vedere la realtà in cui le sensazioni visive sollecitano non solo l’occhio, ma anche la mente. Sono idee che de Chirico ricava dall’estetica e dalla metafisica di Schopenhauer – nella traduzione francese di August Dietrich (Métaphysique et Esthétique, Parigi, 1909) – e da La nascita della tragedia greca di Nietzsche. Nell’esperienza della rivelazione, che l’artista definisce come “metodo nietzschiano”, non è l’occhio a vedere, ma lo spirito attivo. La pittura metafisica diventa, così, un’attività simile alla mantica e al vaticinio.

Nelle “Piazze d’Italia”, il carattere enigmatico della rivelazione è reso, pittoricamente, creando uno stato di sospensione e di serena malinconia. Gli scorci prospettici dei portici che inquadrano l’immagine dirigono l’occhio verso una linea d’orizzonte su cui si stagliano gli sbuffi di vapore delle locomotive, segnali di una ricercata crasi tra il tempo eterno e circolare della classicità e il tempo presente e progressivo della modernità, rappresentato anche dalle ciminiere. “La città dechirichiana”, conferma Gioia Mori, “è disegnata con piazze ampie e portici, con scorci prospettici nitidi, e si arricchisce di edifici italiani, reali o dipinti, che vengono trasformati in moderne icone dello spaesamento”[6].

Neue Stimmung

Quale sia stata la portata della Metafisica nell’arte del secolo scorso è ben visibile non solo nella frangia belga del Surrealismo (René Magritte e Paul Delvaux), ma in molta pittura figurativa tra le due Guerre, dagli artisti che parteciparono all’esperienza di Valori Plastici al Novecento di Margherita Sarfatti, dalla Neue Sachlickeit al Realismo Magico italo-tedesco propugnato da Franz Roh e Massimo Bontempelli, fino alla remota esperienza del Precisionismo americano. 

Quanto al valore iconico della Metafisica, basterà ricordare le opere di Andy Warhol che replicano le Muse Inquietanti e le Piazze d’Italia, considerate come parte del mito contemporaneo, alla stregua delle zuppe Campbell e dei ritratti di Marilyn Monroe. Addirittura, come rileva Gioia Mori, “la Metafisica è considerata da Warhol come matrice linguistica della Pop Art: la tecnica di agnizione e prelievo dal quotidiano e il nuovo statuto di elemento oracolare che de Chirico attribuiva a cose, spazi, ricordi, con il conseguente spostamento dal quotidiano alla sfera alta dell’arte, corrisponde al processo subito dagli oggetti raffigurati da Warhol, che dal consumo di massa vengono trasferiti in ambito colto”[7].

Oggi, a oltre un secolo dalla creazione dei primi dipinti metafisici, è lecito domandarsi in quali forme e sotto quali mascheramenti si nasconda l’eredità della Stimmung e come questo particolare stato d’animo filosofico sia potuto sopravvivere all’avvento della postmodernità, alle teorie di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e a quelle di Jean Baudrillaud sulla sparizione dell’arte. 

La Stimmung dechirichiana s’inquadrava all’interno di un discorso sul valore metafisico delle immagini. Per il Pictor Optimusil termine Metafisica (derivante dal greco “ta meta ta physika”, che significa “ciò che segue dopo la fisica.”) non designava ciò che esiste oltre l’apparenza sensibile della realtà empirica, in un ipotetico universo invisibile, ma l’enigma e il mistero delle cose stesse, degli oggetti comuni e perfino banali. 

“Ora io nella parola ‘metafisica’ non ci vedo nulla di tenebroso:”, scriveva de Chirico nel 1919, “è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare ‘metafisica’ e tanto più metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità”[8].

Una Stimmung odierna, un’eventuale Neue Stimmung, difficilmente avrà le caratteristiche di quella originale. Per usare un’espressione popolare, “troppa acqua è passata sotto i ponti” e noi viviamo oggi in un mondo diverso, radicalmente distante da quello del primo anteguerra.

Tuttavia, tracce spurie o degradate di Stimmung sembrano sopravvivere nel frasario pittorico di alcuni artisti italiani, talora assumendo significati nuovi, in un ventaglio di accezioni che spaziano dal concettuale all’ironico, dal nostalgico al citazionista, dal magico al surreale. 

Lichtung

Ilaria Del Monte imprime caratteri di precisione e vividezza plastica a un universo mentale che fonde l’ordinario con il fantastico, traducendolo, così, in un racconto d’impressionante coerenza visiva. Elemento centrale della sua costruzione è il concetto heideggeriano di Lichtung, traducibile con la parola “chiaroscuro”, ma in un’accezione che designa l’apparizione di un’entità, il suo venire alla luce da un’oscurità irriducibile. I dipinti di Del Monte sono, infatti, pervasi da atmosfere vespertine e autunnali, che avvolgono le sue misteriose rappresentazioni nella calda e malinconica luce crepuscolare della Stimmung dechirichiana. 

Ilaria Del Monte, Still Life, 2020, olio su tela 80×55 cm

Luogo prediletto delle sue visioni, popolate di figure femminili, testimoni di bizzarre e magiche apparizioni, è la casa, che l’artista trasforma in uno spazio di transizione delle forme naturali, metaforico teatro di conflitti interiori. Nelle sue opere, l’interno borghese accoglie l’irruzione delle forze primigenie, come nel caso di Sopra il giardino (2020), dove il pavimento ligneo è sfondato da un’improvvisa fioritura di rose, o come nell’enigmatica epifania di un cervide in Still life (2020) o dei due giganteschi lepidotteri di Falene (2020). Altrove, la natura si fonde letteralmente con lo spazio claustrale della stanza, infrangendo i confini che separano l’ambiente domestico dal paesaggio circostante. Pesci rossi (2020), ad esempio, è una miniatura fantastica che mostra una fanciulla nuda su un divano, mentre immerge i piedi in uno stagno di ninfee in cui guizzano grandi carpe rosse. 

Ciò che vi è di metafisico nei lavori di Ilaria Del Monte è la qualità arcana e misteriosa delle sue immagini, permeate di allusioni magiche e umori psicanalitici che l’artista condensa in forme cristalline, dalle volumetrie nitide e perfettamente leggibili.

Regesto

La pittura di Paolo De Biasi si configura come una forma di scrittura che indaga le possibilità espressive di una pratica millenaria, potenzialmente capace di produrre significati diversi rispetto a quelli di qualsiasi altra forma di narrazione lineare. Per lui “il quadro è uno spazio finito nel reale ma infinito nel possibile”[9], cioè un luogo di rivelazioni che la pittura può plasmare in immagini intellegibili. Un linguaggio che, nel suo caso, tradisce una formazione da architetto, sensibile alla costruzione dello spazio e della forma di oggetti con cui costruisce un personalissimo catalogo di memorie e visioni. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, 100×70 cm

La ricerca di De Biasi – che egli intende come disciplina di verifica delle relazioni tra il “vedere” e il “pensare” – consiste nella creazione di uno spazio pittorico ideale, ma costellato di oggetti e forme riconoscibili e perfino di frammenti di opere del passato. L’elemento citazionistico della sua pittura, che include riferimenti alle antichità greche ed egizie (Daccapo, 2017) e schegge iconografiche di Giotto (Allorquando, 2018), Lorenzo Monaco e Leonardo (Sebbene lo fosse, 2019), è subordinato alla ripresa dei paradigmi fondanti dell’arte occidentale. Per De Biasi sono elementi di un alfabeto ricostruttivo che recupera i lemmi classici e moderni. In Dimora (2019) e in Padiglione (2020), ad esempio, la rappresentazione di strutture architettoniche di valore puramente segnaletico in un clima di metafisica sospensione, e peraltro simili a volti umani, è arricchita dall’inserzione di citazioni specifiche. Nel primo dipinto, all’interno dell’arco a tutto sesto compare la figura di Victorine Meurent, la celebre modella di Le Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet; mentre nel secondo, l’iscrizione dell’anno 1925 allude all’allestimento del Padiglione dell’Espirit Nouveau di Le Corbusier durante l’Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi. De Biasi dimostra che la pratica pittorica è un regesto di forme ricorsive, eternamente ritornanti, che contribuiscono alla periodica rifondazione delle grammatiche visive.

Metapsycologie

Paolo Pibi usa il paesaggio come pretesto iconografico per una pittura che indaga i confini percettivi della realtà in termini di visone. Attraverso una grammatica retinica, ad alta definizione ottica, l’artista dipinge immagini ambigue, che suggeriscono l’idea di un landscape modificato, artefatto e, per certi versi, simile a un costrutto mentale. La sua riflessione sull’origine della visione è ispirata alla teoria della Metapsicologia di Freud. Per il padre della psicanalisi se esiste una Metafisica, cioè una dottrina filosofica che studia le cause prime della realtà, deve esistere una Metapsicologia che descriva le modalità di costruzione e funzionamento dei processi psichici. Pibi affronta il problema della formazione delle immagini e del loro delinearsi nel campo concreto della pratica pittorica attraverso un metodo erratico, esplorativo.

Paolo Pibi, Metapsychologie 2, 2020, acrilico su tela – 50×50 cm

L’artista, infatti, non progetta le immagini in anticipo, ma le trova, per così dire, “in corso d’opera”, usando il linguaggio come una disciplina cognitiva che gli consente di imparare qualcosa su se stesso e sul mondo. Ciò che scopre è che il mondo reale e quello virtuale della pittura sono entrambi il frutto di una proiezione mentale e psicologica. I dipinti dell’artista mostrano, infatti, una realtà che sottende, e insieme prescinde, la morfologia paesaggistica, rivelando la natura geometrica e dunque schematica e costruttiva dell’esperienza ottica. Ne sono un perfetto esempio Metapsycologie 1 (2020) e Metapsycologie 2, paesaggi classici, quasi arcadici, che rivelano la presenza di un’altra dimensione, una sorta di meta-realtà formativa che è poi il luogo stesso di elaborazione delle immagini. Ed è proprio attraverso questo vulnus interpretativo, questo trauma rivelatorio, che si dispiega la Stimming di Paolo Pibi, uno stato d’animo perturbante che ci obbliga a riconsiderare gli angusti limiti della nostra percezione sensibile.

Finis mundi

Nicola Caredda trasferisce l’atmosfera sospesa e rarefatta degli Enigmi di de Chirico in un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi, dipinti con la puntigliosa acribia di un miniaturista, mostrano gli amabili resti di una società trascorsa, di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo la catastrofe nucleare e l’ecatombe ecologica, è un globo disabitato e silente, una natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Guardando alla Metafisica e al Realismo Magico, al Pop Surrealismo americano e al fumetto fantascientifico, l’artista costruisce un linguaggio che traghetta il gusto romantico per le rovine gotiche e la propensione per il mistero di tanta pittura simbolista nel vocabolario iconografico della modernità liquida. Le sue visioni notturne, con angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati ed elettrodomestici abbandonati, sommersi da una vegetazione proliferante, testimoniano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.

Nicola Caredda, Untitlhell with icemed, 2020, acrilico su tela , 30x40cm

Nella Wasteland post-apocalittica di Caredda – un mondo disseminato di graffiti e codici linguistici e pubblicitari di una società estinta, dove la natura sommerge i ruderi del paesaggio antropico – i simulacri e le vestigia della civiltà occidentale assumono il valore di feticci neometafisici. Il racconto iconografico di Caredda illustra il disastro attraverso le immagini dell’archeologia ludica dei parchi di divertimento, archetipo allegorico (e ironico) di una civiltà irresponsabile, ma anche tramite la riduzione del paesaggio a un immenso drive-in desertificato, con le carcasse delle auto abbandonate e le cadenti strutture dei chioschi e delle biglietterie. Quella dipinta da Caredda, è la Stimmung di una tregenda, ultima e catartica proiezione oleografica della finis mundi.

Melancholia

Che la pittura di Ciro Palumbo sia stata influenzata dai giacimenti nostalgici e immaginifici di certo Novecento, attraverso i filtri del simbolismo svizzero di Böcklin e Klinger, è evidente soprattutto nella scelta di recuperare frammenti dell’armamentario iconografico metafisico. Infatti, nelle tele dell’artista torinese le tracce mnestiche di Savino e de Chirico entrano a far parte di un alfabeto pittorico in bilico tra Surrealismo e Rappel a l’ordre

Ciro Palumbo, La casa magica, 2020, olio su tela, 40×50 cm

Quel che affiora prepotentemente dalla pittura di Palumbo, capillarmente irrorata da una rêverie di stampo classicista, è l’immaginazione mitopoietica, una potente spinta fantastica a creare nuovi miti e nuove narrazioni in cui affiorano, accanto a iconografie inedite, forme e figure d’immediata riconoscibilità. Una di queste è l’isola dei morti di böckliniana memoria, il massiccio scoglio di pietra, chiuso da svettanti cipressi, che Palumbo replica in miriadi di varianti, trasformandolo in un’allegoria mobile e fluttuante del bisogno di raccoglimento e contemplazione dell’uomo moderno. Una simbologia, questa, che richiama quella dell’hortus conclusus e che fa il paio con la metafora del viaggio, dell’attraversamento precario e instabile del mare magnum rappresentato da un piccolo natante che reca sulla prua l’immagine dipinta di un occhio, allusione alla missione visionaria e profetica dell’arte. L’universo di Palumbo, intriso di un’autunnale luce vespertina, include anche un altro topos dechirichiano, quello dell’interno metafisico, concepito come una scatola prospettica costellata di oggetti enigmatici e aperta, tramite una porta o una finestra, alla visione di un paesaggio esterno, una sorta di quadro nel quadro. In queste stanze silenti e malinconiche confluiscono, oltre alle suddette iconografie dell’isola (Interno magico, 2020) e del natante (Viaggio con la luna, 2020), anche quella pletora di giocattoli, ninnoli (La casa magica, 2020) e architetture miniaturizzate (E d’improvviso, 2020) che, pur costituendo un accorato tributo all’estetica di Savinio, s’inquadrano nell’originale linguaggio di Palumbo, capace di traslare i lemmi della pittura metafisica in una teoria di forme mobili e instabili, più adatte a rappresentare la fondamentale precarietà dei tempi attuali

Metastoria

Olinsky è il nome che adombra il progetto pittorico di Paolo Sandano, artista contemporaneo innamorato della storia, che affida le sue fantasie a un personaggio fittizio, un oscuro pittore, originario della Slavonia Occidentale che attraversa le vicende dell’arte del secolo scorso alla ricerca di un’improbabile illuminazione artistica a cavallo tra vecchio e nuovo continente. 

