Archivio | pittura italiana RSS feed for this section

Massimiliano Zaffino. Eventi profondi in superficie.

27 Set

di Ivan Quaroni

Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago, 2020, olio su tela, 125×100 cm.

Commentando il Salon parigino del 1859, Charles Baudelaire affermava che «L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile è una provincia del vero»[1].  Più precisamente, secondo il poeta e critico francese, l’immaginazione «scompone tutta la creazione, e, con i materiali raccolti e disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea un mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo»[2]. In altre parole, essa sarebbe un procedimento insieme analitico e sintetico la cui descrizione coincide sorprendentemente con la metodologia della pratica pittorica, la quale ci restituisce un’immagine trasformata del mondo.

Nel caso della pittura di Massimiliano Zaffino, gli elementi analitici e sintetici della facoltà immaginativa sono all’opera già nella fase progettuale, dove l’appropriazione di differenti fonti fotografiche è sottoposta al vaglio di una lucida prassi combinatoria che mira a ridurne al minimo lo scarto estetico e formale degli accostamenti.

Alla base del suo lavoro c’è il rapporto tra la fotografia e il dipinto, tra la tecnica del fotomontaggio e la pratica pittorica. Le opere di Zaffino nascono, infatti, dall’esplorazione delle potenzialità delle immagini nel fotomontaggio. All’origine, il suo progetto iconografico è ricavato da una crasi di fotografie diverse che, in un secondo momento, la pittura convalida nella forma di immagini uniformemente coerenti. Lui stesso afferma in una recente intervista di aver archiviato un buon quantitativo d’immagini: «mi ri-approprio della realtà altrui (le foto possono essere anche miei scatti) combinando più immagini; il paesaggio che ne risulta modifica la funzione scenica e il valore dello stesso»[3]. Dunque, ciò che al principio è il prodotto di una fusione di punti di vista, prospettive e geografie differenti – vale a dire l’esecuzione di collage come forme progettuali o come opere compiute – raggiunge, con la pittura, una dimensione di ulteriore credibilità proprio in virtù dell’amalgama atmosferico tra i differenti elementi che compongono l’immagine. 

Fiammata insolita non disturba il piacere di una giornata al mare, 2020, olio su tela, 105×120 cm.

Tuttavia, l’attenuazione delle zone di giunzione o di attrito tra i frammenti iconografici non annulla l’effetto collage della sua pittura, ma rende le sue rappresentazioni surreali decisamente più intellegibili. Si tratti di dipinti o di collage, al centro della ricerca visiva di Massimiliano Zaffino c’è sempre il paesaggio. Il paesaggio inteso come possibilità costruttiva, non come documentazione di luoghi reali. 

Pur adottando un linguaggio pittorico apparentemente realistico, l’artista scarta con decisione ogni opzione mimetica per concentrarsi sulla definizione di mondi plausibili. I suoi sono, infatti, luoghi immaginari, ma esplorabili e percorribili con lo sguardo proprio in ragione della loro plausibilità. Non sono geografie totalmente assurde, ma spazi che aprono a una più profonda comprensione delle forme visibili attraverso una fitta rete di corrispondenze tra morfologie differenti.

Quel che in queste immagini appare “fuori posto” – per usare la definizione del termine weird usata da Mark Fisher[4] -, è qui ricondotto alla naturalità dal processo pittorico stesso. Non mi riferisco soltanto alle curiose morfologie che compaiono in molti suoi landscape, come, ad esempio, Tratti irregolari di paesaggio salgono e si uniscono, lontano una strada d’asfalto (2019), Parco costituito da zone alberate, attrezzatura giochi e arco a levitazione laser (2019), Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago (2020) o Forme geometriche rivelano paesaggi a incastro (2018), che sono evidentemente il risultato della combinatoria di luoghi diversi. Alludo, soprattutto, ai magmatici fluidi che attraversano le opere più recenti, da Azione di contenimento di lama fuoco e pratica chiarificazione prerogativa di un mondo dissonante (2021) a Forme di magnetismo cosmico attraversano parco alberato (2021), e alle anomalie atmosferiche che caratterizzano lavori come Meccanismo simultaneo di oggetti luminescenti precipitano da est a ovest (2021), Fiammata insolita non disturba il procedere di una giornata al mare (2020) e, infine, Intrattenimento campestre fatto di ricordi con il ponte luminoso spaziale (2020). 

Nei paesaggi feriali di Zaffino, dove l’umanità è impegnata in attività di svago e di relax, l’irrompere di inaspettati effetti climatici e atmosferici – eruzioni vulcaniche, distorsioni magnetiche, bizzarri fenomeni di rifrazione della luce, vortici fluidi e prodigiose levitazioni – non ha nulla di apocalittico. La destabilizzazione della realtà sembra, infatti, abituale, quasi consuetudinaria. Caos e disequilibrio fanno parte della quotidianità, sono, cioè, fenomeni naturali come gli Iperoggetti teorizzati dal filosofo ecologista Timothy Morton: cose viscose, di singolare grandezza, che esistono su scale temporali che l’uomo non può comprendere, ma di cui subisce comunque gli effetti. Oggetti, insomma, come il riscaldamento globale o le scorie nucleari, il petrolio o la biosfera, le radiazioni solari o i buchi neri, i quali inaugurano una sorta di nuova dimensione masochistica dell’esperienza estetica. 

«Svegliarsi all’ombra degli iperoggetti», scrive Morton, «è come trovarsi in un film di David Lynch in cui diventa sempre più difficile distinguere il sonno dalla veglia»[5]. Qualcosa di simile avviene nella pittura di Zaffino, dove si avverte l’erompere di un’alterità irriducibile, di una esternalità, cioè di qualcosa che proviene da una dimensione altra, estranea, di cui quei bizzarri fenomeni fisici e climatici sono prefigurazione e annuncio. 

Secondo Morton, «l’arte e l’architettura nell’epoca degli iperoggetti devono (automaticamente) includere nel loro regno gli iperoggetti, anche quando questi si dimostrano recalcitranti»[6]. Perciò, il quieto stravolgimento della realtà nella pittura di Zaffino, conseguenza diretta di un’indagine estetica e formale sulle potenzialità combinatorie del collage fotografico, può anche essere interpretato come la visione premonitoria di un futuro più che prossimo in cui ci sembrerà normale ciò che oggi ci appare straordinario.

Questa capacità fittizia di dare corpo con la pittura a una realtà potenziale, ossia la «simulazione trionfante che progettava Baudelaire» [7], è in fin dei conti il nocciolo della questione. L’arte, ammette Baudrillard, «è sempre stata simulacro, ma un simulacro che aveva la potenza dell’illusione»[8]

Massimiliano Zaffino riesce a trasformare la potenza illusoria, che sta alle radici della mimesis pittorica, in qualcosa di sottilmente destabilizzante. I suoi landscape portano il concetto di perturbante nella sfera dell’ordinario e del plausibile e, così, amplificano la nostra percezione e orientano il nostro sguardo verso la comprensione di possibilità inedite. Alcune di queste possibilità hanno l’aspetto di morfologie fantastiche, luoghi che vorremmo aver visitato, altre prefigurano, forse inavvertitamente, la fine di un’era e l’inizio di una serie di accelerazioni catastrofiche. 


[1] Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1992, p. 223.

[2] Ivi, p. 224.

[3] Francesco Mancini, Gli incredibili specchi d’acqua di Massimiliano Zaffino, http://www.artwave.it, 2 marzo 2020.

[4] «È l’irruzione in questo mondo di qualcosa che proviene dall’esterno a fare da marcatore del weird», in Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018, p. 23.

[5] Timothy Morton, Iperoggetti, Nero edizioni, Roma, 2018, p. 197.

[6] Ivi, p. 143.

[7] Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, Abscondita, Milano, 2012, p. 29.

[8] Ibidem.



INFO:

Massimiliano Zaffino. Eventi profondi in superficie

a cura di Ivan Quaroni

Dal 25 settembre al 9 novembre 2021

Area\B, Via Passo Vuole 3, Milano

T. 02 58316316, 3346847606

Pubblicità

Manuel Felisi. …e respirare

23 Set

di Ivan Quaroni

La pittura è il fuoco centrale della pratica di Manuel Felisi, la disciplina di costruzione delle immagini da cui in seguito si è sviluppata una ricerca plastica e oggettuale legata, come sappiamo, alla memoria, luogo di convergenza dei processi di conservazione e cancellazione dei ricordi. Infatti, ben prima delle installazioni in cui l’acqua, sotto forma di pioggia o di ghiaccio, assume il ruolo di ricettore mnestico e di sismografo organico di ogni accadimento, la pittura ha fornito all’artista l’opportunità di maturare un proprio linguaggio lirico. 

Tuttavia, parlare di pittura, nel caso di Felisi, significa indicare una somma di procedure ibride e di tecniche spurie che includono, accanto all’atto gestuale del dipingere, l’uso di strumenti reiterativi per produrre pattern ornamentali (come i vecchi rulli per la decorazione d’interni), la scelta di supporti e materiali di origine industriale (come la resina o il feltro) e la stampa d’immagini fotografiche digitalizzate che si imprimono, come sigilli definitivi, sulla massa stratificata dei depositi pigmentali. Il risultato finale è un quadro, e più spesso un polittico, costruito, come i file digitali, per sovrapposizione di più livelli pittorici, ognuno dei quali è l’inconcluso e indefinitivo tassello di un percorso progettuale che si palesa solo alla fine della lavorazione dell’opera. Ciò significa che la pittura di Felisi è anche una forma di design, cioè di progettazione dell’immagine, che non esclude, però, la possibilità di deviare dall’intento originario e di includere la componente erratica della pittura tradizionale. Vale a dire che, in questa versione attualizzata della pittura, in parte figlia della rivoluzione digitale, la componente gestuale, lirica e profondamente umana del dipingere sopravvive nella massa cromatica indifferenziata che costituisce la base su cui si staglia prepotentemente l‘immagine fotografica, quasi scheletrizzata nella forma essenziale della silhouette. 

Sintetizzando, forse un po’ brutalmente, il pensiero di Arthur Schopenhauer, Franco “Bifo” Berardi ha scritto che “il mondo è rappresentazione, in quanto è proiezione di una volontà di rappresentare”[1], e che, in definitiva – sulla scorta di Edmund Husserl, padre della Fenomenologia – “possiamo dire che il mondo è la proiezione di un’intenzionalità che è al tempo stesso trasformazione e rappresentazione”[2]. Ora, che cosa rappresenta (e trasforma) la pittura di Manuel Felisi? 

L’immagine più frequente è la forma arborea, reiterata in una serie di dipinti curiosamente intitolati “Vertigini”. Un albero è un simbolo potente, che dischiude una pletora di significati. Lo ritroviamo, ça va sans dire, in tutte le tradizioni millenarie dei popoli della terra. Ha suggestionato, nei secoli, mistici e sciamani, filosofi, e alchimisti nelle più diverse varianti semantiche, dall’Albero Cosmico all’Asse del Mondo, dall’Albero Rovesciato a quello della Vita, dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male a quello Alchemico, dall’Albero Mistico a quello, più laico, della Libertà. In tutte le sue accezioni l’albero è un pittogramma che allude alla vita (fisica, morale, spirituale) e, dunque, per estensione, alla natura stessa. 

Nei quadri di Felisi, nulla ci vieta di interpretare questa iconografia in tal senso. Ogni immagine è un dispositivo per pensare, che dischiude in ognuno di noi significati che non possono prescindere dal nostro vissuto e dalla nostra esperienza. Personalmente, preferisco non ricorrere alla simbologia e provare a dare una lettura diversa degli alberi di Felisi. Prima di tutto, perché non sono iconografie frontali come nei suoi primi dipinti, ma scorci vertiginosi di rami e fusti. Si chiamano “Vertigini” perché riproducono quel tipico effetto di distorsione rotatoria della percezione visiva che si può avere osservando da sdraiati la fuga prospettica degli alberi. Non è la vertigine che provoca il timore panico di chi guardi verso il basso dal parapetto di un grattacielo o dal bordo di un dirupo. Tecnicamente, è una vertigine anche quella descritta dai dipinti di Felisi, anche se la prospettiva conica, convergente verso il centro perfetto dell’immagine, produce, piuttosto, una sensazione di un moto ascensionale. 

Sarà capitato a tutti, credo, di distendersi su un prato e rivolgere gli occhi al cielo per guardare il firmamento in una notte stellata o per osservare la curiosa forma delle nuvole o per lasciarsi irretire dalla trama capillare delle piante, magari immaginando di riconoscere i lineamenti di un volto o la forma di un oggetto. La chiamano paraeidolia, questa tendenza inconscia e automatica a trovare strutture ordinate e riconoscibili in forme apparentemente caotiche. Ma non è questo il punto. Il punto, semmai, è capire perché l’artista abbia scelto proprio questo scorcio, questo modo di vedere dal basso verso l’alto. Un modo che, se ci pensate, è il contrario della vertigine generata dall’altitudine, ma è anche, in senso lato, opposto rispetto a un certo modo altero di guardare la vita, le situazioni, le persone (cioè, dall’alto in basso, con sussiego, boria, sufficienza). Guardare dal basso in alto, significa relativizzarsi, ricondursi alla giusta misura e, insieme, accorgersi della vastità che ci circonda, della plenitudine che ci comprende. Insomma, quel che si prova nelle “Vertigini” è una sorta di rovesciamento del sublime kantiano, categoria estetica simbolizzata dal celebre dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (1818), con cui solitamente si spiega, forse un po’ didascalicamente, il contrasto tra l’individuo e le imponenti forze della natura e la conseguente scoperta della superiore dimensione morale dell’uomo. Ecco, in tal senso, queste immagini potrebbero essere considerate come un antidoto alla vecchia etica illuminista, con la sua esasperata visione antropocentrica del cosmo. Qui, infatti, non troviamo l’immagine di un uomo sulla vetta di un’altura, intento a contemplare (e dominare!) lo spettacolo della natura, ma un punto di vista zenitale, che inquadra, perpendicolarmente, la porzione di universo sovrastante. È una differenza che produce un significativo slittamento di senso, uno scarto ontologico che piacerebbe ai seguaci della OOO (Object-Oriented Ontology), “un movimento filosofico che”, come afferma Timothy Morton, “sposa una particolare forma di realismo e assieme a questo un pensiero non antropocentrico”[3] che affonda le radici nella certezza della futura estinzione dell’uomo e che, di conseguenza, si propone di indagare le relazioni tra tutti gli oggetti, siano essi naturali, artificiali, umani o non-umani. 

Accanto a questa lettura delle “Vertigini” vorrei suggerirne un’altra, forse meno peregrina della precedente, ma nondimeno suggestiva. L’atto preliminare che ci porta a adottare lo sguardo zenitale delle “Vertigini” è radicale, rivoluzionario come la pratica del vagabondaggio o le tecniche comportamentali del Situazionismo. Si può considerare un gesto politico, di critica alla società. Sdraiarsi su un prato a guardare le cime degli alberi è come girovagare per la città senza una meta precisa. È una “situazione” che fuoriesce dallo schema vizioso del capitalismo avanzato, oscillante tra produzione e consumo, esattamente come il concetto di deriva situazionista, che si presentava come una tecnica di veloce passaggio attraverso gli ambienti urbani. “Nostra idea centrale”, scriveva Guy Debord, teorico dell’Internazionale Situazionista, “è quella della costruzione di situazioni: vale a dire la costruzione concreta di scenari momentanei di vita e la loro trasformazione in una qualità passionale superiore”[4].  Esattamente come l’azione deliberata e gratuita cui ci rimandano le “Vertigini” di Manuel Felisi, le quali, peraltro, dimostrano che l’arte è un potentissimo strumento di emancipazione personale. Se io avessi in casa uno dei suoi quadri lo considererei non solo un dispositivo per la contemplazione, ma un promemoria per l’azione. Mi ricorderei, per esempio, come fosse una norma d’igiene spirituale, di trovare il modo di sottrarmi di tanto in tanto al mondo, di fare una passeggiata solitaria nella natura, distendermi su un prato, osservare l’ipnotico ordito dei rami … e respirare.


