Archivio | Maggio, 2015

Convergenze parallele. Incisioni di Domenica Regazzoni e Lu Zhiping

28 Mag

di Ivan Quaroni

Ci sono due tipi di verità: le verità semplici,
in cui gli opposti sono chiaramente assurdi, e
le verità profonde, distinguibili dal fatto che
l’opposto è a sua volta una profonda verità.”
(Niels Bohr)

Domenica Regazzoni, Monoprint n.11, 2010, 42x42 cm.
Domenica Regazzoni, Monoprint n.11, 2010, 42×42 cm.

Se pensiamo all’arte contemporanea, alla sua odierna tendenza verso l’ipertrofia e il gigantismo, ci rendiamo conto che uno degli aspetti più bistrattati e sottovalutati riguarda l’uso di tecniche artigianali, cioè di quel patrimonio di conoscenze strumentali che, nel corso dei secoli, hanno guidato la mano degli artisti nella realizzazione di grandi capolavori. Scopriamo, per esempio, che tra queste tecniche artigianali, l’arte incisoria, praticata dai più grandi maestri del passato – come Dürer, Rembrandt, Goya, Utamaro, Hokusai e Hiroshige – soffre oggi di un inedito stato di subalternità, per non dire di minorità, nei confronti di media più persuasivi e spettacolari quali il video, la scultura, l’installazione o l’environment.

Ovviamente, questo non significa che le arti incisorie non siano più praticate, tutt’altro. Piuttosto, chi sceglie di praticare oggi l’incisione in una o più delle sue numerose varianti, dall’acquaforte all’acquatinta, dalla xilografia alla serigrafia, lo fa con il preciso intento di recuperare uno strumento espressivo che richiede particolari competenze tecniche. Il “saper fare”, ossia la qualità artigianale del lavoro è, infatti, un aspetto fondamentale dell’opera di qualsiasi incisore, il quale deve necessariamente dimostrare di dominare non solo l’ambito, alquanto aleatorio, dell’inventiva e della creatività, ma anche quello più specifico dei vari procedimenti di stampa. Ciò che accomuna gli incisori contemporanei è, la coscienza di perpetuare un’arte antica, impermeabile alle lusinghe della moda, e allo stesso tempo la necessità di rinnovarne le premesse tecniche e formali, adeguandola alla sensibilità del nostro tempo.

Lu Zhiping, Archeological Notes - Meteorite, 1998, zinc plate, 37x59 cm.

Lu Zhiping, Archeological Notes – Meteorite, 1998, zinc plate, 37×59 cm.

Si tratta di un complesso lavoro di affinamento che ritroviamo tanto nelle opere dell’italiana Domenica Regazzoni, quanto in quelle del cinese Lu Zhiping, due artisti radicalmente diversi per tecnica e stile, e per di più provenienti da tradizioni culturali antitetiche, ma che, tuttavia, condividono la medesima passione verso la ricerca di un linguaggio personale e unico, sospeso tra passato e presente, e capace di riflettere le urgenze sperimentali della modernità, senza rinnegare i valori formali della tradizione.

Utilizzando una famosa espressione della lingua italiana, presa in prestito dal lessico politico, si potrebbe dire che tra l’arte di Domenica Regazzoni e Lu Zhiping esistano delle possibili “convergenze parallele” proprio nella ricerca, pur condotta da due diversi punti d’osservazione, di un nuovo tipo di bellezza. Una bellezza fondata non più, o non solo, sui valori di armonia ed equilibrio classici e tantomeno sull’accettazione di quelle che Jean Clair definiva le disjecta membra di una realtà caotica e disarticolata. Infatti, entrambi gli artisti – l’uno attraverso il rinnovamento di temi figurativi tradizionali, l’altra tramite un’astrazione di matrice segnica – sviluppano una personale concezione estetica che restituisce dignità e integrità alle forme del frammento oggettuale e del lacerto emozionale. Partendo da presupposti antitetici, Regazzoni e Zhiping pervengono alla medesima intuizione, che consiste nel trovare l’armonia e la perfezione nelle rivelatrici epifanie dell’esperienza quotidiana. Quanto al modo di condurre le rispettive ricerche, le differenze non potrebbero essere più sostanziali.

L’espressione “convergenze parallele” è un ossimoro, una contraddizione in termini, che evidenzia, allo stesso tempo, l’eventualità di una condivisione nell’ambito di esperienze apparentemente inconciliabili. Si tratta, cioè, di una possibilità nell’impossibilità, di un’utopica congiunzione di opposti che è già, nelle sue premesse, espressione di una volontà che trascende le evidenti differenze estetiche e formali e perfino le peculiarità culturali e concettuali di due antinomici modelli interpretativi. Attraverso un centinaio di opere, questa mostra pone le premesse per un inedito dialogo tra le arti incisorie della cultura occidentale e della tradizione orientale e fornisce l’occasione di verificare lo stato di salute di una disciplina secolare, che non ha mai smesso di dare il proprio contributo alla ridefinizione dei linguaggi artistici contemporanei.

Domenica Regazzoni, Monoprint e Collage n. 12, 2010, 28x22 cm.

Domenica Regazzoni, Monoprint e Collage n. 12, 2010, 28×22 cm.

