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Rachel Hobkirk. The Uncanny Edgy Cuteness

20 Dic

Italian Text and English Text Below





Rachel Hobkirk | BABY TALK

September 13 – October 22, 2023

L:U:P:O: — LORENZELLI UPCOMING PROJECTS ORGANIZATION

C.So Buenos Aires 2, Milano

La famosa invasione degli artisti a Milano

21 Mag

La città dei miracoli

(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.

Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm

Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.

Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106x150 cm

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm

Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.

Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.

Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100x90 cm

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm

Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.

Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.

Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.

Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.

A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.

In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.

Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.


[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.

[2] Ivi, p. 109.


INFO:

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Annalisa Fulvi. Architetture in transito

11 Mag

di Ivan Quaroni

Vous savez, c’est la vie qui a raison, l’architecte qui a tort.

(Le Corbusier)

Credimi, quella era un’età felice, prima dei giorni

degli architetti, prima dei giorni dei costruttori.

(Lucio Anneo Seneca)

Aria di Expo 2, acrilico su tela, 69x95 cm., 2015

Aria di Expo 2, acrilico su tela, 69×95 cm., 2015

La città come teatro delle trasformazioni culturali e sociali è un tema iconografico ricorrente fin dalla fine del diciannovesimo secolo. Prima le visioni dinamiche dei futuristi, poi gli squarci silenti delle periferie di Sironi hanno trasformato il landscape urbano in un vero e proprio genere. In particolare tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, la pittura figurativa si è spesso cimentata con soggetti metropolitani.

Sulla scia delle teorie dell’etnoantropologo francese Marc Augé, molti artisti hanno sviluppato il tema dei non-luoghi, dedicandosi da un lato alla rappresentazione di spazi abbandonati, dall’altro a quella di luoghi di passaggio, caratterizzati da una riduzione ai minimi termini della socialità. Fabbriche in disuso, vecchi gasometri, scheletri di archeologia industriale, ma anche aeroporti, centri commerciali, ipermercati, autostrade sono entrati stabilmente nell’immaginario della nuova figurazione italiana, documentando la transizione tra una società di tipo industriale e una basata essenzialmente sullo sviluppo del terziario avanzato.

Spazi retrostanti, tecnica mista su lino, 100x120 cm, 2013

Spazi retrostanti, tecnica mista su lino, 100×120 cm, 2013

In anni più recenti, il sociologo Zygmunt Bauman ha messo in discussione la vita quotidiana delle persone nelle grandi aree metropolitane. Nel saggio intitolato Fiducia e paura nella città, Bauman ha documentato come la metropoli, un tempo luogo di sviluppo e promozione sociale, ma anche di sicurezza, sia diventata un ricettacolo di problemi difficilmente risolvibili, che generano un senso di frustrazione e insicurezza. Le città postmoderne sono diventate oggetto di un fenomeno inverso di abbandono, dovuto non solo alle proibitive condizioni materiali ed economiche, ma anche al senso di precarietà e paura, due elementi chiave della teoria di Bauman sulla modernità liquida. Il tema centrale del pensiero del sociologo, è però l’effetto sugli individui provocato dai rapidi cambiamenti della società dei consumi. Rapidi cambiamenti che riguardano anche l’assetto urbanistico, attraverso l’insorgere di cantieri edili che riecheggiano nel panorama visivo di milioni di cittadini, diventando il simbolo della precarietà esistenziale teorizzata dal sociologo polacco.

Aria di Expo, acrilico su tela, 100x130 cm., 2015

Aria di Expo, acrilico su tela, 100×130 cm., 2015

La ricerca di Annalisa Fulvi è incentrata sull’analisi delle trasformazioni del territorio (non solo urbano, ma anche naturale) attraverso la rilevazione di spazi e ambienti in continua metamorfosi. L’artista non documenta soltanto i cambiamenti tangibili del paesaggio, ma anche quelli virtualmente possibili, includendo nel campo della rappresentazione pittorica anche i potenziali sviluppi dell’architettura e delle forme naturali. Fulvi parte dall’osservazione della realtà, e in particolare dall’analisi delle strutture culturali che la definiscono, per costruire una pittura ambiguamente sospesa tra astrazione e figurazione. Una pittura affastellata, in cui si sommano elementi realistici e pattern geometrici, fughe prospettiche e icone segnaletiche. Proprio da Zygmunt Bauman, l’artista ha mutuato l’idea di una società liquida, insieme mobile e instabile, dove la provvisorietà del tessuto urbano diventa il riflesso, e insieme il sintomo, della incertezza psicologica ed esistenziale.