[1] Franco “Bifo” Berardi, Futurabilità, 2019, Nero edizioni, Roma, p. 87.

[2] Ibidem.

[3] Timothy Morton, Iperoggetti, 2018, Nero edizioni, Roma, p. 12.

[4] Guy Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni, citato in Edmund Berger, Accelerazione. Correnti utopiche da Dada alla CCRU, 2021, Nero edizioni, Roma, p. 36. 


INFO:

Manuel Felisi. … e respirare

a cura di Ivan Quaroni

Fabbrica Eos Gallery, viale Pasubio, angolo via Bonnet 
Milano – Tel. 02 6596532

Giovedi 23 settembre – Sabato 23 ottobre 2021

Lo strano e l’inquietante. La demondificazione nell’arte di Vanni Cuoghi

20 Lug

di Ivan Quaroni

 

Spesso le sue opere assumono (letteralmente) l’aspetto di vere e proprie scatole narrative in cui stranianti paesaggi sono compressi dentro una cornice spaziale rigidamente codificata che somiglia al palcoscenico di un teatro miniaturizzato. In questa pittura oggettuale, fatta non solo di elementi grafici, ma di collage e carta intagliata, l’artista cristallizza gli episodi apicali di un racconto aperto, suscettibile di molteplici interpretazioni. Un uguale procedura compare anche nei dipinti di scala monumentale, come ad esempio la grande tela intitolata Le due verità (2017), dove sono le figure stesse a diventare ricettacoli di storie, accogliendo nel proprio corpo, o meglio nelle pieghe dei loro sontuosi e ipertrofici abiti, episodi narrativi che rimandano agli stilemi rappresentativi dei bassorilievi tardo-antichi o, addirittura, dei codici miniati medievali.  

Questi oggetti sono, in effetti, dei bozzetti progettuali, allestimenti scenici che rivelano i meccanismi associativi dell’artista. Non sono ancora opere, ma studi tridimensionali che, solo successivamente, si trasformano in dipinti su tela o in opere che combinano la pittura con la tecnica del paper cutting, l’antica arte psaligrafica d’intagliare la carta per ottenere forme e figure leggibili.

Si può dire, con un certo grado di approssimazione, che l’arte contemporanea sia caratterizzata dal ricorso sistematico a tecniche di appropriazione di materiali estranei alla tradizione artistica. Nello specifico caso di Vanni Cuoghi, l’appropriazione assume la forma del bricolage. Il bricoleur, secondo Claude Lévi-Strauss, “è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto; il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè ad un insieme via via «finito» di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto in particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti”[1].

Se questo è il meccanismo procedurale usato dall’artista, il risultato che ne sortisce è qualcosa di sottilmente perturbante. In passato, nelle mie numerose letture critiche del lavoro di Cuoghi, ho utilizzato l’aggettivo “bizzarro”. C’è, però, un termine inglese che è forse più appropriato: weird. Le traduzioni di weird proposte dai dizionari includono i significati di “bizzarro”, “strano”, “strambo”, “assurdo”, “misterioso”, mentre lo scrittore e critico culturale inglese Mark Fisher ne ha fornito una descrizione più accurata secondo la quale weird indicherebbe ciò che è fuori posto, ciò che non torna. 

Nei dipinti del ciclo “La messa in scena della pittura” il paesaggio ricavato dal montaggio di frammenti di realtà è evidentemente una congerie di oggetti fuori posto, come pezzi di legno schermi di PC portatili o archi a tutto sesto spuntati dal nulla. Tuttavia, tale paesaggio è anche una morfologia dissestata, in cui gli elementi naturali non obbediscono più né alle leggi gravitazionali né a quelle climatiche e dove, ad esempio, deserti e montagne innevate coesistono con alberi mostruosamente fioriti. “La forma artistica che è forse più appropriata al weird”, scrive Fisher, “è quella del montaggio – la combinazione di due o più elementi che non appartengono allo stesso luogo[2]. Da qui deriverebbe, secondo il critico inglese, la fascinazione per il weird da parte del Surrealismo “che interpretava l’inconscio come una macchina per il montaggio cinematografico, un generatore di accostamenti bizzarri”[3] 

Nella serie dei “Fondali oceanici”, caratterizzata dalla combinazione di pittura e paper cutting, il montaggio di cose fuori postoè più chiaramente leggibile. Le creature marine sorvolano paesaggi terrestri che sorgono, letteralmente, da una sorta di sottomondo su cui lasciano impressa la propria traccia negativa, l’inquietante evidenza di un’assenza, l’ombra, insomma, di una sparizione che secondo la grammatica di Fisher dovremmo definire con un altro termine intraducibile: eerie

Eerie indicherebbe un fallimento di assenza o un fallimento di presenza, vale a dire una sensazione che si verifica “quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente quando dovrebbe esserci qualcosa”[4]. Come avviene, ad esempio, con le creature marine fluttuanti nel cielo o con il vulnus prodotto dalla sollevazione del paesaggio.  

Nella pittura di Vanni Cuoghi l’immagine è costruita come una finzione, una costruzione apparentemente confortevole in cui s’insinuano gli spettri del weird e dell’eerie. Non è tanto la loro smaccata natura di “artefatti” a produrre la strisciante sensazione che qualcosa non torni, ma la loro pretesa simulazione del “mondo”. Laddove “mondo” significa, secondo l’accezione latina locus mundus, un luogo pulito, chiaro, visibile (e intellegibile) per l’uomo. Il mondo non coincide con un habitat, come la Terra con le sue variegate specie di organismi viventi, ma è piuttosto un ordine, un kósmos a misura d’uomo. Le opere di Cuoghi scardinano questa concezione attribuendo all’uomo un posto tra le cose, trasformandolo in un ente tra altri enti che, dunque, non ha più alcuna preminenza. Qual è, infatti, il ruolo degli uomini nelle sue opere? Sono spettatori? Sono testimoni? Non sono certamente i protagonisti di queste mise en scene. Sembrano piuttosto presenze aliene in un universo alieno. Sono, in effetti, sagome ritagliate come ogni altro elemento oggettuale, una morfologia tra altre morfologie. 

Quel che Mark Fisher scrive a proposito della sensazione di weird generata dal romanzo Tempo fuor di sesto di Philp K. Dick, pubblicato nel 1959, vale anche per il meccanismo di bricolage con cui Cuoghi trasforma il mondo realistico in un “non mondo”: “Una volta declassato a simulazione, il mondo realistico non appare soltanto infranto, quanto piuttosto cancellato”[5]. Quel che Cuoghi mette in atto è un processo di demondificazione, cioè la decostruzione dell’idea di “mondo” come insieme di semantiche fondative e come base di autenticazione del reale. Tanto i paesaggi “messi in scena” quanto i “Fondali oceanici” annullano il concetto di “mondo” come costrutto ontologico stabile, spalancando la visione sull’abisso di un universo alienonon familiare, del tutto indifferente alla nostra esistenza e al nostro sistema valoriale. Qui non si tratta più di affermare, come facevano i surrealisti, l’erompere dell’unheimlich, del Perturbante freudiano, che starebbe ancora nei confini del “mondo”, ma di avvertire la possibilità di una realtà altra, estranea, che invera non solo la fine dell’antropocentrismo, come si augurano gli esponenti del cosiddetto Realismo speculativo, ma che prefigura addirittura quel “mondo senza l’uomo” che oggi appare a molti pensatori contemporanei come una possibilità più che concreta. 

Se il proposito dichiarato di Cuoghi era di svelare con queste opere i dispositivi associativi che presiedono alla costruzione della sua pittura, mostrandone peraltro il carattere metalinguistico, l’effetto inatteso è stato, invece, di aprire una crepa nel suo linguaggio figurativo. Da quella fenditura sono emersi i contorni di una autentica esternalità, di un mondo strano e sconosciuto che esercita una potente forza attrattiva proprio nel momento in cui promette di rendere antiquato ogni appagamento derivante dalla visione di ciò che è normale e convenzionale. Non è ancora l’Esterno infestato dall’ombra di cui scrive Lovecraft in una lettera del 1927 al direttore di Weird Tales, “in cui dobbiamo ricordarci di lasciare sulla soglia la nostra umanità e il nostro essere terrestri”[6], ma è il limbo che ci prepara a entrare in quell’irriducibile alterità.  


[1] Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il saggiatore, Milano 1964, pp. 30-31.

[2] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[3] Ibidem

[4] Ivi, p. 72.

[5] Ivi, p. 57.

[6] Mark Fisher, Op. cit., pp. 23-24.


INFO:

Titolo SUBMARINER

Artista VANNI CUOGHI

a cura di Nicoletta Castellaneta e Ivan Quaroni

Sede Acquario Civico di Milano – Viale G. Gadio 2, Milano – M2 Lanza

Tel. 02 88 46 57 50 

Apertura dal 14 luglio al 12 settembre 2021

Orari martedì – domenica ore 10 – 17.30 (ultimo ingresso ore 17, con biglietto). Chiusura biglietteria ore 16:30. Lunedì chiuso

Biglietti d’ingresso 5.00 euro intero, 3.00 euro ridotto, la visita alla mostra è compresa nel biglietto d’ingresso all’Acquario. 

Informazioni Acquario giorni e orari di apertura, modalità d’accesso 

http://www.acquariodimilano.it

Prenotazione gratuita e biglietti acquistabili su:

http://www.museicivicimilano.vivaticket.it

Informazioni mostra OPERA d’ARTE 

Tel. 02.45487400

Giovanni Motta. Game Over. Play Again?

9 Apr

di Ivan Quaroni

Huge Me, 2021, acrilico su tela, 120×120 cm

Intro

La pittura è una “tecnologia”. La parola deriva dalla combinazione di due termini del greco antico, techne (arte, abilità) e loghía (discorso, spiegazione), che insieme significano “trattazione sistematica su un’arte”. Nella concezione classica non c’è distinzione tra arte e tecnica. Entrambe comprendono ogni prodotto dell’abilità umana, si tratti di pittura, scultura, architettura o di qualsiasi altro manufatto e utensile la cui costruzione richieda una conoscenza pratica. Più tardi, nella cultura romana, venne introdotto il concetto di Ars, ma anche in questo caso con l’accezione di “abilità”, cui doveva aggiungersi un aggettivo che ne specificasse il campo: Ars poetica (la poesia), Ars amandi (l’arte amatoria), Ars venandi (la caccia) e così via. Fu nel XVII secolo che lo studioso fiorentino Filippo Baldinucci scrisse, per la prima volta, delle “arti belle dove s’adopera il disegno” riferendosi alla pittura, scultura e architettura. Oggi, alla luce dell’esplosione dell’arte digitale, della crypto art, degli NFT, mentre assistiamo all’esponenziale ampliamento delle possibilità espressive nel campo delle arti visive, ci viene spontaneo recuperare l’antica definizione dei greci. Arte e tecnologia sono intrecciati indissolubilmente nei nuovi linguaggi e non si può essere artisti digitali senza essere anche tecnici che conoscano il funzionamento di software di elaborazione grafica, di animazione, di modellazione 3D e che sappiano agevolmente muoversi tra piattaforme come Rarible, SuperRare o Opensea, che consentono agli utenti di vendere e acquistare NFT (Non Fungible Token) e i diversi social media in cui si approfondiscono temi e argomenti legati all’attuale Rinascimento digitale che promette di ridefinire il concetto stesso di “belle arti”.

L’arte di Giovanni Motta s’inquadra in questo epocale momento di transizione, configurandosi come una pratica, o se preferite una techne, capace di sommare le abilità tecnologiche della digital art con quelle artigianali della pittura propriamente detta. 

Tutte le sue opere nascono in un ambiente digitale, sono, cioè, il prodotto dell’utilizzo di software di elaborazione digitale come Photoshop o Cinema 4D, che successivamente subiscono un ulteriore processo di raffinazione nella dimensione analogica della pittura tradizionale. I suoi lavori possono, quindi, assumere la forma di file Jpeg, Gif o MP4, ma anche avere la consistenza fisica di disegni su carta o di dipinti su tela realizzati manualmente con una precisione quasi maniacale. Questa combinazione di procedure, questa multimedialità, non solo definisce l’estensione del suo campo d’azione ma, corrisponde a una volontà programmatica di rivolgersi a un pubblico ben più ampio di quello convenzionalmente ristretto dell’arte contemporanea. Insomma, Motta vuole trasmettere il suo messaggio visivo a una platea virtualmente molto più estesa, che include il pubblico dei Baby Boomer e della Generazione X, dei Millennial e della Generazione Z. 

Message

Il tema, cioè il contenuto, delle immagini create da Giovanni Motta, è tanto semplice quanto potente: la ricoperta del bambino interiore, la trasmissione di una potenzialità energetica e vitale che risiede nella memoria di ogni individuo. Il bambino interiore è un elemento primordiale della personalità che deve essere recuperato nella vita adulta, un serbatoio pulsionale, emozionale, profondamente vitalistico che ha tutte le qualità dell’archetipo. 

Carl Gustav Jung lo chiamava puer aeternus, l’essere incontrollabile, caotico, passionale, dominato dalle emozioni. Insomma, per dirla con Friedrich Nietzsche, l’incarnazione del principio dionisiaco, orgiastico, furioso che si identifica con gli stati di esaltazione ed ebbrezza spirituale e fisica. La sua ombra, il suo negativo è il senex, l’uomo maturo, disciplinato, controllato, razionale, obbediente al principio apollineo, espressione dei concetti di armonia, ordine, proporzione. L’immaginario pittorico, ma anche esistenziale, di Giovanni Motta è la traduzione visiva di questa strenua volontà di reintegrazione del bambino interiore nella dimensione quotidiana. Reintegrazione condotta attraverso il recupero mnemonico e iconografico di una congerie di segni e simboli transazionali, che catapultano l’osservatore nel meraviglioso caos emozionale dell’infanzia e della pubertà. 

Appartenendo alla cosiddetta Generazione X ed essendo cresciuto, dunque, negli anni Ottanta, non stupisce che i segni e i codici dell’età evolutiva assumano, per lui, la forma di oggetti riconducibili a quel decennio. I manga e gli anime giapponesi, i cartoni animati americani e i primi videogame, la tecnologia user-friendly delle origini, con quel misto di semplicità e candore, e tutto il catalogo merceologico del consumismo degli Eighties compaiono all’interno dei suoi dipinti come epifenomeni, rivelazioni che corrispondono a stati d’animo perduti tra i meandri della memoria, rimossi dagli strati coscienziali della vita adulta. 

Fruit Ninja, 2021, acrilico su tela, 140×120 cm

La personificazione del puer aeternus di Giovanni Motta è Jonny, un bambino che sembra uscito dalla matita di un mangaka, la cui morfologia anatomica è quella tipica dell’individuo in crescita, col corpo minuto e la testa ipertrofica. Jonny è la controfigura infantilizzata dell’artista, l’avatar puberale, il fantasma interiore, la conformazione estetica di una proiezione inconscia, ma è anche, per estensione, un segnale, un simbolo che indica un’assenza, che sottolinea il vulnus, la ferita, lo squarcio che dilania l’esistenza dell’uomo adattato e uniformato. 

