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La famosa invasione degli artisti a Milano

21 Mag

La città dei miracoli

(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.

Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm

Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.

Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106x150 cm

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm

Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.

Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.

Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100x90 cm

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm

Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.

Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.

Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.

Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.

A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.

In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.

Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.


[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.

[2] Ivi, p. 109.


INFO:

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Le partiture astratte di Arturo Bonfanti

21 Ott

di Ivan Quaroni

Intermezzo, 1959, cm 46x55, olio su tavola

Intermezzo, 1959, cm 46×55, olio su tavola

Il linguaggio astratto della pittura di Arturo Bonfanti si sviluppa nel corso di oltre un cinquantennio di lenta e meticolosa decantazione, tramite un processo di costante raffinazione formale che non trova eguali nelle ricerche coeve.
Dopo gli anni della formazione a Bergamo, dove studia per breve tempo alla Scuola d’Arte “Andrea Fantoni” e poi, privatamente, con il pittore Angelo Abelardi, da cui desume, ancora nel recinto delle articolazioni figurative, i primi rudimenti di sintesi formale e cromatica, un momento decisivo nella biografia di Bonfanti è il trasferimento a Milano nel 1926.
Nel capoluogo meneghino, dominato dal clima di rifondazione dei valori classici propugnato dai Novecentisti, Bonfanti si mantiene disegnando interni e lavorando come grafico per l’editoria.
I dipinti di quegli anni mostrano i segni di una necessità di semplificazione e chiarificazione delle forme che troverà in seguito una più decisa formulazione. In particolare un dipinto Senza titolo del 1927 – un notturno che raffigura una casa e una ieratica figura affacciata al balcone – mostra come l’influenza della pittura dei Primitivi italiani sia già fortemente impregnata di un gusto geometrizzante, poi ulteriormente elaborato a contatto con le tendenze astrattiste che, negli anni Trenta, si coagulano attorno alla Galleria del Milione.
Fino a quel momento, Bonfanti opera in una dimensione di segreto e solitario dialogo con la grande tradizione della pittura italiana. In un’intervista del 1977, infatti, afferma: “l’incontro più importante fu l’accostarmi con amore e ammirazione alle opere dei maestri del passato, tutta l’arte dei primitivi italiani ed in modo più ampio fino al Rinascimento: fu questo il latte della mia crescita”.

Acrilico 2, 1970, cm 35x40, acrilico su tela

Acrilico 2, 1970, cm 35×40, acrilico su tela

Si tratta di un’impronta che non cesserà mai di esercitare la sua influenza e che apparirà con evidenza anche in alcune opere della fine degli anni Trenta come, ad esempio, il piccolo olio su cartone (Senza titolo) del 1939, il cui vertiginoso scorcio prospettico richiama il tema delle città ideali del Rinascimento urbinate e le cristalline visioni di Piero Della Francesca, Francesco Laurana e Francesco di Giorgio Martini.
Eppure, in quegli anni, attraverso le sue frequentazioni, Bonfanti matura un’intensa consapevolezza di ciò che accade nell’ambito delle avanguardie italiane. Pur senza aderire ad alcun manifesto e senza parteggiare per alcuna fazione, egli guarda con attenzione le opere degli artisti che espongono nella galleria di Peppino Ghiringhelli a Brera, e si trova ad affrontare gli stessi problemi formali che impegnano i suoi colleghi nel campo dell’astrazione geometrica e dell’arte concreta.
Nelle opere della fine di quel decennio, il processo di affinamento formale di Arturo Bonfanti risente ancora dell’influsso della Metafisica morandiana, come dimostrano le nature morte eseguite nel 1939, dove l’oggetto, ancora evocato nella chiara leggibilità delle forme, si fa già puro volume, peso cromatico e ingombro di valore squisitamente astratto.

