Archivio | febbraio, 2013

Claus Larsen – Grand Tour

26 Feb

a cura di Ivan Quaroni

Atlantica Arte Contemporanea
via Piave 35, Altavilla – Vicenza

1° marzo – 28 marzo 2013

Inaugurazione venerdì 1° marzo 2013 h. 18.00

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La galleria Atlantica Arte Contemporanea presenta Grand Tour, mostra personale dell’artista danese Claus Larsen patrocinata dall’Ambasciata di Danimarca.

Per l’occasione, l’artista presenta una ventina di nuove opere, tra oli su tela e su tavola, tempere all’uovo su carta, con l’aggiunta di due litografie con interventi serigrafici in tiratura limitata.

Il Grand Tour, viaggio compiuto dai giovani dell’aristocrazia europea continentale a partire dal XVII secolo, compare, come termine, per la prima volta sulla guida The Voyage of Italy di Richard Lassels, edita nel 1670. Claus Larsen immagina un nuovo tipo di Grand Tour, una sorta d’immaginario itinerario metalinguistico che attraversa la Storia e la Geografia. Un viaggio a volo d’uccello, verrebbe da dire, nel senso che le più varie specie aviarie sono le dirette protagoniste delle sue opere, stilisticamente sospese tra Surrealismo e pittura di genere, tra citazionismo colto e levità pop.

Laureato in Medicina e chirurgia, con un curriculum d’illustratore scientifico (è autore e illustratore dell’Anatomia Artistica pubblicata da Zanichelli nel 2007) e una conclamata passione per la pittura rinascimentale, Claus nn è uno di quegli artisti capaci di ripercorrere la storia dell’arte a ritroso, interpretandone le tappe con uno sguardo nuovo e sognante, che traduce le suggestioni del passato in una grammatica fantastica di stringente attualità.

Come altri pittori del nostro tempo – da John Currin a Neo Rauch, Glenn Brown a Mark Ryden – Claus Larsen dimostra di aver profondamente compreso la lezione dei maestri. Non solo. Con la meticolosa acribia di un alchimista, ha imparato a preparare i colori alla maniera degli antichi, usando pigmenti naturali con i quali fabbrica tempere all’uovo e olii artigianali. Il suo non è un semplice espediente tecnico e nemmeno il capriccio di un pittore erudito. I colori vividi e brillanti dei suoi dipinti ottenuti proprio grazie a quelle tecniche, contribuiscono a creare una pittura ad altissima definizione, fatta di giochi ottici e trappole per lo sguardo. Non è un caso, infatti, che Claus Larsen sia anche un esperto di grafica tridimensionale, un tecnico digitale, stregato dalla più antica delle pratiche manuali. Distorsioni visive ed effetti paradossali degni di Escher sono, infatti, il fulcro intorno al quale l’artista declina molte delle sue immaginifiche visioni, sovente ambientate in un rigoglioso teatro naturale.

L’approccio di Larsen alla pittura è quello tipico dell’umanista, con competenze scientifiche che spaziano dalla chimica all’ottica, ma che integrano anche la conoscenza della storia dell’arte con un interesse, tutto contemporaneo, verso l’affabulazione e la fantasmagoria. Larsen è, infatti, un surrealista dei nostri tempi, un enigmista dell’immagine con una particolare predisposizione per l’allusione e la metafora, ma anche per l’affabulazione e la sovversione dei significati. Le sue opere suggeriscono sempre livelli multipli d’interpretazione.

Le opere di Grand Tour, popolate di pinguini, anatre, oche, pappagalli e germani reali che percorrono il globo lungo traiettorie imperscrutabili, compongono, in definitiva, l’affascinante racconto di un pellegrinaggio simbolico. Il volo degli uccelli diventa, allora, metafora di un nomadismo interiore che ci conduce, attraverso il groviglio delle metamorfosi estetiche e la fitta trama d’illusioni ottiche, verso le remote sorgenti dell’ineffabile e dell’indicibile. Quel luogo di segrete epifanie e turgide apparizioni che, a causa di un vocabolario limitato, ci ostiniamo a chiamare fantasia.

