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Getulio Alviani. Arte per pensare

28 Nov

di Ivan Quaroni

“Il nostro cervello è potenzialmente ricchissimo, ma se non lo si usa si atrofizza”
(Getulio Alviani)

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, esauritasi la lunga stagione dell’arte Informale, emerge nella società occidentale una nuova sensibilità artistica che guarda con interesse ai progressi scientifici e tecnologici e al loro impatto sulla vita quotidiana.

Molti artisti adottano il modello di lavoro d’equipe tipico della ricerca scientifica e caratterizzato da una variegata suddivisione dei compiti e delle competenze, per unirsi in gruppi che hanno l’obiettivo di intraprendere un’approfondita indagine dei meccanismi percettivi e cognitivi legati alla psicologia della forma (Gestalt). Fra questi il Gruppo Zero di Düsseldorf, gli italiani Gruppo N di Padova e Gruppo T di Milano, il parigino GRAV – Groupe de Recherches d’Art Visuel, lo spagnolo Equipo 57 e lo jugoslavo Exact 51, che condividevano la medesima attitudine progettuale e la volontà di sperimentare in campo estetico materiali e tecnologie industriali per creare opere funzionali al coinvolgimento attivo dell’osservatore.

L’opera di Getulio Alviani emerge in questo periodo di fervida collaborazione, pur mantenendo sempre un carattere specifico e distintivo, derivato dal suo background lavorativo nel campo dell’industrial design e della progettazione grafica e architettonica. Queste esperienze gli insegnano, infatti, ad affrontare i problemi pratici e funzionali attraverso una pianificazione rigorosa, basata sul calcolo matematico, e lo portano, inevitabilmente, a contatto con tecnici specializzati e fornitori di materiali dai quali apprende un bagaglio di conoscenze che poi trasferisce nella sua produzione artistica. “Ogni aspetto del suo lavoro”, nota Loredana Parmesani, “parte dal presupposto che progettare un oggetto artistico o un oggetto d’uso sia la risposta a un problema visivo o funzionale e, quindi, il risultato debba essere di ordine logico, la cui procedura sia calcolabile e verificabile”[1].

Per Alviani, l’opera d’arte non è il prodotto dell’esigenza espressiva di un individuo, ma la conseguenza di una necessità di risoluzione dei problemi riguardanti i meccanismi ottici e cognitivi. “Lavoravamo con l’idea del coinvolgimento dell’osservatore”, racconta l’artista, “con opere che richiedessero l’attenzione, l’intelligenza, l’immaginazione di chi le accostava e poteva anche così completarle nella sua testa”[2].

Il suo interesse per i fenomeni percettivi nasceva dall’osservazione del comportamento dinamico della materia e dai suoi rapporti con la geometria e la luce. Già nei lavori della fine degli anni Cinquanta, dalle Miche, composte di silicati alcalini, alle tavole dei Bianchie dei Neri, costruite assemblando moduli di laminati plastici, vetri, carte, tessuti e vernici, fino a lavori come Nero lucido e opacoe Liscio e ruvido, basati sulla giustapposizione di superfici di diversa natura, Alviani è impegnato a indagare il dinamismo dei fenomeni luministici. Ma è solo all’inizio degli anni Sessanta che l’artista trova nelle lastre d’alluminio le superfici ideali per condurre i suoi esperimenti sulla luce. Nascono, così, le Linee lucee soprattutto le Superfici a testura vibratile(di cui è un esempio quella datata 1974, esposta alla galleria Denise René di Parigi nell’edizione del 1996 della celebre mostra Lumiere et mouvement), dove le lastre d’alluminio o d’acciaio sono fresate in modo da produrre una modulazione dell’incidenza luminosa al variare dell’angolo d’osservazione dell’opera. Sono lavori perfettamente calibrati, in cui il rapporto matematico tra i moduli fresati genera un’articolata tessitura di effetti ottici che “attivano” l’attenzione dell’osservatore.

