Archivio | dicembre, 2014

Giovanni Maranghi. Una storia in bianco

24 Dic

di Ivan Quaroni

“La vita è come un disegno che spetta a noi colorare.”

(Oscar Wilde)

“Il disegno è l’arte di condurre una linea a fare una passeggiata.”

(Paul Klee)

disegni PMR 01-11'14 002

Artista sospeso fra presente e futuro, fra tradizione e modernità, Giovanni Maranghi è noto per la sua attitudine strenuamente sperimentale, che lo porta ad arricchire la pratica pittorica con una varietà impressionante di tecniche e materiali. Nei suoi dipinti usa, infatti, una tecnica mista, che spazia dall’encausto su tela o tavola all’incisione su Kristal (una specie di PVC trasparente) e che coinvolge la stampa serigrafica, il fotoritocco digitale e, infine, materiali industriali come resina e plexiglass. Eppure, Maranghi può essere considerato un pittore nel senso più puro del termine. Il suo orizzonte è quello della rappresentazione iconica, che sfocia in un racconto tutto centrato sulla bellezza. Bellezza innanzitutto femminile, attraverso una carrellata d’immagini che avvalorano l’archetipo dell’eterno femminino, declinandolo in forme morbide e sinuose, tramite un affascinante campionario di pose conturbanti e seduttive. Accanto al colore, indagato in tutti i suoi aspetti, grazie al bilanciamento costante di apporti segnici e gestuali ed eleganti pattern esornativi, la linea è l’elemento fondante della sua grammatica pittorica. Una linea, tutta giocata sulle potenzialità evocative di un segno rastremato e sintetico ma, allo stesso tempo, delicato ed elegante come le donne che Maranghi ritrae.

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L’altro tipo di bellezza che l’artista include nelle sue opere, è quella legata al piacere dell’ornamentazione e del decoro, intesi sia come elementi di delizia ottica, retinica, sia come espressioni di un senso di dignità che, peraltro, rimanda al vero significato del termine latino decorum. Maranghi ha costruito la sua pittura attorno alla polarità tra figura e fondo, ma anche tra anatomia e texture, tra linea e colore, pervenendo così a uno stile ricco di stratificazioni, ma pur sempre fresco e immediato.

Questo è, in buona sostanza, il lavoro tipico di Maranghi. Quello, invece, esposto nelle sale di Palazzo Medici Riccardi è una sorta di esperimento, un progetto site specific, pensato appositamente per gli spazi del palazzo fiorentino che fu il laboratorio umanista di Lorenzo il Magnifico. Un progetto che si ricollega a una parte forse più intima e nascosta della produzione dell’artista, quella dei carnet de dessin, taccuini dove, per anni, Maranghi disegna persone, oggetti e scene di vita quotidiana che colpiscono la sua immaginazione. Sono immagini all’inizio circoscritte, come le vignette, all’interno di uno spazio quadrato o rettangolare, spesso sormontate da un titolo, che fornisce una chiave interpretativa del disegno.

In questi quaderni, pensati come una specie di diario visivo, lo stile di Maranghi si esprime in assoluta liberta, senza i vincoli formali della sua opera maggiore, cedendo a un gusto bozzettistico e caricaturale, dove l’immediatezza della notazione coglie il lato comico, buffo o perfino poetico della quotidianità, traducendo in un linguaggio semplice e sintetico un meraviglioso almanacco di personaggi e situazioni in bilico tra realtà e fantasia. I quaderni di Maranghi, infatti, più che una raccolta documentaria di fatti minimi, costituiscono un’antologia immaginifica, un catalogo sragionato – verrebbe da dire -, in cui la realtà prosaica assume aspetti imprevisti, inconsueti, secondo una logica trasfigurativa, che richiama alla memoria tanto le vignette satiriche quanto certi fantasiosi bestiari surrealisti in cui paesaggi e oggetti paiono animarsi e assumere i tratti inconfondibili del volto umano. Maranghi usa la deformazione, l’ipertrofia, l’antropomorfismo come strumenti di un racconto ininterrotto, in cui però ogni singolo episodio ha un valore autoconclusivo, in qualche modo definitivo.