BIOGRAFIA

Claus Larsen nasce a Copenaghen nel 1954, giovanissimo si avvicina al mondo dell’arte e allo studio della pittura e già dal 1976 inizia la sua collaborazione con alcune gallerie della sua città. Contemporaneo è l’interesse per lo studio della medicina e nel 1987 completa i suoi studi e consegue la Laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Copenaghen. Si trasferisce in Italia a Milano per lavorare come illustratore medico/scientifico, sintetizzando in perfetta sintonia gli elementi acquisiti nel corso del suo percorso formativo. Dagli anni ‘90 in poi numerose e importanti sono le docenze a livello universitario nelle sedi di Milano, Bologna, Lucerna e Zurigo. Nel 2007 la pubblicazione con la casa editrice Zanichelli del testo “Anatomia artistica”, un volume che sfrutta la tecnologia digitale, ovvero la grafica tridimensionale. Il libro, con i suoi modelli virtuali volumetrici ed estremamente realistici, permette di ispezionare facilmente l’anatomia del corpo da vari punti vista. Dal 2007 al 2013 è presidente dell’AEIMS, l’Associazione Europea degli illustratori medici e scientifici e dal 2009 inizia la sua attività espositiva in Italia e all’estero con realtà affermate nel sistema dell’arte.

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Moscow Times, Estetica e potere nella Russia Contemporanea