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I primi allumini sono esposti alla galleria Mala di Lubiana nel 1961, proprio nello stesso periodo in cui nella Galleria d’Arte Moderna della vicina Zagabria si svolge la prima rassegna di Nove Tendencije. Visitando la mostra, Alviani scopre una pletora di giovani artisti – da Le Parc a Mavigner, da Morellet a Picelj, da Castellani al Gruppo N di Padova – che lavorano con intendimenti simili ai suoi. Dall’anno successivo, infatti, prenderà parte a tutte le successive edizioni di Nove Tendencije, condividendo con artisti provenienti da ogni parte del mondo la visione di un’arte logica e razionale orientata verso il design, l’architettura, la sociologia e la psicologia. “Lavoravamo con impegno e privi di ogni volontà di clamore”, racconta l’artista, “su problemi ottici e di percezione, sulle immagini virtuali, sul dinamismo intrinseco dell’opera, sull’intervento del fruitore, sulla luce e sullo spazio, sulla serialità, sui nuovi materiali […] con alla base la matematica e le forme esatte”[3].

Sempre nel 1962 Alviani partecipa all’importante mostra Arte programmata, ispirata da Bruno Munari e curata da Umberto Eco per la Olivetti di Ivrea, azienda all’avanguardia nella ricerca elettronica e produttrice di Elea 9003, primo computer transistorizzato al mondo, mentre nel 1963 è incluso nella mostra ZERO – Der neue idealismusalla Galerie Diogenes di Berlino e inizia a collaborare con la galleria parigina di Denise René, epicentro delle ricerche ottiche e cinetiche fin dalla metà degli anni Cinquanta. In questi anni, Alvini conosce Josef Albers, Max Bill, Sonia Delaunay, Pavel Mansuroff, Walter Gropius e Lucio Fontana che gli permetteranno di chiarire la sua linea d’indagine e approfondire i legami con la tradizione delle avanguardie astratte del Novecento. Nel 1965 partecipa anche alla celebre mostra The Responsive Eyecurata da William C. Seitz al MoMA di New York, in occasione della quale il museo americano acquista una sua Superficie a testura vibratile.

Intanto, la sua ricerca inizia a includere anche la dimensione dello spazio, sia nella bidimensionalità illusoria delle superfici che nella forma di oggetti virtuali e ambienti. Opere come Cerchi virtuali (1967) e Cerchi virtuali compenetranti(1967-69) sono realizzate fissando semicerchi di rame cromato su superfici di acciaio speculare per completare virtualmente l’illusione che si tratti di strutture tridimensionali. Anche molte superfici, come ad esempio Cubo virtuale(1978-79), riproducono effetti di spazialità virtuale attraverso l’accostamento di moduli di laminato e alluminio fresato. Il naturale rapporto con l’architettura, invece, si precisa con la creazione di strutture come Interrelazione speculare curva(1965-67), Rilievo a riflessione con incidenza ortogonale praticabile (1967) e soprattutto Interrelazione cromospeculare(1969). Quest’ultima è una delle opere più significative dell’artista, un ambiente con pareti dipinte in colori primari e costellato di pannelli d’acciaio speculare che ruotano al passaggio del fruitore e trasformano l’ambiente in uno spazio dinamico.

In questi, come in altri lavori bidimensionali e grafici, Alviani affronta l’infinita gamma di effetti ottici attraverso la ricerca di adeguate regole e proporzioni matematico-geometriche. In Fifty fifty, una superficie d’alluminio montata su tavola del 1968 (peraltro pubblicata sul catalogo della mostra Arte cinetica e programmata in Italia 1958-1968che ha toccato vari musei giapponesi tra il 2014 e il 2015),la superficie della lastra è ripartita in egual misura in moduli opachi e riflettenti, pur dando all’osservatore l’impressione che una parte prevalga sull’altra. L’inganno ottico è però più evidente nella serie omonima di olii su legno e di serigrafie con variazioni di colore verde e rosso. Addirittura nel 1978, per realizzare una serie di acrilici su tavola con poligoni inscritti nel cerchio, Alviani studia con un ingegnere una regola matematica per aumentare la progressione dei lati fino a ottenere quello che appare come un cerchio pieno. La sua attenzione al metodo progettuale e alla verificabilità e applicabilità del processo si ritrova in tutta la sua ricerca, fin dall’inizio caratterizzata da un’attitudine multidisciplinare. Basti pensare alle sue molte realizzazioni nell’ambito del design, della grafica, dell’architettura, della moda e perfino della nautica.