Nella sua pittura parabolica, affetta da un compulsivo nomadismo tra i linguaggi classici e le grammatiche avanguardiste, Olinsky include il ricco immaginario visivo di Walt Disney, che considera il più grande artista del XX secolo. Tutta la sua produzione pittorica è, infatti, abitata da una figura di muride, personale stilizzazione del Topolino disneyano e, insieme, alter ego che incarna i sogni, le aspirazioni, ma anche le delusioni e i tracolli dell’artista (Il pittore fallito, 1933), e che riflette, per estensione, la condizione esistenziale dell’umanità tutta, protesa verso un futuro quanto mai incerto. 

Olinsky, Felicità 1920, olio su tela, 80×60 cm

L’incontro di Olinsky con la Metafisica matura attraverso i giovanili approcci al genere arcadico (Eine Kleines Trumpet Konzert) e a quello romantico (Solo), in cui è lecito ravvisare i primi segnali di una predilezione per atmosfere incantate e stupefatte, talora venate di malinconia. Sarà, tuttavia nei dipinti della maturità, compresi tra gli anni Venti e Trenta, che Olinsky dimostrerà di aver assimilato i codici metafisici di Carlo Carrà (Felicità, 1920) e del giovane Mario Sironi (Un attimo prima, 1930), parafrasando, con la propria pittura, la lezione giottesca del primo e il malinconico incanto delle periferie urbane del secondo.  Olinsky è il primo e forse il solo artista che sia riuscito a tradurre la Stimmung in un sentimento di tragicomica catarsi iconografica.    

Metapop

L’esempio di Andy Warhol, che tradusse e rinnovò la pittura di de Chirico nel linguaggio della Pop art, dimostra come la Metafisica fosse già entrata a far parte dell’immaginario comune, esattamente come le più celebri icone dell’arte. La mostra Warhol versus de Chirico, allestita a Roma tra il 1982 e il 1983 alla sala degli Orazi e Curazi in Campidoglio, evidenziava, peraltro, come gli After de Chirico di Warhol, pur nella ripetizione differente della procedura serigrafica, mantenessero inalterate le atmosfere silenziose e rarefatte del Pictor Optimus, preservando il senso di straniamento e di sospensione delle sue Piazze d’Italia e il carattere misterioso ed enigmatico dei suoi manichini. Tra le opere di de Chirico revisionate in chiave pop dall’artista americano, c’è anche Ettore e Andromaca, dipinto cardine del periodo ferrarese che rappresenta, in chiave metafisica, l’episodio dell’Iliade relativo all’ultimo abbraccio tra Ettore e Andromaca, prima del fatale scontro dell’eroe troiano con Achille. Si tratta di un soggetto iconografico risalente al 1917, che de Chirico avrebbe ripreso in numerosissime varianti pittoriche e scultorie, ben prima della rilettura Warholiana.

Non stupisce, quindi, che un artista come Giuseppe Veneziano abbia rintracciato proprio in quest’opera il paradigma iconografico della fusione tra Metafisica e Pop Art, aggiungendovi il proprio personale contributo autoriale. 

Giuseppe Veneziano, Actarus e Andromaca, 2020, acrilico su tela, 80×60

Actarus e Andromaca (2020) è un mash up iconografico ottenuto dalla fusione di due figure antitetiche, capaci di generare un cortocircuito tra passato e presente, tra storia dell’arte e cultura di massa. Nel tradizionale impianto iconografico dechirichiano, Veneziano non solo opera la sostituzione del manichino di Ettore con la figura di Actarus, popolare eroe della serie animata giapponese Atlas Ufo Robot, ma inscrive l’impalcatura iconografica dell’opera nel rigoroso e riconoscibilissimo registro cromatico della sua pittura. Una pittura che ha dimostrato, in più occasioni, di saper interpretare il presente attraverso immagini polisemiche, che dischiudono molteplici possibilità interpretative, e che, proprio per questo, hanno lo stesso carattere enigmatico e interrogativo dei feticci metafisici.  


[1] Giorgio De Chirico, Scritti/1. Romanzi e scritti critici e teorici, a cura di Andrea Cortellessa, 2008, Milano, p. 1043.

[2] Ibidem, p. 1043.

[3] Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita (1945-1962), 2002, Milano, pp. 73-74

[4] Riccardo Dottori, Giorgio De Chirico. Immagini metafisiche, Milano, 2018, p.40. 

[5] Giorgio De Chirico, Op. cit, p. 597. 

[6] Gioia Mori, De Chirico metafisico, Art e Dossier, allegato al n. 230, febbraio 2007, Firenze-Milano, p. 25. 

[7] Ibidem, p. 45.

[8] Giorgio De Chirico, Noi metafisici, articolo apparso in “Cronache d’attualità”, Roma, 15 febbraio 1919; ristampato in Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 66-71; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, pp. 270-276.

[9] Michael Rotondi, Five Questions for Paolo De Biasi,  in “Forme Uniche”, 27 giugno 2016, http://formeuniche.org/five-questions-for-paolo-de-biasi/.


Info:

NEUE STIMMUNG
a cura di Ivan Quaroni.

Casati Arte Contemporanea
Docks Dora, Via Valprato 68 – TORINO
Sabato 19 settembre ore 17,30

 

Italian Newbrow. Apocalittica

5 Set

Di Ivan Quaroni

Se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe bisogno di dipingerlo.”
(Edward Hopper)

Non lasciatevi ingannare dal titolo, questa mostra non è sull’iconografia dell’apocalisse. Non ci saranno piaghe, pestilenze e catastrofi che annunciano l’imminente fine dei tempi e nemmeno dotte allusioni alla celeberrima raccolta di xilografie di Albrecht Dürer (Apocalisse, 1498). Molte sono, invece, le immagini critiche e problematiche che, da un lato, registrano lo stato di crisi della società odierna, dall’altro, attestano la ricostruzione di un linguaggio narrativo adeguato alla frammentata, e quanto mai distratta, sensibilità contemporanea.

Nell’attuale regime di sovrabbondanza iconica, di ridondanza e perfino d’invadenza delle immagini cui siamo quotidianamente sottoposti, potremmo legittimamente domandarci quale sia la funzione della pittura oggi e in che cosa le sue figure e i suoi tropi divergano dalle immagini massivamente prodotte dell’industria dell’intrattenimento, dell’editoria, della pubblicità. In poche parole, a cosa serve oggi la pittura figurativa?

Bob Nickas, uno dei critici più attenti all’analisi delle nuove forme d’ibridazione della pittura – afferma in un’intervista che “la pittura è lenta”, mentre “la vita moderna è velocissima ed è forse l’aspetto […] più radicale, quello di introdurre un rallentamento, non solo nel momento creativo, ma anche nella visione dell’arte”.[1] Sulla lentezza della pittura avevano ampiamente riflettuto gli artisti analitici degli anni Settanta, i cosiddetti “pittori pittori”, che, però, operavano nell’ambito dell’astrazione, una forma d’arte relativamente giovane, che vanta appena un secolo di vita. Il problema è più complesso nel caso della pittura figurativa e delle sue attuali varianti ibride o ambigue. Secondo Nickas, “in tutti i dipinti figurativi c’è un elemento di citazione che si riferisce proprio alla mancanza di limiti e confini[2], cioè al fatto che un artista possa guardare al passato o, viceversa, avventurarsi nel futuro per sperimentare nuove forme di rappresentazione.

Ora, la vastità di campo in cui opera il pittore figurativo è tale da rendere la pittura una pratica ancora necessaria. I modi della rappresentazione in pittura mutano, infatti, col volgere delle stagioni, traducendo, in termini visivi, la percezione che l’artista ha del proprio tempo. Un altro critico contemporaneo, Tony Godfrey, ha scritto che “la pittura non è solo un modo di vedere, ma anche di costruire il proprio universo, come per i bambini plasmare oggetti e disegnare sono strumenti per comprendere il mondo”.[3]

Per quanto parziale e personale, ogni dipinto è un tentativo di costruzione di senso e, allo stesso tempo, una forma molto lenta di trasmissione delle informazioni. La presunta obsolescenza della pittura (soprattutto figurativa), rispetto ad altre forme d’arte orientate all’oggetto, costituisce forse l’aspetto più radicale di questa pratica millenaria. La lentezza della pittura e la sua fondamentale “portabilità”, cioè il fatto che possa essere spostata con estrema facilità, quasi fosse una valuta o uno strumento finanziario, ne hanno garantito la sopravvivenza.

Il termine “Apocalisse” deriva dal greco apokalipsis, che letteralmente significa “scoperta” o “disvelamento”. La pittura figurativa è etimologicamente “apocalittica”, perché la sua funzione è di svelare le informazioni, rendendole disponibili a un tipo di fruizione antitetico a quella delle nuove tecnologie. Inoltre, le immagini sono simili a codici criptati che contengono significati multipli. Una natura morta di Morandi può essere considerata solo una sequenza di bottiglie allineate? Un dipinto di Cézanne con il Mont Sainte Victoire sullo sfondo non è forse qualcosa di più di un semplice paesaggio provenzale? Se così non fosse, le arti figurative non sarebbero sopravvissute all’usura del tempo. Se si fossero limitate a ricalcare la realtà, sarebbero state niente più che una forma di documentazione. D’altronde, come polemicamente affermava James Whistler, “dire al pittore che la natura deve esser presa com’è, è come dire al pianista di sedersi sul pianoforte”.[4] Invece, le immagini dipinte, sfuggenti ed elusive per costituzione, sovente costruiscono racconti ambigui e inafferrabili che, proprio come i simboli, si aprono a una pletora d’interpretazioni differenti.

Con le loro opere, gli artisti che di volta in volta hanno preso parte alla variata compagine di Italian Newbrow, non si sono sottratti al compito di ridare alla pittura una funzione narrativa, per quanto elusiva e ambigua essa sia. In un’epoca, come abbiamo detto, di comunicazioni rapide, quasi istantanee, essi si sono fatti carico di ricostruire una struttura narrativa, ipertestuale, che contrasta con la teoria secondo cui l’arte non parlerebbe d’altro che di se stessa. La persistenza di allusioni e citazioni, spesso iconoclaste e pretestuose, all’arte del passato, è la misura di quanto il campo della pittura sia un dominio operativo complesso e denso di stratificazioni. Rinunciare a confrontarsi con tale complessità, come fanno, ad esempio, i campioni della cosiddetta Provisional Painting, ossia di quel genere di pittura che si accontenta di ridurre il campo a una congerie di segni fragili e provvisori, d’interventi casuali e fortuiti, significa abdicare al ruolo eroico della pittura, in nome di una pretesa bellezza delle cose umili e spesso prive di significato. A tal riguardo, il critico Raphael Rubinstein, argomenta che il lavoro dei provisional painter sarebbe, almeno in parte, “il risultato di una lotta con un medium che può apparire sovraccarico di attese riguardo a durata nel tempo, virtuosismo, composizione, stratificazione di significati, autorità artistica ed energia creativa – tutte qualità che rendono le arti appunto delle belle arti”.[5] Ma proprio qui sta il punto: per poter sopravvivere, la pittura figurativa deve ritrovare la dimensione eroica e ambiziosa del racconto, accettare la sfida della creazione di valori durevoli, che sappiano raccordare la spinta creativa dell’individuo con gli stimoli che provengono dal mondo esterno, dalla dimensione sociale e culturale della società cui gli artisti appartengono.

Nei dipinti di Silvia Argiolas, ad esempio, la descrizione di un’umanità marginale, posta alla periferia fisica e morale della società, si salda alle distorsioni di un inconscio ipertrofico, che trova fuori da sé la conferma di dubbi ossessivi e febbrili inquietudini. I suoi personaggi borderline – prostitute, emarginati e derelitti – abitano una dimensione di decentramento sociale ed etico che li pone fuori dai confini morali della società. Una dimensione psicologica ed esistenziale che la geografia, con i suoi parchi suburbani innestati nel tessuto sconnesso delle periferie, sembra validare anche da un punto di vista morfologico. Quello che si svolge nell’immaginario pittorico di Silvia Argiolas è il racconto di una condizione di minorità sociale ed estraneità ai valori dominanti e, al tempo stesso, la disamina di un vissuto che, contro la falsità e virtualità del mondo digitale, elegge finalmente, a salvaguardia dell’individuo, la verità del corpo e della psiche, con le sue sofferenze e i suoi appetiti primordiali.

I lavori di Vanni Cuoghi, in special modo quelli della serie Monolocali, si configurano come perfette scatole narrative, contenitori di storie che l’artista ambienta liberamente nel passato o nel presente, entro una cornice spaziale rigidamente codificata, che somiglia al palcoscenico di un teatro miniaturizzato, luogo proiettivo per eccellenza. In questa pittura che si fa oggetto, box tridimensionale costruito con carta intagliata e acquarelli, disseminato di dettagli descrittivi, l’artista cristallizza gli episodi apicali di una narrazione aperta e, dunque, suscettibile a molteplici interpretazioni. Lo stesso si può dire dei dipinti in cui Cuoghi adotta una scala monumentale, come la grande tela intitolata Le due verità (2017), dove sono le figure stesse a diventare scatole narrative, accogliendo al loro interno, nelle trame tessili dei loro abiti ipertrofici, l’inserzione di storie che rimandano ai modi rappresentativi dei bassorilievi tardo-antichi e dei codici miniati medievali.