Acrilico 1, 1970, cm 35x40, acrilico su tela

Acrilico 1, 1970, cm 35×40, acrilico su tela

Di fatto, lavori come Colloqui di carta (1939) e Astrazione 9 (1940), segnano già l’ingresso di Bonfanti nell’alveo dell’Astrattismo, anche se, almeno fino alla metà degli anni Quaranta, il riferimento a figure e oggetti, non sparisce del tutto dalle opere dell’artista. Anzi, tale riferimento fornisce a Bonfanti l’opportunità di usare la geometria come strumento di semplificazione per architettare quel raffinato gioco d’intersezioni lineari che sarà poi il marchio distintivo del suo stile. Le opere fino al 1946 mostrano la tendenza a dividere lo spazio della tela in aree delimitate da traiettorie leggermente oblique e da ripartizioni curvilinee, secondo uno schema compositivo proprio del collage. Bonfanti insiste sulla giustapposizione di zone cromatiche e, allo stesso tempo, vira la sua tavolozza verso una gamma sempre più ridotta di colori, facendo leva su effetti di variazione tonale costruiti per velature. Tra il 1946 e il 1950, finita la guerra, Bonfanti intraprende una serie di viaggi in Europa, durante i quali entra in contatto con alcuni dei più importanti artisti astratti dell’epoca. A Parigi stringe amicizia con Alberto Magnelli, Hans Arp, Gérard Schneider e Serge Charchoune e, durante le sue peregrinazioni, incontra anche Max Bill a Zurigo, Victor Pasmore e Ben Nicholson a Londra, Willi Baumeister e Gunther Fruhtrunk a Monaco. Certamente, sono occasioni che contribuiscono allo sviluppo della sua coscienza artistica e al suo ingresso nel campo dell’Arte Concreta.
Dal 1950 in avanti, infatti, nelle sue opere scompare ogni traccia di evocazione dell’oggetto e giunge a maturazione un linguaggio che recide definitivamente ogni legame con la figurazione, incarnando in forme, linee e colori un universo d’idealità astratte, di topos mentali altrimenti intraducibili.
Fino al 1959, anno della sua prima mostra personale alla Galleria Lorenzelli, dopo ben quattordici anni di silenzio – sono del 1945 le ultime due esposizioni alla Galleria Permanente di Bergamo e alla Galleria Renzini di Milano – l’artista lavora alla definizione di un vocabolario di forme essenziali, che preludono e, insieme, prefigurano la piena maturità linguistica dei due decenni successivi.

Composizione A 13, 1961, cm 46x55, olio su tavola

Composizione A 13, 1961, cm 46×55, olio su tavola

Le opere dalla seconda metà degli anni Cinquanta ai primi anni Settanta – di cui questa esposizione offre una significativa selezione – dimostrano come la sua pittura vada distendendosi sempre di più in un dialogo di piani intersecanti, quasi scivolanti gli uni sugli altri, in cui la geometria delle forme si fa via via più acuminata, in una sottesa allusione, ormai del tutto idealizzata, alle ordinate partiture della pittura dei maestri della prospettiva rinascimentale.
I campi pittorici, sempre più scanditi, le forme, sempre più stagliate da severe partizioni lineari, così come i rapporti tra le varie aree della superficie, sussistono ora in una sorta di equilibrato contrasto tra forze opposte e spinte contrarie. Perimetri e bordi delimitano un campo pittorico in cui le forme geometriche tendono a convergere verso il centro della superficie, che costituisce un fuoco visivo sovente segnato dalla presenza di una lettera o di un numero, che servono ad assestare l’intera composizione. Si ha l’impressione che senza questi contrappesi visivi, meticolosamente disposti in posizioni di equilibrio strategico, la pittura di Bonfanti collasserebbe in una confusa giustapposizione di piani e superfici. L’artista, invece, usa tali lemmi e significanti privi di contenuto, come pure forme, per regolare i rapporti tra linee, colori e figure geometriche.

Q 516, 1972, cm 90x108, olio su tela

Q 516, 1972, cm 90×108, olio su tela

Questo meccanismo di polarizzazione, evidente soprattutto in opere come Composizione 290 (1965), H 508 (1972) e P 515 (1972), dove le lettere e i numeri, al pari di potenti attrattori gravitazionali, hanno l’effetto di magnetizzare l’intero spazio della composizione, fungendo anche da fuoco visivo dell’immagine.
Si tratta di un dispositivo che Bonfanti applica anche ai dipinti in cui non compaiono lettere, numeri e altri segni tipici della sua grammatica, e che si esprime nella ricerca di un ordine formale compiuto, ma mai del tutto simmetrico. Un ordine che è, piuttosto, basato su una forte tensione stutturale in grado di generare una gamma di sorprendenti e imprevisti equilibri statici.