L’arte di Domenica Regazzoni è maturata nel laboratorio di Giorgio Upiglio, lo storico incisore e stampatore milanese celebre anche per aver realizzato le opere grafiche d’importanti artisti italiani e internazionali, tra cui Giorgio De Chirico, Lucio Fontana, Marcel Duchamp, Joan Mirò e Valerio Adami. Sotto il benevolo sguardo di Upiglio, l’artista ha sperimentato le diverse tecniche d’incisione e stampa, ma la sua prima formazione è avvenuta nell’ambito familiare. La passione per il lavoro manuale le deriva, infatti, dal padre, Dante, considerato uno dei massimi esponenti della liuteria italiana del Novecento. Si può dire, perciò, che l’arte di incidere faccia parte, in qualche modo, del patrimonio genetico di Domenica Regazzoni, sebbene la sua ricerca si estenda anche ai campi della pittura e della scultura, lungo una linea d’indagine profondamente influenzata dalle suggestioni musicali.

Musica e arte sono, infatti, due elementi imprescindibili del suo percorso creativo, volto alla costruzione di un personalissimo immaginario visivo, ricco di partiture timbriche e tonali, disseminato di melodiosi accostamenti cromatici e ardite combinazioni armoniche. Il linguaggio aniconico di Domenica Regazzoni si configura, infatti, come la ripresa di un discorso lasciato interrotto dalle avanguardie del Novecento. Un discorso incentrato non solo sulla rottura degli schemi rappresentativi tradizionali e sul conseguente processo di decostruzione dell’immagine, ma anche sulla ricerca di una grammatica in grado di tradurre visivamente concetti e intuizioni che appartengono alla dimensione ineffabile della coscienza. Molti sono, ad esempio, gli elementi che accomunano il lavoro di Regazzoni a quello dei grandi esponenti dell’astrattismo europeo, in particolare a Paul Klee, a cominciare dal profondo interesse per la trasposizione pittorica d’idee e impressioni musicali, fino all’elaborazione di un vocabolario di segni, forme e colori che rivelano la natura insieme lirica e spirituale della sua ricerca.

Eppure, nonostante gli inevitabili riferimenti alla tradizione maggiore delle avanguardie, il lessico pittorico di Domenica Regazzoni è maturato in una condizione di assoluta libertà formale, al di fuori di ogni convenzione accademica e di ogni sistema d’insegnamento codificato. Anzi, è certo, che esso sia il prodotto di un’esperienza singolare, perfino eccentrica, che ha saputo raccogliere influssi e sollecitazioni da diverse fonti, non necessariamente artistiche, facendole poi confluire in un modus operandi stilisticamente variegato e tecnicamente versatile. Tant’è che il linguaggio astratto è, per l’artista, il punto d’arrivo di una graduale evoluzione formale, che è coincisa con un progressivo abbandono degli stilemi figurativi.

Le incisioni qui raccolte, rappresentano, perciò, la fase più matura del suo lavoro, contrassegnata dall’utilizzo del monoprint, una tecnica che prevede la creazione di esemplari unici in contrasto con quella che è considerata la caratteristica tipica delle arti grafiche, ossia la produzione di multipli in edizione limitata. Domenica Regazzoni si avvale dei procedimenti tecnici dell’incisione ma, allo stesso tempo, si sottrae al suo scopo originario, che riguarda appunto la diffusione e divulgazione dell’immagine in più esemplari. In pratica, usa l’incisione come una sorta di cavallo di troia per penetrare nei confini disciplinari della pittura e inventare, così, una tecnica ibrida, ambiguamente sospesa tra l’atto di dipingere una forma e il gesto d’imprimerla con un torchio calcografico.

Domenica Regazzoni, Monoprint n.14, 2010, 43x42 cm.

Domenica Regazzoni, Monoprint n.14, 2010, 43×42 cm.

Tuttavia, la qualità pittorica dei suoi monoprint non dipende solo da questioni di ordine tecnico. Quello di Domenica Regazzoni è, infatti, un modo di operare che somiglia a un percorso di scoperta, a un itinerario erratico e felice, nei meandri nella creatività. Per questo non parte mai da un’immagine precostituita, ma preferisce, piuttosto, che le forme affiorino spontaneamente dall’esplorazione delle ombre e delle luci della propria interiorità, là dove alberga l’essenza più profonda e autentica dell’individuo. Cosi, trame segniche e campiture cromatiche, frammenti tessili e grumi di materia si saldano in una sequenza di delicati schemi astratti, in una teoria di aniconici diagrammi elegiaci che, insieme, formano una compiuta e partecipe trascrizione di stati d’animo.

Lu Zhiping, Vase or Not II, 2007, silkscrren print, 51x65 cm.

Lu Zhiping, Vase or Not II, 2007, silkscrren print, 51×65 cm.

Lu Zhiping è uno dei più importanti artisti cinesi nel campo dell’incisione, membro della Council Chinese Printmakers Association, dello Standing Council of Shanghai Artists e direttore della Printmaker Committee of Shanghai Artists Association. Inoltre, insegna allo Shanghai Oil Painting Institute e dirige il Peninsula Printmaking Studio, combinando la produzione artistica con un’intensa attività di divulgazione delle tecniche incisorie. Da qualche tempo, Zhiping è impegnato in una fertile rilettura dei temi iconografici della tradizione cinese, da cui prende spunto per formulare un linguaggio artistico personale, fitto di riferimenti storici e nuove soluzioni formali. La sua tecnica serigrafica è, infatti, il risultato di un’interessante commistione di forme artistiche, che vanno dall’incisione al collage, all’utilizzo del computer, e che gli consentono di raggiungere un’inedita libertà formale e compositiva.

Lu Zhiping, Peace All Year, 2009, silkscrren print, 14x21 cm.

Lu Zhiping, Peace All Year, 2009, silkscrren print, 14×21 cm.