Motta usa Jonny come monito per sé stesso e per gli altri, ma anche come dimostrazione empirica che la guarigione, quella di tutti, è possibile attraverso la riscoperta e il recupero di questa entità imperitura, che ci libera dal tempo e dalla senescenza. 

Ad eccezione del dipinto, intitolato To be continued, in cui la figura del bambino è resa con un linguaggio mimetico e realista, le tele dell’artista mostrano Jonny come una sorta di costrutto astratto, come un’identità sintetica, generica, ma pur sempre customizzabile, progettata per assumere multiformi aspetti. Nei quadri di Giovanni Motta Jonny è un’entità sospesa, fluttuante, instabile, che trascina nel suo vortice una pletora di oggetti, complementi o appendici della sua personalità che ne rivelano gusti e passioni, desideri e aspirazioni. Jonny non tocca mai terra, vola, come i cowboy virtuali della mitologia cyberpunk di William Gibson, come l’altro Johnny, il Mnemonico[1], ma il suo scopo non è quello di infrangere lo strapotere delle multinazionali, ma di perpetuare la dimensione del gioco o, meglio, l’esperienza entusiastica del piacere, sia esso legato a un oggetto, un cibo, un giocattolo, un personaggio dei videogame. Anche “entusiasmo” è una parola che deriva dal greco antico (enthusiasmós), che significa “Dio dentro di sé”, “invasamento divino”. Non indica un semplice stato d’animo, un afflato di partecipazione emotiva, ma una forza attiva, travolgente, ilare, contagiosa, che, insomma, ci permette superare ogni ostacolo e di realizzare i propri sogni. Motta cerca l’enthusiasmós che anima il bambino interiore, gli dà corpo, sostanza pittorica e plastica, semplicemente perché le immagini sono potenti attrattori, mille volte più efficaci delle parole. 

Forgetting, 2021, acrilico su tela, 120×120 cm

Process

Tutta l’arte si fonda sulle idee, le matrici di ogni forma, le stringhe di codice che programmano la realtà tangibile e intangibile delle opere. Ma le idee non sono concetti. Non sono nemmeno parole. Sono immagini. Nella procedura creativa di Giovanni Motta, la memoria è il serbatoio da cui affiorano visioni sinestetiche, forme associate a contenuti tattili, olfattivi, emotivi. Questo tipo di immagini non si trovano su google, ma nei recessi profondi del subconscio. All’origine dei lavori dell’artista c’è, dunque, un particolare modo di raccogliere le informazioni, una metodologia di scandaglio interiore che è, essa stessa, una forma di tecnologia, un sofisticato strumento contemplativo chiamato meditazione. Motta usa la tecnica della meditazione regressiva per “tornare a vite precedenti” e “raccogliere e circoscrivere singoli eventi del periodo della pubertà”. Gli oggetti, i colori, le atmosfere presenti nei suoi dipinti sono informazioni derivate dalle sessioni meditative. Ricordi, impressioni, sensazioni, annotati sotto forma di appunti e bozzetti, costituiscono, dunque, il materiale primario per la costruzione dell’opera. 

In tutti i processi di regressione che sono all’origine di questi lavori di Motta, sono tre gli elementi ricorrenti: i videogame, i cartoni animati e l’estate, tutti riconducibili a esperienze di gioia, piacere, divertimento. “Mi sono accorto”, confessa l’artista, “che tutti i miei viaggi nel tempo riguardavano un bambino che voleva giocare e non voleva fermarsi, ma, come si sa, tutti i giochi finiscono.” Sfruttando questa capacità di retrospezione, l’artista cerca di risolvere il problema di come recuperare alla vita adulta l’entusiasmo del bambino interiore, la sua naturale propensione al godimento. 

La sua arte – pazientemente costruita con l’uso di software e poi declinata nei linguaggi della pittura o della scultura – ruota ossessivamente attorno a questo tema. Motta usa icone dell’immaginario videoludico (da Mario Bros a Pac-Man), richiami ai giocattoli vintage (dai soldatini ai Lego, dal cubo di Rubik ai dinosauri di plastica) allusioni ai cibi che piacciono ai bambini (dalla torta agli hamburger, dalle caramelle alle bevande gassate), per rappresentare quegli oggetti del desiderio che simbolizzano il Principio di piacere Freudiano (Lustprinzip)[2], cioè l’istintiva ricerca di appagamento che domina l’esperienza infantile. Produrre immagini digitali è una condizione necessaria ma non sufficiente del suo processo creativo. Le immagini devono anche tradursi in oggetti tangibili, in dipinti e sculture che amplificano il piacere e il godimento dell’osservatore attraverso l’evidenza sensibile e percettiva. Si può, tuttavia, interpretare tale attitudine come l’espressione della volontà di riconnettersi alla grande Storia dell’arte e alla pratica creativa nella sua dimensione squisitamente artigianale.

Jonny & Sam, 2021, acrilico su tela, 140 cm x 120 cm

Outro

In tutti i dipinti di Giovanni Motta l’enthusiasmós è codificato nella forma della metafora videoludica. La condizione del giocatore, estraniato dalla realtà quotidiana, è rappresentata attraverso l’immagine della fluttuazione di Jonny. La sua pneumatica sospensione simbolizza il flusso dinamico del gioco, una dimensione di dilatazione sensoriale in cui la percezione del tempo è alterata da massicce dosi di endorfina che riducono i livelli di stress, ansia e irritabilità. Secondo Matteo Bittanti, uno dei massimi esperti di Digital Game Culture, “Il videogame è una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea”[3].  Ma per Giovanni Motta il videogame è – come i giocattoli, i cibi e i beni di consumo -, soltanto un simbolo. Quel che conta è lo stato d’animo del giocatore, quella sensazione di “divino invasamento” che accompagna i momenti di euforia e di stupore della fanciullezza, un patrimonio emozionale che sembra destinato a sbiadire nel tempo. In un certo senso, i dipinti dell’artista, e specialmente quelli più narrativi come Huge meJonny & Sam o Fruit Ninja, sono dei dispositivi visuali di intensificazione vitale. Essi si collocano in una posizione antitetica rispetto al genere delle Vanitas, le nature morte che alludevano alla condizione effimera dell’esistenza interpretando il memento mori dei frati trappisti, con immagini di allegoriche. I Memento vivere di Giovanni Motta sono come l’ultimo gettone nella tasca di un bambino, quando compare sullo schermo la scritta Game Over. Insert coin to continue… La moneta che ti serve per fare un’altra partita. O un altro giro di giostra nel luna park della vita. 


[1] William Gibson, Johnny Mnemonic, in Bunring Chrome, 1986, Arbor House, New York.

[2] Sigmund Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien.

[3] Grazia Casagrande, I videogiochi e la loro filosofia: intervista a Matteo Bittanti, 27 maggio 2008, Wuz.it, https://www.wuz.it/intervista-libro/2224/intervista-matteo-bittanti.html.


Giovanni Motta – GAME OVER play again?
a cura di Ivan Quaroni
Gallery Func
No.13, Lane 182 Fumin Road, Jingan District, Shanghai, China

Opening: Domenica 18 Aprile 2021
Durata: 24 Aprile – 6 Giugno 2021
Riferimento: Ric Liu


Per ulteriori informazioni:
info@giovannimotta.it
ric@galleryfunc.com
Elena Stizzoli – assistente personale Giovanni Motta – Tel. +39 340 1295227
elena@giovannimotta.it
Sito web:
http://www.giovannimotta.it

Gli anticorpi della pittura di Veneziano

8 Ott

di Ivan Quaroni

In molti sostengono che d’ora in avanti cambierà tutto, che la relazione tra esseri viventi, come pure il rapporto con i luoghi (abitativi, scolastici, didattici, amministrativi, commerciali e d’intrattenimento) subiranno profonde modifiche. È vero, infatti, che a causa della pandemia del Covid-19 stiamo sperimentando una radicale alterazione delle nostre abitudini. In particolare, il lockdown, cioè la forzata (e dovuta) reclusione domestica dei primi mesi del 2020, ci ha obbligato a riconsiderare la natura progettuale del nostro rapporto col mondo. O meglio, ci ha costretto a riprogrammare e rinegoziare il nostro posto nello spazio naturale e urbano. Città e borghi improvvisamente silenti – incredibilmente simili alle Piazze d’Italia di De Chirico – ci hanno mostrato una realtà davvero inedita, una visione di come potrebbe essere la Terra alla fine dell’antropocene. A mutare, però, non è stato solo il panorama esteriore, restituito, obtorto collo, alle forze della natura, ma anche il landscape interiore ed emotivo di tutti noi. Ogni individuo, adattandosi all’emergenza del momento, è stato condotto a ridurre il proprio raggio d’azione, tracciando nuovi tragitti e perimetri nello spazio quotidiano e adattandosi alle regole di una socialità sempre più virtuale, ma non per questo meno necessaria. I cambiamenti più profondi, però, sono quelli intervenuti sul piano dell’immaginario sia personale che collettivo, di cui sono stati straordinari interpreti soprattutto gli artisti visivi che, con l’immediatezza delle loro immagini, hanno saputo trasmettere quel che non si poteva con la ragione e con la logica stringente delle parole. I migliori sono stati coloro che, come Giuseppe Veneziano, hanno testimoniato questo momento apicale della storia attraverso la potenza della trasfigurazione, non limitandosi, cioè, a riprodurre in figura i fatti di cronaca, ma spalancando le emozioni del momento sugli abissi della fantasia e dell’immaginazione. 

Si è detto e scritto molte volte che Veneziano è artista attento ai fatti di cronaca, talora capace persino di anticipare l’attualità con una qualità di visione quasi profetica. Ciò non significa, però, che la sua pittura sia il prodotto di una semplice osservazione dei fatti. Al contrario, credo che la sua arte germini e fiorisca nel territorio del possibile, dell’ipotetico e, in definitiva, del plausibile proprio perché l’oggetto delle sue fantasie e dei suoi mash-up iconografici è il frutto di un’acuta sensibilità contemporanea. E siccome Mala tempora currunt sed peiora parantur, come ritenevano i latini, non deve stupire se le sue opere contengono talvolta, oltre a una buona dose di ironia, un fondo di amara verità.  La profonda differenza tra la pittura di Veneziano e quella di artisti che, almeno apparentemente, sembrano usare analoghe grammatiche pop, sta proprio in questa capacità di filtrare il sentimento del proprio tempo, lo zeitgeist, con quel mix di fantasia, cultura e sensibilità trasformati in linguaggio che purtroppo manca a molti suoi colleghi. Non mi stancherò mai di ripetere, infatti, che l’originalità della sua opera non può essere attribuita alle sole invenzioni iconografiche, cioè ai pur sorprendenti accostamenti visivi coi quali mescola realtà e finzione, cronaca e storia, sesso e politica, sacro e profano, e che piacciono tanto al pubblico generalista quanto a quello di appassionati e connoisseur del mondo dell’arte. A dare sostanza e originalità al suo fulminante armamentario inventivo è soprattutto il suo lessico visivo, pazientemente affinato in una sintesi lineare che crea i volumi per netti accostamenti di tono e maturato nella distillazione di una personalissima gamma cromatica. 

Come spiego spesso a fan e detrattori della sua opera, nel suo caso la semplicità e l’accessibilità sono il frutto di una riduzione della complessità (di riferimenti, citazioni e possibilità interpretative). Come diceva Charles Bukowski, “il segreto, la verità profonda, per far qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta [appunto] nella semplicità”. Una verità che riecheggia anche nel Calvino delle Lezioni Americane, quando afferma – con una sentenza che sembra descrivere perfettamente il metodo creativo di Veneziano – che la fantasia “è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli e divertenti”. Quanto allo stile, per usare un concetto desueto, ormai sparito dalla sintassi della critica contemporanea, non c’è dubbio che quello di Veneziano sia inconfondibile e che non ci sia possibilità di scambiarlo con quello di altri artisti. Il suo modo di disegnare le figure e i suoi colori – i viola e gli azzurri inimitabili e i gialli e i rossi accesi che rimandano alla sua amata Sicilia -, non lasciano spazio a equivoci o incertezze. Personalmente, se non fosse paradossale affermarlo, saprei riconoscere un Veneziano a occhi chiusi. Ed è qualcosa che inconsciamente avverte anche chi non è un esperto di cose d’arte. 

Con questi strumenti, che sono poi quelli di sempre, è riuscito a sviluppare gli anticorpi creativi alla reclusione collettiva e al distanziamento sociale, ispirandosi, ancora una volta, al mondo dei supereroi e alla Storia dell’arte, per capire a fondo il senso di un cambiamento epocale che ci obbliga a rileggere non solo il passato e il presente, ma anche a interpretare il futuro. Con spirito satirico e sognante, infatti, l’artista ha immaginato come avrebbero affrontato questo delicato momento personaggi come Spiderman e Wonder Woman, Superman e Jocker, ma anche come sarebbe mutata, retroattivamente, l’iconografia del Rinascimento se i grandi pittori del Quattrocento e Cinquecento avessero vissuto l’esperienza del Covid-19. Attraverso gli eroi in calzamaglia e i santi e martiri della tradizione cristiana, Veneziano ha impaginato il racconto di una parabola collettiva in cui trovano posto non solo la paura e la sofferenza che hanno segnato i giorni più bui della pandemia, ma anche le speranze e i sogni per il mondo che verrà. Lo ha fatto, peraltro, collegandosi ogni giorno sui socialper mostrare in diretta come nasce il suo lavoro e in che modo, nel passaggio dal disegno all’acquarello fino alla tela finita, si dispiegano le varie tappe di un processo creativo a lenta decantazione.

Frutto dell’esperienza di una quotidianità claustrale che ha acutizzato la capacità di concentrazione e contemplazione sono molte delle opere di questa mostra: dal San Sebastiano a La Venere della mascherina (entrambi ispirati da Tiziano), dal leonardesco Corona mundi ai raffaelleschi La Madonna della sanificazione San Donald e il Virus, fino a La nascita della mascherina, ironica reinterpretazione della Creazione di Adamo della volta Sistina. Sono dipinti che connettono la percezione drammatica (e mediatica) dei giorni del lockdown con una comprensibile e necessaria voglia d’evasione e leggerezza, e coi quali Veneziano perpetua il suo programma di riconnessione con le radici auliche dell’arte rinascimentale. Un patrimonio, da troppi ignorato, sui quali fondare il senso di una moderna sensibilità pittorica, intimamente latina e mediterranea ma, allo stesso tempo, aperta al lessico globalista delle immagini pop. In tal senso, i supereroi possono essere considerati la naturale evoluzione degli eroi del mito classico o dei paladini dei romanzi cavallereschi. L’unica differenza, come scriveva Ardengo Soffici nel suo Giornale di bordo pubblicato sulla rivista Lacerba, è che “L’eroe antico era quello che affrontava la morte: l’eroe moderno è colui che accetta la vita”.