Nel corso della sua vita Alviani ha progettato interruttori, centralini, valvole automatiche, lampade, mobili, scenografie, allestimenti, manifesti, anelli, orologi e perfino abiti e tessuti (nel 1963 per la collezione Op Art di Gaia Marcelli e nel 1966 per Rudi Gernereich) ed ha modellato a immagine e somiglianza dei suoi principi costruttivi prima le sue case-studio di Udine e Cortina, poi quella di Milano. La sua visione rigorosa, fondata sulla fiducia nel processo ideativo, lo aveva portato a pensare di poter realizzare le sue opere al telefono, semplicemente dettando le istruzioni a un bravo tecnico. La verità è che tutte le sue creazioni, quelle artistiche come quelle funzionali, sono il risultato di una grande conoscenza metodologica, di una cultura del fare applicata alla soluzione dei problemi degli individui e della collettività. Alviani voleva usare questa cultura per migliorare la società. Sosteneva addirittura che se la politica fosse stata fatta come un’opera di Max Bill sarebbe stata vera politica e non cialtroneria. Forse per questo non si stancava mai di ripetere che “faceva l’arte per far pensare” e che la bellezza era una cosa secondaria. Come scriveva in un testo del 1999, “logica, razionalità ed essenzialità sono state per secoli gli elementi fondamentali dell’ideazione, che nel mondo dell’arte – con le ricerche che vanno, ad esempio, da Piero della Francesca a Leonardo Da Vinci, dalla scuola del Bauhaus all’arte Costruttiva, dall’arte Concreta all’arte Programmata – hanno fatto raggiungere all’occidente, e in particolare alla Mitteleuropa, i momenti più alti”[4].


Note

[1]Loredana Parmesani, I sensi non contaminati hanno proporzioni matematiche, in Getulio Alviani, a cura di Giacinto Di, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo, 22 ottobre 2004 – 27 febbraio 2005, Skira editore, 2004, Milano, p. 40.
[2]Giacinto Di Pietrantonio, Getulio Alviani, Intervista, in Getulio Alviani, Op. Cit., p. 18.
[3]Getulio Alviani, Nuove tendenze, in “Flash Art”, n. 261, dicembre 2006-gennaio 2007, Giancarlo Politi Editore, Milano.
[4]Getulio Alviani, Scritti, in Getulio Alviani, Op cit., p. 232.


INFO:

Getulio Alviani| Arte per pensare
a cura di Ivan Quaroni
OPENING: sabato 15 dicembre 2018, dalle ore 17.00
Orario dal lunedì alla domenica 11-14 / 17-24

Galleria d’arte L’Incontro
Via XXVI Aprile, 38 – 25032 Chiari (BS)
Mobile: +39.333.4755164
Tel e Fax: +39.030.712537
e-mail:
info@galleriaincontro.it
web:
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Turi Simeti. Spazio empatico

17 Nov

di Ivan Quaroni

Negli anni Sessanta, Turi Simeti è tra coloro che aderiscono all’idea di ristabilire un “grado zero” della pittura, attraverso la ridefinizione dei principi costitutivi dell’immagine e l’indagine dei meccanismi primari di percezione. Le premesse erano già contenute nel Manifesto Blanco di Lucio Fontana (1946), là dove si affermava che “oggi la conoscenza sperimentale sostituisce la conoscenza immaginativa”. Un’intuizione, d’altronde, che poi si rafforzerà nelle ricerche del Gruppo Zero di Dusseldorf (e in seguito di tutte le altre formazioni europee e italiane), tese, attraverso un uso razionale del segno, a intensificare e stimolare l’esperienza percettiva dell’osservatore.

Non è un caso, infatti, che Turi Simeti partecipi nel 1965 alla fondamentale mostra Zero Avantgarde, organizzata da Lucio Fontana nel suo studio milanese, allo scopo di confrontare e verificare le ricerche di artisti come Enrico Castellani, Agostino Bonalumi, Piero Manzoni, Nanda Vigo, Hans Haacke, Heinz Macke, Otto Piene e molti altri, che operavano in direzione di una ridefinizione del dominio operativo della pittura, ponendo attenzione alle implicazioni ottiche e spaziali che comportava l’azzeramento del concetto tradizionale di “superficie”.