La sua principale fonte d’ispirazione sono i vasi di porcellana, una delle più longeve discipline artistiche, divenuta un vero e proprio simbolo dell’arte cinese. Le porcellane, con i loro preziosi motivi decorativi che permettono di distinguere le produzioni artistiche delle diverse epoche storiche, rappresentano la più compiuta espressione degli ideali di bellezza e armonia della tradizione imperiale cinese. La maggior parte dei musei cinesi possiede, infatti, una collezione di porcellane composta di esemplari perfettamente conservati, di pezzi restaurati oppure di semplici frammenti, così come la maggior parte dei musei archeologici europei possiede una collezione di vasi greci e romani. Le porcellane cinesi, però, incarnano anche gli ideali di quiete e serenità propagandati dalla filosofia taoista e dal pensiero confuciano. Ed è soprattutto a questi valori che Zhiping s’ispira con le sue delicate ed eleganti serigrafie.

Il suo modus operandi è per certi versi simile a quello utilizzato dagli archeologi per restaurare antichi vasi danneggiati dal tempo. Per l’artista di Shanghai, quegli esemplari sono il frutto di una collaborazione ideale tra i grandi maestri del passato e i moderni artigiani, rappresentano cioè un ponte creativo che, attraverso un processo di decostruzione e ricostruzione delle forme, collega la tradizione storica alla cultura contemporanea. Lo stesso fa Zhiping, selezionando vecchie immagini di vasi di porcellana che taglia in tanti pezzi e ricompone per creare un’immagine inedita, che poi diventa il soggetto di una delle sue serigrafie.

Lu Zhiping, Vase or Not, 2007, silkscrren print, 84x65 cm.

Lu Zhiping, Vase or Not, 2007, silkscrren print, 84×65 cm.

Il rapporto di Zhiping con la tradizione artistica non si limita a questo cut up di forme classiche, ma si spinge fino al recupero delle cromie tipiche della pittura a inchiostro, che prevede la creazione di un’incredibile varietà tonale di neri, grigi e bianchi. Una caratteristica evidente del suo lavoro è, infatti, l’impiego di una palette prevalentemente monocromatica, nelle varianti del grigio, del nero e del blu. Sono colori dall’intensità moderata, che riconducono a sensazioni serenità e di quiete. Lo scopo di queste immagini, che talvolta includono anche elementi paesaggistici o architettonici, è di favorire la concentrazione e la contemplazione dell’osservatore, distogliendolo dagli affanni della vita quotidiana. Quelle di Zhiping sono, quindi, opere estetiche che assumono anche una funzione etica e spirituale. Di fatto, si possono considerare come dei dispositivi per la meditazione, che possono aprire le porte a una diversa e più equilibrata percezione della realtà.

Lu Zhiping, China Neighbor 2008, silkscrren print, 67x92 cm.

Lu Zhiping, China Neighbor 2008, silkscrren print, 67×92 cm.

Osservare i suoi vasi, pieni di un’ineffabile grazia, così come contemplare i suoi paesaggi silenti, cristallizzati in un’immobile quiete, significa entrare in contatto con una dimensione d’interiore stabilità, ritrovare quel centro di gravità permanente che ci permette di affrontare diversamente, e forse più saggiamente, gli squilibri della società contemporanea. A ben vedere, nonostante le evidenti differenze stilistiche, le ricerche di Domenica Regazzoni e Lu Zhiping convergono almeno in questo, ossia nella comune considerazione che l’arte non sia solo l’espressione di una serie di principi estetici e di felici intuizioni formali, che non riguardi solo la visione parziale e limitata di una singola personalità, ma che, invece, possa servire uno scopo più alto. Quello, cioè, di permettere all’artista, e a tutti quelli che si avvicinano alla sua opera, di esplorare quella misteriosa sorgente d’invenzioni e quell’inesauribile fonte di saggezza che è lo spirito umano e ricordarsi, così, che il godimento delle immagini è un’esperienza che inizia negli occhi, ma si conclude nell’anima.


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Domenica Regazzoni (Valsassina, 1953). Inizia a dipingere nei primi Anni Settanta, frequentando i corsi dell’Accademia di Brera. Abbandona poi la pittura figurativa per un’impostazione più astratta e informale, esponendo in gallerie giapponesi di Tokyo e Kyoto e in sedi prestigiose italiane quali la Fondazione Stelline di Milano , il Complesso del Vittoriano di Roma e Palazzo Vecchio di Firenze . Nell’ultimo decennio si avvicina alla scultura e alla grafica, collaborando a lungo con lo storico laboratorio di Giorgio Upiglio . Nel 2012 inizia il suo sodalizio con le istituzioni culturali governative di Shanghai, esponendo all’ Italian Shanghai Center (ex Padiglione Italia EXPO 2010) e alla Tongji University, sede della facoltà di architettura. Ha partecipato alla 54esima edizione della Biennale di Venezia e alla seconda Triennale delle arti visive di Roma.

Lu Zhiping (Shanghai, 1947). È uno dei più importanti artisti cinesi nel campo dell’incisione. Membro della Council Chinise Printmakers Association, direttore del Printmaker Committee of Shanghai Artists Association, membro dello Standing Council of Shanghai Artists. E’ tra gli ideatori e organizzatori della biennale Shanghai International Print Exhibition. È docente allo Shanghai Oil Painting and Sculpture Institute e direttore artistico del Peninsula Printmaking Studio di Shanghai. Ha tenuto mostre personali in diverse città della Cina, in Giappone e negli USA ottenendo premi e riconoscimenti.