E, infatti, i supereroi di Veneziano si trovano alle prese con problemi reali, talvolta persino prosaici. Non sono gloriosamente martirizzati come San Sebastiano, né combattono valorosamente contro “il male” come il Trump di San Donald e il Virus e nemmeno rifulgono della sacra aura del Cristo di Corona mundi, della materna grazia della Madonna della Mascherina o della sensuale bellezza della Venere della mascherina. Piuttosto, sono la variante kitsch e camp delle persone comuni, di cui condividono uguali passioni e sentimenti. Ecco allora che la solitudine del supereroe moderno nell’era della reclusione forzata si traduce, nelle tele e nelle carte di Veneziano, in un catalogo di emozioni talvolta pedestri, che spaziano dall’estasi autoerotica dell’amazzone di Themyscira (Wonder Woman’s Intimacy) al desolato avvilimento precoitale di Spiderman (Default), dalla rabbiosa goffaggine di Superman (Collateral Effects) alla malinconia esistenziale della nemesi del Cavaliere oscuro (Jocker’s Lockdown). Eppure, l’intento dell’artista non è di smitizzare santi, martiri e supereroi per puro gusto dello sberleffo, ma umanizzarli per rendere più efficace e accessibile il loro valore simbolico. Un valore che non riguarda la forza o l’invulnerabilità, ma semmai il coraggio. Una qualità che è servita a tutti noi per superare i momenti di crisi e che Veneziano ha saputo raccontare con quello spirito ironico e lieve e quella disarmante empatia che fanno di lui il più umano degli artisti.

INFO:

Giuseppe Veneziano. Mr. Quarantine

a cura di Ivan Quaroni

Fabbrica Eos Arte Contemporanea

Viale Pasubio (angolo Via Bonnet), Milano

Opening: 8 ottobre 2020 ore 18.00

Neue Stimmung

3 Set

Sopravvivenze metafisiche nella pittura italiana contemporanea.

di Ivan Quaroni

“Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante, non solo d’Italia ma di tutto il mondo.”
(Giorgio De Chirico)

 

Stimmung del pomeriggio d’autunno

Il breve soggiorno torinese del maestro della Metafisica rimanda, idealmente, a quello dell’ultimo Friedrich Nietzsche, che nel capoluogo sabaudo, prima di impazzire, scrive il suo celebre Ecce Homo. In de Chirico le impressioni generate dalla permanenza torinese si sovrappongono, infatti, a quelle del filosofo tedesco, che di Torino notava la “meravigliosa limpidezza”, i “colori d’autunno” e che, con viva sensibilità, avvertiva “uno squisito senso di benessere diffuso su tutte le cose”. Parole simili echeggiano nella prosa di de Chirico, quando afferma che “La vera stagione di Torino, il cui fascino metafisico appare al meglio, è l’autunno”.[1]

L’autunno che Torino mi ha rivelato è felice, certo non di una felicità squillante e variopinta. È qualcosa di vasto, allo stesso tempo vicino e lontano, una grande serenità, una grande purezza prossima alla gioia che prova il convalescente alla fine di una lunga e penosa malattia. […] Per conto mio sono portato a credere che questa armonia, così squisita da diventare quasi insostenibile, non sia stata estranea alla follia di Nietzsche”.[2]

Torino ispira i quadri di de Chirico nel periodo tra il 1912 e il 1915. In particolare, l’artista rimane affascinato dalle grandi piazze, dalle simmetrie dei portici, dai colonnati e dalle statue, elementi che confluiranno nel suo vocabolario pittorico, insieme a quella particolare atmosfera, a “quella Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso”[3]

Nei dipinti di de Chirico non troviamo solo la trascrizione di quel sentimento, di quell’impressione, ma qualcosa di più profondo. La Stimmung – termine tedesco che si può tradurre con la parola “atmosfera” – non è uno stato d’animo umorale, come ad esempio il mood anglosassone, ma è una disposizione d’animo che si estende allo spazio, quasi una tonalità affettiva che coinvolge il luogo e il paesaggio, tracciando una sorta di linea d’ombra tra il visibile e l’invisibile. 

A Parigi, dove giunge da Torino nel 1912, de Chirico espone al Salon d’Automne alcuni di quei quadri in cui insegue quel misterioso sentimento che aveva scoperto nei libri di Nietzsche, quella malinconia dei pomeriggi autunnali delle città italiane, da cui maturerà l’idea di una pittura capace di vedere “oltre i muri”. 

“La rivelazione, il principio nuovo [dell’arte di de Chirico]”, scrive Riccardo Dottori, “riguarda una realtà che non è il semplice esistente, quella del Verismo, la realtà immediata ‘così come ci appare’ e che dobbiamo riprodurre, ma una realtà altra da ciò che vediamo e che dobbiamo rappresentare […]”[4].  “Un quadro”, afferma de Chirico, “ci si rivela senza che noi vediamo nulla e addirittura senza che pensiamo a nulla e può anche essere che la vista di qualcosa ci riveli un quadro ma in questo caso il quadro non sarà una riproduzione fedele di ciò che ha determinato la sua rivelazione ma gli rassomiglierà vagamente come il viso di una persona che vediamo in sogno […]”[5].

La rivelazione è dunque un atto divinatorio, oracolare, basato sull’intuizione di nuovi modi di vedere la realtà in cui le sensazioni visive sollecitano non solo l’occhio, ma anche la mente. Sono idee che de Chirico ricava dall’estetica e dalla metafisica di Schopenhauer – nella traduzione francese di August Dietrich (Métaphysique et Esthétique, Parigi, 1909) – e da La nascita della tragedia greca di Nietzsche. Nell’esperienza della rivelazione, che l’artista definisce come “metodo nietzschiano”, non è l’occhio a vedere, ma lo spirito attivo. La pittura metafisica diventa, così, un’attività simile alla mantica e al vaticinio.

Nelle “Piazze d’Italia”, il carattere enigmatico della rivelazione è reso, pittoricamente, creando uno stato di sospensione e di serena malinconia. Gli scorci prospettici dei portici che inquadrano l’immagine dirigono l’occhio verso una linea d’orizzonte su cui si stagliano gli sbuffi di vapore delle locomotive, segnali di una ricercata crasi tra il tempo eterno e circolare della classicità e il tempo presente e progressivo della modernità, rappresentato anche dalle ciminiere. “La città dechirichiana”, conferma Gioia Mori, “è disegnata con piazze ampie e portici, con scorci prospettici nitidi, e si arricchisce di edifici italiani, reali o dipinti, che vengono trasformati in moderne icone dello spaesamento”[6].

Neue Stimmung

Quale sia stata la portata della Metafisica nell’arte del secolo scorso è ben visibile non solo nella frangia belga del Surrealismo (René Magritte e Paul Delvaux), ma in molta pittura figurativa tra le due Guerre, dagli artisti che parteciparono all’esperienza di Valori Plastici al Novecento di Margherita Sarfatti, dalla Neue Sachlickeit al Realismo Magico italo-tedesco propugnato da Franz Roh e Massimo Bontempelli, fino alla remota esperienza del Precisionismo americano. 

Quanto al valore iconico della Metafisica, basterà ricordare le opere di Andy Warhol che replicano le Muse Inquietanti e le Piazze d’Italia, considerate come parte del mito contemporaneo, alla stregua delle zuppe Campbell e dei ritratti di Marilyn Monroe. Addirittura, come rileva Gioia Mori, “la Metafisica è considerata da Warhol come matrice linguistica della Pop Art: la tecnica di agnizione e prelievo dal quotidiano e il nuovo statuto di elemento oracolare che de Chirico attribuiva a cose, spazi, ricordi, con il conseguente spostamento dal quotidiano alla sfera alta dell’arte, corrisponde al processo subito dagli oggetti raffigurati da Warhol, che dal consumo di massa vengono trasferiti in ambito colto”[7].

Oggi, a oltre un secolo dalla creazione dei primi dipinti metafisici, è lecito domandarsi in quali forme e sotto quali mascheramenti si nasconda l’eredità della Stimmung e come questo particolare stato d’animo filosofico sia potuto sopravvivere all’avvento della postmodernità, alle teorie di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e a quelle di Jean Baudrillaud sulla sparizione dell’arte. 

La Stimmung dechirichiana s’inquadrava all’interno di un discorso sul valore metafisico delle immagini. Per il Pictor Optimusil termine Metafisica (derivante dal greco “ta meta ta physika”, che significa “ciò che segue dopo la fisica.”) non designava ciò che esiste oltre l’apparenza sensibile della realtà empirica, in un ipotetico universo invisibile, ma l’enigma e il mistero delle cose stesse, degli oggetti comuni e perfino banali. 

“Ora io nella parola ‘metafisica’ non ci vedo nulla di tenebroso:”, scriveva de Chirico nel 1919, “è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare ‘metafisica’ e tanto più metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità”[8].

Una Stimmung odierna, un’eventuale Neue Stimmung, difficilmente avrà le caratteristiche di quella originale. Per usare un’espressione popolare, “troppa acqua è passata sotto i ponti” e noi viviamo oggi in un mondo diverso, radicalmente distante da quello del primo anteguerra.

Tuttavia, tracce spurie o degradate di Stimmung sembrano sopravvivere nel frasario pittorico di alcuni artisti italiani, talora assumendo significati nuovi, in un ventaglio di accezioni che spaziano dal concettuale all’ironico, dal nostalgico al citazionista, dal magico al surreale. 

Lichtung

Ilaria Del Monte imprime caratteri di precisione e vividezza plastica a un universo mentale che fonde l’ordinario con il fantastico, traducendolo, così, in un racconto d’impressionante coerenza visiva. Elemento centrale della sua costruzione è il concetto heideggeriano di Lichtung, traducibile con la parola “chiaroscuro”, ma in un’accezione che designa l’apparizione di un’entità, il suo venire alla luce da un’oscurità irriducibile. I dipinti di Del Monte sono, infatti, pervasi da atmosfere vespertine e autunnali, che avvolgono le sue misteriose rappresentazioni nella calda e malinconica luce crepuscolare della Stimmung dechirichiana. 

Ilaria Del Monte, Still Life, 2020, olio su tela 80×55 cm

Luogo prediletto delle sue visioni, popolate di figure femminili, testimoni di bizzarre e magiche apparizioni, è la casa, che l’artista trasforma in uno spazio di transizione delle forme naturali, metaforico teatro di conflitti interiori. Nelle sue opere, l’interno borghese accoglie l’irruzione delle forze primigenie, come nel caso di Sopra il giardino (2020), dove il pavimento ligneo è sfondato da un’improvvisa fioritura di rose, o come nell’enigmatica epifania di un cervide in Still life (2020) o dei due giganteschi lepidotteri di Falene (2020). Altrove, la natura si fonde letteralmente con lo spazio claustrale della stanza, infrangendo i confini che separano l’ambiente domestico dal paesaggio circostante. Pesci rossi (2020), ad esempio, è una miniatura fantastica che mostra una fanciulla nuda su un divano, mentre immerge i piedi in uno stagno di ninfee in cui guizzano grandi carpe rosse. 

Ciò che vi è di metafisico nei lavori di Ilaria Del Monte è la qualità arcana e misteriosa delle sue immagini, permeate di allusioni magiche e umori psicanalitici che l’artista condensa in forme cristalline, dalle volumetrie nitide e perfettamente leggibili.

Regesto

La pittura di Paolo De Biasi si configura come una forma di scrittura che indaga le possibilità espressive di una pratica millenaria, potenzialmente capace di produrre significati diversi rispetto a quelli di qualsiasi altra forma di narrazione lineare. Per lui “il quadro è uno spazio finito nel reale ma infinito nel possibile”[9], cioè un luogo di rivelazioni che la pittura può plasmare in immagini intellegibili. Un linguaggio che, nel suo caso, tradisce una formazione da architetto, sensibile alla costruzione dello spazio e della forma di oggetti con cui costruisce un personalissimo catalogo di memorie e visioni. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, 100×70 cm

La ricerca di De Biasi – che egli intende come disciplina di verifica delle relazioni tra il “vedere” e il “pensare” – consiste nella creazione di uno spazio pittorico ideale, ma costellato di oggetti e forme riconoscibili e perfino di frammenti di opere del passato. L’elemento citazionistico della sua pittura, che include riferimenti alle antichità greche ed egizie (Daccapo, 2017) e schegge iconografiche di Giotto (Allorquando, 2018), Lorenzo Monaco e Leonardo (Sebbene lo fosse, 2019), è subordinato alla ripresa dei paradigmi fondanti dell’arte occidentale. Per De Biasi sono elementi di un alfabeto ricostruttivo che recupera i lemmi classici e moderni. In Dimora (2019) e in Padiglione (2020), ad esempio, la rappresentazione di strutture architettoniche di valore puramente segnaletico in un clima di metafisica sospensione, e peraltro simili a volti umani, è arricchita dall’inserzione di citazioni specifiche. Nel primo dipinto, all’interno dell’arco a tutto sesto compare la figura di Victorine Meurent, la celebre modella di Le Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet; mentre nel secondo, l’iscrizione dell’anno 1925 allude all’allestimento del Padiglione dell’Espirit Nouveau di Le Corbusier durante l’Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi. De Biasi dimostra che la pratica pittorica è un regesto di forme ricorsive, eternamente ritornanti, che contribuiscono alla periodica rifondazione delle grammatiche visive.

Metapsycologie

Paolo Pibi usa il paesaggio come pretesto iconografico per una pittura che indaga i confini percettivi della realtà in termini di visone. Attraverso una grammatica retinica, ad alta definizione ottica, l’artista dipinge immagini ambigue, che suggeriscono l’idea di un landscape modificato, artefatto e, per certi versi, simile a un costrutto mentale. La sua riflessione sull’origine della visione è ispirata alla teoria della Metapsicologia di Freud. Per il padre della psicanalisi se esiste una Metafisica, cioè una dottrina filosofica che studia le cause prime della realtà, deve esistere una Metapsicologia che descriva le modalità di costruzione e funzionamento dei processi psichici. Pibi affronta il problema della formazione delle immagini e del loro delinearsi nel campo concreto della pratica pittorica attraverso un metodo erratico, esplorativo.

Paolo Pibi, Metapsychologie 2, 2020, acrilico su tela – 50×50 cm

L’artista, infatti, non progetta le immagini in anticipo, ma le trova, per così dire, “in corso d’opera”, usando il linguaggio come una disciplina cognitiva che gli consente di imparare qualcosa su se stesso e sul mondo. Ciò che scopre è che il mondo reale e quello virtuale della pittura sono entrambi il frutto di una proiezione mentale e psicologica. I dipinti dell’artista mostrano, infatti, una realtà che sottende, e insieme prescinde, la morfologia paesaggistica, rivelando la natura geometrica e dunque schematica e costruttiva dell’esperienza ottica. Ne sono un perfetto esempio Metapsycologie 1 (2020) e Metapsycologie 2, paesaggi classici, quasi arcadici, che rivelano la presenza di un’altra dimensione, una sorta di meta-realtà formativa che è poi il luogo stesso di elaborazione delle immagini. Ed è proprio attraverso questo vulnus interpretativo, questo trauma rivelatorio, che si dispiega la Stimming di Paolo Pibi, uno stato d’animo perturbante che ci obbliga a riconsiderare gli angusti limiti della nostra percezione sensibile.

Finis mundi

Nicola Caredda trasferisce l’atmosfera sospesa e rarefatta degli Enigmi di de Chirico in un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi, dipinti con la puntigliosa acribia di un miniaturista, mostrano gli amabili resti di una società trascorsa, di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo la catastrofe nucleare e l’ecatombe ecologica, è un globo disabitato e silente, una natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Guardando alla Metafisica e al Realismo Magico, al Pop Surrealismo americano e al fumetto fantascientifico, l’artista costruisce un linguaggio che traghetta il gusto romantico per le rovine gotiche e la propensione per il mistero di tanta pittura simbolista nel vocabolario iconografico della modernità liquida. Le sue visioni notturne, con angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati ed elettrodomestici abbandonati, sommersi da una vegetazione proliferante, testimoniano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.