Gli interni neo-metafisici di Paolo De Biasi sono organizzati come dei set di posa che rivelano immediatamente il carattere fittizio della pittura. Sono luoghi mentali, in cui l’artista dispone oggetti e figure dalla forte carica evocativa. Teste, busti, statue acefale, oggetti comuni, ritagli fotografici, solidi geometrici, piante e drappi di tessuto sono collocati su palchi, pedane o scaffali, quasi fossero i prodotti di un campionario iconografico, che serve all’artista per indagare la relazione tra i meccanismi di percezione e di cognizione dell’immagine. Proprio nello iato che separa il pensiero dalla visione, s’incunea la ricerca di De Biasi. La sua è, infatti, una pittura ipertestuale, più che narrativa. Nel senso che le sue figure si sottraggono alla logica del racconto, pur essendo strenuamente correlate a una cornice spaziale, a un’ambientazione che ne attesta il valore puramente semantico e lessicale, peraltro amplificato dall’uso di locuzioni avverbiali per i titoli delle opere.

È una pittura iconoclasta e irreverente quella di Giuliano Sale, in cui l’uso pretestuoso e intercambiabile d’immagini sacre e profane, talvolta perfino pornografiche, è posto al servizio di una grammatica schizofrenica, che nella somma di apporti grafici e gestuali e nella fluida commistione di asserzioni e ripensamenti, costruisce un linguaggio crudamente destrutturato. Nei ritratti come nelle scene corali (si veda ad esempio Wrong Deposition) si avverte come l’artista si sottragga all’idea della pittura intesa come iter programmatico, razionalmente proteso alla generazione d’immagini predefinite. Nei suoi lavori prevale, piuttosto, una logica di affastellamento che si declina, momento per momento, per accumulazione d’intuizioni successive. La natura fondamentalmente abduttiva del suo modo di procedere è quella di chi costruisce una verità che ancor non conosce. Una formulazione visiva che può prodursi solo come conseguenza di un’esperienza, di un processo non interamente replicabile, proprio perché fondato sulla vigile attenzione a cogliere dentro e fuori di sé i segnali di una realtà profondamente frantumata.

Nei dipinti, nei disegni e nelle video-animazioni di Laurina Paperina, assistiamo all’adattamento di tutto l’armamentario dell’iconografia pop a uno stile lineare e sintetico, che permette all’artista di trattare i temi più cruenti con un atteggiamento di cinico candore. Il tratto volutamente infantile, quasi indolente, la cultura da geek che cinema, televisione e fumetto, e un sarcasmo feroce sono gli ingredienti basilari del suo linguaggio, sempre in bilico tra visioni scatologiche ed escatologiche. Se le carte di piccolo formato, si leggono come una carrellata di fulminei episodi splatter, dove gli eroi dell’immaginario massmediatico sono sottoposti alle più cruente leggi del contrappasso, le grandi tele assumono le proporzioni di affollatissimi scenari apocalittici, di rutilanti carneficine da b-movie. Skull Valley (2017) è il tipico esempio di ecatombe iconografica concepita dalla mente di un nerd, un paesaggio catastrofico popolato dai peggiori incubi della cattiva coscienza collettiva, dove le infernali visioni di Hieronymus Bosch s’innestano sulla feroce satira sociale di South Park.

All’incrocio tra realtà e finzione, mito e storia, fantasia e cronaca, la pittura di Giuseppe Veneziano è segnata da uno stile sintetico e da una palette cromatica virata su tonalità zuccherine e caramellose. L’artista adotta la tecnica del mesh-up, la stessa usata da molti dee-jay, per miscelare elementi contrastanti e antitetici, come quando mette in relazione personaggi reali e fantastici per creare sorprendenti cortocircuiti narrativi che ci inducono a riconsiderare il labile confine tra il vero e il verosimile. O come quando recupera un’iconografia artistica del passato, trasformandola in un commentario sui vizi e le virtù del mondo contemporaneo. Le opere dedicate a Salvador Dalì, da Jesus Christ Superstar (2017) a Petrifying Glance (2017), fino al Principe pittore (2017), sono esempi di come certe icone iconografie artistiche continuino a esercitare un influsso sull’immaginario collettivo, prestandosi, con opportuni adattamenti, alla trasmissione di nuovi contenuti. In particolare, Jesus Christ Superstar (2017), una sorta di crasi tra il Cristo di san Giovanni della croce di Dalì e il manifesto del film Blow Up di Michelangelo Antonioni, può essere interpretata come un semplice gioco combinatorio, oppure come una riflessione critica sugli eccessi della sovraesposizione mediatica nella società odierna.


Note

[1] Mario Diacono e Bob Nickas, Pittura radicale, in “Flash Art” n. 308, febbraio 2013, Politi Editore, Milano.
[2] Ivi.
[3] Tony Godfrey, Painting Today 2010, Phaidon Press, Londra.
[4] James McNeill Whistler, The Gentle Art of Making Enemies, 1968, Dover Pubsn, Londra.
[5] Raphael Rubinstein, Pittura provvisoria. Il fascino discreto del non finito, in “Flash Art” n. 291, marzo 2011, Politi Editore, Milano.


INFO

SCHEDA TECNICA
Italian Newbrow. Apocalittica
A cura di Ivan Quaroni
LABS Gallery
Via Santo Stefano 38, 42125 Bologna
30 settembre – 11 novembre 2017
Inaugurazione: sabato 30 settembre, ore 18.00
Orari: da martedì a sabato ore 16.00-20.00, oppure su appuntamento
Catalogo disponibile in sede con testi di Ivan Quaroni
Ingresso libero

PER INFORMAZIONI
LABS Gallery
Via Santo Stefano 38, 40121 Bologna
+39 348 9325473
info@labsgallery.it
www.labsgallery.it

UFFICIO STAMPA
CSArt – Comunicazione per l’Arte
Via Emilia Santo Stefano 54, 42121 Reggio Emilia
+39 0522 1715142
info@csart.it
www.csart.it

Paolo De Biasi, Giuliano Sale. Qualcuno, da qualche parte…

17 Feb

di Ivan Quaroni

Stay, I’m burning slow
With me in the rain, walking in the soft rain
Calling out my name
(Simple Minds, Someone Somewhere in Summertime, 1982)

 

 

La verità è che ci sono un sacco di cose belle che non significano assolutamente nulla. O, meglio, non è che proprio non significhino nulla… Ecco, diciamo che il loro senso è quantomeno oscuro e fumoso. Un po’ come la canzone Someone, Somewhere, in Summertime dei Simple Minds che ha un testo a dir poco enigmatico. Parla di un posto, da qualche parte, che “non può essere visto da un milione di occhi” e di qualcuno che, invece, “riesce a vedere ciò che anch’io posso vedere”… Ma che vuol dire? Sembra il trailer di un film di Buñuel…

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Giuliano Sale, The Big Party, 2017, oil on canvas, 150×200 cm

Per oltre trent’anni le parole cantate da Jim Kerr mi sono rimbalzate nel cervello come un loop senza mai generare una visione precisa, ma continuando a emozionarmi. Ed è stato un bene, perché ho capito che l’arte non ha affatto bisogno di un significato e che, in effetti, la forma è il significato. Perciò, non è necessario analizzare il testo di una canzone per coglierne il senso. Più vago e misterioso è il testo, più la tua immaginazione è spinta a crearne uno adatto a te. Il che, intendiamoci, non vuol dire che non abbia un significato preciso per l’autore. Semplicemente, la canzone funziona meglio se riesci a trovarci dentro qualcosa di tuo, qualcosa che parli in modo diretto o indiretto della tua esperienza, della tua sensibilità oppure – meglio ancora – che ti faccia vedere le cose in maniera diversa. Con la pittura è la stessa cosa. Il titolo della mostra, parziale traduzione della suddetta canzone, in questo caso è stato usato per alludere alle due differenti ossessioni iconografiche che animano le ricerche di Giuliano Sale e Paolo De Biasi, ossia il ritratto e lo spazio.

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Paolo De Biasi, Per modo di dire, 2016, acrylic on canvas, 105×150 cm

Bruno Munari sosteneva che il libro di cucina è il migliore manuale di progettazione, il ricettario che contiene tutte le istruzioni su quali ingredienti usare, come mescolarli tra loro, come cuocerli e in quale ordine. Anche l’arte è una questione d’ingredienti, miscelabili in un’infinita gamma di variazioni. Un po’ come nel rock – sostiene Paolo De Biasi – dove gli stessi accordi, diversamente combinati, sono usati da musicisti molto diversi tra loro. E così Picasso non è Hockney, esattamente come i Beatles non sono gli Smiths. Questo vuol dire che nella pittura (come nella musica) il modo è tutto. Prendiamo, ad esempio, la tradizionale sequenza dei nudi femminili distesi che dalla pompeiana Venere marina di un ignoto artista romano del I secolo d.C. arriva fino all’Olympia di Manet (1863), passando per la Venere dormiente di Giorgione (1510), la Venere di Urbino di Tiziano (1537), la Venere allo specchio di Velasquez (1648), la Maja desnuda di Goya (1800) e la Grande Odalisca di Ingres (1814). Sono tutte donne nude distese, giusto? Ma c’è una grande differenza tra l’una e l’altra! Una differenza che, in questo plurisecolare remix iconografico, segna non solo il passaggio tra le diverse epoche, ma rimarca anche l’originalità stilistica di ogni artista.

Pur con attitudini diverse, Giuliano Sale e De Biasi prelevano alcuni ingredienti della loro pittura dalla storia dell’arte, adattandoli alle urgenze e agli umori della sensibilità odierna. Giuliano Sale, ad esempio, recupera pretestuosamente brandelli dell’immaginario pittorico di Ingres, Matisse, Picasso, Caravaggio e altri maestri, filtrandoli con una grammatica pittorica composita, che alterna precisione e gestualità, costruzione e scomposizione, ferocia ed eleganza in un linguaggio originale e unico. Generalmente, l’artista prende spunto dalla realtà circostante, da persone, fatti reali ed esperienze vissute, ma appunto anche dalla grande arte del passato che egli “brutalizza” attraverso un procedimento di decontestualizzazione e riadattamento delle immagini a una nuova gamma espressiva, distante dai concetti classici di bellezza e armonia.

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Giuliano Sale, Woman with Plants, 2017, oil on canvas, 35×30 cm

L’approccio iconoclastico e irreverente non è riservato solo alla rappresentazione del corpo umano, ma è applicato anche alla costruzione di uno spazio frammentato e scomposto, pura proiezione mentale degli stati d’animo dell’artista. I suoi soggetti sono, dunque, il prodotto di una commistione d’immagini edite e inedite, passate al vaglio di un linguaggio schizofrenico, capace di miscelare frammenti di alfabeti e grammatiche antitetiche allo scopo di allestire l’immagine di una realtà crudamente destrutturata. Si avverte, infatti, che Sale è restio a concepire la pratica pittorica come il prodotto di una costruzione lineare, progettuale. La pittura, così come la realtà storica, sono piuttosto da lui avvertite come il risultato di un’organica sommatoria di errori e di soluzioni, l’estremo esito di un percorso erratico e labirintico costellato di trappole e ostacoli. Più che segni di un tributo alla tradizione, i riferimenti storico-artistici di Sale contribuiscono a delimitare il campo d’azione. Definiscono, insomma, il perimetro di un metaforico ring sul quale consumare un conflittuale corpo a corpo con la Storia e i suoi inevitabili lasciti.

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Giuliano Sale, The Painter who wanted to be a musician, 2017, oil on canvas, 40×30 cm

The Big Party, ad esempio, ruota intorno a due nudi femminili incongrui, anatomie mutile che orientano magneticamente tutta la composizione. Quello in primo piano, evidentemente rubato all’immaginario esotico delle bagnanti di Ingres, è sottoposto, insieme all’altro che fa da contrappeso, a una specie di barbarica damnatio memoriae. Entrambe le figure, come le due discinte protagoniste del Déjuneur sur l’herbe di Manet, spiccano in un consesso di personaggi vestiti di tutto punto. Il promiscuo festino che si svolge attorno al tavolo è il ritratto di un’umanità gaudente e lasciva, che tradisce però la propria natura degradata. La precisa carnalità dei nudi femminili, ultimo barlume di realtà, spicca, infatti, sulla pletora di personaggi maschili dai volti ridotti a maschere parossistiche e dai corpi simili a pupazzi, in cui è lecito scorgere tracce mnestiche delle trasfigurazioni fisionomiche di James Ensor e delle deformazioni anatomiche di George Grosz.

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Giuliano Sale, The Wrong Deposition, 2017, oil on canvas, 140×120 cm

La storia dell’arte aleggia come un fantasma in molti episodi della pittura di Giuliano Sale, ma la sua funzione è più che altro pretestuosa, nel senso che fornisce talvolta uno schema iniziale oppure una cornice allo scandaglio visivo dell’artista, come nel caso di The Wrong Deposition, che ruba l’impianto alla deposizione vaticana di Carvaggio. Qui, infatti, l’ordine costruttivo di Michelangelo Merisi, in parte memore del Pontormo, è trasposto in una miscellanea di maniere pittoriche, un campionario stilistico che alterna gestualità e mimesi, sintesi e astrazione, gusto illustrativo e piacere testurale nel chiaro intento di animare dinamicamente la composizione. Anzi si può dire che il gradiente drammatico dei dipinti di Giuliano Sale sia sovente stemperato proprio da una serpeggiante propensione esornativa, che affiora, ad esempio, tanto nella vagamente picassiana Woman with Guitar – una specie di still life con lampada, cactus e nudo scomposto -, quanto nell’elegantissima Woman with plants, campionata dalla celebre Odalisque Seated With Arms Raised, Green Striped Chair (1923) di Henri Matisse. L’artista, tuttavia, non lavora solo sulla traccia iconografica del passato, ma anche sul ricordo soggettivo, sull’esperienza vissuta e immaginata che la mente ricompone in un’immagine imperfetta da tradurre poi nel linguaggio concreto della pittura. Perché, come affermava Paul Klee, il compito del pittore è, appunto, di rendere visibile l’invisibile.