Info:

Milano, Palazzo della Permanente
Via Turati, 34
DOMENICA REGAZZONI | LU ZHIPING
CONVERGENZE PARALLELE
A cura di Ivan Quaroni
4 – 28 giugno 2015
Orari: da lunedì a venerdì 10.00 -13.00; 14.30 -18.30; sabato a domenica 16.00-20.00
Ingresso libero
info: www.regazzoni.net

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La famosa invasione degli artisti a Milano

21 Mag

La città dei miracoli

(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.

Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm

Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.

Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106x150 cm

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm

Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.

Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.

Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100x90 cm

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm

Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.

Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.

Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.

Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.

A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.

In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.

Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.


[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.

[2] Ivi, p. 109.


INFO:

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Annalisa Fulvi. Architetture in transito

11 Mag

di Ivan Quaroni

Vous savez, c’est la vie qui a raison, l’architecte qui a tort.

(Le Corbusier)

Credimi, quella era un’età felice, prima dei giorni

degli architetti, prima dei giorni dei costruttori.

(Lucio Anneo Seneca)

Aria di Expo 2, acrilico su tela, 69x95 cm., 2015

Aria di Expo 2, acrilico su tela, 69×95 cm., 2015

La città come teatro delle trasformazioni culturali e sociali è un tema iconografico ricorrente fin dalla fine del diciannovesimo secolo. Prima le visioni dinamiche dei futuristi, poi gli squarci silenti delle periferie di Sironi hanno trasformato il landscape urbano in un vero e proprio genere. In particolare tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, la pittura figurativa si è spesso cimentata con soggetti metropolitani.

Sulla scia delle teorie dell’etnoantropologo francese Marc Augé, molti artisti hanno sviluppato il tema dei non-luoghi, dedicandosi da un lato alla rappresentazione di spazi abbandonati, dall’altro a quella di luoghi di passaggio, caratterizzati da una riduzione ai minimi termini della socialità. Fabbriche in disuso, vecchi gasometri, scheletri di archeologia industriale, ma anche aeroporti, centri commerciali, ipermercati, autostrade sono entrati stabilmente nell’immaginario della nuova figurazione italiana, documentando la transizione tra una società di tipo industriale e una basata essenzialmente sullo sviluppo del terziario avanzato.

Spazi retrostanti, tecnica mista su lino, 100x120 cm, 2013

Spazi retrostanti, tecnica mista su lino, 100×120 cm, 2013

In anni più recenti, il sociologo Zygmunt Bauman ha messo in discussione la vita quotidiana delle persone nelle grandi aree metropolitane. Nel saggio intitolato Fiducia e paura nella città, Bauman ha documentato come la metropoli, un tempo luogo di sviluppo e promozione sociale, ma anche di sicurezza, sia diventata un ricettacolo di problemi difficilmente risolvibili, che generano un senso di frustrazione e insicurezza. Le città postmoderne sono diventate oggetto di un fenomeno inverso di abbandono, dovuto non solo alle proibitive condizioni materiali ed economiche, ma anche al senso di precarietà e paura, due elementi chiave della teoria di Bauman sulla modernità liquida. Il tema centrale del pensiero del sociologo, è però l’effetto sugli individui provocato dai rapidi cambiamenti della società dei consumi. Rapidi cambiamenti che riguardano anche l’assetto urbanistico, attraverso l’insorgere di cantieri edili che riecheggiano nel panorama visivo di milioni di cittadini, diventando il simbolo della precarietà esistenziale teorizzata dal sociologo polacco.

Aria di Expo, acrilico su tela, 100x130 cm., 2015

Aria di Expo, acrilico su tela, 100×130 cm., 2015

La ricerca di Annalisa Fulvi è incentrata sull’analisi delle trasformazioni del territorio (non solo urbano, ma anche naturale) attraverso la rilevazione di spazi e ambienti in continua metamorfosi. L’artista non documenta soltanto i cambiamenti tangibili del paesaggio, ma anche quelli virtualmente possibili, includendo nel campo della rappresentazione pittorica anche i potenziali sviluppi dell’architettura e delle forme naturali. Fulvi parte dall’osservazione della realtà, e in particolare dall’analisi delle strutture culturali che la definiscono, per costruire una pittura ambiguamente sospesa tra astrazione e figurazione. Una pittura affastellata, in cui si sommano elementi realistici e pattern geometrici, fughe prospettiche e icone segnaletiche. Proprio da Zygmunt Bauman, l’artista ha mutuato l’idea di una società liquida, insieme mobile e instabile, dove la provvisorietà del tessuto urbano diventa il riflesso, e insieme il sintomo, della incertezza psicologica ed esistenziale.

Piovono s t r n z, acrilico su tela, 145x195 cm, 2014

Piovono s t r n z, acrilico su tela, 145×195 cm, 2014

La sua è una pittura che individua nell’indeterminatezza e nella contraddizione i segni caratteristici della realtà contemporanea, restituendoci la visione di uno spazio incompiuto, prospetticamente ambiguo, basato sulla caotica giustapposizione e interferenza di strutture temporanee come impalcature, segnali, tralicci, elementi che evidenziano la natura aleatoria e impermanente del tessuto urbano. “Il concetto che m’interessa sottolineare”, ha spiegato più volte l’artista, “è quello della mutazione delle strutture, in contrapposizione alla solidità della natura”. Mentre il paesaggio naturale trasmette, infatti, un’impressione di stabilità, quello antropico è soggetto a forti pressioni dinamiche che ne ridisegnano l’aspetto, rendendolo, via via, più congestionato e inospitale. Di conseguenza, le trasformazioni ambientali inducono l’osservatore a riflettere sui comportamenti individuali che, spesso inconsapevolmente, hanno causato tali squilibri.