Piovono s t r n z, acrilico su tela, 145x195 cm, 2014

Piovono s t r n z, acrilico su tela, 145×195 cm, 2014

La sua è una pittura che individua nell’indeterminatezza e nella contraddizione i segni caratteristici della realtà contemporanea, restituendoci la visione di uno spazio incompiuto, prospetticamente ambiguo, basato sulla caotica giustapposizione e interferenza di strutture temporanee come impalcature, segnali, tralicci, elementi che evidenziano la natura aleatoria e impermanente del tessuto urbano. “Il concetto che m’interessa sottolineare”, ha spiegato più volte l’artista, “è quello della mutazione delle strutture, in contrapposizione alla solidità della natura”. Mentre il paesaggio naturale trasmette, infatti, un’impressione di stabilità, quello antropico è soggetto a forti pressioni dinamiche che ne ridisegnano l’aspetto, rendendolo, via via, più congestionato e inospitale. Di conseguenza, le trasformazioni ambientali inducono l’osservatore a riflettere sui comportamenti individuali che, spesso inconsapevolmente, hanno causato tali squilibri.

Ironica osservazione, acrilico su tela, 69x95 cm, 2013

Ironica osservazione, acrilico su tela, 69×95 cm, 2013

Aldilà dei risvolti sociologici, l’indagine di Annalisa Fulvi è innanzitutto volta alla definizione di una grammatica pittorica capace di riflettere le tendenze centrifughe dei nuovi modelli di rappresentazione. Assimilabile, per certi versi, alle ricerche di artisti provenienti dalla Nuova Scuola di Lipsia – uno su tutti, David Schnell – la pittura dell’artista italiana è caratterizzata da un approccio figurativo anti-classico, in cui la cultura di progetto si fonde con memorie di matrice cubo-futurista e con riferimenti alla cultura pop. Le sue architetture provvisorie, così come i suoi scorci di paesaggio, sono costruiti attraverso la sovrapposizione dei piani prospettici, il decentramento e la moltiplicazione dei punti di vista e la coesistenza di tecniche e perfino di linguaggi antitetici.

Il paesaggio del passato nel presente e nel futuro, acrilico su tela, 69x95 cm, 2013

Il paesaggio del passato nel presente e nel futuro, acrilico su tela, 69×95 cm, 2013

L’artista non solo mescola dettagli realistici e campiture astratte, ma opera sulla superficie della tela stratificando interventi pittorici e serigrafici, creando, così, un’originale alternanza di elementi caldi e freddi, di apporti grafici e gestuali che alterano la continuità spazio-temporale della rappresentazione. Si può che la pittura ibrida di Annalisa Fulvi sia debitrice tanto nei confronti del collage tradizionale, quanto della moderna pratica del cut & paste digitale, perché in essa la logica combinatoria dell’assemblaggio si fonde con la tendenza a utilizzare fonti iconografiche disparate. Insomma, l’artista, nonostante l’ironico e affettuoso tributo al De Re Aedificatoria di Leon Battista Alberti – il trattato rinascimentale che si proponeva di attualizzare le norme architettoniche vitruviane – è ben lontana dall’adottare la visione unitaria (e unificante) della tradizione classica. La sua pittura è piuttosto la conferma dell’affermarsi di una nuova visione, aperta, ma anche frammentaria della realtà, che ammette la coesistenza simultanea di una pluralità di punti di vista e che concepisce la rappresentazione come una sommatoria d’immagini e segni contradditori.

Sintesi di una collina 1, tecnica mista su carta, 35x50 cm

Sintesi di una collina 1, tecnica mista su carta, 35×50 cm

A questo principio d’indeterminazione pittorica, a questa intrinseca ambiguità stilistica, fa capo l’insistito contrasto tra le linee razionali dell’architettura e le trame testurali, entrambe portatrici di un’idea tradizionale di ordine ed equilibrio, e la presenza di segni essenziali, campiture informi e tracce incompiute che, invece, testimoniano la natura caotica e destabilizzante delle esperienze percettive contemporanee. “Ogni mia opera”, racconta lei, “è la messa in scena di una prospettiva effimera che ci porta a interpretare il nostro tempo indagandolo e cercando di comprenderne i meccanismi, le novità, e le contraddizioni”.