Nicola Caredda, Untitlhell with icemed, 2020, acrilico su tela , 30x40cm

Nella Wasteland post-apocalittica di Caredda – un mondo disseminato di graffiti e codici linguistici e pubblicitari di una società estinta, dove la natura sommerge i ruderi del paesaggio antropico – i simulacri e le vestigia della civiltà occidentale assumono il valore di feticci neometafisici. Il racconto iconografico di Caredda illustra il disastro attraverso le immagini dell’archeologia ludica dei parchi di divertimento, archetipo allegorico (e ironico) di una civiltà irresponsabile, ma anche tramite la riduzione del paesaggio a un immenso drive-in desertificato, con le carcasse delle auto abbandonate e le cadenti strutture dei chioschi e delle biglietterie. Quella dipinta da Caredda, è la Stimmung di una tregenda, ultima e catartica proiezione oleografica della finis mundi.

Melancholia

Che la pittura di Ciro Palumbo sia stata influenzata dai giacimenti nostalgici e immaginifici di certo Novecento, attraverso i filtri del simbolismo svizzero di Böcklin e Klinger, è evidente soprattutto nella scelta di recuperare frammenti dell’armamentario iconografico metafisico. Infatti, nelle tele dell’artista torinese le tracce mnestiche di Savino e de Chirico entrano a far parte di un alfabeto pittorico in bilico tra Surrealismo e Rappel a l’ordre

Ciro Palumbo, La casa magica, 2020, olio su tela, 40×50 cm

Quel che affiora prepotentemente dalla pittura di Palumbo, capillarmente irrorata da una rêverie di stampo classicista, è l’immaginazione mitopoietica, una potente spinta fantastica a creare nuovi miti e nuove narrazioni in cui affiorano, accanto a iconografie inedite, forme e figure d’immediata riconoscibilità. Una di queste è l’isola dei morti di böckliniana memoria, il massiccio scoglio di pietra, chiuso da svettanti cipressi, che Palumbo replica in miriadi di varianti, trasformandolo in un’allegoria mobile e fluttuante del bisogno di raccoglimento e contemplazione dell’uomo moderno. Una simbologia, questa, che richiama quella dell’hortus conclusus e che fa il paio con la metafora del viaggio, dell’attraversamento precario e instabile del mare magnum rappresentato da un piccolo natante che reca sulla prua l’immagine dipinta di un occhio, allusione alla missione visionaria e profetica dell’arte. L’universo di Palumbo, intriso di un’autunnale luce vespertina, include anche un altro topos dechirichiano, quello dell’interno metafisico, concepito come una scatola prospettica costellata di oggetti enigmatici e aperta, tramite una porta o una finestra, alla visione di un paesaggio esterno, una sorta di quadro nel quadro. In queste stanze silenti e malinconiche confluiscono, oltre alle suddette iconografie dell’isola (Interno magico, 2020) e del natante (Viaggio con la luna, 2020), anche quella pletora di giocattoli, ninnoli (La casa magica, 2020) e architetture miniaturizzate (E d’improvviso, 2020) che, pur costituendo un accorato tributo all’estetica di Savinio, s’inquadrano nell’originale linguaggio di Palumbo, capace di traslare i lemmi della pittura metafisica in una teoria di forme mobili e instabili, più adatte a rappresentare la fondamentale precarietà dei tempi attuali

Metastoria

Olinsky è il nome che adombra il progetto pittorico di Paolo Sandano, artista contemporaneo innamorato della storia, che affida le sue fantasie a un personaggio fittizio, un oscuro pittore, originario della Slavonia Occidentale che attraversa le vicende dell’arte del secolo scorso alla ricerca di un’improbabile illuminazione artistica a cavallo tra vecchio e nuovo continente. 

Nella sua pittura parabolica, affetta da un compulsivo nomadismo tra i linguaggi classici e le grammatiche avanguardiste, Olinsky include il ricco immaginario visivo di Walt Disney, che considera il più grande artista del XX secolo. Tutta la sua produzione pittorica è, infatti, abitata da una figura di muride, personale stilizzazione del Topolino disneyano e, insieme, alter ego che incarna i sogni, le aspirazioni, ma anche le delusioni e i tracolli dell’artista (Il pittore fallito, 1933), e che riflette, per estensione, la condizione esistenziale dell’umanità tutta, protesa verso un futuro quanto mai incerto. 

Olinsky, Felicità 1920, olio su tela, 80×60 cm

L’incontro di Olinsky con la Metafisica matura attraverso i giovanili approcci al genere arcadico (Eine Kleines Trumpet Konzert) e a quello romantico (Solo), in cui è lecito ravvisare i primi segnali di una predilezione per atmosfere incantate e stupefatte, talora venate di malinconia. Sarà, tuttavia nei dipinti della maturità, compresi tra gli anni Venti e Trenta, che Olinsky dimostrerà di aver assimilato i codici metafisici di Carlo Carrà (Felicità, 1920) e del giovane Mario Sironi (Un attimo prima, 1930), parafrasando, con la propria pittura, la lezione giottesca del primo e il malinconico incanto delle periferie urbane del secondo.  Olinsky è il primo e forse il solo artista che sia riuscito a tradurre la Stimmung in un sentimento di tragicomica catarsi iconografica.    

Metapop

L’esempio di Andy Warhol, che tradusse e rinnovò la pittura di de Chirico nel linguaggio della Pop art, dimostra come la Metafisica fosse già entrata a far parte dell’immaginario comune, esattamente come le più celebri icone dell’arte. La mostra Warhol versus de Chirico, allestita a Roma tra il 1982 e il 1983 alla sala degli Orazi e Curazi in Campidoglio, evidenziava, peraltro, come gli After de Chirico di Warhol, pur nella ripetizione differente della procedura serigrafica, mantenessero inalterate le atmosfere silenziose e rarefatte del Pictor Optimus, preservando il senso di straniamento e di sospensione delle sue Piazze d’Italia e il carattere misterioso ed enigmatico dei suoi manichini. Tra le opere di de Chirico revisionate in chiave pop dall’artista americano, c’è anche Ettore e Andromaca, dipinto cardine del periodo ferrarese che rappresenta, in chiave metafisica, l’episodio dell’Iliade relativo all’ultimo abbraccio tra Ettore e Andromaca, prima del fatale scontro dell’eroe troiano con Achille. Si tratta di un soggetto iconografico risalente al 1917, che de Chirico avrebbe ripreso in numerosissime varianti pittoriche e scultorie, ben prima della rilettura Warholiana.

Non stupisce, quindi, che un artista come Giuseppe Veneziano abbia rintracciato proprio in quest’opera il paradigma iconografico della fusione tra Metafisica e Pop Art, aggiungendovi il proprio personale contributo autoriale. 

Giuseppe Veneziano, Actarus e Andromaca, 2020, acrilico su tela, 80×60

Actarus e Andromaca (2020) è un mash up iconografico ottenuto dalla fusione di due figure antitetiche, capaci di generare un cortocircuito tra passato e presente, tra storia dell’arte e cultura di massa. Nel tradizionale impianto iconografico dechirichiano, Veneziano non solo opera la sostituzione del manichino di Ettore con la figura di Actarus, popolare eroe della serie animata giapponese Atlas Ufo Robot, ma inscrive l’impalcatura iconografica dell’opera nel rigoroso e riconoscibilissimo registro cromatico della sua pittura. Una pittura che ha dimostrato, in più occasioni, di saper interpretare il presente attraverso immagini polisemiche, che dischiudono molteplici possibilità interpretative, e che, proprio per questo, hanno lo stesso carattere enigmatico e interrogativo dei feticci metafisici.  


[1] Giorgio De Chirico, Scritti/1. Romanzi e scritti critici e teorici, a cura di Andrea Cortellessa, 2008, Milano, p. 1043.

[2] Ibidem, p. 1043.

[3] Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita (1945-1962), 2002, Milano, pp. 73-74

[4] Riccardo Dottori, Giorgio De Chirico. Immagini metafisiche, Milano, 2018, p.40. 

[5] Giorgio De Chirico, Op. cit, p. 597. 

[6] Gioia Mori, De Chirico metafisico, Art e Dossier, allegato al n. 230, febbraio 2007, Firenze-Milano, p. 25. 

[7] Ibidem, p. 45.

[8] Giorgio De Chirico, Noi metafisici, articolo apparso in “Cronache d’attualità”, Roma, 15 febbraio 1919; ristampato in Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 66-71; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, pp. 270-276.

[9] Michael Rotondi, Five Questions for Paolo De Biasi,  in “Forme Uniche”, 27 giugno 2016, http://formeuniche.org/five-questions-for-paolo-de-biasi/.


Info:

NEUE STIMMUNG
a cura di Ivan Quaroni.

Casati Arte Contemporanea
Docks Dora, Via Valprato 68 – TORINO
Sabato 19 settembre ore 17,30

 

Ilaria Del Monte. Spazio vitale

11 Lug

Di Ivan Quaroni

“Tutto è magia, o niente.”
(Novalis)

 

Waiting for Hermes, olio su tela, 50×60 cm, 2019

 

L’oggetto della pittura di Ilaria Del Monte non è il vero, ma il verosimile. Il suo scopo è la creazione iconografica di un evento psichico, la rappresentazione plastica di un fenomeno intangibile che affonda le radici nell’immaginazione dell’artista e nel suo vissuto emotivo. Il processo di costruzione del suo universo pittorico è, infatti, simile a quello di surrealisti come René Magritte e Paul Delvaux, influenzati dalla Metafisica di De Chirico e, dunque, più propensi a rappresentare il carattere enigmatico dell’esistenza attraverso una tecnica mimetica e illusionistica. Un aspetto, su cui peraltro la letteratura critica ha insistito, è la vicinanza della pittura di Ilaria Del Monte alle espressioni figurative di marca novecentista, dal Realismo Magico italiano a certa Nuova Oggettività tedesca, caratterizzati dalla visione di una quotidianità venata di mistero, screziata di sottili allusioni ed elusive corrispondenze.

In verità, oltre a questi, altri riferimenti stilistici innervano l’immaginario artistico di Ilaria Del Monte (da Dalì a Balthus, fino a Rosa Loy e Neo Rauch). D’altra parte, tutta la pittura è autofaga: si nutre, cioè, di se stessa, attinge ai propri motivi, ora rinnovandoli, ora adattandoli allo spirito del tempo. Più interessante della mera esegesi delle fonti iconografiche è, piuttosto, il tentativo di rilevare la marca originale della sua arte, rintracciandone il senso profondo attraverso l’analisi del testo pittorico.

Tempo che si attende, olio su tela, 90 x100 cm, 2017

Quella di Del Monte è, prima di tutto, una pittura retinica, capace di tradurre nella grammatica realistica il carattere epifanico delle sue visioni. Le sue immagini formano un racconto, vividamente plastico, di meraviglia e stupefazione, attraverso la creazione di un universo d’impressionante coerenza atmosferica, in cui l’ordinario e il fantastico si fondono senza soluzione di continuità. La luce, elemento cardine della narrazione, contribuisce a infondere in ogni scena un senso d’indecifrabile mistero. Non è, infatti, una luce diurna, piena, zenitale, ma una luce vespertina, crepuscolare con cui l’artista cerca di ricreare la Lichtungheideggeriana, un concetto filosofico, assimilabile al “chiaroscuro”, che indica il venire-alla-luce di un’entità a partire da un’oscurità irriducibile. Heidegger usa la metafora della radura illuminata nel bosco per affermare che la verità non è qualcosa che si rivela in piena luce (perché la luce accecante appiattisce ogni differenza), ma che si scorge in un sottile gioco chiaroscurale.

Al centro delle visioni di Ilaria Del Monte, nel soffuso equilibrio di luci e ombre, si staglia la figura femminile, una sorta di versione attualizzata dell’incantata eroina vittoriana, intenta a celebrare misteriosi rituali magici e oscuri riti propiziatori. Teatro di queste apparizioni è la casa, il focolare domestico, insieme scatola dalla prospettiva incerta e quinta teatrale, in cui precipita, condensandosi, tutto l’immaginario surreale dell’artista. Si tratta di un luogo claustrale, stranamente permeabile alle germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.

In questa dimensione liminare, medianica, si dispiega la Stimmungdi Ilaria Del Monte, quella particolare disposizione d’animo, placidamente malinconica, su cui pare aleggiare l’epigrafe nietzschiana di un celebre autoritratto di De Chirico: Et quid amabo nisi quod aenigma est?” (E che cosa amerò se non l’enigma delle cose?).

Casa dorata, olio su tela 30×35 cm, 2016

Enigmatica e arcana è, infatti, la qualità che sprigiona dalla sua pittura, concentrata sulla traduzione mimetica di un cosmo permeato di suggestioni magiche e umori psicanalitici, di oggetti simbolici e presenze totemiche. Un cosmo in cui, come dicevo, le donne sono protagoniste, eroine in un processo di autodeterminazione che ha le parvenze di un cerimoniale occulto e, allo stesso tempo, di una psicomagica lotta di liberazione.

Come nella Psicomagia di Alejandro Jodorowsky, infatti, le donne di Ilaria Del Monte possono liberarsi dai traumi del passato e dai vincoli familiari solo attraverso il compimento di una serie di azioni simboliche che le portano a diretto contatto con la propria vera essenza.

Gli animali che spesso popolano le tele dell’artista sono l’incarnazione plastica di una natura che erompe nel recinto delle mura domestiche. La casa, invece, è da sempre il simbolo architettonico dei legami familiari, la metafora di una sicurezza affettiva che può, però, tramutarsi in una in una prigione emotiva, in una fortezza della solitudine.

I pensieri sovrani, olio su tela, 40×50 cm, 2016

Quelle dipinte da Ilaria Del Monte sono, per lo più, case spoglie, con i muri scrostati (Ascension, 2019), le carte da parati scollate (Il giorno di Leda, 2013), le mattonelle crepate (I pensieri sovrani, 2016). Sono luoghi d’abbandono invasi dalla vegetazione (Il tempo che si attende, 2017), inondati dalla sabbia (Casa dorata, 2016), squarciati dalla forza tettonica delle rocce (La vita nel petto, 2016), e che, pure, conservano i segni di un antico splendore ancora visibile nei preziosi decori pavimentali e nelle boiserie (Il bagno, 2019), nei damaschi delle tappezzerie (La piccola stanza, 2019), nei variopinti parquet (The Promise, 2019), nei marmi, nei legni e nelle cornici dorate.

Sono stanze quasi vive, serrate attorno a figure che recitano un silenzioso grimorio; sono camere tentacolari che avviluppano e avvincono i corpi in serici legacci; sono muri che si stringono, come una trappola mortale, a comprimere ogni anelito, a castrare ogni possibile ascesa. Le donne di Ilaria Del Monte vi si oppongono pronunciando una muta giaculatoria di sortilegi, compiendo complesse coreografie apotropaiche e invocando, infine, le forze primigenie e liberatrici. La Natura risponde, sfondando il perimetro claustrale: è leone e cigno, è alligatore e corvo, è edera rampicante e rosa sanguigna, è ninfea acquatica.

Nei dipinti dell’artista la casa è un’estensione fisica del dominio della lotta interiore, il campo di battaglia per la conquista di uno spazio vitale che, infine, assume le sembianze di un sogno arcadico, illuminato dal crepuscolo simbolista. È il caso di Waiting for Ermes  (2019), definitivo epilogo di ogni conflitto: un “quadro per sognare”, per usare una definizione cara ad Arnold Böchlin, con la rappresentazione ideale di un paesaggio classico filtrata dalla fantasia nordica.