Ironica osservazione, acrilico su tela, 69x95 cm, 2013

Ironica osservazione, acrilico su tela, 69×95 cm, 2013

Aldilà dei risvolti sociologici, l’indagine di Annalisa Fulvi è innanzitutto volta alla definizione di una grammatica pittorica capace di riflettere le tendenze centrifughe dei nuovi modelli di rappresentazione. Assimilabile, per certi versi, alle ricerche di artisti provenienti dalla Nuova Scuola di Lipsia – uno su tutti, David Schnell – la pittura dell’artista italiana è caratterizzata da un approccio figurativo anti-classico, in cui la cultura di progetto si fonde con memorie di matrice cubo-futurista e con riferimenti alla cultura pop. Le sue architetture provvisorie, così come i suoi scorci di paesaggio, sono costruiti attraverso la sovrapposizione dei piani prospettici, il decentramento e la moltiplicazione dei punti di vista e la coesistenza di tecniche e perfino di linguaggi antitetici.

Il paesaggio del passato nel presente e nel futuro, acrilico su tela, 69x95 cm, 2013

Il paesaggio del passato nel presente e nel futuro, acrilico su tela, 69×95 cm, 2013

L’artista non solo mescola dettagli realistici e campiture astratte, ma opera sulla superficie della tela stratificando interventi pittorici e serigrafici, creando, così, un’originale alternanza di elementi caldi e freddi, di apporti grafici e gestuali che alterano la continuità spazio-temporale della rappresentazione. Si può che la pittura ibrida di Annalisa Fulvi sia debitrice tanto nei confronti del collage tradizionale, quanto della moderna pratica del cut & paste digitale, perché in essa la logica combinatoria dell’assemblaggio si fonde con la tendenza a utilizzare fonti iconografiche disparate. Insomma, l’artista, nonostante l’ironico e affettuoso tributo al De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti – il trattato rinascimentale che si proponeva di attualizzare le norme architettoniche vitruviane – è ben lontana dall’adottare la visione unitaria (e unificante) della tradizione classica. La sua pittura è piuttosto la conferma dell’affermarsi di una nuova visione, aperta, ma anche frammentaria della realtà, che ammette la coesistenza simultanea di una pluralità di punti di vista e che concepisce la rappresentazione come una sommatoria d’immagini e segni contradditori.

Sintesi di una collina 1, tecnica mista su carta, 35x50 cm

Sintesi di una collina 1, tecnica mista su carta, 35×50 cm

A questo principio d’indeterminazione pittorica, a questa intrinseca ambiguità stilistica, fa capo l’insistito contrasto tra le linee razionali dell’architettura e le trame testurali, entrambe portatrici di un’idea tradizionale di ordine ed equilibrio, e la presenza di segni essenziali, campiture informi e tracce incompiute che, invece, testimoniano la natura caotica e destabilizzante delle esperienze percettive contemporanee. “Ogni mia opera”, racconta lei, “è la messa in scena di una prospettiva effimera che ci porta a interpretare il nostro tempo indagandolo e cercando di comprenderne i meccanismi, le novità, e le contraddizioni”.

Artista cosmopolita, già vincitrice di premi nazionali e di residenze all’estero (in Islanda, Turchia e Francia), Annalisa Fulvi sembra aver intuito il fondamentale paradosso della cultura occidentale, basato sul contrasto tra l’impulso espansivo dell’homo faber e la necessità di ripensare un nuovo rapporto etico con le forze della natura e, così, ha trasferito questa polarità in un linguaggio dal sicuro impatto visivo, capace di catturare l’attenzione dell’osservatore e, allo stesso tempo, di condurlo a riflettere sui problemi e le urgenze di un modello di sviluppo che appare ormai insostenibile. A una giovane artista, già in possesso di un linguaggio maturo, in linea con i recenti sviluppi della pittura internazionale, non si può chiedere di più.

Aria di Expo, acrilico su tela, 100x130 cm., 2015

Aria di Expo, acrilico su tela, 100×130 cm., 2015


Info:

Annalisa Fulvi. De Re Aedificatoria

a cura di Ivan Quaroni

Riva Artecontemporanea, Via Umberto 32, Lecce

Tel. +39 3337854068

e.mail: danilo@rivaartecontemporanea.it

Opening: sabato 16 maggio 2015

Durata: 17 maggio – 18 luglio 2015


Puzzle City, acrilico su tela, 32x35 cm.

Puzzle City, acrilico su tela, 32×35 cm.

Le stanze misteriose di Vanni Cuoghi

7 Mag

 di Ivan Quaroni

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

ITALIAN TEXT (ENGLISH TEXT BELOW)

I Monolocali di Vanni Cuoghi rappresentano l’esito finale di un lungo percorso di affinamento tecnico e linguistico durato oltre dieci anni e, insieme, il sintomo di un ritorno alle origini o meglio di un recupero di abilità, intuizioni e capacità di visione che appartengono al suo più antico background culturale. Sono il frutto di una grammatica costruita attorno alla fusione di diverse pratiche, dalla pittura al collage, dal disegno alla scenografia, fino al paper cutting, cioè all’arte di intagliare figure in fogli di carta per farne delle opere d’arte. Di fatto, i Monolocali sono dipinti, in tutto e per tutto simili a quelli su tela, sebbene abbiano la forma di oggetti tridimensionali in cui lo spazio illusorio e quello reale e fisico scivolano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Si possono definire diorami, perché la logica compositiva è quella dei plastici tridimensionali e delle maquette che appassionano i modellisti.