Artista cosmopolita, già vincitrice di premi nazionali e di residenze all’estero (in Islanda, Turchia e Francia), Annalisa Fulvi sembra aver intuito il fondamentale paradosso della cultura occidentale, basato sul contrasto tra l’impulso espansivo dell’homo faber e la necessità di ripensare un nuovo rapporto etico con le forze della natura e, così, ha trasferito questa polarità in un linguaggio dal sicuro impatto visivo, capace di catturare l’attenzione dell’osservatore e, allo stesso tempo, di condurlo a riflettere sui problemi e le urgenze di un modello di sviluppo che appare ormai insostenibile. A una giovane artista, già in possesso di un linguaggio maturo, in linea con i recenti sviluppi della pittura internazionale, non si può chiedere di più.

Aria di Expo, acrilico su tela, 100x130 cm., 2015

Aria di Expo, acrilico su tela, 100×130 cm., 2015


Info:

Annalisa Fulvi. De Re Aedificatoria

a cura di Ivan Quaroni

Riva Artecontemporanea, Via Umberto 32, Lecce

Tel. +39 3337854068

e.mail: danilo@rivaartecontemporanea.it

Opening: sabato 16 maggio 2015

Durata: 17 maggio – 18 luglio 2015


Puzzle City, acrilico su tela, 32x35 cm.

Puzzle City, acrilico su tela, 32×35 cm.

Brigitta Rossetti. Effetti personali

13 Apr

di Ivan Quaroni

Guardate nel profondo della natura, e allora capirete meglio tutto.”

(Albert Einstein)

 brigitta_122014_10In un modo o nell’altro la biografia di un artista finisce per influire sulle sue opere ed è un accadimento naturale che si compie, quasi con precisione matematica, in tutti i processi creativi. È impossibile, infatti, che il vissuto esperienziale, psicologico ed emotivo non lasci una traccia più che evidente nella formulazione d’immagini che, dopo tutto, sono il risultato della proiezione di un singolo individuo e della sua particolare maniera di processare la realtà.

Nel caso di Brigitta Rossetti, l’autobiografismo è un aspetto imprescindibile, essenziale del lavoro artistico. Una condizione necessaria, anche se insufficiente, per spiegare le ramificazioni del suo pensiero visivo. Lo scrittore e poeta Rainer Maria Rilke sosteneva che “Le opere d’arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica. Ed è, questa, un’affermazione particolarmente vera quando si osserva il prodotto di una singolarità chiusa in se stessa e poco incline a confrontarsi con il proprio tempo, ossia con le urgenze e le istanze della società in cui vive. Al contrario, Brigitta Rossetti ha sviluppato un’intensa sensibilità verso la società contemporanea, cercando, soprattutto negli ultimi anni, di trovare un modo per ricondurre la propria esperienza personale nel più ampio contesto delle vicende collettive.

In particolare, attraverso le proprie opere, l’artista cerca di indagare i complessi rapporti di corrispondenza tra l’uomo e l’ambiente. Rapporti che, per inciso, sembrano aver raggiunto una pericolosa condizione di degrado e squilibrio. Quello di Brigitta Rossetti è un approccio che, guarda caso, matura a partire da un semplice fatto biografico: il suo studio è collocato all’interno di un ex fienile adattato ad abitazione ed è immerso nella campagna piacentina.

Il paesaggio, con la sua infinita varietà di forme, fornisce quindi un perimetro naturale alle sue riflessioni estetiche. Ciò che vede ogni giorno non influenza solo la sua percezione della realtà, ma irrompe prepotentemente anche nel suo modo di lavorare, tramite l’utilizzo di materiali organici, manufatti di recupero e oggetti d’uso domestico.

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La ricerca di Brigitta Rossetti nasce, infatti, all’incrocio tra la dimensione prosaica del quotidiano, fatta di gesti, abitudini (e anche strumenti) semplici, e la prospettiva, insieme lirica e titanica, di una ricostruzione dei valori fondamentali dell’uomo, nella cornice di una società che sembra, invece, procedere speditamente in una direzione contraria all’ordine naturale. Una caratteristica del suo lavoro, che prevede l’utilizzo di svariati media, dalla pittura alla scultura, dall’installazione al video, è l’impiego di materiali di recupero come legni, vecchie scale, specchi, pagine di libri, seggiole, ma anche di materiali organici come terra, pietre, tronchi e fogliame, che costituiscono un richiamo più diretto e immediato alla natura.