Info:

Ilaria Del Monte – Spazio vitale
a cura di Ivan Quaroni
Opening: 14 settembre, ore 18.30
Durata: dal 14 settembre al 15 dicembre 2019
MOMART GALLERY
Piazza Madonna dell’Idris, n. 5 e 7, Matera
Tel: +39 338 8414318
www.momartgallery.it
info@momartgallery.it
Orario di apertura: Dalle 10.00 alle 20.00
Giorno di chiusura: martedì

locandina del monte

Tragödie. Silvia Argiolas, Marica Fasoli

18 Giu

di Ivan Quaroni

“Risuona un mambo nella cavea e il mondo semplicemente gira.”
(Franco Battiato, Manlio Sgalambro, Bist du bei mir)

Invito-2

Premessa

Nella barbarie linguistica della comunicazione odierna – massmediaticadirebbe qualcuno – la filosofia è stata oggetto di numerosi processi di liofilizzazione a uso e consumo del pubblico. Tra i concetti che questo tipo di pubblicistica ha consegnato alla mediocrità del vocabolario corrente, vi sono due aggettivi sostantivati di estrema rilevanza: dionisiaco e apollineo.

Sono termini oggi grossolanamente usati per designare due aspetti o attitudini del comportamento umano. Il primo, di carattere orgiastico, attiene i sentimenti di esaltazione e furore della sfera istintiva e irrazionale; il secondo, di matrice solare, introduce le idee di ordine e armonia che sostanziano il pensiero logico e razionale. Si riferiscono a due divinità della religione dei greci antichi: Dioniso, il Dio arcaico della vegetazione, incarnazione della linfa vitale, ibrida e multiforme, che alimenta le esplosioni mistiche e sensuali, secondo un principio d’indistinzione, o di primaria comunione tra uomo e natura; Apollo, divinità dalle qualità cumulative, auriga solare, protettore di pastori e greggi, patrono della musica, della poesia, della medicina e della mantica, acuto nel giudizio, oscuro nei vaticini.

Dionisiaco e apollineo prendono forma nella mente di un giovane filologo tedesco rintanato in un angolo delle Alpi, durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, “mentre i tuoni della battaglia di Wörth trascorrevano sull’Europa”[1]. Friedrich Nietzsche dà alle stampe la sua opera prima, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, nel 1872, esordendo con uno sbalorditivo incipit: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”.[2]

Sarà, infatti, la composizione dei due principi che fanno capo alle opposte origini e finalità delle due divinità, sempre in aperto contrasto e in “eccitazione reciproca”, a produrre finalmente l’opera d’arte, inizialmente nella particolare forma della tragedia attica. Tuttavia, quattordici anni dopo la pubblicazione dello scritto, nel suo Tentativo di autocritica (1886), Nietzsche applica quelle prime e visionarie intuizioni estensivamente a tutta l’arte, indicando in essa – e non nella morale – la vera attività metafisica dell’uomo.

La Nascita della tragedia s’innesta, a tratti come una sorta di sovrascrittura, sulla concezione pessimistica de Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer (1818). Il dionisiaco vi s’inserisce come una forma di totale identificazione col dolore originario, come uno stato che subentra alla rottura del principio d’individuazione e produce una mistica, erotica congiunzione con la natura, un rapimento estatico che l’autore della Tragedia paragona all’ebbrezza provocata dalle bevande narcotiche o dal “poderoso avvicinarsi della primavera”.

Laddove Schopenhauer avverte il terribile orrore che afferra l’uomo quando perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, Nietzsche intravede una possibilità di riconciliazione con la natura. Proprio qui si consuma il distacco dal pensiero di Schopenhauer. Nietzsche si domanda, infatti, se il pessimismo – ossia la coscienza che il mondo e la vita non possono dare nessuna vera soddisfazione, nessuna gioia permanente – sia necessariamente un segno di declino, di decadenza o se possa esistere un pessimismo della forza, “un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza”.[3]

6 - Salò o le 120 giornate di Sodoma, 2019, olio su tela, 40x30 cm

Silvia Argiolas, Salò o le 120 giornate di Sodoma, 2019, olio su tela, 40×30 cm. Collezione Rivabella

Fondamento tragico dell’arte

Il dionisiaco è, dunque, espressione di una vitalità del negativo, di un oblio dell’individuo che vive la contraddizione di una gioia e di una pienezza nate dal dolore che erompe dal cuore stesso della natura. Al contrario, l’apollineo è la divinizzazione del principio d’individuazione, cioè della percezione della separazione di ogni essere vivente, in particolare della separazione tra uomo e natura che conduce alla riflessione – il nosce te ipsum(conosci te stesso) iscritto sul tempio di Apollo a Delfi -, alla misura morale, al comportamento temperato, alla ricerca della bellezza e dell’armonia. In tal senso, l’apollineo è uno stato illusorio, simile al sogno, che permette all’individuo di guardare la verità raccapricciante, di osservare lo spettacolo barbarico del dolore dell’esistenza come se si trattasse di una rappresentazione. L’apollineo è la forma della conoscenza distaccata, laddove il dionisiaco è la forma della conoscenza incarnata, immedesimata e fusa con l’atrocità e l’assurdità dell’essere.

Come il dionisiaco, anche l’apollineo è uno stato necessario alla formazione dell’arte, l’uno e l’altro sono legati e intrappolati in un gioco di opposti, in un meccanismo che Eraclito chiama enantiodromia, e per il quale tutto ciò che esiste passa nel suo contrario. Per Nietzsche, apollineo e dionisiaco sono forze artistiche che sgorgano dalla natura senza mediazione dell’artista umano. “Rispetto a questi stati artistici immediati della natura”, afferma il filosofo, “ogni artista è«imitatore», cioè o artista apollineo del sogno o artista dionisiaco dell’ebbrezza o infine – come per esempio nella tragedia greca – insieme artista del sogno e dell’ebbrezza.”[4]

Phoenix 50x50, tecnica mista su carta, 2019 designed origami by Jo Nakashima

Marica fasoli, Phoenix, 2019, tecnica mista su carta, 50×50 cm. designed origami by Jo Nakashima

Due evidenze apparentemente esemplificative

Ora, la succitata premessa potrebbe fornire una chiave interpretativa delle ricerche di Silvia Argiolas e Marica Fasoli. Si potrebbero, cioè, applicare le categorie contenute nell’opera prima di Nietzsche per penetrare a fondo le loro differenti attitudini espressive.

Nella pittura di Argiolas domina lo spirito dionisiaco, l’attrazione per il titanico e il barbarico, l’interesse per il doloroso fondo esistenziale e per la sua controparte panica e sensuale. C’è, nei suoi racconti visivi, l’espressione di uno sguardo coraggioso, intento a scrutare gli accessi di follia e i deliqui erotici, le estasi e le agonie del magma esperienziale, ma anche la banale quotidianità di esistenze straordinarie o marginali.

Placido e distillato è, invece, lo sguardo di Marica Fasoli, governato dalla geometria aurea e trasognata dell’apollineo. La sua indagine pittorica decanta il mondo in forme astratte, filtrandolo attraverso una pletora di diagrammi che simbolizzano la realtà fenomenica, senza mai rappresentarla direttamente. L’impeto mimetico, che da sempre costituisce la marca stilistica del suo lavoro, è indirizzato verso la pellicola dell’immagine, insieme superficie testurale e concettuale.

Quella di Argiolas è una pittura scaturita da un abbandono vigile, che riceve e restituisce, come una sorta di documento poetico, l’urto dell’esperienza vitale. Quella di Fasoli è una pittura stillata e meditata, che osserva la vita da un punto di vista remoto per ricavarne un senso ulteriore, radiografandone la struttura per trasmetterla all’osservatore in forme platoniche e ideali, ma dotate di una potente capacità seduttiva.

Argiolas. Ut pictura poësis o viceversa.

Quello dipinto da Silvia Argiolas è un universo d’infusione e di effusione, popolato di figure ibride e oggetti ambigui avvolti in un amalgama orgiastico che confonde i contorni e i perimetri identitari dei soggetti. Lo spazio delle sue rappresentazioni è, infatti, teatro di una profusione di epifanie simultanee, di un’accumulazione narrativa che somiglia a una cosmica copula di episodi. La metafora dell’amplesso, inteso come abbraccio, effusione, ma anche accoppiamento erotico, percorre la sua pittura come una sorta di refrain iconografico, alludendo alla necessità di una coraggiosa immersione nel caos esistenziale.

Il suo linguaggio si forma per via adesiva e identificativa con le pulsioni che muovono ogni individuo verso la sua definitiva affermazione o dissoluzione. Per questo, il suo non è un dipingere progettato, elucubrato a freddo, ma costruito per accumulazione di gesti, segni, immagini che affiorano, quasi medianicamente, dalle profondità della coscienza per imprimersi sulla superficie della carta e della tela. Argiolas si abbandona a quanto vi è di sottilmente vigile in un processo d’improvvisazione. Arte, esperienza e intelligenza manuale guidano questo metodo erratico di elaborazione pittorica senza mai cristallizzarsi in codici normativi, ma lasciando aperto il campo a errori, ripensamenti, rivelazioni. Il suo procedimento è “erratico” in un duplice senso: primo, perché l’artista si muove sulla superficie senza uno scopo premeditato, dunque errando e vagabondando tra infinite possibilità espressive; secondo, perché confida nella propria capacità di trasformare ogni errore e ogni imprevisto in una formulazione grafica originale, che ha il valore di una scoperta. Spontaneità, imperfezione e coraggio sono valori imprescindibili della sua pittura, che legge il mondo come esperienza tragica e come coacervo di ossessioni e possessioni, di estasi e afflizioni insieme carnali e spirituali. La poesia si offre all’artista come fonte d’ispirazione più prossima alla pittura proprio per la sua qualità immersiva, cioè per la sua capacità di verificare il vissuto esistenziale dall’interno, dal ventre passionale e doloroso delle emozioni. Argiolas, infatti, rileva nei versi di Juan Rodolfo Wilcock, Michel Houellebecq, Dario Bellezza, Sandro Penna e Pier Paolo Pasolini un grumo d’immagini capaci di ispirare la rappresentazione grafica di quel sentimento tragico, lo stesso che animava Giovanni Testori, pendolarmente sospeso tra estasi e tormenti, tra deliqui carnali e sublimi ascensioni.

In Snack bar (2019), una grande tecnica mista su carta, riecheggiano quasi in sordina i versi di Wilcock: Ma io mi sciolgo davanti a uno snack bar/se solo so che ci sei dentro tu[5]. Eppure, l’immagine è tutt’altro che descrittiva. L’artista, piuttosto, trasferisce in quella teoria di corpi nudi, fradici di umori, i sentimenti dell’amante arrendevole, annichilito, come un lirico greco, dalla furia distruttiva dell’amore.

Un groviglio di corpi madidi – ennesimo amplesso di figure fluttuanti nel turgore virescente di un paesaggio boschivo -, campeggia al centro di Il senso della lotta (2019), una grande tela ispirata all’omonima lirica di Michel Houellebecq, dove si legge: La parabola del desiderio/Riempiva le nostre mani di silenzio/E ognuno si sentiva morire,/I nostri corpi vibravano della tua assenza[6]. L’immaginario panico e orgiastico dell’artista si configura, qui, come una sorta di anatomia tantrica del desiderio, come una bukowskiana musica per organi caldi, partitura di orifizi umidi, membri sprizzanti, mammelle stillanti e lingue avvolgenti. Tutta l’arte di Argiolas aspira alla condizione coitale, all’annichilamento orgiastico che prefigura la fusione dell’individuo col tutto e la sua momentanea eclissi identitaria. Per questo i suoi personaggi sono spesso sessualmente ibridi, incarnazioni di quella bisessualità innata che secondo Sigmund Freud è presente in ogni individuo sotto forma di predisposizione psicologica[7].

A Pier Paolo Pasolini è dedicato un gruppo assortito di lavori. L’opera principale, Pasolini (2019), è il frutto di un’immaginifica crasi tra due autoritratti dello scrittore dei primi anni Quaranta, già esposti nella mostra Pasolini a Casa Testori (20 aprile – 1 luglio 2012). Si tratta di due fisionomie sovrapposte, due diversi aspetti della personalità di Pasolini che la pittrice innesta su un’anatomia fluida, elastica e tentacolare quanto l’attività dell’autore, che spaziava dalla poesia alla narrativa, dalla sceneggiatura alla regia, dal giornalismo alla drammaturgia senza soluzione di continuità.

Al ritratto bifronte dello scrittore friulano si affiancano, poi, quelli di Maria Callas, che fu sua musa per il film Medea (1969), interpretando la protagonista dell’omonima tragedia di Euripide, moglie abbandonata, maga e assassina. Anche in queste tre piccole effigi, dove il linguaggio espressionista è venato d’allusioni bizantine, i ritratti sono costruiti come prodotto di una moltiplicazione fisionomica: una solida e più leggibile, l’altra lineare e quasi aerea. Chiudono la serie dedicata a Pasolini, due piccoli dipinti (Gli sposi e  Salò o le 120 giornate di Sodoma), ispirati all’opera conclusiva della sua cinematografia che individuava nella feroce opera del Marchese De Sade i segni manifesti della tirannia della Ragione e della conseguente assenza d’ogni umana empatia e compassione. Un tema, questo, che attraversa in filigrana tutta l’opera pittorica di Silvia Argiolas, orientata alla comprensione e alla rappresentazione di tutta la gamma delle vicende umane, perfino quelle più marginali o socialmente inaccettabili.

Dario Bellezza con i suoi gatti (2019) è, invece, un ritratto zoomorfico dello scrittore romano che proprio ai felini dedicò un’intera sezione della raccolta di liriche Io: 1975-1982 (Mondadori, 1982). “Di Bellezza, poeta legato a Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori”, racconta Silvia Argiolas, “mi ha colpito il rapporto con la vita e con la morte, il suo essere un gatto selvatico, incapace di dominare i suoi istinti animali e sessuali”.

A Sandro Penna, infine, sono dedicate due tele: La stanza del poeta (2019), un ritratto caratterizzato da un rigoroso equilibrio formale e da una gamma cromatica di sapore quasi mesoamericano; e Il mare tutto azzurro/il mare tutto calmo (2019), lavoro ispirato ai versi di una breve poesia in cui lo scrittore contrappone il placido silenzio del paesaggio marittimo all’urlo muto del suo cuore esultante. In questo piccolissimo dipinto, affiora forse più chiaramente il lato apollineo che innerva tutta pittura di Argiolas. Una pittura che, nella sua empatica adesione alle gioie e alle sofferenze estreme dell’uomo, è però pur sempre testimonianza di una forma d’osservazione, capace di filtrare il tragico fondo esistenziale attraverso le visioni lenticolari del sogno e dell’allucinazione. È, infatti, tramite il sogno che l’artista si fa spettatrice del caos, scrutatrice del dolente abisso della coscienza e, allo stesso tempo, dell’inumano spettacolo della natura.

Marica Fasoli. Mimesi platonica o iperrealismo di secondo grado.

Analisi e contemplazione sono i presupposti dell’indagine di Marica Fasoli, artista che studia la morfologia dei fenomeni e il modo in cui le forme delle cose si presentano ai nostri occhi, per snidare e stanare in esse un significato ulteriore, un ordine o una matrice.