Diorama è un termine francese che deriva dal greco διά (attraverso) e ὅραμα (veduta). Indica, cioè, un oggetto attraverso il quale si possono vedere delle cose. Non stupisce che la sua diffusione e il suo successo nel diciannovesimo secolo siano attribuiti, tra gli altri, a Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, pittore e decoratore teatrale che nel 1837 inventò un metodo per fissare le immagini riprese con la camera oscura su un supporto sensibile in rame o argento (i famosi daghrrotipi). Solo un uomo di teatro, avvezzo alla costruzione di complessi allestimenti scenici, poteva inventare qualcosa di simile ai moderni modelli architettonici.

Nei Monolocali di Vanni Cuoghi c’è la memoria dei suoi trascorsi da scenografo, unita, però, a una matura comprensione dei meccanismi inventivi della pittura. A prevalere in queste opere, infatti, non è tanto la dimensione progettuale del diorama, che semmai sussiste nella scelta di una cornice convenzionale, di uno spazio scenico standardizzato equivalente alle dimensioni di un foglio A4 entro cui si svolge l’azione ma, piuttosto, la logica imprendibile della giustapposizione giocosa, dell’intuizione fulminea, dell’errore fecondo.

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

Gli elementi che compongono queste scatole prospettiche, questi teatrini misteriosi ed enigmatici, sono, infatti, come le tessere di un puzzle ancora da definire. Personaggi, oggetti, complementi d’arredo, carte da parati, piastrelle, decori sono spesso realizzati in anticipo. Costituiscono, cioè, i frammenti di un collage di là da venire, di un’immagine ancora da costruire. Alcuni saranno usati, altri saranno scartati, altri ancora finiranno in un’opera successiva. Non c’è una regola, un copione prestabilito nell’assemblaggio di queste tessere, ma solo un’idea, un’intuizione, insomma un indirizzo che può mutare nel corso dell’opera. Come nell’atto del dipingere, ciò che conta è il percorso, quel labirintico susseguirsi di prove, errori e ripensamenti che portano, inevitabilmente, a soluzioni impreviste e risultati inaspettati.

Ovviamente in quest’attitudine, che prende la forma di un vero e proprio modus operandi, giocano un ruolo fondamentale la gioia e lo stupore della scoperta, caratteristiche tipiche della ricerca di Cuoghi. Se queste stanze sono piene di eventi sorprendenti, di storie al limite del credibile, sempre in bilico tra una fantasia scatenata e una verosimiglianza ossessiva, è perché l’artista stesso si apre alla conoscenza di un mistero più sottile proprio attraverso l’adozione di una procedura non codificata. Vanni Cuoghi non progetta mai la forma finale di un’opera, nel senso che non prevede i dettagli, ma guida il processo verso l’espressione di una sensazione o di un’atmosfera impalpabile.

Molti dei suoi Monolocali contengono riferimenti biografici, tracce di vissuto che la memoria sembra riattivare alla presenza di un profumo, di una luce, di un colore, di un suono. In un certo senso, le capricciose narrazioni dell’artista formano una sorta di diario intimo e sinestetico delle sue peregrinazioni. Genovese di nascita e milanese d’adozione, Cuoghi ha vissuto gli anni da studente nel capoluogo meneghino, abitando una pletora di appartamenti molto piccoli. Il monolocale o, se preferite, la stanza, è diventata per lui, come per molti studenti, la metafora di una condizione esistenziale e, insieme, il simbolo di un certo tipo di formazione. Gli ambienti ristretti, i compromessi della convivenza e della condivisione, le inevitabili economie di una vita libera, ma pur sempre confinata in un perimetro definito, hanno contribuito ad acuire la sua percezione dell’unità abitativa come spazio funzionale e, allo stesso tempo, autonomo.

Bilocale 2 (Chernobyl's animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50x70

Bilocale 2 (Chernobyl’s animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50×70

La stanza, esattamente come il palcoscenico, è una scatola prospettica in cui convergono illusione e realtà, è un teatro di accadimenti che vanta una lunga tradizione tanto nella letteratura, quanto nella pittura e nel cinema, dai Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe alla Stanza di Arles di Van Gogh, fino alla Redrum di Shining e alla stanza rossa di Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adotta questa convenzione iconografica, trasformandola in un formato, in una misura che delimita e circoscrive le classiche unità di luogo, tempo e azione. I suoi Monolocali sono tutti, tranne qualche rara eccezione, rettangoli orizzontali di 21×30 centimetri che l’occhio dell’osservatore riconosce, inconsciamente, come una grandezza familiare, dato che è quella delle risme di carta che acquistiamo per le nostre stampanti domestiche.

La natura delle invenzioni dell’artista, in questo caso, è piuttosto affine al genere letterario degli enigmi della camera chiusa[1], e soprattutto a certe misteriose visioni di René Magritte (L’assassin menacé, 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964) dominate da un’atmosfera di sinistra attesa e d’ipnotica inquietudine.

Mentre da un lato i Monolocali rappresentano una sfida formale sul piano compositivo e, insieme, un tentativo di tradurre nel linguaggio visivo memorie e sensazioni personali, dall’altro essi approdano a una dimensione surreale che ha più a che fare con l’esplorazione dei meandri del subcosciente. È vero, infatti, che l’artista trae spesso spunto dalla storia dell’arte o dall’immaginario della cultura popolare, ma è altrettanto chiaro che il risultato finale corrisponde alla formulazione di una personalissima sigla pittorica, di uno stile coerente e originale dove il significato eventuale delle immagini retrocede, per lasciare campo a una moltitudine di letture e interpretazioni.