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Con un tratto rapido e preciso, in fondo non così distante da quello che perimetra, e con chirurgica nettezza, le figure femminili dei suoi dipinti, Maranghi descrive un mondo pieno di gioiose contraddizioni, un universo abitato da archetipi provinciali come la Magna Mater, il Gallo Cedrone, lo Psicolabile, l’Ingordo, che sembrano usciti da una pellicola di Federico Fellini. Oltre alle donne, sempre prosperose e un po’ civettuole, in quei disegni Maranghi dà largo spazio alla città, alle strade trafficate di automobili, agli edifici storici e ai condomini, trasformando ogni oggetto in un soggetto, appunto, dotato di una fisionomia, e dunque di un’anima. L’orizzonte urbano, infatti, nei suoi taccuini è qualcosa di più di un semplice sfondo o di un’ambientazione, ma è piuttosto un protagonista. Anzi, forse è il protagonista, proprio perché traccia il campo d’azione dei suoi personaggi e fornisce loro un carattere, un background culturale.

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Oggi, a distanza di trent’anni dall’inizio dei suoi taccuini, Maranghi torna a quei disegni con occhio diverso, con spirito rinnovato, ma anche più maturo, più saldo. Rilegge quelle storie, quei bozzetti con un approccio che lo obbliga a portare quelle figure su una diversa scala. E, infatti, ne fa materia per un grande racconto corale, che corre, come una striscia ipertrofica, lungo le pareti della sala per una lunghezza di 96 metri e un’altezza di poco inferiore alle dimensioni di un uomo (150 cm.).

In questa monumentale narrazione per immagini, dove le sue sensuali donne in poltrona fanno da trait d’union con la sua recente produzione pittorica, abbiamo l’occasione di ritrovare il gusto lineare della sua pittura, un segno disegnativo qui epurato dal contrasto con il magma cromatico tipico dei suoi dipinti.

Le linee di Maranghi, con le sue morbide sinuosità, le sue volute arricciate, le sue alternanze di rette e curve, sono finalmente fruibili in un campo bianco, ora piatto, ora mosso da studiate increspature. In certi casi, infatti, l’artista accartoccia e stropiccia il supporto, per poi ridistenderlo sulla parete, dando così una più marcata profondità agli sfondi e un senso di maggiore tridimensionalità alle figure. Quello che conta, però, è il modo con cui riesce a trasferire un immaginario, tutto sommato intimo e “tascabile”, su una scala di grandezza che è, in fin dei conti, quella dell’affresco e della pittura murale. Come gli antichi maestri, Maranghi ha dovuto tener conto di un altro tipo di fruizione rispetto a quella che ha avuto la fortuna di vedere i suoi carnet, considerando il diverso impatto sugli spettatori.

Il disegno, rigorosamente in bianco e nero, salvo qualche aggiunta in rosso sanguigno, procede, in questo caso, per giustapposizioni di scene, perfino per sovrapposizioni leggere di segni e figure, lungo un percorso orizzontale, che si legge come una lunga, ininterrotta vignetta, scandita da centinaia di episodi, spesso privi di consequenzialità logica. Maranghi rompe lo schema quadrato e rettangolare degli esordi, squadernando il racconto entro una cornice dai confini labili e secondo una logica che oggi, con un po’ di sussiego, attribuiremmo all’ambito della cosiddetta expanded painting (un tipo di pittura che ambisce a superare i confini del supporto bidimensionale, per invadere finalmente lo spazio architettonico). Eppure, potremmo addirittura dire che, per la prima volta, Maranghi è stato obbligato a confrontarsi anche con un modello operativo affine a quello della performance. Anche perché, per eseguire questo grande lavoro, si è dovuto sottoporre a un regime di lavoro a dir poco agonistico, ginnico, trasformando la pratica del disegno in un’attività quasi atletica.

foto di susan

Una storia in bianco è, almeno per ora, un unicum nella produzione artistica di Maranghi, una sorta di capitolo per certi versi estraneo al suo abituale modus operandi, che tuttavia ha il merito di illustrare come il disegno sia un elemento niente affatto marginale della sua pittura. Una pittura di cui è stato spesso rilevato il carattere vividamente coloristico, finanche materico, ma che si basa, invece, soprattutto sul disegno. E, d’altra parte, tra tutti quelli a disposizione dell’artista, fin dall’alba dei tempi, il disegno è certamente il più importante e fondamentale strumento di rappresentazione (ma anche di trasfigurazione) della realtà.