Proprio questa differenza d’origine, quest’ascendenza gestuale e segnica, spesso rilevata dalla letteratura critica, costituisce un fattore decisivo nelle future evoluzioni del linguaggio pittorico di Simeti, non tanto sul piano formale, quanto, piuttosto, su quello dell’attitudine e delle intenzioni. Infatti, è pur vero che Simeti ha assorbito e filtrato in modo personale l’eliminazione dei fattori emotivi tipici dell’Informale, pervenendo a un modello compositivo rigoroso, il cui scopo finale non è solo quello di interagire con la percezione ottica dell’osservatore, ma forse anche con quella cognitiva, e ben più misteriosa, del subcosciente.

Il primo apologeta dell’opera di Simeti, Giuseppe Gatt – curatore della mostra personale dell’artista alla Galleria Vismara di Milano nel 1966 – scriveva che nel rigoroso modus operandi dell’artista “è, tuttavia, insito un elemento difficilmente controllabile, preterintenzionale, probabilmente per lo stesso artista, e che affiora soltanto alla fine, quando cioè, insieme alla poetica, si esaminano i risultati e le immagini”.[1] Gatt definiva questo elemento “il quoziente magico”, ossia un quid che si produce nel momento in cui le forme si protendono nello spazio fisico, polarizzando l’attenzione dell’osservatore non solo tramite i sensi, ma anche attraverso una comunicazione assai più sottile e inafferrabile. In altre parole, le opere di Simeti riescono a essere al contempo dispositivi per la sollecitazione di percezioni ottiche e oggetti apotropaici, rituali, da cui irradia un’energia che, pur con qualche cautela, potremmo definire “magica”.

In realtà, si avverte negli scritti critici su Simeti una sorta di circospezione nei confronti di quest’argomento, una prudenza che, sovente, si accompagna a un’aleatorietà e indeterminatezza di termini. Dopo Gatt, infatti, nessun altro approfondisce il concetto di “quoziente magico”. La maggior parte dei critici preferisce, comprensibilmente, evidenziare gli aspetti di sintonia tra le opere dell’artista siciliano e le ricerche coeve dei “percettivisti” (in particolare di Castellani e Bonalumi per ciò che concerne la cosiddetta Shaped Canvas e l’utilizzo delle estroflessioni), tralasciando, invece, di indagare la natura suggestiva, e dunque immaginativa, delle sue opere.

Ma procediamo con ordine. Nel 1961, Turi Simeti realizzava ancora collage di carta con buste commerciali bruciate agli angoli. Proprio durante quelle sperimentazioni, per ammissione dell’artista “debitrici” delle combustioni di Alberto Burri, appare per la prima volta la forma ovale, che diventerà poi il marchio distintivo della sua opera. La circostanza in cui quella forma, pur carica d’implicazioni simboliche, affiora nei collage, però, dice molto sull’attitudine di Simeti. Infatti, nonostante l’uso reiterato di quella e di altre figure geometriche (come il cerchio e il quadrato), durante tutto il suo percorso artistico, Simeti non sarà mai veramente interessato alla geometria. Piuttosto, gli interesserà il rapporto che queste figure primarie intrattengono con lo spazio e la possibilità d’interazione dei volumi nel perimetro tradizionale del quadro o della scatola e, quindi, il loro, inevitabile, sconfinamento fuori dai margini della tela.

Dopo le esperienze informali del periodo romano, Simeti reagisce, come ricorda Vittorio Fagone, “con una serie di correttivi” [2], che lo inducono a isolare una forma (l’ellisse), al fine di interrompere la continuità delle superfici bidimensionali con una successione di tensioni volumetriche. Dal 1962, l’ovale diventa una sorta di ossessione linguistica, un sintagma ricorrente che evolverà dalle prime forme artigianali (nei collage eseguiti allineando sagome di cartone ritagliato) a quelle più nitide e scandite dei lavori successivi (in cui le sagome di legno sono inserite tra la tela e la tavola per creare una nuova pulsione ritmica e plastica). Parallelamente all’adozione dell’ellisse come segno distintivo della sua pittura, l’artista introduce cromie sempre più uniformi, ormai prive di connotazioni espressionistiche, facendo, così, risaltare gli effetti scaturiti dalla diversa incidenza della luce sull’epidermide dell’opera. Di fatto, dal 1967 in avanti, le estroflessioni entrano stabilmente a far parte del suo linguaggio formale, anche in conseguenza di un serrato confronto con Castellani e Bonalumi, suoi vicini di studio a Sesto San Giovanni.