Certo, è possibile rintracciare, qua e là, una serie di rimandi, discretamente disseminati tra le pareti delle sue camere chiuse come, ad esempio, negli unici due Monolocali dipinti su tela, che simulano le profondità e le ombre dei suoi diorami con una tecnica da perfetto illusionista. Mentre nel primo, intitolato Monolocale n. 17 (tinto), compare un evidente riferimento alla tradizione degli azulejos, le celebri piastrelle in ceramica smaltata che ornavano i palazzi nobiliari di Spagna e Portogallo, nel secondo, intitolato Monolocale n. 19 (le ciliegie), gli indizi del personaggio che spia la coppia attraverso una porta socchiusa e il quadro con una natura morta di ciliegie appeso alla parete, alludono a due celebri dipinti di Giulio Romano e di Giovanna Garzoni.

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21×30

Nel diorama Monolocale n. 14 (tonnata), invece, la donna alla fune è ispirata a una sequenza del video Orient di Markus Shinwald, l’artista che ha rappresentato l’Austria alla 54° Biennale di Venezia, mentre l’interno di Monolocale n. 18 (la lettera) è rubato a una scena del film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) di Roy Andersson, così come la protagonista in primo piano cita, evidentemente, La lettera d’amore di Jan Vermeer (1669-1670).

Aldilà dei riferimenti abilmente occultati nella trama di queste scatole del mistero, ciò che conta è, piuttosto, l’impiego di sorprendenti soluzioni grafiche e compositive. La più ricorrente è l’incursione di un elemento sinistro, di un’entità informe che frantuma muri e pavimenti delle stanze, minacciando la quiete di questi interni borghesi. È come una sorta di apocalittico deus ex machina, un intervento esterno e imprevedibile che assume, di volta in volta, sembianze diverse. È un famelico organismo tentacolare nei Monolocali n. 2 e n. 3 e in Bilocale n. 1 (MM1 Pasteur); una nera sostanza fluida in Monolocale n. 10; una colossale trave di legno precipitata dal soffitto in Monolocale n. 18; un fiotto sanguigno che squarcia il parquet di Monolocale n. 13 (barbecue). In questi, come in altri casi, l’evento non ha un carattere necessariamente negativo. Semplicemente, si tratta di una trasposizione visiva del modo in cui a volte i ricordi e le sensazioni irrompono violentemente nella nostra coscienza. Come in Monolocale n. 11 (odor di basilico), dove l’evento scatenante è la memoria olfattiva del basilico di Prà appena colto, o in Monolocale n. 12 (l’astice), in cui è il sapore, questa volta immaginato attraverso il racconto di alcuni amici, di un noto crostaceo del Maine. A ben vedere, Cuoghi adombra il racconto a puntate della propria biografia di gourmet e di voyeur sotto le mentite spoglie di una crime story o di un weird tale, costruisce un mistero fittizio per celebrare i fasti dell’esperienza e dell’immaginazione. Così, finisce per somigliare a quei grandi artisti visionari che seppero raccontare la vita nelle forme traslate della metafora e dell’analogia. Forse perché, come diceva Jorge Luis Borges, “il reale è quello che vede la maggioranza”.

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21x30

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21×30


English Text

Vanni Cuoghi’s Studio Flats represent the ultimate result of a long technical and linguistic refining path, that took over ten years, together with a symptom of a throwback to the roots , or better, a retrieval of skills and intuitions and visions belonging to his most ancient cultural background. They are the outcome of a grammar built around the fusion of different practices , from painting to collage, from drawing to scenography, to paper cutting, the art of cutting shapes and figures into paper sheets to make a piece of art out of them. The Studio Flats are in fact paintings, very similar to the ones on canvas, even if they are shaped as tri-dimensional objects where illusory and real space seamlessly melt one into another. They can be defined s dioramas, because the composing logic is the one of tri-dimensional scale models and maquettes loved by the collectors.

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello  acrilico su carta, cm 50 x70

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello acrilico su carta, cm 50 x70

Diorama is a French word originated by Greek διά (through) and ὅραμα (view). It stands for a see-through +object. It is not surprising that its diffusion and success are ascribed, among others, to Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, theatre painter and decorator who, in1837 invented a method to fix images captured by the darkroom on a sensitive copper or silver stand (famous daguerreotypes). Only a man of theatre, accustomed to building complex scenes on stage, could invent something so similar to modern architectural models.

Inside Cuoghi’s Studio Flats, lies the memory of his past as a set designer, yet joined by a mature comprehension of the inventive mechanisms of painting. What is most prevalent in these artworks, in effect, is the uncatchable logic of playful juxtaposition, of striking intuition and fruitful mistake.

The elements that form these prospect boxes , these mysterious and enigmatic tiny theatres, are indeed just as the cards of a still to be defined jigsaw. Characters, objects, pieces of furniture, wallpapers, tiles and decorations are often made in advance. They are the fragments of a collage yet to come. Some of them will be used, others will be set aside and some more will end up in a following artwork. There is no rule or script in the making of these works, there is just an idea, some kind of destination that can change while progressing. As in the act of painting, what is most important is the path, that labyrinthine sequence of attempts, mistakes and second thoughts, necessarily leading to unexpected sudden results.