Nonostante l’evidente affinità con le pratiche di matrice poverista, concernenti l’impiego di elementi prelevati dal paesaggio, l’opera di Brigitta Rossetti appare connotata soprattutto da una vena lirica ed elegiaca, debitrice tanto dei ritmi e delle cadenze della poesia, quanto di un immaginario pittorico romantico, ambiguamente sospeso tra vocazioni astratte e tensioni simboliche.

Proprio la pittura, sovente contaminata con la scultura e con l’installazione, secondo una prospettiva di estensione del suo potenziale espressivo nell’ambito tridimensionale – e in un certo senso “abitabile” dell’environment – costituisce il filo conduttore della ricerca dell’artista. Si tratta, tuttavia, di una pittura lontana da stilemi mimetici e descrittivi, ma costruita, piuttosto, attorno a un’idea di progressiva stratificazione di gesti e segni capaci di registrare fedelmente quel processo di metabolica fusione tra realtà esteriore e interiore, tra osservazione fenomenica e vissuto emotivo, che è l’elemento chiave per comprendere l’opera di Brigitta Rossetti.

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Sono molti, infatti, i lavori in cui la pratica pittorica si affianca al ready made, nell’intento di creare un frammento oleografico del mondo naturale, qualcosa che include tanto una proiezione illusoria dell’ambiente, quanto una sua ricostruzione fisica e oggettuale. Campo arato, ad esempio, è un’istallazione che include sia un’opera pittorica, realizzata con carta da cucina, acrilici e pigmenti, sia un object trouvé e un elemento organico. Una fragrante striscia di terra scura unisce, infatti, la tela a due piccoli aratri dipinti di bianco, formando una specie di tridimensionale allegoria della creazione. La tela diventa come un campo incolto che l’artista deve metaforicamente arare con gli strumenti della tecnica e dell’immaginazione.

Un analogo modus operandi contrassegna Paesaggio quasi bianco, un’opera composta di un dipinto collocato alla sommità di una vecchia scala di legno che ci dà l’illusione di osservare uno scorcio innevato dalla finestra di una soffitta o di un abbaino. Anche in questo caso, il dipinto diventa oggetto di un percorso di scoperta personale, la rivelazione di un evento inaspettato. Non a caso, Brigitta Rossetti considera l’arte in genere, e la pittura in particolare, non come il risultato di un progetto predefinito, ma come un procedimento erratico, che lascia spazio a sorprese e scoperte inaspettate. Molte delle soluzioni adottate dall’artista sono, infatti, la conseguenza di una serie d’intuizioni che maturano durante l’esecuzione dei lavori, nel momento in cui l’idea e il progetto originari beneficiano dei lampi e delle illuminazioni dell’intelligenza, pratica e manuale. Sono folgorazioni talvolta cagionate dal ritrovamento di oggetti, oppure dal reimpiego di materiali esausti e di scarto, che l’artista destina a una diversa funzione.

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È il caso di opere Cielo e non altro e Ave Maria, in cui la carta da cucina è usata per increspare la superficie dei dipinti, fino a formare una massa di colori e i pigmenti che infrangono i tradizionali confini bidimensionali della pittura. Invece, in Sogni di Pietra, un’installazione murale di ventidue piccoli dipinti, il ready made assume una connotazione marcatamente ecologica. I supporti su cui Rossetti traccia i suoi frammenti di paesaggio sono, infatti, dei particolari cuscini impiegati per assorbire liquami tossici. Con una procedura quasi alchemica, l’artista trasforma un residuo nocivo, che richiederebbe un particolare tipo di smaltimento, in un manufatto estetico, capace di trasmettere un messaggio di speranza. D’altra parte, la riconciliazione con la natura è un tema che attraversa tutta l’opera dell’artista. Basti pensare ai Children’s Garden e ai lavori della serie Reflection, in cui la rappresentazione di grandi, immaginifici fiori sembra invitare lo spettatore a riflettere sulla fragilità e precarietà degli equilibri naturali. In entrambe le serie, i dipinti sono abbinati a oggetti di recupero come seggiole per bambini e vecchi specchi, che hanno la funzione di fornire un contesto ambientale alla visione pittura. Se nei Children’s Garden la natura è concepita come un luogo che può ispirare i bambini, aiutandoli a sviluppare una coscienza etica e civile, in Reflection, essa diventa uno spazio di contemplazione. Specchiandosi nella metaforica polla d’acqua posta ai piedi del dipinto, lo spettatore diventa cosciente di appartenere a quello stesso ambiente che, così ottusamente, contribuisce a distruggere. È l’antitesi della favola di Narciso, la denuncia delle terribili conseguenze che l’ego smisurato dell’uomo ha prodotto nell’ecosistema. La stessa che ritroviamo nella straniante sequenza di superfici riflettenti di Mirrors.