Inizialmente, Simeti gestisce il rapporto tra spazio e superficie lasciando emergere isolate figure ellittiche, spesso decentrate, a formare impercettibili increspature della tela. Poi, nel tempo, queste sagome ovoidali si moltiplicano, come per un effetto di una mitosi cellulare o di proliferazione organica che le fa sembrare entità vive e pulsanti, invece che archetipi statici.

D’altro canto, l’ellisse può essere considerata una figura di mediazione tra la dimensione iperurania e astratta del cerchio e i suoi molteplici e difformi adattamenti nel mondo fenomenico. Infatti, con le sue innumerevoli varianti, essa appare più affine e adatta alla sensibilità umana.

Come osserva Alberto Fiz in una recente intervista, l’ovale “non è contemplato dall’arte di formazione analitica.”[3] Forse perché non rappresenta un simbolo assoluto, di rigorosa e aurea perfezione, ma piuttosto l’espressione di un dinamismo connaturato alla vita naturale. Un dinamismo che, per inciso, si fa sempre più evidente nella produzione di Turi Simeti, a cominciare dall’uso della tela sagomata, che spezza la linearità perimetrale della tela, suggerendo una più marcata vocazione scultorea. Ne sono prova, soprattutto, i lavori eseguiti tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, in cui l’artista recupera la forma circolare, estendendola oltre i bordi fino a conquistare l’agognata dimensione oggettuale. È il caso di Un tondo grigio, tela sagomata del 1991, dove una forma circolare monocroma segnata da lievi increspature gestuali, sembra violare la quadrangolare recinzione sottostante in una sorta d’impeto superbamente spazialista.

Eppure, il movimento diventa ben più che una mera suggestione già dopo la seconda metà degli anni Sessanta, quando, abbandonato il meccanismo di reiterazione tipico di lavori come 108 ovali neri (1963), Simeti sgombra definitivamente il campo della tela, fino a disporre, sotto la superficie, un solo elemento o un piccolo gruppo compatto di ellissi. In queste opere, ormai rastremate fino all’osso, il dinamismo appare potenziato grazie al contrasto netto tra l’uniformità cromatica della tela e le protrusioni ellittiche, mentre la percezione del campo spaziale acquista una qualità quasi musicale, che trasforma gli elementi aggettanti in pulsazioni ritmiche e armoniche.

Nondimeno, negli anni Ottanta, Novanta e Duemila, Simeti affina con incredibile acribia questa grammatica musicale, approfondendone il carattere monodico in tutte le molteplici sfumature. Gli elementi ovali si moltiplicano, infatti, per numero e dimensione, così come l’inventario, pressoché infinito, degli effetti luministici e, infine, la palette cromatica, via via più ricca. È sufficiente osservare opere di diversa datazione, come Cinque ovali gialli (1988), Otto ovali marroni (1990) e Sei ovali color sabbia (2006), per comprendere come questo processo di estensione della gamma espressiva proceda costante fino agli anni più recenti.

Sebbene il metodo di Simeti rimanga sempre saldamente ancorato ai dettami dell’arte programmata e dunque, contraddistinto da un severo controllo del procedimento creativo, gli esiti della sua ricerca dimostrano il raggiungimento di una sempre maggiore libertà espressiva, che finisce per essere equidistante, come notava Marco Meneguzzo[4], tanto dalle “iterazioni superficiali di Castellani”, quanto dai “gonfiori turgidi di Bonalumi”.