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35x50

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35×50

Joy, astonishment and discovery, clearly play a main role in this attitude, becoming a true modus operandi of Cuoghi’s research. These rooms are so full of surprising events, of almost unbelievable stories, always balancing between crazy fantasy and obsessive plausibility, because the artist himself opens up to the knowledge of a more subtle mystery right through an uncodified procedure. Vanni Cuoghi never plans the final shape of an artwork, he does not foresee the details, but he drives the process to expressing a sense or a weightless atmosphere.

Many of his Studio Flats include autobiographical references, traces of a life that memory seems to re-activate thanks to a scent, a light, a colour, a sound. In a certain way, the artist’s whimsical narrations form a sort of intimate and synaesthetic journal of his own peregrinations. Born in Genoa and adopted by Milan, Cuoghi lived his student years in the Lombard main city, living in a multitude of tiny flats. The studio flat, or if you prefer , the room, became to him as to many other students, the metaphor of an existential condition together and the symbol of a certain type of education. The narrow locations, the compromises of cohabiting and sharing, the unavoidable frugality of a free yet confined life, all contributed to sharpen his perception of the living unit as a functional yet independent space. The room, just as the stage, is a prospect box where reality and illusion converge; it is a theatre of events that boasts a long literary tradition, as well as cinema and painting, from The murders in the Rue Morgue by Edgar Allan Poe, to The room in Arles by Van Gogh, until the Redrum in Shining, and the red room in Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adopts this iconographic agreement and he transforms it into a measurement that limits and contains the ordinary units of time, place and action. All of his Studio Flats, few exceptions made, are rectangles of 21×30 cm, which the eye can unconsciously recognize as a familiar size, because it is just like the one of the paper we get for our home printers.

In this case, the nature of the artist’s invention, is quite similar to the literary genre of the locked room mysteries¹, and especially close to some baffling visions by René Magritte (L’assassin menacé 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964), all dominated by an atmosphere of sinister wait and hypnotic anxiety.

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

While on a side, the Studio Flats represent a formal challenge on the compositional level together with an attempt to translate personal memories and sensations into visual language, they end up to a surreal dimension that has more to do with exploring the twists and turns of the subconscious. Sure enough the artist often draws inspiration from the history of art and from the imagery of popular culture, though it is clear that the final results is the formulation of an extra personal painting signature, of a congruent original style where the possible meaning of images moves back, to allow multiple readings and interpretations.

It is surely possible to retrace here and there, a series of refrains, discretely scattered on the walls of his locked rooms as, for example, in the only two Studio Flats painted on canvas, which simulate the depth and shades of his dioramas using a technique of a true mesmerizer. While in the first, called Studio Flat n.17 (tinted), lies an obvious reference to the azulejos tradition, the famous glazed ceramic tiles which decorated aristocratic palaces in Spain and Portugal, in the second, called Studio Flat n.19 (cherries), the hints of the character spying the couple behind an half shut door and the painting of a still life with cherries hanging on the wall, suggest two well-known paintings by Giulio Romano and Giovanna Garzoni.

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

In the diorama Studio Flat n.14 (tuna sauce), the woman at the rope is inspired by a sequence of the video Orient, by Markus Shinwald, the artist which represented Austria at 54th Venice Biennale, while the interiors of Studio Flat n. 18 (the letter), are stolen by a scene from the movie En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (2014) by Roy Andersson, just as the protagonist in the foreground obviously quotes, The love letter by Jan Vermeer (1669-1670). What really counts, beyond all the references, smartly hided in the weave of these mystery boxes, is the use of surprising graphic and arranging solutions. The most frequent one is the foray of a sinister element, a shapeless entity which the rooms’ walls and floors, threatening the quiet of these middle-class interiors. Some kind of apocalyptic deus ex machina, a foreign and sudden intervention that achieves different shapes, from time to time.

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21x30

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21×30

A ravenous pronged organism in Studio Flats n.2 and n.3 and in Two-room flat (MM1 Pasteur); a black fluid material in Studio Flat n.10; a huge wooden beam falling from the ceiling in Studio Flat n.18; a gush of blood that lacerates the wood flooring in Studio Flat n. 13 (barbecue).In these as in other cases, the event is not necessarily negative. It simply is a visual transposition of the way memories and sensations sometimes violently burst into our conscience. As for Studio Flat n. 11 (scent of basil), where the trigger event is the olfactory memory of freshly picked Prà basil, or for Studio Flat n.12 (the lobster), where it is the taste, imagined through the tale of some friends, of a famous crustaceous from Maine. At second glance , Cuoghi hides the tale by episodes of his biography as a gourmet and a voyeur, under the false pretences of a crime story or of a weird tale, he builds a fake mystery to celebrate the glories of the experience and imagination. So, he ends up looking like those great visionary artists who were able to tell life in the shifted shapes of metaphor and analogy. Perhaps that is because, as used to say Jorge Luis Borges, “the truth is what most people see”.


[1] Mario Gerosa, Viaggio intorno alla mia camera chiusa a chiave, in Le camere del delitto, Selis Editions, 1991, Milano.

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30


Info:

VANNI CUOGHI, Monolocali: tutte le mattine del mondo.
a cura di Ivan Quaroni
GALLERIA AREA B, Via Marco D’Oggiono n 10 Milano
OPENING: 14 maggio h 18.30
dal 14 maggio al 23 luglio 2015/ 14 May – 23 July 2015
Lunedì/monday h. 15.00 -18.00, martedì-sabato/Tuesday-Saturday h. 10.00-13.00 15.00-18.00
t 02 89059535     m info@areab.org http://www.areab.org