 

Crossing è l’immagine più eloquente dello stato di squilibrio della civiltà contemporanea. Si tratta di un’installazione composta di due elementi, una scultura da parete, realizzata con tubi di cartone destinati alla discarica e la proiezione di un video girato per le strade di Taiwan. L’organo, un rimando alla tradizione della musica sacra, da un lato richiama l’insieme dei suoni che accompagnano la preghiera e la contemplazione, dall’altro evoca il ricordo ancestrale di una vita scandita da tempi lenti. “È il silenzio degli spazi in cui lavoro in mezzo alla campagna”, racconta Brigitta Rossetti, “che rimanda ad antiche abitudini come i racconti serali, le preghiere attorno a un sacello, le benedizioni alla terra, al sole, alla pioggia, memorie che m’inducono ad aggiungere nelle opere materiali naturali, fiori, foglie, tronchi, farfalle ed altri elementi organici”.

Sulla superficie corrusca dell’organo, tra le pieghe e gli aggetti delle sue canne, scorrono le immagini di un giorno di ordinaria follia in una megalopoli asiatica, popolata di passanti che indossano maschere antismog, mentre attraversano un trafficato e rumoroso incrocio cittadino. La visione di questo inferno quotidiano, segno di una definitiva perdita di centralità della natura, si sovrappone alla traccia mnestica di un tempo perduto, non ancora segnato dalla crisi spirituale dell’età contemporanea. Nell’opera di Brigitta Rossetti, le due realtà si fondono in un’unica entità in cui passato e presente coesistono simultaneamente. Crossing è un’opera contradditoria, una specie di ossimoro taoista, che segnala l’intrinseca commistione di forze costruttive e distruttive che animano la concezione antropica dell’universo.

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L’esatto opposto della visione suggerita da un’opera come Sempre dritto, avanti, gira a destra che, invece, allude al potenziale creativo dell’uomo e alla sua capacità di modificare la realtà attraverso i pensieri. Per realizzare questa installazione, l’artista recupera sette vecchi setacci rotondi su ognuno dei quali dipinge una pletora di pianeti immaginari, da Planet Raimbow, a Planet Lone Tree, fino a Planet Hibernation. Qui, come altrove, ritroviamo il carattere propositivo dell’artista, la sua capacità di alimentare quel sentimento di speranza e riconoscenza nei confronti dell’universo. In Seven Days of Thanksliving compare di nuovo il numero sette, simbolo di perfezionamento della natura umana, che congiunge in sé il ternario divino con il quaternario terrestre. Le sette pale da forno, dipinte ad acrilico e tecnica mista e allineate in ordine ascensionale, formano una sorta di personale altare votivo, un’ara domestica, dedicata alla natura e al regno animale, ma anche alle memorie d’infanzia, alla musica e alle favole che allietano la nostra esistenza.

In definitiva, Effetti personali è un percorso che compendia tutti i differenti aspetti della ricerca artistica di Brigitta Rossetti, ma è anche, e forse soprattutto, il racconto di una formazione estetica e spirituale, compiuta sotto l’egida vigile e millenaria della natura. Una testimonianza partecipe e accorata dell’attuale stato di minorità dell’uomo che, tuttavia, lascia più di uno spiraglio alla speranza e all’auspicio di un futuro migliore. Perfino in un momento buio come questo, in cui risuonano, come un perentorio monito, le immortali parole di Lord Byron: “C’è un piacere nei boschi senza sentieri / C’è un’estasi sulla spiaggia desolata / C’è vita, laddove nessuno s’intromette / Accanto al mar profondo, e alla musica del suo sciabordare:/ Non è ch’io ami di meno l’uomo, ma la Natura di più.”[1]

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ENGLISH TEXT

Personal belongings

by Ivan Quaroni

Look deep into nature, and then you will understand everything better.

(Albert Einstein)

An artist’s biography somehow eventually influences his or her works, which is what naturally and invariably happens for all creative processes. It is actually impossible for our psychological and emotional life experience not to leave clear marks on the creation of images which, after all, are the result of the projection of any individual being and of their peculiar way of processing and representing reality.