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Paolo De Biasi, A loro volta le cose, 2017, acrylic on canvas, 150×105 cm

Paolo De Biasi tradisce la sua formazione di architetto concentrandosi sullo spazio fisico e sugli oggetti che lo abitano, con dipinti che costruiscono un suo personale teatro della memoria, prospetticamente riveduto e corretto. L’artista recupera soprattutto lo spirito figurativo del primo Novecento, cui guarda peraltro molta pittura contemporanea europea, frullando il gusto costruttivo e ornamentale di architetti come Giò Ponti, Aldo Rossi e Gigiotti Zanini, con la tradizione della Metafisica di De Chirico, Carrà e Savinio e, trasversalmente, con la grande arte del Medioevo e del Rinascimento italiani. Contrariamente a Giuliano Sale, De Biasi, però, non ha alcun intento iconoclastico. Piuttosto c’è nella sua pittura neo-metafisica la volontà di recuperare certe radici iconografiche, che poi sono le stesse saccheggiate dai nuovi pittori delle accademie di Lipsia e Dresda. D’altra parte, quello tra Italia e Germania, si sa, è un rapporto artistico di lungo corso, che comincia con l’amore di Winckelmann e Goethe per la classicità greco-romana e passa attraverso l’esperienza dei Nazzareni innamorati dei Primitivi italiani e del De Chirico inebriato dal simbolismo di Arnold Böcklin e Franz von Stuck, e arriva agli scambi tra Neue Sacklickeit e Valori Plastici, culminando, infine, con le parallele esperienze di Transavanguardia e Neue Wilden. Non stupisce, perciò, che mentre artisti come Marküs Lupertz e i più giovani Neo Rauch e Matthias Weischer siano intenti a riesumare la solidità compositiva della Metafisica dechirichiana, un gruppo di pittori italiani, tra cui Paolo De Biasi, siano rimasti affascinati dalle de-strutturazioni formali degli artisti dell’ex DDR. Corsi e ricorsi della storia, insomma.

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Paolo De Biasi, Di ora in ora, 2017, acrylic on canvas

Quel che conta, ancor più dei riferimenti, però, è l’attitudine di De Biasi a considerare la pittura come uno strumento d’indagine attraverso cui studiare e verificare le relazioni tra il “vedere” e il “pensare”. Dato che, come scriveva Gianni Canova, “il problema del nostro tempo consiste nel capire se siamo ancora capaci di pensare a quello che vediamo o se vediamo sempre e solo ciò che già pensiamo”. Per l’artista trevigiano, infatti, dipingere significa “pensare per immagini”, seguendo un iter che somiglia solo in parte alla consuetudine progettuale dell’architetto. Del progettista, piuttosto, De Biasi conserva l’attenzione per lo spazio, concepito come una quinta prospettica, un teatro di posa su cui proiettare frammenti di una storia che continuamente si riattualizza nella pratica pittorica. E, così, la solidità dell’impianto architettonico giottesco può convivere con le fantasie postmoderniste di Aldo Rossi, la solennità metafisica di Morandi con il design contemporaneo e gli eleganti pattern geometrici di Giò Ponti con i baluginanti broccati aurei dipinti da Beato Angelico.

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Paolo De Biasi, A proposito, 2017, acrylic on canvas, 105×150 cm

Ogni quadro, intitolato con una diversa locuzione avverbiale (Di ora in ora, Per scherzo, A proposito e così via), quasi a conferma della natura occasionale del tema, si presenta come una rassegna ragionata di arredi, decori, oggetti, iconografie assemblate secondo un ordine puramente estetico che corrisponde alla volontà di costruzione di una utopia visiva radicalmente italiana. Per modo di dire, ad esempio, è, a cominciare dalla riproduzione di una copertina della rivista Stile diretta da Giò Ponti e pubblicata dal 1941 al 1947, un lapalissiano tributo all’Italia del Novecento, che l’architetto milanese intendeva come un paese fondato sul primato delle arti. Il dipinto però trasmette un senso d’instabilità dato dagli oggetti metafisici che poggiano su un piano inclinato, che favorisce lo scivolamento dell’immagine verso lo spettatore. Lo spazio dipinto da De Biasi è, infatti, una dimensione mobile, incerta, caratterizzata da elementi architettonicamente e prospetticamente incongrui. A loro volta le cose, invece, presenta una struttura a pala d’altare, ma è ovviamente un inganno ottico perché sia il riquadro superiore che predella tripartita sono dipinti su tela. Inoltre, il soggetto principale, una sezione del porticato di un chiostro medievale, è, di fatto, una scatola prospettica inserita in uno spazio più grande, una specie di teatro di posa, appunto, che subito rivela che siamo di fronte a un’immagine fallace. Lo stesso si può dire delle opere intitolate A proposito, Di ora in ora, Così come dopo e Facendo finta, dove la coerenza spaziale si perde in una sequenza di piani sfalsati, formati dalla giustapposizione di pareti, pavimenti, quinte e soffitte che finiscono per confondere l’occhio e riportare l’immagine alla sua effettiva bidimensionalità. Ma è il modo, forse, attraverso cui De Biasi afferma la sostanziale diversità dello spazio architettonico dallo spazio pittorico, essendo il primo la conseguenza di un’inferenza logica e progettuale che ha per scopo una funzione d’uso, e il secondo il frutto di una facoltà creativa che deve necessariamente spingere il pensiero oltre i limiti fisici imposti dalla realtà.


Info:

Paolo De Biasi | Giuliano Sale – Qualcuno, da qualche parte
a cura di Ivan Quaroni
16 febbraio – 1 aprile 2017
Antonio Colombo Arte Contemporanea
via Solferino 44, Milano
+39 02.29060171
info@colomboarte.com
http://www.colomboarte.com

La famosa invasione degli artisti a Milano

21 Mag

La città dei miracoli

(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.

Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm

Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.

Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106x150 cm

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm

Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.

Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.

Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100x90 cm

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm

Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.

Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.

Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.

Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.

A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.

In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.

Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.


[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.

[2] Ivi, p. 109.


INFO:

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Painting as a mind field

18 Mar

by Ivan Quaroni

“Consciousness is the stage, the only stage, to be precise, where everything happening in the universe is performed, a comprehensive container, outside which nothing exists”¹ That is what the Austrian physicist and mathematician Erwin Schrödinger , who won the Nobel Prize in 1933 for his crucial contribution to quantum mechanics studies, used to affirm. One of the most distinguished scholars, a pioneer in studying consciousness, was the American neurophysiologist and psychologist Benjamin Libet, author of the theory of the “Conscious Mental Field” (CMF) , which made a distinction between the brain activity, considered an elementary function, and the mental activity, valued as much more complex.

According to Libet, consciousness (or mind field) is not a defined function; it is instead something that emerges thanks to a series of adjustments and re-definition processes that fill up the holes of the brain activity, giving consistence, for example, to the perception of spaces, shapes and colours. Basically, the conscious mental field cannot be reduced to a simple neural process neither it can be described as a merely physical event. During a series of studies, in 1985, Libet showed how the personal experience of will comes right after a pre-conscious or even unconscious choice. Any action, any simple motoric act, comes after an unconscious neural decision. In other words, it takes a fraction of a second to a single human being to be aware of his own action. This discovery brought the academics to ask themselves about the exact location of decisions making, the true headquarter of actions. As known, the brain produces an intense activity, cerebral waves create a magnetic and electric field, but also, as a result, a morphemic field. Libet called mental field the morphemic field of the mental activities, to define the way personal experiences arise among the functions of the brain.

Paolo De Biasi, Bildo, tecnica mista su tela, 100x150 cm., -2014

Paolo De Biasi, Bildo, tecnica mista su tela, 100×150 cm., -2014

Rupert Sheldrake, a British biologist, who invented the theory of Morphemic Resonance that introduced the idea of a non-mechanical universe, needs to be involved to comprehend what the mind field really is. According to Sheldrake, each member of a species draws the experiences of his ancestors from a collective memory. The most revolutionary aspect of his idea is the assertion that memories do not lie in the brain itself, but in a field of information, somehow similar to remote archive systems such as Cloud, accessible to every human being. This morphemic field interacts with the brains and the neural systems of each member of the species, by imposing schemes and structures to those processes otherwise chaotic and undefined. Without being too specific, it’s enough to know that the mind field ( or morphemic) can help us understand how each individual has access to a superior quantity of information, compared to the ones he can accumulate himself through sensorial experiences, during an entire life.

Valerio Melchiotti, Resistence, oil on canvas , 30x40 cm,  2015

Valerio Melchiotti, Resistence, oil on canvas , 30×40 cm, 2015

As a matter of fact , throughout the times, art has always related itself to philosophy and science, in a complex knot of mutual influences. For instance, we can observe how the results of the most recent researches on the mental field and on the concept on “non-locality” quantum, actually affect the way contemporary painting distances itself from a mere depiction of reality as much as from the representation of purely abstract concepts. The two opposite foundations of Nineteenth Century Painting, Abstract and Figuration, have left some space to the birth of a hybrid language, born from the interpolation between the two models. This language is visually defined by incongruous narrations, simultaneous representations, dissociations between subjects and meanings, deformations of anatomy, perspective, and of the time-space perception. The simultaneity of the narrative episodes that nullify the continuity of the story, but also the constant redefinition of the space concept through the acquisition of multiple points of view, mirrors the potential dimension of the mind field, which is determined by the inference of many individuals. The breech of traditional schemes in depicting space and time, actually typical of every visual expression of the twentieth Century, acquires a major role in contemporary painting. Simultaneity is a feature of the mind field, where present, past and future information coexist. The physic and theorist Amit Goswami affirms that the “non-local quantum”, the one that distinguishes subatomic particles, also happens between brains. According to Sheldrake as well, the morphemic field keeps the memory of the species, in order to register any information and at the same time let them evolve thanks to present experiences.

Annalisa Fulvi, Geometrie Rurali 8, acrylic on canvas, 80x100 cm, 2014

Annalisa Fulvi, Geometrie Rurali 8, acrylic on canvas, 80×100 cm, 2014

A look to Neo Rauch painting can help explaining this concept by images. In the fundamental paintings of the Neue Leipziger Schule, the visual narration appears segmented in different episodes that do not allow a logic reconstruction of the events. The space is incongruous; locations fade into one another, with no continuity, while historical time is confused and fragmented.

This depiction model rapidly diffused across Europe, influencing many contemporary painters , from Daniel Pitin to David Schnell, from Martin Kobe to Tilo Baumgaertel, to Justin Mortimer and Adrian Ghenie, just to mention a few. What combines them all, no matter the stylistic differences, is indeed the discontinuity of the narration, the overlapping of images and the tendency to leave some parts of the painting unfinished, as if it was an open story, constantly becoming. This operating approach leaves the narrative content to a secondary level, focusing instead on the formal analysis of representation processes.

Dario Maglionico, Reificazione #5, oil on canvas, 132 x 188 cm, 2014

Dario Maglionico, Reificazione #5, oil on canvas, 132 x 188 cm, 2014

For example, a similar conception can be found in Paolo De Biasi’s painting, as he affirms, “even if a painting is enclosed in a perimeter, his borders are paradoxically infinite”. The artwork is, to the artist, the result of a discovering process that not only involves the individual dimension, but also the field of collective imagery. The sources are multiple and virtually unending, they can include images drawn from personal memories, from dreams and unconscious projections, from the web and even from other artists. De Biasi’s painting generates from the intersection between the stream of consciousness and a sea wide amount of information and it is distinguished by a juxtaposition of apparently senseless images.

Paolo De Biasi, Untitled, acrylic and collage on canvas, 60x50 cm, 2015

Paolo De Biasi, Untitled, acrylic and collage on canvas, 60×50 cm, 2015

The representation happens within an undefined space, lacking sure references, within a fluid and simultaneous timely dimension, built after the compositional approach typical of the surrealistic collage technique. De Biasi takes cognizance of the impossibility of producing a unique (and identifying) vision of reality, which is nowadays too complex and fragmented, leaving to the observer the task of detecting relationships and connections among the figures. What really arises from his research, which is ambiguously suspended between abstract schemes and figurative models, is the idea of an uncatchable contemporaneity, “no more synthesizable nor limited” to a single point of view. All the subject has to do is select images from the menu of his mind field, trying to give back a most holographic vision of the existential complexity, to the observer.

Paolo De Biasi, Potreto, acrylic and collage on canvas, 50x40 cm, 2014

Paolo De Biasi, Potreto, acrylic and collage on canvas, 50×40 cm, 2014

Even Annalisa Fulvi’s artworks result from the combination and juxtaposition of estranged elements. The artist focuses on the evolution of the urban and natural landscape, revealing the presence of constantly changing locations and spaces. Fulvi does not limit herself to documenting effective changes, but she also takes in consideration those that are virtually possible, opening her representation field to the potential developments of architectural structures and natural shapes. Her painting, based on the accumulation of abstract hatches and realistic elements, geometrical patterns and iconic signs, is the result of an accurate study of the space, derived from the observation of reality and from the analysis of the cultural structures reality is made of. Drawing by Zygmunt Bauman the idea of a liquid society , mobile and in constant evolution, Annalisa Fulvi tries to catch the uncertain disposition of existence through a painting that seizes the sudden and contradictory aspects of contemporary reality.