Lo slancio platonico – o se preferite kantiano – dell’artista si fonda sulla necessità teleologica di formulare ipotesi credibili sul fondamento dell’esistenza. Il prerequisito di tale atteggiamento è il principio di individuazione, la percezione di sé come entità separata da tutte le altre entità del mondo, le quali, possono quindi diventare oggetto di osservazione ed analisi. Si tratta di una condizione ascetica, contemplativa, antitetica alla furia orgiastica e all’estasi mistica che annullano l’individuo ricongiungendolo col tutto. Per osservare il mondo, per non lasciarsi prendere nella sua morsa è necessario svolgere uno sforzo interiore, fabbricarsi l’illusione di diventarne il testimone.

Tutta l’arte è, in qualche modo, mimetica (nella forma o nella sostanza) perché si fonda sulla capacità di esaminare e vagliare il senso del mondo per riformularlo sotto forma d’immagini. È quello che Nietzsche definisce sogno, dominio apollineo che permette di guardare l’esistenza come se si trattasse di una sorta di spettacolo.

Marica Fasoli è un’artista mimetica, che ha sviluppato uno stile iperrealistico basato sul virtuosismo tecnico e descrittivo. Tale abilità, derivata dalla sua specializzazione in Anatomia Artistica e approfondita nell’esperienza di restauro di opere antiche, ha contribuito non poco alla definizione del suo linguaggio pittorico. Per anni, ha ritratto la realtà con l’acribia di un miniaturista, ricalcando la superficie degli oggetti, le venature lignee, le pieghe della carta, le fisionomie e gli incarnati, alla ricerca di un segno, di un indizio che potesse rivelare l’anima o la sostanza che sta dietro la pellicola delle cose. La tensione retinica, una sorta di muscolare atletica visiva, serviva a penetrare il significato di quelle forme. Ma il ricalco mimetico, la ricostruzione, quasi fotografica, delle qualità epidermiche e testurali degli oggetti non era sufficiente a produrre una formulazione di senso. Il noumeno si sottraeva all’indagine ottica, un breve, elusivo lampo di consapevolezza a fronte di uno sforzo titanico. Bisognava cambiare strategia, fare un passo indietro (o in avanti), per formulare nuove ipotesi. La natura e il mondo andavano osservati da un altro punto di vista, più discosto, più indiretto: non la forma delle cose, ma quella delle idee, non i fenomeni, ma i costrutti.

Riorientando lo sguardo dall’esterno all’interno, l’osservazione si trasmuta in contemplazione. Il lavoro odierno di Marica Fasoli nasce per effetto di questo scarto, di questo slittamento concettuale, grazie alla scoperta di una pratica lontana nel tempo e nello spazio, quella dell’origami, una tecnica orientale di piegatura della carta finalizzata alla costruzione di modelli e oggetti tridimensionali. Non un’attività di svago, ma un’arte che insegna la disciplina interiore e sviluppa doti di precisone e pazienza che attengono anche alla pratica della pittura iperrealista. Marica Fasoli ne impara i rudimenti e inizia a fabbricare le forme più semplici: un orso, un pavone, una rana, una conchiglia, un riccio, un unicorno. Montando e rimontando quelle forme si accorge che il foglio dispiegato è un diagramma di linee complesse che somiglia a una struttura ordinata, è la rappresentazione visiva di un design, lo schema di un progetto. Non l’effetto, ma l’idea, il noumeno, forse. Comincia a pensare di aver trovato un nuovo oggetto da osservare, qualcosa da dipingere: un simbolo astratto, non più un oggetto concreto.

Gli origami sono oggetti simbolici, che alludono al ciclo vitale di nascita, morte e rigenerazione. Fragili e deperibili come gli organismi naturali, gli origami possono essere fatti e disfatti, costruiti e distrutti. Per Marica Fasoli il foglio di carta dispiegato, segnato da un reticolo di linee e ombre, è una sorta matrice, un’allegoria generativa che può essere tradotta nel linguaggio della pittura. Ma come? Gli vengono in soccorso due modelli procedurali: quello di Corrado Cagli, che nel 1957 dipinge Enigma del gallo, un olio su carta intelata dove le partiture astratte dell’immagine sono ricavate dalla mimesi delle stropicciature di un foglio di carta; e quello, più recente, di Tauba Auerbach, artista californiana autrice dei cosiddetti Crumple Painting, “una serie di grandi rendering di carta accartocciata dipinti in semitono”[8]. Partendo da quei modelli, Marica Fasoli elabora una pittura di mimesi strutturale, che usa la matrice degli origami come linea guida o, addirittura come supporto per la realizzazione di opere astratte.

Ogni origami è il prodotto di una creazione artistica originale, tanto che l’artista ne cita sempre l’autore, ma la sua comprensione passa attraverso un complesso lavoro di costruzione. Prima di dipingere un origami Marica Fasoli deve necessariamente imparare a costruirlo, assimilando una coreografa di gesti ordinati in una precisa successione. Una volta costruito, l’origami può essere finalmente smontato. Il foglio dispiegato rivela, infatti, la fitta trama di piegature che costituisce l’ossatura progettuale dell’oggetto. Su questa griglia di linee l’artista lavora con una tecnica chiaroscurale che marca luci e ombre in tonalità metalliche e iridescenti. Nascono così dipinti come Lemur (2017), Scrat (2017), Tarantula (2017) Hawk (2018) e Featerehd Crane (2018), stilisticamente all’incrocio tra astrazione e iperrealismo, tra arte analitica e concettuale.

I lavori di Marica Fasoli sono ipertesti visivi che rimandano a contenuti iconografici assenti, nel senso che le figure non compaiono nell’immagine dipinta, se non in forma ideale, progettuale appunto. Tutto il campionario fenomenologico delle forme zoomorfiche evocate dai titoli precipita, di fatto, in un unico oggetto, il foglio di carta pieghettato, un codice riepilogativo in grado di sintetizzare un’enorme massa informazionale. Nell’osservazione della natura, l’artista attua un doppio processo astrattivo: sceglie un soggetto come l’origami, un artefatto già astratto e stilizzato, per decostruirlo e ridurlo a diagramma riassuntivo delle proprietà geometriche e matematiche che governano tutti gli organismi, dalla proporzione aurea alla sequenza di Fibonacci. Sembrerebbe un sogno apollineo al quadrato. Eppure, il carattere dionisiaco, anche se recessivo, costituisce il fondamento emozionale di questa operazione di rimozione. La ricerca di bellezza e armonia nella pittura di Marica Fasoli e il suo strenuo ancorarsi all’ipotesi di un cosmo strutturalmente ordinato e perfetto rispondono a un’intima, forse inconfessabile, necessità di arginare il caos. Un caos che l’artista presagisce già agli esordi della sua indagine sugli origami, quando legge della tragica vicenda di Sadako Sasaki. La storia racconta di una bambina giapponese esposta alle radiazioni nucleari di Hiroshima che all’età di undici anni si ammalò di leucemia. Per sconfiggere la morte, con atto scaramantico, Sadako decise di piegare mille origami in forma di gru. Nella cultura giapponese la gru è un animale simbolo d’immortalità. Purtroppo, la bambina riuscì a realizzarne solo una parte, prima che la malattia la consumasse del tutto. A finire il lavoro furono i suoi amici, che raccolsero i fondi per erigere una statua in suo onore nel Parco della Pace di Hiroshima, un monumento visitato ogni anno da migliaia di persone.

Congedo

L’analisi delle ricerche diametralmente opposte di Silvia Argiolas e Marica Fasoli dimostra che apollineo e dionisiaco, le due categorie introdotte da Nietzsche per spiegare la nascita della tragedia attica, attraversano, come una sottile filigrana, tutte le forme d’arte. Tutta l’arte, infatti, è infusa di questi elementi differentemente miscelati in un’infinita gamma di combinazioni. Per il grande filosofo tedesco l’arte è un’attività metafisica perché la natura umana può liberarsi solo attraverso questi due strumenti, queste due divinità, Dioniso e Apollo, il cui accoppiamento fa esplodere un’intuizione e scatenare perfino la fantasia più mediocre. Laddove c’è l’arte e la comprensione di questi due doni che erompono dal cuore stesso della natura, “Allora c’è una salvezza”, afferma Giorgio Colli, “allora il mondo che ci circonda, con il suo cielo plumbeo e le sue ore digrignanti, è soltanto un incubo, e la vita vera è il sogno, è l’ebrezza!”[9]


Note

[1]Friedrich Nietzsche, Tentativo di autocritica, in Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, 1977, p.3.
[2]Friedrich Nietzsche, Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, 1977, p.21.
[3]Tentativo di autocritica, p.4.
[4]Nascita della Tragedia, p.27.
[5]Juan Rodolfo Wilcock, Poesia, Adelphi, Milano, 1996.
[6]Michel Houellebecq, Il senso della lotta, Bompiani, Milano, 2000.
[7]Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
[8]Margherita Artoni, Tauba Auerbach. Oltre la terza dimensione, in “Flash Art”, dicembre 2011- gennaio 2012, Giancarlo Politi Editore, Milano, p. 60.
[9]Giorgio Colli, Nota introduttiva, in Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano, 1977, p. XII.


Info:

Tragödie. Silvia Argiolas / Marica Fasoli
a cura di Ivan Quaroni
Casa Testori
Largo Angelo Testori, 13, 20026 Novate Milanese MI
tel. 02.36586877 | info@casatestori.it

Ufficio Stampa
MGV Communication
Maria Grazia Vernuccio
tel: +39 3351282864
mariagrazia.vernuccio@mgvcommunication.it

Vanni Cuoghi. The Eye of the Storm

26 Mag

di Ivan Quaroni

 

“Tutto è sospeso come in un’attesa.
Non penso più. Sono contento e muto.”
(Camillo Sbarbaro, Io che come un sonnambulo cammino, 1914)

Monolocale 88 ,(Typhoon 14), anno 2019, tecnica mista, cm 35x50

Monolocale 88 ,(Typhoon 14), 2019, tecnica mista, cm 35×50

La ricerca attuale di Vanni Cuoghi è il prodotto di un lungo percorso di affinamento tecnico e linguistico consistente nella costruzione di una grammatica visiva basata sulla commistione di diverse pratiche, dalla pittura al collage, dal disegno alla scenografia, dall’installazione al paper cutting, cioè quell’arte di intagliare forme e figure nella carta che nasce anticamente in Cina e che i giapponesi chiamano kirigami. Proprio questa tecnica, in Europa conosciuta con nomi diversi – scherenschnittin Germania, Knippenin Olanda, silhouettein Francia e Inghilterraepsaligrafia in Italia– ha consentito all’artista di dare alla sua pittura un’estensione tridimensionale, in larga parte derivata dai suoi studi accademici nel campo della scenografia e dai suoi esordi professionali come decoratore.

Dal 2015 l’artista ha iniziato a creare una serie opere intitolate Monolocali, scatole rettangolari di vario formato che riproducono lo spazio convenzionale di una stanza entro cui si muovono i protagonisti delle sue narrazioni pittoriche. I primi Monolocali, contrassegnati da numeri progressivi, contenevano evidenti riferimenti biografici, tracce delle sue esperienze giovanili che, a distanza di anni, ritornavano sotto forma di frammenti di memorie legate ai luoghi in cui aveva vissuto.

Genovese di nascita e milanese d’adozione, Cuoghi ha trascorso gli anni da studente all’Accademia di Brera abitando in piccoli appartamenti della periferia urbana. La dimensione del “monolocale” è diventata per lui la metafora di una condizione esistenziale. Gli ambienti ristretti, i compromessi della convivenza e le inevitabili economie di una vita da studente, libera ma pur sempre vincolante, hanno acuito la sua percezione dell’unità abitativa come spazio autonomo e funzionale.

Molti anni dopo, il ricordo di quel vissuto si è tradotto nella costruzione di un modello espressivo e compositivo. La stanza si è trasformata, per così dire, in una scatola prospettica, una sorta di palcoscenico miniaturizzato, capace di ospitare i racconti pittorici dell’artista, secondo le convenzionali unità aristoteliche di tempo, luogo, azione.

La struttura dei Monolocali di Vanni Cuoghi è simile a quella dei plastici e delle maquetteche appassionano gli scenografi e i modellisti, ma la pittura ha qui un ruolo primario perché personaggi, oggetti, complementi d’arredo, carte da parati, piastrelle, decori di ogni tipo, tutti rigorosamente bidimensionali, sono dipinti con l’acribia di un amanuense. Essi rappresentano, in buona sostanza, una variante condensata e concentrata della cosiddetta expanded painting, affrancata dal recinto perimetrale del dipinto da cavalletto.

Con i Monolocali, infatti, la pittura di Cuoghi assume una dimensione oggettuale, concreta, che invita lo spettatore a indagare l’immagine come se si trattasse di una creazione plastica in cui realtà e illusione si fondono senza soluzione di continuità.  Il modello è quello dei diorami, che ricostruiscono in scala ridotta luoghi e ambientazioni di vario genere, ma il carattere scenografico di tali creazioni è filtrato dalla profonda comprensione del meccanismo inventivo della pittura, che Cuoghi intende, principalmente, come un percorso erratico, costellato di ostacoli, imprevisti, rivelazioni ed errori funzionali che contribuiscono allo sviluppo di un linguaggio basato su una struttura narrativa talvolta illogica e incongrua.

Monolocale 75 ,(Typhoon 1), anno 2019, tecnica mista, cm 35x50

Monolocale 75 ,(Typhoon 1), 2019, tecnica mista, cm 35×50

Per questo, molti dei suoi precedenti Monolocali si presentavano come racconti visivi surreali, in bilico tra realtà e finzione. Perfino quelli recentemente dedicati alle città italiane (Souvenir d’Italie, 2018) e pensati come tappe di un ipotetico Grand Tour, a cavallo tra un glorioso e passato e un presente più prosaico, erano caratterizzati da una vena fantastica, tutta giocata sull’irruzione improvvisa di mostri mitologici e bizzarre creature nel placido contesto della vita quotidiana.

Il meccanismo della sorpresa, il ribaltamento del punto di vista, lo sviluppo imprevisto sono elementi ricorrenti nella grammatica dell’artista, insieme alla capacità di creare atmosfere sospese, dominate da un senso di attesa stupefatta, quasi incantata. Segno, quest’ultimo, di una filiazione diretta da quella tradizione figurativa italiana che, dalle auree geometrie di Paolo Uccello e Piero della Francesca, approda alle silenti sospensioni della Metafisica e alle raggelate raffigurazioni degli artisti di Novecento e del Realismo Magico.

Non è un caso, infatti, che tutti i personaggi dipinti da Cuoghi abbiano gli occhi chiusi, che siano colti, cioè, nel fulmineo istante in cui, serrate le palpebre, interrompono ogni contatto visivo col mondo, per offrirsi alla visione dello spettatore come presenze “mute”, paralizzate in una momentanea epochè cognitiva e sentimentale.

Rinunciando all’espressività degli occhi, da sempre considerati “finestre dell’anima”, l’artista obbliga l’osservatore a concentrarsi sul resto: le anatomie ipertrofiche e innaturalmente allungate dei suoi personaggi; l’apparato scenico, colmo di oggetti minuziosamente dettagliati; le preziose finiture e le qualità testurali dei complementi d’arredo; la natura metafisica dei luoghi, siano essi paesaggi naturali o interni domestici.