25 Feb

Moscow Times

Estetica e potere nella Russia Contemporanea

Ivan Quaroni


La verità è che non impariamo mai dalla Storia. Non abbiamo memoria, ci dimentichiamo di tutto, perfino del passato più recente. Non riconosciamo i sintomi, ci sfuggono i meccanismi, le modalità e perfino l’evidenza con cui certi fenomeni tendono a ripetersi. Per nostra sfortuna, si tratta sempre degli eventi peggiori, di quelli che generano la maggiore quantità d’infelicità e che, quasi necessariamente, diventano oggetto di una sorta di rimozione collettiva. Con il progetto Moscow Times, Piepaolo Koss – coreografo, performer e artista visivo, da sempre impegnato nell’indagine sul corpo umano come metafora delle modificazioni del potere sociale e politico nella società contemporanea – pone al centro della sua opera il problema del tempo e della memoria. Koss cerca di esorcizzare l’evenienza di una nuova forma di amnesia generalizzata attraverso l’analisi del linguaggio estetico e massmediatico della Russia odierna. Una nazione che l’artista ha potuto osservare (e anche amare) da vicino, grazie a numerosi soggiorni, compiuti in un arco temporale che si estende tra la fine dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e l’instaurazione del nuovo corso politico, definito da alcuni come una sorta di “democratura”, neologismo composto dalla crasi tra i termini democrazia e dittatura. Con 17.075400 chilometri quadrati di superficie e oltre 140 milioni di abitanti, la Federazione Russa dell’era di Vladimir Putin costituisce un esemplare esperimento socio-politico, in cui contraddizioni e antinomie si manifestano tramite un’inedita convergenza di nostalgie zariste, nazionalismo sovietico, rinato afflato cristiano-ortodosso e rigurgiti xenofobi di marca neonazista. Il tema della memoria e il problema della ricostruzione di un’identità collettiva sono, dunque, elementi cardine per comprendere il processo di trasformazione di questo immenso territorio, dove la percezione del tempo, con i suoi pendolari oscillamenti tra passato, presente e futuro, gioca un ruolo fondamentale. Mosca, che nel 1991 celebrava le esequie dell’impero sovietico ammainando definitivamente la bandiera rossa sulla torre del Cremlino, è oggi la città simbolo di questa trasformazione, l’epicentro di un potere che combina, in egual misura, autoritarismo e fascinazione glamour, modernismo e propaganda, elementi che si riflettono nel gigantismo architettonico dei nuovi grattacieli di Putingrad. Perché, come spiega Leonardo Coen[1], ex corrispondente da Mosca e tra i fondatori del quotidiano La Repubblica, la città è divenuta Putingrad, il luogo fisico (e metafisico) in cui il presidente Vladimir Vladimirovic Putin è riuscito a mettere in atto il suo capolavoro politico: un’incredibile sintesi di liberismo economico e dirigismo statalista, ultranazionalismo e grandeur imperiale.   Moscow Times è un progetto che raccoglie video, fotografie e performance realizzati tra il 2005 e il 2012 e strutturati in un percorso che ci accompagna, attraverso vari cicli di opere, tra le maglie di un’identità collettiva alla disperata ricerca di una ricomposizione. Ma Moscow Times, titolo che allude al più diffuso tabloid in lingua inglese della capitale, è anche una ricognizione tra le tensioni e contraddizioni della Russia contemporanea e, insieme, una dettagliata analisi dei codici estetici e politici della propaganda putiniana, che utilizza in maniera strumentale e demagogica la memoria del passato. Il video Blood Memory (2011), girato all’interno del sacrario di Stalingrado, l’odierna Volgograd, potrebbe costituire la prima tappa di un ideale viaggio nella memoria del popolo russo. Il mausoleo, situato sulla collina Mamaev Kurgan, commemora la battaglia di Stalingrado, la più sanguinosa della Seconda Guerra Mondiale, in cui persero la vita due milioni di persone. Le immagini scorrono lente su particolari del complesso monumentale come la colossale statua della Madre Patria (alta 85 metri), costruita per ordine di Stalin per celebrare la vittoria russa sui nazisti. Le riprese di Koss, incorniciate in un perimetro circolare simile all’obiettivo della macchina fotografica, si soffermano sul carattere simbolico ed evocativo di questi monumenti, che appaiono immersi nella nebbia del tempo. Attraverso la grana e il taglio delle immagini, l’artista sembra voler evidenziare il carattere selettivo, e dunque arbitrario, della memoria, con il suo inevitabile carico emotivo e sentimentale. Eppure, la memoria nella Russia contemporanea è, simultaneamente, oggetto di recupero e di rimozione, come dimostra il video Made in Moscow (2007), che alterna le riprese dell’ultimo cambio della Guardia d’onore, eseguite dall’artista stesso alla mezzanotte del 27 febbraio 1992 davanti al Mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa, alle più recenti immagini della Mosca putiniana del 2007, dove, per la ricorrenza dei 90 anni dalla Rivoluzione, venne sbarrato l’accesso al mausoleo di Lenin per impedire ogni manifestazione nostalgica. Koss evidenzia qui il carattere sclerotico del potere di Putin, che dopo la caduta del Socialismo Reale, nel caos sociale seguito alla spartizione delle ricchezze dello stato e all’ascesa delle organizzazioni mafiose, si propone come salvatore della patria e dunque come unico idolo da celebrare. La questione della salma di Lenin, che in quel 2007 la Duma deliberava di rimuovere dalla sua sede naturale, diventa quindi il segno del revisionismo storico del nuovo Zar, che, all’epoca, preferiva recuperare l’immaginario simbolico dei Romanov, forse più congeniale all’instaurazione di un sistema autocratico di stampo assolutista, salvo poi ricredersi cinque anni dopo, equiparando il Mausoleo di Lenin alle sacre reliquie del Monte Athos. Al caso della salma del Padre della Rivoluzione d’Ottobre sono dedicate anche le stampe inkjet su carta Kodak (Lienin, 2007), in cui Pierpaolo Koss visualizza, con un curioso mix stilistico, in bilico tra arte pop e propaganda di regime, il corpo mummificato di Vladimir Ilic all’interno del sarcofago. Una straordinaria testimonianza del nuovo ordine politico russo è rappresentata dalle riprese ufficiali della cerimonia d’insediamento alla presidenza di Putin dell’aprile 2012, utilizzate dall’artista nel video Ras-Putin[2](2012), a dimostrazione di come l’evento somigli più a una sacra liturgia d’incoronazione che alle formalità di riconoscimento di un’alta carica dello stato di un paese democratico. In questo lavoro, Koss si attiene in massima parte al materiale originale, che costituisce un saggio dell’efficacia estetica e comunicativa della