As for Brigitta Rossetti, the autobiographical tendency is an essential element of her artistic creativity. It is a necessary, although not sufficient condition, to explain the branching off of her visual thoughts.

The writer and poet Rainer Maria Rilke claimed that “Works of art are of an infinite solitude, and no means of approach is so useless as criticism”. Such a statement is particularly relevant when we consider the output of an artist withdrawn into his/her own shell and reluctant to come to terms with the expectations and pressures of the surrounding society.

Unlike any such artist, Brigitta Rossetti has developed a marked sensitivity towards contemporary society and, especially in the past few years, she has been trying to find a way to let her personal experience be tuned within the wider context of general matters. Through her works she has painstakingly endeavoured to investigate the complex relationship existing between man and the environment which, incidentally, seems to be on the verge of a dangerous condition of deterioration and imbalance. Brigitta Rossetti’s approach actually develops out of a mere biographical event: her studio is situated inside a former hayloft which has been turned into a residence at the heart of the countryside in the province of Piacenza.

The landscape, therefore, with its endless variety of shapes and hues, provides a natural setting for the artist’s aesthetic reflections. What she can see day by day is not just what influences her perception of reality, but it also forcefully pours into her artistic technique, which resorts to the use of organic matter, of salvaged artifacts and household objects.

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Actually, Ms Rossetti’s research originates from the combination of the matter-of-fact simplicity of daily life with its unsophisticated gestures, habits and tools, with the lyrical and titanic prospect of reconstructing the fundamental human values within the frame of a society that seems to be speedily heading towards the opposite destination of natural order.

What characterises her works, based on various means and media and ranging from painting to sculpture, from artistic installations to videos, is the use of retrieval materials such as pieces of wood, old ladders, mirrors, printed pages from books, chairs, as well as such organic matter as earth, stones, logs and leaves, which recall an immediate link with nature.

Brigitta Rossetti’s works are above all characterised by a lyrical, elegiac inspiration, influenced by the rhythms and inflection of poetry as well as by a romantic cluster of imagery indeterminately suspended between the appeal of abstract art and the allure of symbolism.

It is painting, with frequent contaminations from sculpture and artistic installations aimed at widening its expressive potential in a three-dimensional, environmental-friendly perspective, that constitutes the leading thread of the artist’s research. Those paintings are, however, distant from descriptive, camouflage stylistic features but are rather constructed to start from the idea of a progressive stratification of signs and gestures aimed at faithfully recording the process of metabolic fusion of inner and outward reality, of observation of phenomena and emotional experience. That is the key to fully understand the implications of Brigitta Rossetti’s works. In many of her compositions the painting technique is combined with ready-made materials in order to create an oleographic fragment of the natural world, which is capable of including both a fanciful projection of the environment and its physical, concrete reconstruction.

Campo arato (The ploughed field), for instance, is an installation including a pictorial work made with kitchen paper, acrylic paints and pigments as well as an object trouvé and an organic element. A fragrant streak of dark earth links the canvas to two small white painted ploughs, thus producing a sort of three-dimensional allegory of the creation. The canvas represents the untended field to be metaphorically ploughed by the artist with the tools of technique and imagination.

A similar modus operandi can be spotted in the Paesaggio quasi bianco (Virtually white landscape), consisting of a painting set on top of an old wooden ladder which gives the illusion of looking at a snow-capped view through a dormer or attic window. The painting becomes once again the object of a personal journey of discovery, the revelation of an unexpected event. It is not by chance that Brigitta Rossetti considers art in general, and painting in particular, not just as the result of a predetermined project, but rather as a wandering course where surprises and unexpected discoveries are likely to occur. Many solutions chosen by the artist are actually the consequence of a series of intuitions that come to light when the works are in progress, just when the original idea and project are aided by flashes of inspiration and by the strokes of practical skill. Such sudden inspiration may be kindled by the recovery of special objects or the recycling of waste materials that acquire fresh, new life for the artist. In the works entitled Cielo e non altro (Nothing but sky) and Ave Maria (Hail Mary) the kitchen paper is used to turn the painting surface into crêpe paper and create a mixture of colours and pigments that shatters the traditional two-dimensional boundaries of painting. However, in Sogni di Pietra (Stone Dreams), a wall installation with twenty-two small-size paintings, the ready-made has a prominent ecological connotation. The props on which Rossetti

outlines her fragments of landscape are special pads generally used to soak up toxic sewage. It is as by a sort of alchemic process that the artist turns poisonous waste which would require very special disposal into an aesthetic artifact meant to inspire a message of hope. The theme of reconciliation with nature actually underpins all the artistic creation of Ms Rossetti. This is particularly true if we think of her Children’s Garden or of the Reflection series, where the representation of huge, imaginary flowers is a sort of invitation to reflect on the fragility and uncertainty of natural stability. In both series the paintings are combined with retrieval materials such as children’s chairs and old mirrors, which are meant to provide a background context for the visionary painting.