Come una fotografia, un fermo-immagine o, se preferite, uno screenshot, i teatrini di Cuoghi catturano il carattere atemporale dell’immagine, consegnando a quel singolo frammento statico il senso intero di una narrazione che può svilupparsi in una gamma infinita di possibilità. Quale sia l’antefatto o il seguito dei suoi postulati visivi lo deciderà lo spettatore, cui l’artista chiede una partecipazione attiva, non solo dal punto di vista interpretativo, ma anche in termini di mobilità fisica. Perché, per osservare i suoi Monolocali, è necessario spostarsi, flettersi, protendersi, insomma adottare diversi punti di vista per avere, così, una visione più completa.

Solitamente, l’incursione del fantastico, del surreale e dell’imprevisto assume un ruolo decisivo nella struttura narrativa dei Monolocali, pur basata su iniziali spunti autobiografici. Nella serie Typhoon, invece, la realtà prende il sopravvento. La memoria di un’esperienza vissuta a Hong Kong nell’estate del 2017, quando la città è colpita dal passaggio del tifone Hato, si traduce in una carrellata d’immagini che formano uno straordinario diario visivo.

Monolocale 87 ,(Typhoon 13), anno 2019, tecnica mista, cm 35x50

Monolocale 87 ,(Typhoon 13), 2019, tecnica mista, cm 35×50

Tutti sanno che la megalopoli cinese è abituata ad affrontare tali fenomeni. Ogni anno, nel periodo tra agosto e novembre, un tifone o un ciclone tropicale passa nelle vicinanze della città. Quando questo accade, le autorità applicano una serie di misure di sicurezza che includono la chiusura dell’aeroporto, delle scuole, dei negozi e la sospensione delle rotte di navigazione, delle attività commerciali e perfino del mercato azionario. Naturalmente, con venti stabili che soffiano a 160 chilometri orari e raffiche che superano i 190 k/h, non si può uscire all’aperto, se non a proprio rischio e pericolo. Un abitante di Hong Kong è abituato a tali evenienze, ma un forestiero di passaggio può assistere a qualcosa di straordinario, a uno di quegli eventi in cui, è il caso di dire, che la realtà supera l’immaginazione.

I Monolocali (Typhoon) raccontano di quell’evento non il momento apicale, l’infuriare dei venti, l’eventuale panico delle persone, il caos apocalittico nelle strade, ma il tempo successivo e l’attimo immediatamente precedente, insomma il dopo e il prima. Esattamente in quest’ordine.

Per la prima volta, Cuoghi non ricorre all’armamentario fantastico, da sempre marchio distintivo della sua indagine artistica, ma si limita – si fa per dire – a trasfigurare memorie, impressioni e osservazioni di quell’esperienza nello spazio modulare delle sue scatole, un rettangolo di 35×50 centimetri in cui comprimere luoghi, circostanze, persone e storie.

La prima stanza della galleria, illuminata da una luce lampeggiante blu che infonde una sensazione di allarme e impregnata di sentori umidi e bagnati trasmessi da diffusori olfattivi, è occupata da lavori che documentano le conseguenze del passaggio del tifone. Sono immagini di serrande divelte e saracinesche schiantate dalla furia dei venti, con le grate metalliche piegate e distorte e i cumuli di macerie in cui si affastellano alberi sradicati, lamiere squarciate, assi scheggiate, brandelli di carta, tessuti strappati e mobili in frantumi. Sono visioni silenziose e spopolate di angoli della città, una versione negativa e caotica dell’immaginario metafisico di De Chirico, in cui la calma, placida luce vespertina delle sue piazze lascia il campo alla plumbea immobilità che subentra alla tregenda. È la quiete dopo la tempesta[1], l’impietosa fotografia di un disastro annunciato, che ci obbliga a guardare il mondo (e la natura) sotto una nuova luce. Non c’è molto altro da fare, se non ricominciare da capo, come fa l’uomo dietro la serranda di Monolocale 88 (Typhoon 14).

Invece, quel che succede prima è più misterioso, se considerato dal punto di vista poetico. Nella seconda stanza della galleria c’è il racconto dell’attimo che precede l’abbattersi del tifone sulla città. Sono visioni d’interno, spazi claustrali e luoghi riparati in cui l’artista immagina si siano ritrovate le persone durante il passaggio del tifone Hato: appartamenti, uffici, sale d’attesa, bar, hall e camere d’albergo, aule di preghiera e perfino gallerie d’arte. Ogni scatola è la ricostruzione di un luogo visitato dall’artista oppure la trascrizione ipotetica di uno spazio possibile. Si riconoscono le stanze e gli ambienti comuni dell’hotel Marriott, dove l’artista ha soggiornato, stracolme di dettagli riconoscibili. C’è l’interno del tempio di Man Mo, il più antico della città, con i fedeli intenti a deporre le offerte votive e i turisti in visita. Ci sono le sale d’attesa dell’aeroporto Chek Lap Kok, con le ampie vetrate che affacciano sulle piste di decollo, sullo sfondo dei grattacieli e delle verdeggianti montagne che circondano la città. Infine, i grandi building con gli uffici e le sale riunioni e gli interni di comuni abitazioni private.

Monolocale 92 ,(Typhoon 18), anno 2019, tecnica mista, cm 35x50

Monolocale 92 ,(Typhoon 18), 2019, tecnica mista, cm 35×50

Cuoghi immagina l’istante esatto in cui, in diversi luoghi della città, il tifone farà la sua comparsa, congelando i suoi personaggi in una sorta di momentanea apnea. Eppure, nel clima d’immobile rarefazione e ipnotica attesa, qualcuno si accorge che l’atmosfera è cambiata, quasi preavvertendo una sinistra presenza. Una fedele nel tempio di Man Mo volge inaspettatamente le spalle all’altare (Monolocale 87). Nella sala riunioni di un grattacielo del distretto degli affari, un uomo al telefono sembra paralizzato, il braccio sospeso a reggere un documento (Monolocale 86). Una donna elegante, seduta al bar di un lussuoso hotel, si volta improvvisamente verso l’ingresso (Monolocale 75). Dall’altra parte della città, una studentessa lascia inavvertitamente cadere una risma di appunti sul pavimento a scacchi del suo salotto (Monolocale 82).

Ogni stanza sembra osservata dall’esterno e la spiegazione più naturale è che si tratti del normale punto di vista dell’artista che, come nell’espediente letterario del “narratore onnisciente”, conosce in anticipo ogni particolare della storia e si fa egli stesso spettatore frontale delle sue creazioni. Oppure, eventualità assai più inquietante, potrebbe essere il punto di vista del tifone, di Hato, impalpabile personificazione della furia naturale, intento a scrutare, con sguardo alieno e indifferente, la debole, indifesa e assai frangibile sostanza di cui è fatto il mondo degli uomini.


NOTE:

[1]È il titolo di una poesia di Giacomo Leopardi, celebre poeta italiano del XIX secolo, esponente del romanticismo. La quiete dopo la tempesta, pubblicata nella raccolta dei Cantinel 1831, narra della calma che segue un violento temporale e della ripresa delle attività, che per il poeta rappresentano solo brevi interruzioni di un’inevitabile sofferenza esistenziale.


INFO:

Vanni Cuoghi – Eye of the Storm
Rossi Martino Gallery- Hong Kong
Fino al 6 settembre 2019

Testo in catalogo: Ivan Quaroni

Claudia Margadonna. Il giardino sospeso

8 Mar

di Ivan Quaroni

 

“Il paese delle chimere è, in questo mondo, l’unico degno d’essere abitato.”
(Jean-Jaques Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, 1776 – 1778)

 

eaux dormantes_2018_olio smalto e acrilico su tela_cm 114x97

Eaux dormantes, 2018, olio, smalto e acrilico su tela, cm 114×97

 

La pittura è un modo di pensare che non coincide con le normali inferenze logiche. Non è induttiva, né deduttiva, ma risolve problemi di ordine estetico. Certo, si può progettare la pittura, come si progetta, ad esempio, un utensile, un elettrodomestico, una macchina, ma in tal caso l’artista si trasforma in un designer. Molti figli di Duchamp, pensatori fini, non sono altro che progettisti d’immagini. La pittura, però, è un’altra cosa. Riguarda la dimensione più profonda dell’immaginazione, quella in cui le regole e il buon senso cedono il passo a qualcosa di più enigmatico e, insieme, inafferrabile. Questa dimensione è accessibile solo attraverso l’abbandono della logica binaria, quella che ci fa simili ai computer che costruiamo e che si basa sulla valutazione di due predicati: 0 e 1, vero e falso. L’immaginazione non funziona così. Semmai è più simile all’abduzione, che secondo il matematico Charles Sanders Peirce è l’unica forma di ragionamento che può accrescere il nostro sapere.

La formazione di un’immagine pittorica è, metaforicamente, il risultato di un’epifania, cioè di una manifestazione o di un’apparizione che l’artista “riceve” in forma di rappresentazioni mentali che non derivano dalle percezioni degli organi di senso. Ciò significa che l’artista deve tradurre tali stimoli in una sintesi grafica tramite una seconda forma d’intelligenza, quella motoria. La mano, educata attraverso l’esercizio e la consuetudine, è, infatti, non solo un’interfaccia tra l’immagine mentale e la sua espressione grafica, ma anche uno strumento che aiuta l’elaborazione cognitiva. Maggiore è l’esperienza della mano, migliore la sintesi grafica.

Claudia Margadonna afferma che le sue immagini pittoriche scaturiscono dal profondo, cioè che appaiono magicamente come se il movimento delle mani anticipasse il pensiero. La sua è, infatti, una pittura fondamentalmente erratica, costruita per apporti progressivi, per divagazioni, accumuli, errori, ripensamenti e intuizioni fulminee. “Inizio il lavoro in assenza di progettualità, con movimenti veloci ed automatici”, afferma l’artista, “lasciandomi andare al libero fluire della pennellata e dell’interazione tra i colori”.

Stoneland, 2019, olio e acrilico su tela, cm. 135×190

Non c’è, quindi, un’idea iniziale, un’immagine chiara e definitiva e nemmeno un punto d’arrivo, ma c’è l’intelligenza della mano, che è il risultato di un lungo esercizio e, allo stesso tempo, di una sedimentata cultura visiva. L’immaginazione è una funzione, uno strumento di decodifica. La cultura visiva è un software, che deve essere costantemente aggiornato. Quando un artista è colto, la sua capacità di sintesi grafica è più raffinata.

Per questo non possiamo considerare la pittura di Margadonna semplicemente come il frutto di una pratica estemporanea o di una volontà espressiva basata su associazioni di marca surrealistica. Essa non è neanche il risultato dell’espressione gestuale di pulsioni inconsce. Insomma, non è ascrivibile alla tradizione dell’Action Paintinge tantomeno a quella deicadavre exquis. Semmai è figlia dell’espressionismo e dell’astrattismo lirico, dai quali eredita, rispettivamente, l’urgenza del gesto pittorico e una sottesa capacità evocativa.

Claudia Margadonna dipinge forme che galleggiano in una dimensione liminare, diaframmatica, tra l’affermazione e l’elusione della figura. Sono forme spesso riconducibili al mondo organico e naturale, in particolare al regno vegetale, ma che possono facilmente slittare nel dominio dell’aniconico e dell’informe. L’indeterminatezza è, infatti, una caratteristica della sua pittura, una qualità generata, come spiegavo, da una procedura erratica, intuitiva, basata sul progressivo scandaglio d’immagini interiori. Immagini che l’artista compone in una pasta cromatica polimaterica, combinando olii, smalti e acrilici in figure fluide, simili a grovigli di materia viva. Sono, le sue, morfologie solo apparentemente caotiche, in cui il catalogo delle forme naturali sembra innestarsi sul tessuto ibrido, incerto e multiforme di un sogno lucido. Non è un caso che per i suoi dipinti più recenti l’artista si sia ispirata a Les Rêveries du promeneur solitairedi Jean-Jacques Rousseau, ultima fatica dello scrittore e filosofo ginevrino, in cui la natura è onnipresente, insieme a un particolare sentimento dell’esistenza che può già dirsi romantico.

fiore arabescato_2019_cm180x130_olio e acrilico su tela

Fiore arabescato, 2019, olio e acrilico su tela, cm. 180×130

Sono rêverie– termine francese che indica appunto il sogno a occhi aperti, la fantasticheria – anche i dipinti di Claudia Margadonna, perché scaturiscono da una sorta di trasmutazione onirica della realtà. Una trasformazione che conserva tracce mnestiche delle forme organiche, traslandole, però, in un vibrante linguaggio chimerico, che della natura coglie soprattutto gli aspetti dinamici.

Le sue tele non riproducono gli esemplari di uno statico erbario fantastico, organizzato in ordinati campioni di supposte specie diverse, ma ci restituiscono una visione d’insieme, scompaginata e cangiante, delle sensazioni che la natura imprime nelle nostre coscienze quando ci abbandoniamo alla sua contemplazione estatica.

Otticamente i dipinti dell’artista sono saturi, densi, gremiti, insomma, di forme e colori, forse perché, come credeva Aristotele, natura abhorret a vacuo, la natura rifiuta il vuoto.

Sono opere che recano titoli come Eaux dormantes, En plein air, Salsedine,Risveglio, Luna pandora, My childhood garden, i quali rimandano all’immagine di una geografia intima, di un paesaggio privato che, come in Rousseau, corrisponde a una particolare temperie emotiva e sentimentale. Per descriverle, si potrebbe ricorrere al concetto di élan vital, col quale Henri Bergson cercava di superare la concezione meccanicistica di Darwin, attestando che l’artista è più interessata a tradurre pittoricamente l’invisibile impulso che anima le forme di vita naturali, piuttosto che la loro morfologia. In altre parole, la pittura di Claudia Margadonna affronta concetti quali la frenesia, l’agitazione, il movimento e l’anelito, insomma le forze invisibili che animano il mondo e vivificano tanto la foresta selvaggia, quanto il singolo filo d’erba. I suoi quadri non sono, dunque, pedestri riproduzioni di frammenti di natura, ma piuttosto trascrizioni visive d’idee, intuizioni, stati d’animo.

Forse per questo l’artista ha deciso di “sospendere” le sue opere in uno spazio aereo, allusivamente immateriale, trasformandole, così, in una teoria di giardini pensili, percorribili con lo sguardo sia frontalmente che da tergo, come se si trattasse di sottili sculture. Una soluzione, questa, dettata sia dalla natura dello spazio espositivo – la Filanda di Soncino impone, infatti, allestimenti non convenzionali –, sia dalla necessità di invitare il pubblico a compiere un percorso non lineare tra le opere, seguendo, tanto fisicamente quanto mentalmente, un tragitto sinuoso e serpeggiante, simile a quello del trasognato passeggiatore solitario di Rousseau. “Mi piace che il viaggio che ho appena compiuto”, racconta l’artista a proposito delle sue opere, “possa essere intrapreso anche da colui che guarda, magari approdando con la propria immaginazione in un territorio diverso”. Scriveva Carlos Castaneda che “qualsiasi cosa noi percepiamo è energia, ma poiché non siamo in grado di recepirla direttamente, trattiamo la nostra percezione in modo che si adatti a una forma”.[1]Quella scelta da Claudia Margadonna è la forma della pittura, tra tutte forse la più adatta a rappresentare l’intangibile.


NOTE

[1]Carlos Castaneda, L’arte di sognare, Rizzoli, Milano, 2000, p.15.


INFO

Claudia Margadonna. Il giardino sospeso
a cura di Ivan Quaroni
Opening: Sabato 16 marzo
Filanda Sala Ciminiera
Via Cattaneo, Soncino
Dal 16 al 31 marzo 2019