propaganda putiniana, equiparata, come suggeriscono le immagini introduttive, a un meccanismo a orologeria perfettamente sincronizzato. L’artista interviene soprattutto sul tempo, con opportuni tagli, velocizzazioni e rallentamenti delle immagini e con la sovrapposizione di simboli come la corona e l’aquila imperiale dei Romanov durante il giuramento del Presidente sulla nuova costituzione russa. Le riprese ufficiali, invece, sono il dato più eloquente e sorprendente del video, realizzato, alla presenza di duemila invitati selezionati, in un Cremlino presidiato da migliaia di soldati. Il rito dell’assunzione del terzo mandato presidenziale di Vladimir Vladimirovich Putin, somiglia a una lunga sfilata lungo le sale d’onore dell’antica fortezza medievale, fra gli applausi scroscianti dei convitati, in un’atmosfera di pomposa magniloquenza, fitta di rimandi alla Russia imperiale (le uniformi da parata del 1812, usate sotto lo Zar Alessandro I, vincitore di Napoleone e dei francesi), ma anche a quella socialista (le risonanti note dell’inno nazionale, rimasto sostanzialmente invariato dai tempi dell’Unione Sovietica) e, infine, ortodossa (con la presenza in prima fila del benedicente Patriarca Cirillo). Sono tutti segni che, come asserisce Walter Lippman, giornalista statunitense che coniò i termini guerra fredda e fabbrica del consenso, “hanno un carattere tale da essere riconosciuti e compresi senza la necessità di un reale sguardo alla sostanza del problema.[3] Da studioso della propaganda, Lippmann suggeriva di gestire il rapporto tra l’autorità e la popolazione (o il pubblico) attraverso la fruizione di segni di natura semplice, capaci di colpire emotivamente la collettività e di condurla alle stesse conclusioni che gli esperti avevano precedentemente elaborato per via razionale. Come si evince dal video di Koss, Putin non solo mette in pratica le teorie propagandistiche di Lippmann, ma intuisce che per mantenere la propria leadership deve necessariamente attuare un processo di sintesi delle diverse anime del popolo russo. Processo che prevede, da una parte, l’intensificazione dei sentimenti collettivi, dall’altra, una parallela degradazione e banalizzazione dei significati. Nel video Parade (2012), anch’esso basato sui filmati ufficiali, ripetutamente trasmessi dalla televisione russa, si assiste alla parata del V-Day del 9 maggio 2012, celebrazione della vittoria russa nella Seconda Guerra Mondiale, svoltasi in una Piazza Rossa stracarica di simboli patriottici, tra cui la falce e il martello sovietici. Per l’occasione sfilano davanti al palco d’onore su cui siedono Putin e il suo delfino Dmitrij Medvedev e alla presenza dei veterani, 14.000 soldati appartenenti ai vari corpi delle Forze Armate e circa 100 mezzi pesanti, tra cui i missili Topol, i carri armati T-90, gli Iskander e gli S-400 Triumph. La parata è una chiara esibizione della potenza militare russa, costata all’amministrazione comunale circa 4 milioni di dollari, con un massiccio dispiegamento di agenti delle forze dell’ordine e un pubblico selezionato per fare da sfondo a quella che, a tutti gli effetti, assomiglia a una studiatissima coreografia collettiva. Con un abile montaggio e una colonna sonora affidata a marziali ritmi heavy metal, Pierpaolo Koss alterna le inquadrature panoramiche di sterminate masse di soldati marcianti in formazioni rigidamente inquadrate con i volti solenni dei veterani sovietici e del pubblico che assiste alla manifestazione. Sono immagini dominate da un’atmosfera quasi irreale, che evoca i fasti cinematografico-propagandistici della Leni Riefensthal di Triumphs des Willens. Per il nuovo Zar, appena insediato per la terza volta alla Presidenza della Federazione, il V-Day è l’occasione per lanciare un ambiguo messaggio di politica estera, che proclama la necessità di rafforzare la sicurezza mondiale e rispettare il diritto internazionale e la sovranità di ogni stato per evitare il ripetersi di tragedie belliche. Fuor di metafora, quel che Putin afferma è, piuttosto, il diritto da parte della Russia di armarsi per riaffermare la propria potenza nello scacchiere internazionale. Se Parade racconta la strumentalizzazione del passato stalinista da parte della propaganda putiniana, la videoinstallazione Putingrad (2012) testimonia la sua propulsione modernista e futuribile, incarnata in quella che Koss non esiterebbe a definire una “geografia emozionale”, ossia la city moscovita, con i suoi grattacieli avveniristici ricoperti da una pervasiva segnaletica pubblicitaria. Le immagini proiettate su due schermi, nelle versioni blu e rossa (colori della bandiera nazionale russa), mostrano il tragitto di Putin dal Palazzo del Governo – dove ha ricoperto il ruolo di Primo Ministro tra il 2008 e il 2012 – fino al Cremlino – dove torna nelle vesti di presidente (dopo gli incarichi del 2000-2004 e del 2004-2008), con un nuovo mandato di sei anni che, se riconfermato nella prossima legislatura, farà di lui il più longevo leader russo dopo Stalin. Il percorso dalla scorta presidenziale per le vie sgombre di una Mosca metafisica e surreale è soprattutto un viaggio simbolico, la metafora della fulminante ascesa al potere di Putin, iniziata nel lontano 1975 come membro del KGB, poi culminata nell’assunzione nel 1998 della direzione dell’FSB (una delle agenzie che successero allo scioglimento dei servizi segreti sovietici) e nel 1999 del ruolo di Primo Ministro sotto il Governo Eltsin. L’immagine di una patria forte, moderna e glamour offerta dal nuovo zar, contrasta, tuttavia, con le tensioni che agitano la società russa dall’interno, all’indomani del crollo dell’ideale sovietico. La guerra in Cecenia, così come il dilagante razzismo nei confronti di neri e caucasici e la conseguente diffusione di organizzazioni neonaziste nelle frange più giovani della popolazione, sono questioni che l’artista affronta nei video e nelle performance realizzate tra il 2004 e il 2006. Burning Borders (2004), video che documenta una performance e un’installazione realizzati da Koss alla MARS Galllery di Mosca, allude, infatti, alla questione delle guerre nei territori di confine dell’ex Unione Sovietica. Durante la performance, che si svolge in un ambiente buio, rischiarato da immagini di violente eruzioni vulcaniche, l’artista indossa il balaklava, il cappuccio di lana usato dai terroristi e dalle forze armate russe in Cecenia, territorio verso cui il Cremlino ha adottato una politica di durissima repressione, accompagnata da una totale censura, che dal 2004 impedisce alla stampa nazionale e internazionale di documentare la situazione. Voina (2005) e New Eden (2006), invece, trattano esplicitamente il tema del razzismo in Russia, un fenomeno latente durante il regime sovietico, che è violentemente esploso in seguito alla crisi economica, alla massiccia immigrazione e alla guerra in Cecenia. Soprattutto la recessione, l’inflazione e la disoccupazione succeduti all’introduzione dell’economia di mercato in Russia, hanno generato sentimenti di rabbia e frustrazione nella popolazione, creando un terreno fertile per l’affermarsi di organizzazioni estremiste e ultranazionaliste come l’Unione Slava, il Movimento contro l’immigrazione clandestina, l’Unità Nazionale Russa e lo Schultz 88. Nel 2005, anno in cui si Koss esegue la performance Voina (Guerra) al Museo Tretakovskaya di Mosca, l’escalation di aggressioni e omicidi nei confronti d’immigrati africani e del Sud-Est asiatico spinge l’Onu a condurre un’indagine sul fenomeno xenofobo in Russia e a invocare l’istituzione di un’autorità contro il razzismo. Nel 2006, Koss realizza il video New Eden al Gazgolder, un prestigioso club esclusivo della capitale e, in quello stesso anno, Amnesty International pubblica un rapporto intitolato “Russian Federation. Violent racism out of control”, che documenta i numerosi casi di aggressione, compiuti da poliziotti e giovani skinhead ai danni di cittadini immigrati. Voina e New Eden sono, dunque, due tempestive attestazioni del crescente fenomeno della xenofobia in Russia. La prima, un’opera realizzata insieme all’artista Segei Bugaev Afrika, in cui sono coinvolti come performer cinque cittadini africani clandestini, fatti entrare senza permesso al Museo Tretyakoskaya, è un’azione di denuncia intesa a rivendicare la dignità di ogni essere umano, in conformità con i principi contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. New Eden, invece, è una mise-en-scène del paradiso terrestre in uno dei luoghi simbolo del fashion moscovita, il Gazgolder, un club frequentato da membri dell’elite finanziaria, culturale e politica del paese, ma anche da potenti esponenti della criminalità organizzata. La performance, eseguita tra la mezzanotte del 31 dicembre 2005 e l’alba del primo gennaio 2006, vede coinvolti un giovane clandestino del Camerun e una studentessa russa nei panni (si fa per dire) dei progenitori Adamo ed Eva. Tutto ruota intorno all’impatto estetico generato dall’accostamento tra il corpo scultoreo del giovane di colore e le morbide rotondità della ragazza bianca, un mix di sensualità e candore che suscitano l’imbarazzo e il dissenso di una parte del pubblico. Moscow Times è un’ampia ricognizione nel lato oscuro della Russia, in cui non poteva mancare un capitolo dedicato al ruolo svolto dalla Chiesa ortodossa, nella persona del patriarca Cirillo, quale potente alleato della politica di Vladimir Putin. Nel breve video Propaganda Ortodossa (2012), Koss cattura un frammento della messa celebrata in occasione della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012, trasformando il volto del patriarca di Mosca e di tutte le Russie in una sorta emblema sacro della propaganda di regime. L’artista adotta qui una saturazione cromatica che ossida l’immagine con un effetto simile a quello delle antiche icone russe. Si tratta di una scelta linguistica che ricorre anche in altre opere di Koss, e che introduce l’elemento estetico del kitsch come riflesso di un’alterazione formale, sintomo forse di un deterioramento dei valori etici e civili della società russa. Il video Putin Riot (2012), presenta le stesse caratteristiche cromatiche di Propaganda Ortodossa, ma questa volta il soggetto è Putin, la cui immagine è data alle fiamme sulle note della famigerata preghiera punk, cantata dalle Pussy Riot il 21 febbraio 2012 durante un flash mob nella Chiesa di Cristo Salvatore a Mosca, un episodio che ha attirato l’attenzione del pubblico e della stampa internazionale dopo l’arresto di tre membri del collettivo con l’accusa di “teppismo motivato da odio religioso”. Alle Pussy Riot è dedicata anche un’altra opera, la Madonna Riot, in cui l’artista, intervenendo su un’icona originale, ricopre il volto della vergine con un balaklava colorato, segno distintivo delle esponenti del collettivo punk femminista. L’ironica contaminazione tra estetica kitsch e linguaggio pop impronta quasi tutte le opere di Moscow Times, dove si passa dalle immagini in multicolor del Mausoleo di Lenin, al folklore populista dei ritratti di Natscha e Anya, Olga e Valodia, passando per il sincretismo grafico di New Power, che assomma in un solo logo i simboli dei Romanov, dei Soviet e di Gazprom. Il punto è che Pierpaolo Koss usa la grammatica della propaganda in funzione critica, evidenziando le faglie e le mancanze del sistema russo. Così, mentre Scacchiera e Putinland, rispettivamente realizzate con bossoli di proiettili e mostrine militari, sono chiare metafore di un paese militarizzato, le installazioni scultoree in cui compare l’orsetto bianco Wovan (soprannome di Vladimir Putin affibbiato, per l’occasione all’animale simbolo della Russia), denunciano l’utilizzo a fini politici dello Sp-117, un potentissimo psicofarmaco messo a punto dal Kgb per far parlare i prigionieri e cancellarne poi ogni ricordo. Tutta l’opera di Pierpaolo Koss – sarei tentato di dire – è politica ma Moscow Times lo è nel senso più puro del termine; non solo perché tratta temi d’attualità, come la guerra, il razzismo, le trasformazioni sociali e le violazioni dei diritti umani in un grande paese come la Russia, ma soprattutto perché s’interroga sulla necessità di cercare un confronto obiettivo col passato attraverso la conservazione della memoria storica. Certo, la verità è che non impariamo mai dalla Storia, che non abbiamo memoria, che ci dimentichiamo di tutto, perfino del passato più recente. Eppure, attraverso le opere di Moscow Times, Pierpaolo Koss ci ricorda che, come affermava Céline, “la grande sconfitta, in tutto, è dimenticare.”[4] [1] Leonardo Coen, Putingrad. La Mosca di Zar Vladimir, Alet Edizioni, Padova, 2008. [2] Ras–Putin deriva dall’unione del vocabolo Ras con il cognome Putin. Ras era un titolo tradizionale etiope dato ai dignitari feudali immediatamente inferiori al Negus. Fu riutilizzato durante l’occupazione italiana in Etiopia per denominare i capi delle squadre d’azione fasciste. Rasputin è, invece, il famoso monaco e taumaturgo che esercitò una notevole influenza sulla famiglia Romanov prima che questa venisse deportata e poi giustiziata in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre. [3] Walter Lippman, L’opinione pubblica, Donzelli, Roma, 2004. [4] Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, 1932.