La peculiarità del lavoro di Simeti, consiste nell’aver identificato nell’ellisse (e occasionalmente in altre figure) la forma definitiva di un dialogo ininterrotto con l’osservatore. Un dialogo che non si è mai limitato alla sola stimolazione sensoriale dei meccanismi ottici e cognitivi, ma che, piuttosto, ha saputo penetrare le strutture più profonde dell’individuo, in virtù di un linguaggio formale gravido di segrete assonanze e sottili corrispondenze con il mondo naturale. Ed è, anzitutto, questa capacità di risonanza, questa innata allusività la caratteristica specifica che ha permesso a Simeti di creare uno spazio empatico, un luogo dove l’inferenza tra opera e osservatore acquisisce finalmente una nuova, e più lirica, dimensione antropica.

Info:

Turi Simeti. Spazio empatico
Sabato 13 dicembre 2014
Galleria L’Incontro
via XXVI Aprile, 38 – 25032 CHIARI (BS) – Italy
Mobile: +39.333.4755164
Tel.: +39.030.712537
e-mail: info@galleriaincontro.it
Catalogo con testo di Ivan Quaroni

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[1] Giuseppe Gatt, Simeti tra magia e ragione, in Turi Simeti, catalogo della mostra, Galleria Vismara, Milano, 1966.

[2] Vittorio Fagone, in Turi Simeti, catalogo della mostra, Galleria Il Milione, Milano, 1976.

[3] Alberto Fiz, Elogio dell’ovale, in Turi Simeti Unlimited, catalogo della mostra, Luca Tommasi Arte Contemporanea, Milano, 2014.

[4] Marco Meneguzzo, Elogio dell’ombra, in Turi Simeti, catalogo della mostra, La Salernitana, Erice, 1996.

Alberto Biasi. Dinamismo virtuale.

16 Set

di Ivan Quaroni

“Nella fisica moderna, l’universo appare come un tutto dinamico,
inseparabile, che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale.”
(Fritjof Capra, Il Tao della fisica, 1975)

A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si assiste, in Europa, a una straordinaria, quasi simultanea, fioritura di gruppi, impegnati nel campo delle ricerche ottiche, cinetiche e programmate. Le esperienze del Gruppo Zero di Düsseldorf (1957), del Gruppo T e della rivista Azimut a Milano (1959), del Gruppo N di Padova (1960), di Dvizenie a Mosca (1962) e del Groupe de Recherche d’Art Visuelle di Parigi (1960) erano accomunate dall’uso di un linguaggio nuovo, incentrato sull’analisi dei meccanismi di percezione del movimento e dello spazio nell’ambito delle arti visive. Un linguaggio, in qualche modo, slegato dalla storia e dalle eredità culturali dei singoli paesi di provenienza dei gruppi, che formava una sorta di koinè sovranazionale, costruita attraverso una serie d’intensi scambi e confronti tra gli artisti. Il lavoro di Alberto Biasi contribuisce, fin da subito, a creare questo rinnovato clima artistico, caratterizzato da un’inedita attenzione verso gli ultimi esiti delle ricerche nel campo delle scienze e della psicologia della percezione, e segnato da un forte desiderio di recuperare un rapporto fattivo e costruttivo con la società.

Un nodo centrale di queste nuove pratiche era costituito dal ruolo dell’individuo e, segnatamente, del fruitore delle opere, cui veniva attribuita una funzione di primo piano. Se, in passato, il destinatario delle opere era, al più, testimone o interprete di un messaggio strettamente connesso alla cultura del tempo, con l’avvento dei linguaggi cinetici, egli diventava il recettore di una serie di stimoli ottici. L’opera, spogliata della sua sacralità e liberata da ogni contenuto simbolico e allusivo, si trasformava, così, in una sorta di dispositivo, di emittente di sollecitazioni retiniche, che “entrava in funzione” solo alla presenza di un soggetto percepente. Per la prima volta nella storia, il messaggio dell’opera richiedeva, infatti, la partecipazione attiva del fruitore, che, attraverso la propria fisiologia, processava e creava l’informazione in essa contenuta.