Annalisa Fulvi, Geometrie Rurali 3, acrylic on canvas, 80x100 cm, 2014

Annalisa Fulvi, Geometrie Rurali 3, acrylic on canvas, 80×100 cm, 2014

It gives back the vision of an unaccomplished and ambiguous space, built on the juxtaposition of unstable elements and structures, such as trellis, scaffoldings and signs that underline their uncertain and random essence. The changes in the landscape therefore become an excuse to reflect on the elements that affect, often unwittingly, people’s behaviour. The rise of new construction sites effectively brings an untreatable imbalance in the natural tissue, which nullifies the architectural premises of bringing a rational order to the chaos of shapes.

Annalisa Fulvi, Sinonimi per una pittura insulare, acrylic on canvas, 55x70 cm, 2014

Annalisa Fulvi, Sinonimi per una pittura insulare, acrylic on canvas, 55×70 cm, 2014

In Dario Maglionico’s painting the space, the domestic one in particular, is close to the traditional mimetic and prospective depiction of reality. On the other hand, the individual subjects are undefined, out of focus. They acquire a ghostly appearance. In the series Reificazioni, the house, permanent centre of gravity of the individual, becomes a transition place, a crossing space, that records the fading and evanescent trace left by the passage of the individuals who inhabit it. This way, while the domestic interiors confer a frame of balance, at least within the depiction, the actions of the subjects multiply in a synchronic dimension where past and present converge.

Therefore, Maglionico’s research points out the impossibility to concretely define the psychological identity of the painted subject, sending it back to the objects and furnishings surrounding him. In the same way , the reification – a philosophical concept by Karl Marx doctrine- indicates the people’s commercialization or the reduction of their psychological , moral and cultural motions, to mere objects. Through his painting, the artist describes reality as a process of human commercialization of human experiences, a sort of gratuitous creation of the mind, who is unable by nature to seize the dynamic and jumble complexity of the existence. That is the reason why in his canvases, people metaphorically appear as incomplete anatomies, undefined looks, as captured in a late, quick and imprecise vision.

Valerio Melchiotti’s painting has a frangmented vocation, where the typical media realism of his portraits is filtered by an inner psychological quest that flows into a bunch of incongruous narrations. The artist himself defines his artworks as “small theatres, sometimes absurd and lacking logic”, and, in fact, they could be considered as segments of a potential surreal tale, or a short movie studded with ambiguous and enigmatic images.

Valerio Melchiotti, Song from Mars, oil on canvas 30x40 cm,  2015

Valerio Melchiotti, Song from Mars, oil on canvas 30×40 cm, 2015

In Melchiotti’s work the preference for small sizes states the will to catch back with his inner self, a dimension the artist reaches thanks to the traces and fragments of lost childhood memory, made of comics, old black and white pictures, sci-fi tales and board games. However, the artist hides all these elements in a coded visual language, almost obscure. We can therefore affirm that the mystery of human psyche, with its sudden pairings and obscure interferences with the collective unconscious, is the real subject of Melchiotti’s painted work. A painting that is full of slips and failures, subtractions and cancellations, ambiguous images, but yet able to depict the imperfect and unavoidably evanescent essence of memory.

Valerio Melchiotti, The silent King,  oil on canvas, 30x40 cm,  2014

Valerio Melchiotti, The silent King, oil on canvas, 30×40 cm, 2014

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[1] Fabrizio Coppola, Ipotesi sulla realtà, Lalli editions, Poggibonsi (Siena), 1991, p. 250.

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INFO:
GALLERIA AREA B
PAINTING AS A MINDFIELD
Paolo De Biasi, Annalisa Fulvi, Dario Maglionico, Valerio Melchiotti.
Curated by Ivan Quaroni
April 2 – May 5- 2015
Opening: April 2 –  h 18.30

ITALIAN TEXT

La pittura come campo mentale

 

di Ivan Quaroni

Paolo De Biasi, Sample, acrylic on canvas, 70x50 cm, 2014

Paolo De Biasi, Sample, acrylic on canvas, 70×50 cm, 2014

La coscienza è il teatro, e precisamente l’unico teatro su cui si rappresenta tutto quanto avviene nell’universo, il recipiente che contiene tutto, assolutamente tutto, e al di fuori del quale non esiste nulla”.[1] Lo sosteneva il fisico e matematico austriaco Erwin Schrödinger, vincitore del Premio Nobel nel 1933 per il suo importante contributo agli studi sulla meccanica quantistica. Uno dei più eminenti studiosi, pioniere negli studi sulla coscienza, è stato il neurofisiologo e psicologo statunitense Benjamin Libet, autore della teoria del Campo Mentale Conscio (CMF – Conscious Mental Field), che distingue tra l’attività cerebrale, considerata una funzione elementare, e l’attività mentale, ritenuta, invece, un’attività molto più complessa.

Secondo Libet, la coscienza (o campo mentale) non è una funzione definita, ma qualcosa che emerge grazie a una serie di processi di aggiustamento e di ridefinizione che colmano i buchi dell’attività cerebrale, dando una coerenza, ad esempio, alla percezione dello spazio, delle forme e dei colori. In pratica, il campo mentale cosciente non è riducibile a un semplice processo neuronale e non può essere descritto come un evento fisico. Durante una serie di studi effettuati nel 1985, Libet dimostrava che l’esperienza soggettiva della volontà è successiva a una scelta compiuta a livello precosciente o inconscio. In sostanza, qualsiasi azione compiuta da un soggetto, come un banale atto motorio, è preceduta da una decisione neurale inconscia. C’è, insomma, uno scarto di una frazione di secondo prima che l’individuo sia consapevole della sua azione.

Annalisa Fulvi, Geometrie Rurali 7, acrylic on canvas, 60x80 cm, 2014

Annalisa Fulvi, Geometrie Rurali 7, acrylic on canvas, 60×80 cm, 2014

Questa scoperta ha portato gli studiosi a chiedersi quale fosse la sede dell’elaborazione delle decisioni, dove fosse situato il centro di comando delle azioni. Com’è noto, il cervello produce un’intensa attività e le onde cerebrali producono un campo elettrico e magnetico ma, di conseguenza, anche un campo morfico. Libet ha chiamato campo mentale il campo morfico delle attività mentali per indicare il modo in cui le esperienze soggettive emergono dall’insieme delle funzioni cerebrali.

Per capire che cosa effettivamente sia il campo mentale bisogna scomodare il biologo britannico Rupert Sheldrake, inventore della teoria della Risonanza Morfica, che introduce l’idea di un universo non meccanicistico. Secondo Sheldrake, ogni membro di ogni specie attinge alla memoria collettiva, alle esperienze anteriori degli individui e dei gruppi appartenenti alla sua specie. L’aspetto più rivoluzionario della sua idea consiste nel presumere che i ricordi, le memorie, non siano localizzati nel cervello, ma in un campo d’informazioni, – simile, per certi versi a sistemi remoti di archiviazione come Cloud – cui il cervello di ogni individuo ha accesso. Questo campo morfico interagisce con i cervelli e i sistemi nervosi di ogni individuo della specie, imponendo schemi e strutture in processi che altrimenti sarebbero caotici e indeterminati.

Senza entrare troppo nei dettagli, basti sapere che il concetto di campo mentale (o morfico) può aiutarci a capire come i singoli individui abbiano accesso a un serbatoio d’informazioni immensamente più grande di quelle che sono in grado di accumulare, attraverso le proprie esperienze sensoriali, nell’arco di un’intera esistenza.

Dario Maglionico, Reificazione #3, oil on canvas, 107 x 107 cm, 2014

Dario Maglionico, Reificazione #3, oil on canvas, 107 x 107 cm, 2014

Sappiamo che in ogni tempo l’arte ha intrattenuto rapporti con la filosofia e la scienza, in un complesso intreccio di reciproche influenze. Si può, ad esempio, osservare come gli esiti delle recenti ricerche sul campo mentale e sul concetto di “non località” quantistica si riflettano nel modo in cui la pittura contemporanea vada sempre di più allontanandosi tanto dalla mera descrizione mimetica della realtà, quanto dalla rappresentazione di concetti puramente astratti. I due antitetici capisaldi della pittura del Novecento, Astrazione e Figurazione, sembrano, infatti, aver lasciato spazio all’insorgere di un linguaggio ibrido, derivato dall’interpolazione dei due modelli.

Si tratta di un linguaggio visivamente caratterizzato da narrazioni incongrue, rappresentazioni simultanee, dissociazioni tra oggetti e significati, deformazioni dell’anatomia, della prospettiva, della percezione spazio-temporale.

La simultaneità di episodi narrativi, che invalidano la continuità del racconto, come pure la continua ridefinizione del concetto di spazio attraverso l’acquisizione di una molteplicità di punti di vista sono elementi che rispecchiano la dimensione potenziale del campo mentale, il quale è determinato dall’inferenza di più individui. La rottura degli schemi tradizionali nella rappresentazione dello spazio e del tempo, tipica, in verità, di tutte le espressioni visive del ventesimo secolo, assume nella pittura contemporanea un’importanza rilevante. La simultaneità è una caratteristica del campo mentale, in cui tutte le informazioni presenti, passate e future coesistono. Il fisico e teorico Amit Goswami sostiene che la “non località quantistica”, quella che contraddistingue le particelle subatomiche, si verifica anche tra cervelli. Anche per Sheldrake, il campo morfico contiene la memoria della specie, poiché in esso tutte le informazioni si registrano e, al tempo stesso, si evolvono grazie alle esperienze del presente.

Uno sguardo alla pittura di Neo Rauch può aiutare a chiarire, in termini d’immagini, questo concetto. Nei dipinti del capostipite della Neue Leipziger Schule, infatti, il racconto visivo appare segmentato in una varietà di episodi che non permettono una ricostruzione logica degli eventi. Lo spazio è incongruo, articolato in luoghi che sfumano l’uno nell’altro, senza soluzione di continuità, mentre il tempo storico è frammentato e confuso. Questo modello di rappresentazione si è diffuso rapidamente in Europa, influenzando molti pittori contemporanei, da Daniel Pitin a David Schnell, da Martin Kobe a Tilo Baumgaertel, fino a Justin Mortimer e Adrian Ghenie, solo per citarne alcuni. Ciò che li accomuna, nonostante le differenze stilistiche, è appunto la discontinuità del racconto, la sovrapposizione d’immagini e la tendenza a lasciare alcune parti del dipinto inconcluse, come se si trattasse di una rappresentazione aperta, ancora in divenire. Si tratta di un approccio operativo che relega in secondo i contenuti narrativi, concentrandosi, piuttosto, sull’analisi formale dei processi di rappresentazione.

Valerio Melchiotti, The trap of the king, oil on canvas 30x40 cm, 2015

Valerio Melchiotti, The trap of the king, oil on canvas 30×40 cm, 2015

Una concezione simile si trova, ad esempio, nella pittura di Paolo De Biasi, il quale sostiene che “pur essendo il quadro delimitato da un perimetro, paradossalmente i suoi confini sono sconosciuti”. Per l’artista, l’opera è il risultato di un processo conoscitivo che coinvolge non solo la dimensione individuale, ma anche la sfera dell’immaginario collettivo. Le fonti sono molteplici, virtualmente infinite, e possono includere immagini derivanti da esperienze e memorie personali, da sogni e proiezioni dell’inconscio, dalla rete informatica e perfino da immagini prodotte da altri artisti. Generata dall’intersezione tra il flusso di coscienza e la marea informazionale, la pittura di De Biasi è caratterizzata dalla giustapposizione d’immagini apparentemente prive di significato. La rappresentazione si svolge in uno spazio indeterminato, privo di riferimenti certi, entro una dimensione temporale di fluida simultaneità, costruita secondo una logica compositiva memore della tecnica del collage surrealista.

Paolo De Biasi, Specimen, acrylic and collage on canvas, 70x60 cm, 2014

Paolo De Biasi, Specimen, acrylic on canvas, 70×60 cm, 2014

De Biasi prende atto dell’impossibilità di produrre una visione unitaria (e identitaria) della realtà, oggi troppo complessa e frammentata, demandando all’osservatore il compito di rintracciare i nessi e i rapporti tra le figure. Ciò che emerge, infatti, dalla sua ricerca, equivocamente sospesa tra schemi astratti e modelli figurativi, è l’idea di una contemporaneità inafferrabile, “non più sintetizzabile e circuibile” nei limiti di un singolo punto di vista. Al soggetto non resta che la facoltà di selezionare le immagini dal menù del proprio campo mentale, nel tentativo di restituire all’osservatore una visione, il più possibile ologrammatica, della complessità esistenziale.

Anche le opere di Annalisa Fulvi nascono dall’accostamento e dalla sovrapposizione di elementi estranei tra loro. L’artista si concentra sull’analisi delle trasformazioni del territorio urbano e naturale, rilevando la presenza di spazi e ambienti in continua metamorfosi. Fulvi non si limita a documentare i cambiamenti tangibili del paesaggio, ma considera anche quelli virtualmente possibili, aprendo il campo della rappresentazione agli sviluppi potenziali delle strutture architettoniche e delle forme naturali. La sua pittura, basata sull’affastellamento di campiture astratte ed elementi realistici, pattern geometrici e icone segnaletiche, è il risultato di un accurato studio dello spazio, derivato dall’osservazione della realtà e dall’analisi delle strutture culturali che la definiscono.