STOP MAKING SENSE -Intervista a Paolo De Biasi

11 Feb

 a cura di Ivan Quaroni

E’ un universo casuale al quale noi apportiamo un significato.

(Sheldon Kopp)

Ivan Quaroni: Stop Making Sense, titolo che riprende un disco dei Talking Heads, è il nome che hai dato a una nuova serie di lavori. Lo slittamento dalla dimensione pittorica a quella del collage (anche digitale) non è formalmente distante dalla tua ricerca precedente. Perché, a un certo punto, hai sentito l’esigenza di operare in un campo diverso dalla pittura?

Paolo De Biasi: Questa selezione di opere è nata riflettendo su una frase di Sheldon Kopp, autore di Se incontri il Budda per strada uccidilo[1]. L’idea che il nostro sia un “universo casuale al quale noi apportiamo un significato”, mi ha suggerito un parallelo con il mio metodo di lavoro. In Stop Making Sense ho voluto – diciamo così – portare questo metodo alle estreme conseguenze, rinunciando all’aspetto narrativo della mia pittura. Ho perso qualcosa, ma ho guadagnato una maggiore libertà formale ed espressiva. Si tratta di un’idea che accarezzavo da tempo e di cui la serie degli Ephemeral paintings costituisce una sorta di precedente. In quei dipinti m’interessava rendere evidente il processo compositivo e porre l’accento sull’idea primitiva, la suggestione e l’intuizione che genera l’opera. Sono convinto che per ogni artista (ma vale per tutte le attività umane), l’unica vera spinta sia la ricerca di un senso, che è poi il senso del nostro stare al mondo. Mi sono chiesto come sia possibile esprimere questa intuizione attraverso un’opera.

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IQ: E che cosa ti sei risposto?

PDB: Che non c’è una soluzione. Sheldon Kopp – una lettura da te consigliata tempo fa – non può che avere ragione: non rimane altro che insistere, continuare la ricerca nella consapevolezza che il senso non è l’obiettivo finale, ma lo è, piuttosto, il percorso stesso. Ecco, queste opere mostrano un percorso, che è surrealista per definizione.