Gran parte delle ricerche ottico-cinetiche, compresa quella del Gruppo N – fondato da Alberto Biasi e Manfredo Massironi nel dicembre 1960, cui aderirono Ennio Chiggio, Toni Costa e Edoardo Landi -, erano finalizzate alla creazione di oggetti o di environment capaci di attivare la psicologia percettiva dello spettatore. La condizione necessaria delle opere di questi artisti era, dunque, la creazione di un rapporto di mutualità tra il manufatto e l’osservatore. Rapporto che, in un certo senso, richiamava alcune scoperte della fisica quantistica riguardanti l’influenza dell’osservatore (in questo caso lo scienziato) durante gli esperimenti condotti sulle particelle subatomiche. Gli studi di Thomas Young sul comportamento dei fotoni che erano all’origine del dualismo particella-onda, uno dei paradigmi della meccanica quantistica, furono ripetuti proprio nel 1961, anno in cui, peraltro fu redatto il Manifesto del Gruppo N. Questa coincidenza ci conduce a individuare un parallelismo tra le conclusioni di John von Neumann a proposito dell’influenza della coscienza umana sul mondo subatomico, e le intuizioni degli artisti cinetici sul fondamentale contributo dell’osservatore quale effettivo creatore delle immagini dinamiche stimolate dai loro artefatti.

Curiosamente, Biasi e gli altri artisti del Gruppo N, che allora si consideravano un manipolo di disegnatori sperimentali uniti dall’esigenza di compiere una ricerca collettiva, intendevano limitare il ruolo dell’individuo. Nel Manifesto del 1961, essi non solo rifiutavano l’individuo, come elemento decisivo della storia, ma reputavano le correnti artistiche immediatamente precedenti, in particolare il Tachismo, l’Informale e l’Espressionismo, come inutili soggettivismi. Fino al 1964, le opere furono, infatti, firmate con la sigla del Gruppo, per rimarcare il carattere collettivo delle loro ricerche. Le prime sperimentazioni visive di Alberto Biasi, dalle Trame (1959-1961) ai Rilievi ottico-dinamici (dal 1960 agli anni Novanta e poi, sporadicamente anche nel decennio successivo), fino alle Torsioni (1961-1969) e a buona parte degli Ambienti e dei Cinetismi, come, ad esempio, Proiezione di luce e ombra (1961), Finestra Arcobaleno (1962-1965), Light Prism n. 2 (1962) e Cinoreticolo spettrale n. 1 (1962), appartengono a quella fase d’indagine, caratterizzata da un radicale rifiuto del principio di autorialità.

In quel periodo, il lavoro di Alberto Biasi, che con Manfredo Massironi, animò le varie sigle padovane (EnneA, N, Enne65) – aderiva, dunque, all’indirizzo collegiale del Gruppo che, attraverso la verifica collettiva, intendeva eliminare l’eventualità di scelte arbitrarie da parte dei singoli artisti. Nel Gruppo N, così come nel Gruppo Zero di Düsseldorf, le ricerche erano individuali, anche se dovevano rispondere a rigorosi codici metodologici condivisi da tutti i membri. La serie delle Trame, conclusa nel 1960 e composta di carte forate e sovrapposte per creare particolari effetti di luce, rappresenta il primo approccio di Biasi nell’ambito delle ricerche ottiche. Tuttavia, è soprattutto con il ciclo dei Rilievi ottico-dinamici che l’artista entra nel vivo dell’indagine sui meccanismi percettivi. I lavori realizzati tra il 1960 e il 1967, su cui l’artista torna a più riprese anche negli anni successivi, introducono per la prima volta la questione del ruolo dell’osservatore. Si tratta, per lo più, di opere composte di due piani sovrapposti e distanziati di alcuni centimetri, dove il livello sottostante è generalmente costituito da una tavola dipinta, mentre quello sovrastante è costruito come un pattern di strisce (o lamelle) di PVC. L’interferenza tra i due piani crea quell’effetto ottico di movimento che Biasi chiama “dinamismo virtuale”. Quel che accade, infatti, è che l’opera, perfettamente immobile, riesce a generare nel fruitore un’impressione di vibrante motilità. In realtà, è l’attività retinica e cognitiva dello spettatore a costruire quei movimenti, che sono appunto virtuali, e non fisici.