Mutuando da Zygmunt Bauman l’idea di una società liquida, mobile e in costante evoluzione, Annalisa Fulvi tenta di cogliere il carattere precario dell’esistenza attraverso una pittura che tenta di cogliere gli aspetti imprevisti e contraddittori della realtà contemporanea, restituendoci la visione di uno spazio incompiuto e prospetticamente ambiguo, costruito sulla giustapposizione di elementi e strutture instabili, come tralicci, impalcature e segnali che ne sottolineano l’essenza impermanente e aleatoria. Le trasformazioni del paesaggio, diventano così, un pretesto per riflettere sugli elementi che condizionano, spesso inconsapevolmente, i comportamenti degli individui. L’insorgere di nuovi cantieri edili, infatti, porta uno squilibrio insanabile nel tessuto ambientale, che invalida le premesse stesse dell’architettura, la cui missione è, invece, di portare un ordine razionale nel caos delle forme.

Nella pittura di Dario Maglionico lo spazio, in particolare quello domestico, si conforma alle tradizionali regole di rappresentazione mimetica e prospettica della realtà. A essere indeterminate, fuori fuoco, sono invece le persone, che assumono un aspetto fantasmatico. Nella serie delle Reificazioni, la casa, centro di gravità permanente dell’individuo, diventa un luogo di transito, di attraversamento, che registra la traccia sfumata ed evanescente del passaggio degli individui che la abitano. Così, mentre gli interni domestici forniscono una cornice di stabilità, se non altro del campo della rappresentazione, le azioni dei soggetti si moltiplicano in una dimensione sincronica, in cui convergono passato e presente.

Dario Maglionico, Reificazione #6, oil on canvas, 165 x 88 cm, 2014

Dario Maglionico, Reificazione #6, oil on canvas, 165 x 88 cm, 2014

La ricerca di Maglionico rileva, dunque, l’impossibilità di definire concretamente l’identità psicologica del soggetto rappresentato, rinviandola, piuttosto, agli oggetti e alle suppellettili che lo circondano. Analogamente, la reificazione – un concetto filosofico mutuato dalla dottrina di Karl Marx – indica la mercificazione o riduzione a oggetto delle persone e delle loro istanze psicologiche, morali e culturali. Attraverso la sua pittura, infatti, l’artista descrive la realtà come un processo di reificazione delle esperienze umane, una sorta di creazione arbitraria della mente, per natura incapace di cogliere la magmatica e dinamica complessità dell’esistenza. Per questo motivo, nelle sue tele, le persone compaiono, metaforicamente, sotto forma di anatomie incomplete e fisionomie indistinte, come fossero catturate da una visione fugace, tardiva, inevitabilmente imprecisa.

Ha una vocazione frammentaria anche la pittura di Valerio Melchiotti, in cui il tipico realismo mediatico dei suoi ritratti viene filtrato attraverso una dimensione d’introspezione psicologica, che sfocia in una pletora di narrazioni incongrue. L’artista, infatti, definisce i suoi dipinti “piccoli teatrini, talvolta assurdi e privi di logica” e, in effetti, potrebbero considerati come i segmenti di un ipotetico racconto surreale o di cortometraggio costellato d’immagini ambigue ed enigmatiche.

Nel lavoro di Melchiotti, la predilezione per piccoli formati corrisponde alla volontà di riappropriarsi del proprio mondo interiore, una dimensione cui l’artista accede tramite la riesumazione di tracce e frammenti di un perduto immaginario infantile, fatto di fumetti, vecchie foto in bianco e nero, racconti di fantascienza e giochi in scatola. Tutti elementi che, tuttavia, l’artista inserisce in un linguaggio visivo cifrato, quasi incomprensibile.

Si può, infatti, affermare che l’enigma della psiche umana, con le sue imprevedibili associazioni e le sue misteriose interferenze con l’inconscio collettivo, sia il vero soggetto della pittura di Melchiotti. Una pittura piena di lapsus e omissioni, di sottrazioni e cancellazioni, che con le sue immagini ambigue, riesce a riprodurre l’essenza imperfetta e ineluttabilmente effimera dei ricordi.

PAINTING AS A MINDFIELD
Paolo De Biasi, Annalisa Fulvi, Dario Maglionico, Valerio Melchiotti.
A cura di Ivan Quaroni
GALLERIA AREA B
Via Marco D’Oggiono n 10 Milano
DURATA MOSTRA: dal 2 aprile al 5 maggio 2015
ORARI: lunedì 15.00 -18.00, martedì-sabato 10.00-13.00 15.00-18.00
t 02 89059535     m info@areab.org

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[1] Fabrizio Coppola, Ipotesi sulla realtà, Lalli editore, Poggibonsi (Siena), 1991, p. 250.

Italian Newbrow corre sul web

28 Gen

Ecco un elenco di tutti i siti web degli artisti di Italian Newbrow. Tutto quello che avreste voluto sapere e non sapevate dove trovare….

Cominciamo con la pagina FB di Italian Newbrow, con tutte le news e le nuove opere postate direttamente dagli artisti.

Italian Newbrow

https://www.facebook.com/ItalianNewbrow

Italian Newbrow

Ed ecco invece i siti dei principali artisti del movimento:

Vanni Cuoghi

http://www.vannicuoghi.com/it/

Cuoghi

Giuseppe Veneziano

http://www.giuseppeveneziano.it

Veneziano

Giuliano Sale

http://www.giulianosale.com

Sale Silvia Argiolas

http://www.silviaargiolas.com 

ArgiolasPaolo De Biasi

https://www.facebook.com/pages/paolo-de-biasi/158287757578428?fref=ts

Schermata 2014-01-28 alle 13.09.58

Michael Rotondi

http://michaelrotondi.blogspot.it

Rotondi Massimo Gurnari

http://massimogurnari.it 

GurnariDiego Dutto

http://www.diegodutto.it 

Dutto

Alice Colombo

http://www.alicecolombo.com

Colombo Eloisa Gobbo

http://www.eloisagobbo.it

GobboFulvia Mendini

https://www.facebook.com/fulvia.mendini

Mendini Elena Rapa

http://elenarapa.blogspot.it

Rapa

 Marco Demis

http://www.marcodemis.com 

DemisMassimiliano Pelletti

http://www.massimilianopelletti.com

Pelletti Tiziano Soro

http://tizianosoro.com/ita/home.html

Soro

Michela Muserra

http://mumiki.com

Muserra

Pierpaolo Febbo 

http://pierpaolofebbo.tumblr.com

Schermata 2014-01-28 alle 12.21.20

Infine, ecco un elenco di gallerie che trattano il lavoro di alcuni artisti di Italian Newbrow:

Area\b gallery, Milano

http://www.areab.org

Vanni Cuoghi

Paolo De Biasi

Silvia Argiolas

Giuliano Sale

Massimo Gurnari

Michael Rotondi

Pierpaolo Febbo

Eloisa Gobbo

Alice Colombo

Marco Demis

Tiziano Soro

 b

Antonio Colombo Artecontemporanea, Milano

http://www.colomboarte.com

Giuliano Sale

Silvia Argiolas

Elena Rapa

Vanni Cuoghi

Colombo

L.E.M., Sassari

Silvia Argiolas

Diego Cinquegrana

Giuliano Sale

 L.E.M.

Roberta Lietti Arte Contemporanea, Como

http://www.robertalietti.com

Vanni Cuoghi

Fulvia Mendini

Lietti

Artforkids, Como

Alice Colombo

Fulvia Mendini

Vanni Cuoghi

Artforkids

Contini Art Gallery, Venezia

http://www.continiarte.com

Giuseppe Veneziano

Contini

Italian Newbrow: un’arte di larghe intese

26 Lug

Questo mese è uscito il nuovo numero di 8 e mezzo, rivista dell’Istituto Luce – Cinecittà, diretta da Gianni Canova. All’interno c’è il mio articolo sui rapporti d’influenza tra Italian Newbrow e il cinema.

Trovate qui sotto l’impaginato in pdf:

Articolo 8 e mezzo

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Per una maggiore leggibilità e per dare spazio alle immagini che sono state un po’ sacrificate dalla grafica, riporto per intero il testo originale:

L’arte contemporanea è come un tempio esoterico frequentato da soli iniziati. Come una loggia massonica, obbedisce a codici simbolici di difficile decrittazione e si fonda su un linguaggio segreto e incomprensibile agli occhi del grande pubblico, insomma su una grammatica estetica che rafforza il sentimento di esclusività di chi ne fa parte.  In questa setta, l’autoreferenzialità è una regola aurea, in special modo in quel particolare segmento chiamato “arte concettuale”. Da qualche tempo, però, si è aperto uno spiraglio verso le suggestioni dell’immaginario di massa, dal fumetto all’illustrazione, dai videogame al Cinema.

Giuliano Sale, MONICA E IL DESIDERIO

Si tratta di un fenomeno in parte dovuto all’attitudine più aperta e orizzontale delle nuove generazioni, quelle che Luca Beatrice sulle pagine di Flash Art designava con il termine di Google Generation. Sono artisti abituati alla logica del cut & paste digitale, cresciuti in un clima di contaminazione tra la cultura artistica ufficiale e quella popolare e pervasiva dei nuovi media. Un mix d’impulsi e influenze che il filosofo outsider Franco Bolelli interpretava, nel saggio intitolato Cartesio non balla, come segni dell’ascesa di una nuova antropologia pop energica, divertente, sexy e soprattutto capace di affermare nuovi valori basati sulla vitalità e l’abbondanza di esperienze di cross over e ibridazione dei linguaggi. Qualcosa di diverso, insomma, da quel microcosmo concettuale che, come afferma Bolelli, ruota intorno al deturnamento e all’estetizzazione del banale.

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In una sequenza del film I soliti idioti (Enrico Lando, 2011), con Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli, appariva il dipinto Alter Ego di Paolo De Biasi, uno degli esponenti dell’Italian Newbrow, non proprio un movimento, ma piuttosto un variegato gruppo di artisti italiani, impegnati in un’orgogliosa rivendicazione di tutto il bazar della cultura popolare – dal fumetto alla TV, passando per il Cinema, il tatuaggio e la grafica punk e underground.

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In verità, ancor prima dell’uscita del film di Enrico Lando, l’Italian Newbrow proponeva una visione dell’arte contemporanea capace di infrangere le rigide barriere dell’ufficialità, tramite il recupero di fonti d’ispirazione provenienti dalla produzione dell’industria, con frequenti incursioni non solo nell’immaginario cinematografico mainstream, ma perfino in quello indipendente.

Massimo Gurnari, IN ITALY WE TRUST

Lo scopo è di riattivare, in pittura e in scultura soprattutto, la dimensione narrativa del racconto, superando l’empasse provocato dalla tautologia dei minimalismi e dei concettualismi di fine stagione. Basta, quindi, con i pezzi di legno appoggiati al muro, con le matasse di lana furbescamente disposte in un angolo di galleria, con le foto appoggiate a terra, magari con il vetro infranto. Cose che, con buona pace del critico d’arte Francesco Bonami, fanno esclamare al pubblico: “Lo potevo fare anch’io”. Il pensiero corre inevitabilmente alle Vacanze intelligenti di Alberto Sordi, capolavoro di perplessità e ironia che traccia un solco incolmabile tra l’avanguardia artistica e la sensibilità del grande pubblico e diventa, trentacinque anni dopo, uno stimolo per artisti della galassia newbrow, sostenitori di un’arte di larghe intese, a cui la gente comune possa tornare ad accostarsi senza imbarazzo o senso d’inferiorità. Agli eroi della Disney e della Dreamworks, s’ispira, Veneziano, rendendoli testimoni di un’epoca complessa come la nostra, travagliata da una profonda crisi economica (Indignados, 2012).

Diego Dutto, NONMAMA

Guarda invece a Tarantino e al Lonesome Cowboy di Takashi Murakami, Vanni Cuoghi in Sette pensieri saggi, dove una variante rinascimentale dell’Uma Thurnman di Kill Bill è impegnata a decapitare i suoi  avversari in un dipinto splatter. A La piccola bottega degli orrori di Roger Corman (1960) è ispirato l’inquietante fiore carnivoro di Diego Dutto (Nonmama, 2012), debitore dell’estetica post-human teorizzata da Jeffrey Deitch, mentre guardano al cinema d’autore, Silvia Argiolas Giuliano Sale ed Elena Rapa. La prima con una pittura lisergica e surreale, che indaga il disagio giovanile alla stregua dei film di Larry Clark e Todd Solondz, gli altri due attraverso uno stile cupo, influenzato da Ingmar Bergman, Rainer Fassbinder e Lars Von Trier. E se Mullholland Drive di David Lynch e Tokyo Ga di Wim Wenders forniscono i titoli ai bidimensionali ritratti di Fulvia Mendini (2008), L’Ultimo metrò di François Truffaut (1980) solletica le fantasie underground di Michael Rotondi in Amore clandestino (2011). L’unico tributo al Cinema italiano arriva da Massimo Gurnari, tatuatore e artista feticcio della scena hip hop lombarda, che nel dipinto intitolato In Italy we trust condensa riferimenti al Neorealismo (Vittorio De Sica), allo Spaghetti Western (Clint Eastwood) e perfino alla tradizione del B movie nostrano (Kriminal, Umberto Lenzi, 1966).