IQ: In uno dei nostri vitali scambi d’informazioni via mail, mi avevi postato il Manifesto Incompleto per la Crescita di Bruce Mau[2] – poi diventato uno degli strumenti didattici dei miei seminari – in cui si afferma che “il processo è più importante del risultato”. Quindi, si tratta di un’idea che, in qualche modo, era già presente nel tuo DNA.

PDB: E’ vero. Il concetto stesso presuppone secondo me che tu sia al tempo stesso attore e spettatore, colui che guida il flusso ma anche colui che ne subisce la spinta. La pittura -pure nelle sue forme meno convenzionali di collage o di digital painting- non riguarda tanto la produzione di opere, quanto piuttosto un modo di osservare il mondo. Non è il risultato di uno sguardo, ma è a sua volta sguardo. Nell’ultimo numero della rivista monografica Solo, Daniel Pitìn scrive a proposito della pittura: “Mi ritrovo spesso come uno spettatore di un film, che è molto felice di essere stato in grado di entrare in possesso del biglietto per questo spettacolo[3]. La sua metafora è perfetta. Per completare il ragionamento ricordo anche un tuo articolo di qualche tempo fa sul metodo abduttivo, in cui ritrovavo molte similitudini con il mio modus operandi. In fondo la pratica del collage è la rappresentazione più evidente di quel tipo di pensiero.

IQ: Qualche anno fa intervistai Isao Hosoe per una testata della Condé Nast. Durante il nostro colloquio, il designer giapponese menzionò il filosofo Charles Sanders Peirce in merito ad una cosa chiamata “abduzione”. Non ne sapevo assolutamente nulla, ma ne rimasi affascinato. Secondo Peirce, l’uomo ha tre possibilità d’inferenza, tre modi di ragionare: deduzione, induzione, abduzione. Mentre la deduzione è un’argomentazione scaturita automaticamente dalle premesse (dall’aspetto del cielo possiamo dedurre che pioverà), l’induzione è un’elaborazione logica che ricava i principi generali dall’osservazione di uno o più casi (quando piove, il cielo ha un certo aspetto). Nell’abduzione, invece, dato un fatto sorprendente, cioè diverso dalle attese, si formula un’ipotesi tale che, se fosse vera, trasformerebbe il fatto sorprendente in un fatto normale. In pratica, l’abduzione cerca una teoria proprio per spiegare i fatti sorprendenti. Si tratta di un procedimento in cui l’intuizione gioca un ruolo fondamentale, come nel caso degli Ephemeral Painting e dei collage digitali di Stop Making Sense. Secondo te, è possibile elaborare una teoria dell’intuizione o dell’improvvisazione?

PDB: Le teorie mi risultano indigeste, ma, allo stesso tempo, non voglio cadere nel tranello filosofico secondo cui anche l’assenza di regole è una regola; quindi ti rispondo semplicemente che se dev’essere improvvisazione che lo sia fino in fondo, senza premeditazione e senza intenzione. Per l’intuizione è leggermente diverso, perché è quel momento in cui abbandoni la logica binaria per abbracciare il paradosso, è quel guizzo che rende chiaro ciò che non lo è, io lo vedo come un calcolo che il tuo cervello elabora mettendo in campo conoscenze, emozioni, cultura, sentimenti e tutto il resto e ti fornisce un risultato a cui razionalmente non saresti mai arrivato.

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IQ: Che cosa distingue il metodo di realizzazione di Stop Making Sense dai processi di scrittura automatica e d’improvvisazione degli artisti surrealisti? Non credi che il processo digitale richieda un minimo di postproduzione e che, quindi, implichi, un lavoro “cartesiano”, come direbbe Franco Bolelli, di riordino e riorganizzazione?

PDB: Come dicevo, il mio è un percorso surrealista. Non ho la presunzione di avere inventato nulla di nuovo. Noto, però, che mentre in passato le correnti artistiche nascevano spesso in antitesi ad altre correnti, oggi le cose sono più diluite, perciò l’appartenenza a una corrente e alla sua metodica non è mai così totale. Io parto da un archivio d’immagini infinito e quindi devo selezionare diversamente. La post-produzione non è in fondo diversa dalla preparazione in pittura se vedi i vari passaggi come tappe di un processo che si serve via via di strumenti diversi. Bolelli quindi c’entra, nel lavoro inevitabile di selezione: davanti a infinite possibilità combinatorie, dobbiamo attivare una maggiore capacità e responsabilità nella scelta.

IQ: Il tuo distinguo sulle correnti artistiche del passato si riferisce al fatto che Italian Newbrow, che più volte ho definito come uno scenario fluido e se vogliamo anche informe, sembra piuttosto un contenitore di biodiversità artistiche, accomunate da un’attitudine aperta e anti-elitaria? Condividi la necessità di questo genere di approccio, diciamo più espansivo e comunicativo?