Info:

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Giovanni Maranghi – Una storia in bianco
a cura di Filippo Lotti e Roberto Milani
Palazzo Medici Riccardi
Via Camillo Cavour 3, Firenze
Fino al 6 gennaio 2015
Galleria d’Arte San Lorenzo
Tel. 0571.43595

Viviana Valla. Beyond The White (Spaces)

1 Dic

di Ivan Quaroni

“Confusione è parola inventata per indicare un ordine che non si capisce”
(Henry Miller, Tropico del Capricorno)

Nella teoria estetica di Theodor Adorno, la forma e il contenuto erano considerati identici, due categorie inscindibili. Egli giudicava, tuttavia, che fossero i mezzi formali a costituire l’opera, cioè la configurazione stessa degli elementi. Nel caso della pittura, le linee e i colori. In realtà, il filosofo tedesco esprimeva una posizione in aperta polemica con tutte le forme d’arte in cui il contenuto prevaleva sulla forma – come ad esempio nel Realismo Socialista – perché esse esprimevano una sorta di asservimento dell’arte nei confronti della realtà. Per lui lo statuto fondamentale dell’arte, la sua conditio sine qua non, consisteva, invece, nella sua assoluta autonomia dal mondo della politica, dell’ideologia, della teologia, ma non necessariamente dalla vita. La prevalenza della forma sul contenuto, o quantomeno la loro radicale interdipendenza, tutelava questa indipendenza e garantiva, al contempo, una libertà dalle strutture preordinate della società. “Il compito attuale dell’arte”, sosteneva Adorno, “è di introdurre caos nell’ordine”.[1]

Viviana Valla, Bi-polar, 2014, tec.mista su tela, 30x30cm

Viviana Valla, Bi-polar, 2014, tec.mista su tela, 30x30cm

Per capire la complessa dialettica tra forma e contenuto, Adorno usava la nozione di apparizione. Sosteneva, cioè, che il contenuto fosse sedimentato nel farsi dell’opera, cioè nel suo processo di costruzione formale e che l’opera, così, si offrisse allo sguardo come apparizione, enunciando un contenuto invisibile e immateriale attraverso una forma visibile. Come a dire che le forme artistiche sono rappresentazioni di contenuti che non appartengono alla realtà e che, soprattutto, non sussistono se non in qualità d’apparizioni. Infatti, tolto il “velo” della forma, i contenuti sedimentati in essa finiscono per svanire. Questo preambolo descrive con precisione la natura dell’arte di Viviana Valla, una ricerca eminentemente formale, che adombra contenuti altrimenti inafferrabili. Quali siano, infatti, questi contenuti, non è dato di sapere. Probabilmente attengono a stati emotivi, pensieri fuggevoli, formulazioni inconsce, intuizioni improvvise e provvidenziali epifanie.

Viviana Valla, Cold breeze, 2014, tecnica mista su tela, 30x30cm

Viviana Valla, Cold breeze, 2014, tecnica mista su tela, 30x30cm

Qualche raro, laconico indizio ci arriva dai titoli (da This is the Where a It’s Home e A Melancholy Place), ma il contenuto appare chiaramente sedimentato nel percorso creativo, sepolto nei meandri di una pratica operativa che procede per progressive aggiunte e sottrazioni, affermazioni e negazioni che si stratificano fino a stabilire un differenziale, uno scarto che diventa, infine, la forma finale dell’opera. Un’opera che, a tutta prima, sembra derivare da precedenti astratti analitici e minimali, ma che, in verità, si costruisce innanzitutto attraverso accumuli segnici, gestuali, anche materici, secondo una logica, se così si può dire, di graduale riordino formale. Il suo lavoro, infatti, è l’effetto di un modello esecutivo che perviene all’ordine finale tramite una lenta decantazione di stadi apparentemente caotici, in cui le tecniche e i materiali si affastellano in un alternarsi di aggiunte e decurtazioni. L’artista affianca a una pittura liquida, costruita per velature di acrilici, con apporti di gesso e grafite, collage e decollage di carte, brandelli di scotch, stampe d’immagini prelevate da internet.

Viviana Valla, De-constriction, 2014, Tec.mista su tela, 60x60cm

Viviana Valla, De-constriction, 2014, Tec.mista su tela, 60x60cm

Il procedimento attuato dall’artista intende la pittura come pratica estensiva, ibrida, come disciplina protesa verso una pletora di sconfinamenti non solo formali, ma perfino spaziali. Di fatto, l’annullamento del perimetro fisico del quadro tramite l’espansione dell’immagine sull’adiacente superficie murale – oppure nel caso limite della forma installativa – svolge la funzione di rivelare la molteplicità di livelli della sua pittura, conferendo ad ogni piano una dimensione autonoma.