Italian Newbrow. Cattive compagnie (seconda parte)

16 Mag

Il problema del male. Cattive compagnie

A proposito dell’intensa vitalità e della spinta fondamentalmente pulsionale, erotica, emotiva e psicologica che accomuna le opere degli artisti di  Italian Newbrow, avevo accennato nel libro edito da Politi Editore[1], citando uno scritto di Franco Bolelli (Cartesio non balla, Garzanti, 2007, Milano) sulla superiorità della cultura pop, in cui affermava che le grandi opere, come le grandi imprese che segnano a fondo l’immaginario collettivo, nascono sempre da un esubero energetico, da un’abbondanza che si traduce in slancio. Più avanti introducevo il tema del ritorno a una sensibilità gotica, legata alla rappresentazione del lato oscuro e delle zone d’ombra della società contemporanea, mediati attraverso i filtri dell’ironia, del paradosso, dell’ambiguità e dell’affabulazione, ma non sottolineavo abbastanza quanto sia dinamico, necessario, vitale, per gli artisti, questo processo di confronto con il tema della negatività. Argomento che, in fin dei conti, ha caratterizzato tutta la storia dell’arte e non solo, come affermava Baltruišaitis, i periodi in cui era alterata la stabilità sociale[2]. Il problema del male e della sua evidenza è uno dei più dibattuti dai teologi, filosofi e letterati d’ogni epoca. Si tratta di una questione che coinvolge l’esistenza stessa dell’uomo e dunque, inevitabilmente, anche la sua rappresentazione attraverso l’arte.

Nel trattato intitolato Piccola metafisica dell’omicidio, la scrittrice francese Eliette Abécassis scrive che “L’arte intrattiene con il male dei rapporti intimi. Il male è la sua forza, il suo soggetto, la sua ragion d’essere “.[3] Esso costituisce, di fatto, la premessa di ogni di ogni forma d’arte, la sua conditio sine qua non. Solo là, dove il male si manifesta, esiste una storia da raccontare. Che cosa sarebbero la Letteratura, il Cinema, il Teatro, il Fumetto, la Danza, la Musica e l’Arte senza una storia da raccontare?

Come afferma la Abécassis, “Perché l’arte, se non per esprimere il delitto nella società?  L’arte, contestatrice nella sua essenza, c’è unicamente per denunciare, per vomitare il mondo. Non per lavarlo, non per descriverlo, non per dare un senso a un mondo assurdo, non per gratificare, appagare, non per evadere dal mondo: non per criticarlo, ma per vomitarlo”.[4] L’arte è quindi un conatus, un rigurgito che restituisce al mondo i suoi squilibri in forma di rappresentazione, ma è anche, e soprattutto, un antidoto, una cura omeopatica, una forma di catarsi che l’artista vive da eterno convalescente, sempre teso verso un’impossibile guarigione. Il metabolismo dell’arte aggredisce il male con i suoi anticorpi poiché, come affermava Sheldon Kopp, “Tutto il male costituisce una vitalità potenziale bisognosa di trasformazione[5].

È un processo intensamente vitale, che gli artisti di Italian Newbrow hanno assimilato attraverso scelte linguistiche che escludono la tautologia e l’autoreferenzialità, a favore della narrazione e della rappresentazione. Se, infatti, è vero che dove c’è il male, c’è una storia da raccontare, è altrettanto vero che dove c’è una narrazione, affiorano direttamente o indirettamente, i temi dello squilibrio, del caos e del disordine, dell’oscurità e del buio, della crudeltà e del peccato, dell’ignoranza e della stupidità e, infine, dell’eterno scontro tra le forze positive e negative dell’esistenza. Difficile è, piuttosto, stabilire una precisa iconografia del negativo, tracciarne dei confini netti, dal momento che Italian Newbrow raccoglie una pletora di artisti diversi, ognuno dei quali affronta il problema da una prospettiva particolare.

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Giuspeppe Veneziano

Nella sua reiterata e pendolare oscillazione tra realtà e finzione, la pittura di Giuseppe Veneziano affronta il tema del male sotto il profilo dell’ambiguità e del travestimento. La maschera delle apparenze, come codice comunicativo che adombra la menzogna e la violenza, è un soggetto centrale in molte sue opere, a cominciare dall’inquietante ritratto di Pogo the clown – vero nome John Wayne Gacy –, famigerato pluriomicida, noto per aver intrattenuto i bambini ad alcune feste con un costume e un trucco da pagliaccio. Quest’opera, insieme alla scultura bronzea intitolata David’s Reinassence e al dipinto Electric Joker, si inserisce nella tradizione della coulrofobia, nota come “paura del clown”, che trova un illustre predecessore letterario nel Pennywise di “It”, il capolavoro assoluto di Stephen King che ha reso la figura del clown un simbolo del male assoluto. La sequenza iconografica rappresentata da Pogo the clown, David’s Reinassence e Joker disegna anche una progressiva escalation dal mondo reale (Pogo), a quello ambiguo del mito, in cui si mescolano verità e finzione (il clown decapitato), fino a quello del fumetto e dunque della pura immaginazione (Joker), in cui Veneziano compie innumerevoli incursioni. Lo dimostrano non solo i ritratti di personaggi negativi o politicamente scorretti dei cartoni animati, da Telespalla Bob dei Simpson a Cartman di South Park, da Bender di Futurama a Stewie dei Griffin, ma anche le opere in cui l’artista mette in luce il potenziale lato oscuro di eroi ed eroine da fiaba. In Indignados e La strage degli innocenti, Veneziano usa l’universale iconografia dei cartoon della Disney e della Dreamworks come metafora per descrivere una realtà instabile, violenta e contraddittoria. Una realtà che, in tempi di crisi, estende l’ombra lunga del male anche ai regni della fantasia e dell’immaginazione.

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Massimiliano Pelletti

Attraverso un video, un light box e una serie di sculture racchiuse in piccole teche di plexiglas, Massimiliano Pelletti ricostruisce scene di ordinaria follia, ispirate alla vita quotidiana e a fatti di cronaca. “Contiene parti ingeribili” è il titolo di questa serie di lavori, che allude alle tassative avvertenze contenute nelle istruzioni dei giocattoli per bambini. E infatti, ogni opera è fabbricata manipolando esemplari di Playmobil, attraverso interventi di microscultura che plasmano le espressioni, aggiungono dettagli e ridisegnano il contesto entro cui si svolge l’azione di questi popolari omini di plastica. L’artista usa un linguaggio volutamente pop, che fa leva su meccanismi d’immediata riconoscibilità, per trattare temi assai meno pacificanti, come la morte, la violenza e il cinismo della società contemporanea. Mentre il light box intitolato  P.G.R – Per Grazia Ricevuta si limita a ironizzare sull’iconografia popolare degli ex voto, le sculture Festa della Mamma e Del Maiale non si butta via niente vanno meno per il sottile e affrontano il problema dell’informazione giornalistica, che asseconda il gusto collettivo per le atmosfere morbose e patologiche della cronaca nera. Cinica e spietata come una lucida analisi sociale è invece l’opera Il profumo della vita, dove l’atmosfera mesta e compunta di un funerale è interrotta dal dettaglio triviale di un corteggiamento canino. Ma l’ironia trionfa soprattutto nel video Rapina Funky, realizzato con la tecnica dello stop motion, che ci precipita improvvisamente nell’effervescente clima pulp di una sequenza di Tarantino.

Michael Rotondi, My Kim

Michael Rotondi

Attraverso il suo stile rapido e bozzettistico, che pone l’accento sugli elementi espressivi dell’immagine, Michael Rotondi approccia il tema del male recuperando iconografie del folclore religioso e popolare e figure emblematiche della storia. L’artista concepisce il racconto come una struttura aperta, formata da accumuli e affastellamenti di tele e carte che tracciano una sottile rete di analogie e rimandi all’interno delle sue installazioni. L’elemento negativo, ma anche vitale e catartico, del linguaggio di Rotondi è evidente soprattutto nella furia iconoclasta di My Kim e Con lo smalto nero sulle unghie posso solo urlarti una canzone, memori della lezione dei neoespressionisti tedeschi, mentre le carte sembrano piuttosto dominate da una più quieta vena memoriale. In Kill your idols landscape Rotondi presenta, infatti, due incarnazioni storiche del male (Stalin a Lenin) e un animale simbolo del peccato (la rana rovesciata), desunto direttamente da una celebre tela del Bramantino. Ma il male cui l’artista si riferisce è anche quello biblico della possessione demoniaca, tema del dipinto Vai via!!, ispirato a un antico casellario spagnolo, e, infine, quello metafisico, contro cui si batte il bellicoso San Michele Arcangelo di Autoritratto.

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Vanni Cuoghi

Inventa una nuova cosmogonia, sospesa tra fiaba e mito, Vanni Cuoghi, le cui immaginifiche visioni rinnovano il racconto dell’eterna lotta tra angeli e demoni, introducendo elementi di ambiguità che riguardano sia l’identità di genere dei suoi personaggi, che e le loro accezioni simboliche. Come Henry Darger, il visionario artista autodidatta autore di The Realm of Unreal, Vanni Cuoghi immagina un universo alternativo, dove il primigenio conflitto tra uomini e donne assume connotati epici. Le sue streghe, abbigliate come aristocratiche dame vittoriane, sono, infatti, protagoniste di una guerra senza esclusione di colpi con le forze maschili, spesso incarnate da schiere di demoni e altri esseri ultraterreni. Mescolando pittura, collage e psaligrafia (arte antica del ritaglio di carta), l’artista costruisce affascinanti diorami tridimensionali, racchiusi in preziose scatole di plexiglas. Ogni diorama rappresenta un evento particolare, diciamo pure un episodio dell’immaginifica saga di Cuoghi, in cui le streghe recitano il ruolo delle eroine di una rivoluzione proto-femminista che, metaforicamente, allude a conflitti di ben altra portata. Conflitti che attengono alla sfera immaginifica dell’inconscio individuale e collettivo, dove si allignano figure incerte e simboli ambigui, che rendono opaco e indeterminato il confine ontologico tra il bene e il male.

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Diego Dutto

Diego Dutto trasferisce l’ambiguità sul piano biologico, aprendo una riflessione sulle future (e nemmeno troppo lontane) possibilità d’innesto tra organismi naturali e parti robotiche. Quelle plasmate dall’artista torinese sono, infatti, entità ibride, le quali assimilano forme umane, animali o vegetali e strutture sintetiche che richiamano il nitore di manufatti altamente tecnologici. Pnèymon, ad esempio, è un macabro trofeo, una sorta di cuore meccanomorfo, da cui fuoriescono due canne metalliche, simili ai tubi di scappamento delle automobili. Nonmama è una scultura da giardino che rappresenta un grande fiore biotech, degno de La piccola bottega degli orrori di Roger Corman. Ma Dutto non risparmia nemmeno il mondo animale e, così, ridisegna il guscio delle sue tartarughe fino a farlo somigliare a una corazza da combattimento in kevlar, decorata con preziose finiture cromate. Allucinata, con le sue plastiche forme sintetiche sembra, infine, l’insetto di un cartone animato della Pixar. Il mondo post-umano di Diego Dutto è, dunque, il prodotto di una sensibilità ultracontemporanea, sviluppatasi all’incrocio tra il design, la tecnologia e la computer grafica.

Paolo De Biasi, Ephemeral Painting 5, acrilico su tela, 50x40 cm., 2012

Paolo De Biasi

L’elemento provocatoriamente negativo della pittura di Paolo De Biasi è rappresentato dalle fonti iconografiche, che non riflettono la tendenza autoreferenziale di larga parte dell’arte contemporanea. Per De Biasi le cattive compagnie sono le frequentazioni culturali che hanno formato il suo gusto e la sua sensibilità, maturate per lo più al di fuori dell’ambiente artistico. Le immagini delle riviste degli anni Sessanta, le copertine dei dischi degli Smiths, l’architettura razionalista del secondo Novecento hanno contribuito alla formazione della sua attitudine pop e fondamentalmente anti-concettuale. “La pittura che parla di pittura”, afferma De Biasi, “si riduce a una tautologia o, nella migliore delle ipotesi, a un sistema di specchi opposti, che riflettono la propria immagine distorcendo la realtà, senza creare alcun significato ulteriore”. De Biasi definisce la sua ricerca come una sorta di beta test, cioè la versione provvisoria di un programma, spesso realizzata per saggiare la validità del prodotto prima del suo definitivo lancio sul mercato. Per l’artista pensare la pittura come una fase beta permanente, significa quindi sperimentare la possibilità di ripensare la realtà. Come afferma Gianni Canova, “Il problema del nostro tempo è capire se siamo ancora capaci di pensare a quello che vediamo o se vediamo sempre e solo ciò che già pensiamo”. Opere dalla struttura frammentaria e quasi centrifuga come Code of conduct, Back to the Old House e Doppelgänger incarnano, di fatto, questa possibilità di ricostruzione fenomenologica del mondo, fondata non più gerarchie logiche e spaziali, ma semmai su un nuovo assetto pulsionale, aperto e multicentrico.

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Giuliano Sale

Una pittura viscerale, ma disciplinata da un severo controllo formale, è quella di Giuliano Sale, che declina in immagini equivoche e misteriose le pulsioni più ineffabili dell’essere umano. Con il suo stile fitto di rimandi alle atmosfere del Simbolismo e della Neue Sachlickeit, l’artista è riuscito a sviluppare una personale sigla linguistica, che gli consente di esplorare i meandri dell’inconscio senza rinunciare alla narrazione. La sua indagine si appoggia ai generi tradizionali del paesaggio e del ritratto per dare corpo e solidità a una materia psicologica sfuggente e inafferrabile quanto un incubo narcotico. Sale descrive  un universo metafisico, fatto di crepuscolari arcadie e paesaggi d’ombra, dove balenano spettrali figure e temibili apparizioni. Ma è soprattutto nei ritratti, un singolare repertorio di fisionomie e anatomie anomale, che affiora con evidenza il tema del male. Sale lo affronta illustrando quel connubio tra abiezioni organiche e morali, che è il segno distintivo dei suoi personaggi, ma che, in qualche modo, riecheggia anche nella morfologia allusiva dei suoi paesaggi, costellati di anfratti bui e inquietanti distese d’acqua scura. Quello dipinto da Sale è, dunque, un mondo di rovinosa decadenza, un’immaginifica apoteosi del mal di vivere, dove il vizio e la corruzione che albergano nel cuore degli uomini, riecheggiano nelle lande di una natura afflitta e desolata.