Guardando alcuni dei Rilievi ottico-dinamici esposti in questa mostra – ad esempio l’opera intitolata Ti guardano, del 1990 – diventa immediatamente comprensibile che cosa intende Biasi quando afferma che “l’occhio diventa motore e creatore di forme”. D’altra parte, già nel lontano 1967, Giulio Carlo Argan notava che “Chi compie l’atto estetico è sempre e soltanto il fruitore: l’artista o colui che predispone e mette in opera apparati emittenti di stimoli non è che una guida o, essendo l’attività estetica formativa, un educatore”.[1] Tra il 1961 e il 1969, ma anche in seguito, Biasi approfondisce alcune delle intuizioni dei Rilievi ottico-dinamici nelle cosiddette Dinamiche visive, in cui torce e sovrappone le lamelle di PVC, per costruire forme circolari, ellittiche, triangolari e poligonali percorse da striature concentriche. Come dimostrano le opere Dinamica in prospettiva (1962-75) e Dinamica in rosso (1971), le torsioni lamellari in rilievo producono una distorsione luministica e spaziale che intensifica l’illusione di movimento. In sintonia con gli intenti formativi del Gruppo N, Biasi cerca di dimostrare, attraverso queste opere, la stretta correlazione tra percezione e immaginazione.

Negli anni successivi, la peculiarità della ricerca di Biasi diventa via via più evidente. Pur mantenendo intatte le caratteristiche dell’oggetto, quale emittente di stimoli ottici e cinetici, Biasi intuisce che la missione didattica e formativa della sua ricerca deve mettere l’osservatore in condizione di comprendere come i processi percettivi si colleghino con le facoltà creative e immaginative.

In assemblaggi come Su e giù (1990), ma anche in molte opere della serie Unica Tela eseguite tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio, Biasi trova un equilibrio tra piacevolezza estetica e rigore scientifico. Ciò che, infatti, distingue Biasi dagli altri membri del gruppo padovano, è la consapevolezza che l’interazione tra opera e pubblico non può limitarsi alla mera constatazione di un meccanismo di funzionamento percettivo e fenomenologico. Grazie all’introduzione di elementi eccentrici, che alterano l’ordine formale e costruttivo delle sue opere, l’artista riesce, infatti, a liberare il fruitore dalla rigidità dei processi percettivi, stimolandolo a utilizzare l’immaginazione e dunque a “costruire” l’immagine con modalità proprie. Fatte salve le scoperte della fisica dei quanti, secondo cui l’osservatore determina il fenomeno osservato, Biasi sembra intuire che anche le condizioni particolari del soggetto influiscono sui meccanismi di percezione: non solo, dunque, la posizione spaziale del riguardante rispetto all’opera, la durata temporale della visione o le condizioni ambientali di luce, ma anche, a questo punto, le peculiarità psicologiche e – perché no? – culturali dell’individuo. Osservando oggi il percorso compiuto da Alberto Biasi in oltre cinquant’anni di ricerca, si ha l’impressione che egli abbia compiuto un lento, ma costante percorso di reintegrazione della totalità dell’uomo nell’analisi dei processi percettivi. Un processo che all’inizio, col Gruppo N, si limitava alla sola considerazione dell’individuo come aggregato psico-fisiologico e che poi, nella fruttuosa esperienza “solista”, si estende alla comprensione della complessità e unicità delle sue esperienze estetiche. Un percorso che, ancora una volta, mostra strette analogie con quello della scienza, se lo si osserva in quell’affascinante prospettiva che dalle prime sperimentazioni di Niels Bohr, ci conduce alla formulazione del Principio Antropico. Secondo questa tesi, infatti, l’individuo non solo partecipa alla definizione dell’universo, ma ne garantisce l’esistenza stessa. Come a dire che, senza la presenza di un osservatore, di una coscienza formativa, l’arte, e la realtà tutta, non esisterebbero affatto.

Note

[1] Giulio Carlo Argan, Grupa N, catalogo della mostra al Muzeum Sztuki di Lodz, 1967, Varsavia.


Info:

Alberto Biasi – Attraverso la simmetria
Galleria d’arte L’Incontro, via XXVI aprile 38, Chiari (Brescia)
Opening: sabato 4 ottobre, ore 17.00
Catalogo con testo di Ivan Quaroni