In Children’s Garden nature is considered an inspirational place for children, whom it can help develop a civil and moral conscience, whereas in Reflection nature is seen as a space inspiring contemplation. When mirrored in the metaphorical water puddle set at the foot of the painting, the spectators acquire awareness of belonging to the same environment that they so unwittingly contribute to destroy. This is in full contrast with the myth of Narcissus, i.e. the condemnation of the terrible consequences that the ecosystem is bound to suffer because of man’s unbounded selfishness, which we can also find in the alienating sequence of reflective surfaces of Mirrors.

Crossing is an artistic achievement which clearly mirrors the imbalance of contemporary civilization. It is an installation consisting of two distinct elements: a wall sculpture made with cardboard tubes bound to be dumped and the projection of a video shot in the streets of Taiwan. The organ, with its reference to the tradition of sacred music, is a remainder of the sounds that usually accompany prayer and contemplation and also revives the memory of the slowly paced ancestral life. “It is the silence of the wide spaces of the countryside that surrounds me”, Brigitta Rossetti explains, “which revives age-old traditions such as the evening tales, the prayers around a chapel, the blessings of ground, sun and rain…such memories lead me to add flowers, leaves, logs, butterflies and other organic matter to my material natural works”.

The glittering surface of the organ pipes with its folds and projections mirrors the images of just one day of ordinary hysteria in an Asian megalopolis, crowded with passers-by who wear smog masks while crossing a crammed, noisy city crossroads. The vision of such a daily hell, where nature seems to have lost all of its power, is superimposed by mnestic traces of the good old days not yet spoilt by the spiritual crisis of our contemporary age. In Brigitta Rossetti’s work both realities are fused and become a single entity where present and past coexist at the same time. Crossing is a contradictory work, a sort of Taoist oxymoron which points at the intrinsic mingling of constructive and destructive forces that liven up an anthropic conception of the universe. This is right the opposite principle inpired by the work entitled Sempre dritto, avanti, gira a destra (Go ahead, straight on, turn right) which is a reference to man’s creative potential and power of modifying reality through our thoughts. For this installation the artist retrieved seven old round sieves and painted each one with a plethora of imaginary planets, such as Planet Raimbow, Planet Lone Tree, or even Planet Hibernation. As in many other works the artist’s constructive attitude and capacity of nourishing feelings of hope and gratitude towards the universe is clearly expressed in this installation. In Seven Days of Thanksgiving the number seven, symbol of human nature perfecting and of the totality of the created universe (3 days for the sky and four days for the earth). The seven peels painted in acrylic and mixed technique and lined up in upward order represent a sort of personal, votive home altar devoted to nature and the animal world, as well as to childhood memories, to music and to the tales and stories that brighten up our existence.

To sum up, Effetti personali (Personal belongings) seems to epitomise all the different facets of Brigitta Rossetti’s artistic research, but it also most probably represents the story of a spiritual and aesthetic training watched over by the everlasting shield of nature. It is a heart-broken, attentive declaration of the present hardship of human nature yet brightened by a glimmer of hope and the omen of a better future. Even in our dark age Lord Byron’ immortal verse still sounds like firm warning: “There is a pleasure in the pathless woods / There is a rapture on the lonely shore / There is society where none intrudes / By the deep Sea, and music in its roar:/ I love not Man the less, but Nature more”1

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INFO:

Brigitta Rossetti – Effetti Personali /Personal Belonging
opening 28 aprile 2015

a cura di/ curated by Ivan Quaroni
Bipielle Arte | Spazio Tiziano Zalli
Via Polenghi Lombardo 13, Lodi (Italy)
+39 0371 580351
bipiellearte@fondazionebipielle.it
www.bipiellearte.it

[1] George Gordon Byron, Childe Harold’s Pilgrimage, 1818.