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Silvia Argiolas

L’arte di Sivia Argiolas è la più compiuta espressione del conatus di cui parla Eliette Abécassis, di quel rigurgito espressivo che è, appunto, una forma di metabolica trasformazione e sublimazione della negatività, compiuta attraverso gli strumenti della rappresentazione pittorica. L’artista materializza sulle sue tele una cosmogonia paranoica, di puro delirio e lucida alienazione, in cui le manie e le ossessioni personali vengono sublimate attraverso la mise en scene di imperscrutabili liturgie catartiche. Nella sua folle visione, la dimensione aleatoria della psiche si trasforma in un palcoscenico affollato di autoritratti, dove le più diverse incarnazioni della sua personalità entrano in contatto con le forze primigenie della vita in forma di animali totemici e ombre spettrali. La pittura espressionista di Silvia Argiolas, fatta d’interventi gestuali e accumuli materici, assume la natura come ambientazione, facendone il teatro di una pletora di narrazioni drammatiche. Ma il suo è, piuttosto, un Eden capovolto, un inferno arboreo disseminato di proiezioni lisergiche e presenze ctonie.


[1] Ivan Quaroni, Italian Newbrow, Giancarlo Politi Editore, 2010, Milano.

[2] Jurgis Baltruišaitis, Il medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, 1997, Milano.

[3] Eliette Abécassis, Piccola metafisica dell’omicidio, 2004, Il Nuovo Melangolo, Genova.

[4] Ibidem.

[5] Sheldon B. Kopp, Se incontri il Buddha per strada uccidilo, Astrolabio Ubaldini Editore, 1975, Roma.

Italian Newbrow. Cattive compagnie (Prima parte)

15 Mag

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Nessun artista tollera la realtà”.

(Friederich Nietzsche)

 Newbrow versus Lowbrow. Una definitiva precisazione.

Mi sono chiesto spesso se possa esistere una via italiana, anzi europea, a quel variegato e complesso fenomeno chiamato Lowbrow Art (o Pop Surrealism), tutto giocato sull’orgogliosa rivendicazione di un approccio figurativo, narrativo, ironico e fondamentalmente popolare al problema della rappresentazione. Ho avuto la sensazione, poi avvalorata da molteplici letture ed esperienze di visione diretta delle opere, che quello del Lowbrow è un modo intimamente americano di affrontare il problema, un modo che affonda le radici nel crogiuolo delle sottoculture di quel paese e che non può essere esportato senza dare vita a espressioni derivative o imitative. L’artista europeo può davvero condividere le esperienze maturate nella West Coast Californiana, dal fenomeno delle Hot Rod alla Kustom Kulture, dagli stili di vita del surf e dello skate, fino alla rilevanza sociale del fumetto underground e dell’immaginario psichedelico? Lowbrow è, in fondo, un termine che descrive il coagulo delle esperienze della cultura popolare americana degli ultimi sessant’anni. Dentro c’è di tutto: l’architettura cheap dei rivenditori di hot dog e di donut, le roadhouse e le sale da Bowling affollate, Disneyland e i Monster Movie proiettati nei drive-in, i ristoranti Tiki colmi di paccottiglia hawaiana, i poster lisergici della Summer of Love, la mitologia Beat, il mito dei bolidi truccati e delle gare illegali nelle piane desertificate della California, la fantascienza retro-futurista dei Jetson, il rock and roll e il Be Bop, le bande di teppisti e teddy boy, l’estetica da centauri degli easy rider, il punk e i graffiti, la nostalgia dei vecchi cartoon della Warner Bros, Norman Rockwell e Robert Crumb, i tatuaggi, le pin up, le vecchie insegne dei sideshow, la musica country e l’arte folk, i cowboy e il Ku Klux Klan, le bandiere degli Stati Confederati, la solitudine della provincia e lo spirito di frontiera. L’America, insomma. Nel bene e nel male. Italian Newbrow è tutt’altro. Un fenomeno che affonda le radici nel nostro background e, semmai, in quello della cultura continentale comunitaria e che, in genere, assorbe suggestioni dell’immaginario globale, senza per questo appiattirsi su posizioni di mera derivazione linguistica. L’universo fantastico della Lowbrow Art è, per noi italiani, alla più una curiosità d’oltreoceano, un’eccitante novità pervenutaci attraverso la diffusione planetaria di Juxtapoz, la rivista portabandiera del Movimento, e tramite gli stimoli di certo cinema pulp, così come l’abbiamo vissuto attraverso la visione della filmografia di Quentin Tarantino, di Robert Rodriguez e, naturalmente, di Tim Burton. Qualcosa, insomma, che abbiamo vissuto di rimando, dunque per lo più indirettamente, osservando le capricciose immagini di Robert Williams, Mark Ryden o Gary Baseman in qualche rara mostra italiana oppure, il più delle volte sulle pagine di riviste di largo consumo. Italian Newbrow, dicevo, è tutt’altro. È un fenomeno che cresce e si sviluppa nel tessuto connettivo dell’arte italiana contemporanea, funestata da un pluriennale dibattito tra l’arte colta, di matrice post-concettuale, e l’arte figurativa, tornata ad affermare le necessità del racconto, della rappresentazione e dell’espressione, talvolta (ma solo talvolta) tramite pratiche di saccheggio di quell’immenso serbatoio iconografico che è la cultura di massa. Se esiste un’analogia tra il Pop Surrealismo americano e il Newbrow Italiano è solo sul piano dell’eterna diatriba tra l’arte “alta” delle gallerie “mainstream” e quella “popolare” delle nuove forme di figurazione. Un’ultima analogia consiste forse nell’ampio uso che entrambi gli scenari, quello statunitense e quello italiano, fanno delle fonti iconografiche derivate dal web, nella confidenza che gli artisti della Google Generation hanno sviluppato nei confronti dei tool digitali. Ma si tratta di una questione di portata globale, valida tanto per gli artisti europei, quanto per quelli indiani, cinesi, russi o mediorientali. Le analogie finiscono qui. Ogni altra forma di parentela, filiazione o debito è relegabile all’ambito dell’ispirazione diretta o, peggio, dell’imitazione pedissequa. Italian Newbrow non è mai stata (ne sarà mai) una forma di Italian Pop Surrealism, termine peregrino che qualcuno ha già iniziato a utilizzare.

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Le origini culturali. Il background italiano.

Italian Newbrow è, in larga parte, uno scenario – e non un movimento, come ho più volte ribadito -che si è sviluppato nel contesto artistico italiano, sulla scia di precedenti esperienze critiche, che documentavano l’insorgere di una nuova sensibilità, orientata al recupero della cultura popolare e di massa e alla rivalutazione della pittura e della scultura, per lungo tempo sottovalutate e considerate da una parte del sistema dominante alla stregua di pratiche obsolete, se non addirittura retrive. In tal senso, in Italia, un ruolo molto importante è stato ricoperto dalla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, che ha avuto il merito non solo di riportare la pittura al centro del dibattito artistico, ma anche di riaffermarne con orgoglio la spinta pulsionale e libidica. Durante tutti gli anni Ottanta, nel nostro paese si assiste a una rigogliosa fioritura di gruppi, scuole, movimenti e individui che, lasciandosi definitivamente alle spalle il clima plumbeo del decennio precedente, dominato dai concettualismi e dagli ideologismi barricadieri, riscoprono attraverso la pittura e la scultura il valore della manualità e della Storia. Basti pensare ai Nuovi Nuovi di Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daoglio, agli Anacronisti di Maurizio Calvesi, ai Nuovi Futuristi di Luciano Inga Pin, ma anche, e soprattutto, ad artisti trasversali, spesso inclusi in una generica area espressionista, come Mimmo Germanà, Nino Longobardi, Ernesto Tatafiore, Arcangelo, Marco Del Re e Sabina Mirri. Negli anni Novanta, accanto alle esperienze degli artisti post-concettuali milanesi che ruotano attorno alla figura di Corrado Levi e che in parte confluiscono nella mostra La scena emergente del Museo Pecci di Prato, ci sono i Medialisti capitanati da Gabriele Perretta, L’Officina Milanese di Alessandro Riva, il Nuovo Quadro Contemporaneo di Gianluca Marziani e il tentativo di crossorver tra arte e letteratura Cannibale di Luca Beatrice in Stesso Sangue. Tutte esperienze che precedono la sensibilità indeterminata e inclusiva della cosiddetta Nuova Figurazione, che si presenterà come una sorta di “sensibilità” quanto mai variegata in termini di linguaggio e stile e soprattutto interessata al confronto tra Arte e Nuovi Media e tra Arte e Fumetto, Cinema e Letteratura. Con l’inizio del nuovo millennio, il dialogo dell’arte con la cultura di massa si fa ancora più serrato. Nel 2000 Alessandro Riva inaugura al PAC di Milano la mostra Sui Generis, che insiste sulla ridefinizione dei generi della nuova arte italiana e che include, accanto al ritratto e alla natura morta, la fantascienza, il giallo, l’erotismo, la contaminazione e la moda. Un anno dopo, Gianluca Marziani pubblica Melting Pop (Castelvecchi editore), un libro, seguito da una serie di mostre, che pone l’accento sulla contaminazione e sulla combinazione tra arte e tecnologia e sulla necessità di un approccio creativo trasversale, multidisciplinare e aperto. Parallelamente, prima con la mostra La linea dolce della Nuova Figurazione (2001) e successivamente con Ars in fabula (2006), Maurizio Sciaccaluga documenta il carattere ironico e, allo stesso tempo, languido e trasognato della giovane arte italiana. Sono anni in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche all’attenzione delle riviste di settore e al costante monitoraggio dei premi nazionali e delle grandi rassegne pubbliche. Rassegne che culminano nel 2007 con le mostre Arte Italiana 1968-2007, a cura di Vittorio Sgarbi (Palazzo Reale, Milano), e La Nuova Figurazione Italiana – To Be Continued…, a cura di Chiara Canali (Fabbrica Borroni, Bollate), cui partecipano, peraltro, anche artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Fulvia Mendini, Elena Rapa e Eloisa Gobbo, che poi formeranno il nucleo centrale della nascente sensibilità Newbrow. Proprio in questo brodo di coltura si sviluppano i primi germi del nuovo scenario artistico e, segnatamente, nel ritrovato valore di un’arte eloquente, diretta, capace di raccontare e “suggestionare” il pubblico attraverso immagini immediate e di forte impatto. La tensione comunicativa e l’apertura a una platea più vasta di quella tradizionalmente interessata all’arte, diventano questioni centrali per le generazioni che hanno sperimentato il potenziale mediatico di internet. E in tal senso, il saccheggio da parte degli artisti dell’immaginario di massa gioca un ruolo fondamentale.

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Se ne accorge anche Gianni Canova, che in un articolo su Il Fatto Quotidiano scrive: “Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv e il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paiste digitale (che è poi l’evoluzione del collage cubo-futurista) [1]. Ma non si tratta solo di questo. Oltre alle suggestioni dell’iconografia pop, Italian Newbrow registra anche le ansie e le inquietudini della moderna società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman. L’articolo di Canova associa le atmosfere del film I Soliti Idioti (di Enrico Lando, con Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli) all’estetica newbrow: “Piaccia o no ai suoi arcigni e sgomenti censori”, scrive il critico, “I Soliti Idioti ha gli stessi colori saturi del movimento newbrow e del quadro che assume a emblema del movimento [Alter Ego di Paolo De Biasi]: è un film molto più scuro e invaso da zone d’ombra…”. Con la promessa di un’impossibile catarsi comica, dietro la facciata ridanciana e sboccata del film, striscia il verme del malessere sociale, con il suo inevitabile corredo di tic, manie, ossessioni e disagi. La stessa cosa avviene nelle opere degli artisti newbrow, che spaziando tra differenti registri espressivi documentano il lato oscuro della civiltà contemporanea attraverso il saccheggio dell’immaginario di massa e la rappresentazione, spesso metaforica, dei turbamenti individuali e collettivi del nostro tempo. Così, se Giuseppe Veneziano si avvale di una figurazione semplice e immediata, popolata di personaggi e icone universalmente riconoscibili, per affrontare questioni legate all’ambiguità e all’indeterminatezza della comunicazione visiva, sovente carica d’implicazioni politiche e sociali, Vanni Cuoghi ricorre all’armamentario classico della fiaba e del folclore con l’intento di trasfigurare, in chiave surreale, gli impulsi negativi latenti nell’immaginario fantastico. Analogamente, Massimiliano Pelletti modifica giocattoli di largo consumo per inscenare situazioni disturbanti, in bilico tra quotidianità e cronaca nera, mentre Silvia Argiolas tratta il problema del “male di vivere” costruendo un personalissimo universo parallelo, in cui proietta visioni paranoiche e allucinate che sfiorano il parossismo. Sembrano originati dall’inconscio anche i paesaggi e i ritratti di Giuliano Sale, artista che descrive il turbamento esistenziale con un realismo quasi carnale, non privo di sottintesi allusivi e simbolici. Più freddo è, invece, l’approccio di Paolo De Biasi, che destruttura lo spazio della rappresentazione pittorica, interpretando la realtà come un simultaneo affastellamento di luoghi ed episodi narrativi, i quali ci restituiscono il senso d’urgenza e vitalità dell’esperienza umana. Esperienza che Michael Rotondi affronta da un’angolatura autobiografica, dipingendo immagini che sono l’equivalente di un ipotetico diario visivo, fatto di esperienze, impressioni e tracce che si sovrappongono al “vissuto collettivo” della sua generazione. In ultimo, Diego Dutto opera, con la scultura, sul crinale ambiguo che separa la biologia dalla tecnologia e ipotizza un futuro distopico e post-umano, popolato di organismi meccanicamente modificati.


[1] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», Venerdì 11 novembre.