Valla usa uno stratagemma analitico, per isolare i diversi passaggi del suo processo pittorico, rendendo evidente (e tridimensionale) ciò che, altrimenti, affiora simultaneamente sulla superficie delle sue tele. Il suo è un esperimento che tradisce una necessità comunicativa, un bisogno di chiarificare un’idea di metodo che consiste, appunto, nel produrre un ordine dal caos magmatico della creazione. Per sua stessa ammissione, infatti, Viviana Valla dichiara di ricercare un equilibrio classico, una misura aurea. Misura che, però, non origina da una preconfezionata geometria, da una disposizione analitica di figure euclidee, ma da una lenta, meticolosa strutturazione del disordine. Intendo dire che il modello costruttivo nella ricerca dell’artista, se c’è, è quello delle proliferazioni naturali, delle crescite organiche che obbediscono a un ordine invisibile. Anche se il risultato finale sembra rigoroso, quasi pianificato, l’artista si lascia sovente guidare dall’intuito, concedendo un ampio margine alla possibilità di assecondare errori e deviazioni del percorso.

Viviana Valla, This is th where, 2014, Tecnica mista su tela, 130x160cm

Viviana Valla, This is th where, 2014, Tecnica mista su tela, 130x160cm

Descrivere con precisione la costruzione di una sua tela è quasi impossibile, perché non c’è alcun modo di prevedere l’ordine degli interventi. Basti sapere che la tecnica è, in sostanza, quella delle velature, usata anche dai pittori tradizionali. Con la sola differenza che qui le velature non sono solo di colore, ma includono stratificazioni di post-it, nastri adesivi, carte veline, stampe e perfino coaguli di colore essiccato, secondo un principio di riciclo ecologico (ed etico) dei materiali. Eppure, i dipinti astratti di Viviana Valla possiedono un’impressionante coerenza formale, data dalla reiterazione di elementi tipici del suo vocabolario pittorico, come ad esempio l’uso di una gamma cromatica di tinte neutre o comunque tenui, che annullano le note squillanti dei pigmenti puri, o la presenza, in primo piano, di figure poligonali bianche, che polarizzano la composizione, occultando parzialmente le velature e le stratificazioni del fondo.

Ricorrente, nel suo linguaggio, è anche la consistenza quasi tattile della superficie pittorica, animata da micro rilievi prodotti dai diversi spessori di carte e colori, come pure la profusione di linee rette o diagonali, che sovente segnalano le zone di accumulo o di sottrazione della pasta cromatica. È difficile farsi un’idea chiara del lavoro di Viviana Valla attraverso l’osservazione di una riproduzione fotografica delle sue opere, senza rischiare di perdere quei dettagli che ne costituiscono la specificità.

Viviana Valla, Tropical geometry, 2014, Tec.mista su tela,30x30cm

Viviana Valla, Tropical geometry, 2014, Tec.mista su tela,30x30cm

I suoi dipinti non sono semplici composizioni astratte, costruite sull’accostamento di scansioni modulari e campiture monocrome, ma immagini ben più complesse, che esigono, come notava Arianna Baldoni, “un processo di percezione lenta”.[2] Lo conferma il programmatico titolo dell’installazione What remains, resurfaces (Ciò che resta, riaffiora) che, appunto, suggerisce la necessità di una fruizione dilatata, graduale, che permetta a quelli che Adorno definiva i “contenuti sedimentati” di affiorare in superficie. Anche quando, a dominare la superficie, è uno spazio bianco, allusivo di un’assenza. Uno spazio che rimanda alla dimensione germinale del fondo intonso, immacolato e che, tuttavia, nel medesimo tempo, chiude la composizione come un sigillo, imponendo al rumore di fondo dei pattern stratificati, un definitivo silenzio.

Così, Viviana Valla costruisce una pittura sottilmente vibrante, intrinsecamente ritmica, dove lampeggiano, come sotto l’impulso di una corrente alternata, i sedimenti emotivi e i detriti psichici. Una pittura che, finalmente, grazie a un vigile controllo disciplinare, trova un modo originale e rigoroso di tradurre in forma e colore, in struttura e geometria, il linguaggio aleatorio e inafferrabile dell’inconscio.

Info:

BEYOND THE WHITE (Spaces)
Milano, Rivolidue - via Rivoli 2 (MM Lanza)
18 dicembre – 10 gennaio 2014
Inaugurazione: Giovedi 18 dicembre, ore 18.30
Orari:   dal martedì al venerdì 16.00-19.00; sabato 15.30 -19.30
In tutti gli altri giorni è possibile visitare la Fondazione su appuntamento
Ufficio stampa
Simona Cantoni
cell.3423837100
s.cantoni@rivolidue.org

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[1] Theodor W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 105.

[2] Arianna Baldoni, Minimi termini, in Viviana Valla. Minimi termini, catalogo della mostra, 23 maggio – 7 luglio 2012, Galleria Monopoli, Milano.