PDB: “Biodiversità artistiche” mi sembra una definizione azzeccata. Ma tu sei il critico, quello che cerca di definire uno Zeitgeist, io sono l’artista e nella pratica non puoi pensare allo Zeitgeist se speri in qualche risultato. Al di là di questo distinguo, che vuole semplicemente evidenziare i diversi punti di osservazione dello scenario, direi che sì l’arte dovrebbe essere inclusiva anziché esclusiva. Condivido questo tipo di approccio, anche a te allora non interessa il risultato quanto piuttosto continuare la ricerca spostando di volta in volta il confine? Lo stato Beta permenente riguarda anche gli esseri umani non solo i software ed è l’unico modo per evolvere.

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IQ: Un mio personale cruccio, se vogliamo un nodo non del tutto risolto nell’analisi delle espressioni artistiche contemporanee, consiste nel fatto che la necessità di rivolgersi a un pubblico più vasto rispetto a quello tradizionale dell’arte, può indurre alcuni artisti a rinunciare alla complessità. Mi spiego meglio. Secondo te, un lavoro complesso può essere apprezzato e compreso anche dal pubblico generalista?

PDB: E’ una questione ricorrente, che parte da una premessa sbagliata secondo cui la complessità è sinonimo di qualità. Capisco la tua domanda, ma direi che, oltre a quello che tu chiami pubblico generalista, ce n’è un secondo, altrettanto pernicioso, in cerca di promozione culturale. Il rischio per molti artisti è di individuare il pubblico prima ancora di aver maturato un percorso e, quindi, di indossare di conseguenza il cilicio del perbenismo intellettuale oppure l’abito mondano del “nazional popolare”. Comprendo il tuo cruccio da critico, ma da artista io posso non pormi questo tipo di problema.

IQ: Tornando a Stop Making Sense, una volta espunto l’elemento narrativo a vantaggio di quello formale, credi sia ancora possibile definire “pop” questa serie di opere?

PDB: Non dovrei essere io a definire il mio lavoro, ma se rispondessi “no”, ciò significherebbe che la “qualità pop” delle mie opere dipende dall’elemento narrativo. Al contrario, rispondere “sì” vorrebbe dire che l’aspetto formale è il vero elemento qualificativo. Io ho solo voluto verificare un nuovo percorso che non presuppone un taglio con il passato, ma che anzi vuole lasciare spazio alle diverse forze in gioco. Tempo fa pensavo alla frase di Mies van der Rohe “less is more”, che presuppone una volontà di semplificare e togliere anziché aggiungere. Bene, lo stesso Mies van der Rohe disse anche “God is in the detail”, che per me significa che se vuoi ottenere un effetto di pulizia formale, devi dedicare molta attenzione al singolo dettaglio. A me questa cosa sa di contraddizione. Come dire che per “levare”, devo in realtà “aggiungere”. Quello che sto cercando di fare è semplicemente sfruttare le contraddizioni insite nel mio lavoro per trovare nuovi stimoli di riflessione. Una specie di ecologia del lavoro. “Mess is more”.

IQ: Questo tuo mescolare simultaneamente elementi contraddittori è una caratteristica che fa pensare agli artisti della Leipzig Schule.  Molti pittori di quell’area e, in generale, dell’est Europa sono, per così dire, “simultaneisti” e prediligono un immaginario iconografico pieno di sovrapposizioni e ambiguità semantiche. Avverti quest’affinità elettiva tra te e loro? E come te la spieghi? In fondo, il tuo background storico e culturale è molto diverso da quello degli artisti dell’Est.

PDB: In realtà non me lo spiego. Credo semplicemente che ognuno ha il diritto di scegliere i propri eroi. Neo Rauch ha detto che “Balthus, Vermeer, TinTin, Donald Judd, Donald Duck, Agitprop e l’immondizia della pubblicità dozzinale possono entrare nel paesaggio e generare un conglomerato di sorprendente plausibilità[4]. Rispetto agli artisti dell’Est magari mi manca l’Agitprop, ma posso trovare un sostituto.


[1] Sheldon Kopp, Se incontri il Budda per strada uccidilo, Astrolabio editore, Roma, 1975.

[2] Bruce Mau, Incomplete Manifesto for Growth, http://www.brucemaudesign.com.

[3] Solo n.2, AmC Collezione Coppola, Treviso, 2012.

[4] Intervista a Neo Rauch, Flash Art n. 252, Giancarlo Politi Editore, 2005, Milano