Nella Composizione 146 (1963), ad esempio, l’equilibrio statico è prodotto dalla raffinatissima progressione cromatica della fascia centrale, che taglia orizzontalmente la superficie della tela in due zone diseguali, eppure equipollenti. Lo stesso vale per il piccolo olio su tela del 1962, intitolato Campo 121, formato da un perimetro rettangolare che circoscrive un quadrato formato da tre triangoli equilateri, con il più grande dei tre pari alla somma degli altri due. Anche in questo caso, è evidente che l’artista costruisce un equilibrio sfruttando le tensioni implicite di una geometria sottilmente instabile e calibrando il tutto attraverso un sapiente uso del colore. Bonfanti è, dopotutto, anche un finissimo colorista, uno straordinario inventore di eleganti gamme cromatiche, costruite intorno a variazioni timbriche e tonali di gusto squisitamente musicale.
Note e accordi di rara eleganza e cadenze ritmiche inconsuete caratterizzano, infatti, il suo originale vocabolario visivo, teso a scandagliare l’immaginario di astratte idealità con una pletora d’inaspettate invenzioni formali.
Come notava Luigi Carluccio nel 1977, il ritmo musicale è uno dei motivi conduttori dell’opera di Bonfanti, sempre animata da “un ritmo senza sbavature, senza riverberi, radicato a contorni netti, disegnato come una serie di segnali su un muro: una serie fatta in uguale misura di precisazioni categoriche e di fluidi suggerimenti”.
Ma c’è di più, quella di Bonfanti è anche una pittura pervasa da una sottile, persistente vibrazione emotiva e da un accento insieme ironico e affettuoso. Una pittura, insomma che, per essere compresa, richiede l’attenzione di una sensibilità fine, preparata a cogliere nelle sue geometrie mobili e nel contrasto di forme e piani, di luci e colori, tanto il mistero mutevole e cangiante dell’esistenza, quanto quella, umanissima, incessante tensione verso una condizione di ritrovato equilibrio e imperturbabile armonia.

N. 415, 1969, cm 46x55, olio su tela

N. 415, 1969, cm 46×55, olio su tela

Luca Serra. Una mimesi sostanziale

29 Mag

di Ivan Quaroni

Luca Serra 4

In un saggio su Francis Bacon, Gilles Deleuze afferma che la pittura attuale offre “tre grandi direzioni […]: l’astrattismo, l’espressionismo e ciò che Lyotard chiama il Figurale, che è cosa diversa dal figurativo, esattamente una produzione di figure”. Il termine figurale appare come un escamotage del brillante filosofo francese per introdurre una tipologia pittorica che non può essere compresa entro gli ormai classici schemi dell’astrazione e della figurazione, essendo essa egualmente refrattaria ad entrambe le definizioni. Eppure il vocabolo figura, da cui deriva l’aggettivo figurativo, definisce sia la forma o apparenza di un’immagine, sia il simbolo, l’allegoria o il significato ad essa sotteso. Siamo, dunque, indotti a credere che il figurale sia una categoria che si distingue dal figurativo per un diverso grado di approssimazione alla realtà. La pittura figurativa, infatti, desume le immagini dalla realtà, con gradi di maggiore o minore fedeltà, laddove la pittura figurale le produrrebbe per mezzo di un procedimento endogeno e, quindi, non mimetico. Accettando tale distinzione terminologica, ci ritroviamo, tuttavia, ad affrontare più dubbi di quanti riusciremmo a risolverne. Dal momento che anche l’arte astratta utilizza figure non derivate dalla realtà fenomenica, che cosa, allora, distinguerebbe quest’ultima dalla pittura figurale? È evidente che il suggerimento di Lyotard, citato da Deleuze, non ci conduce da nessuna parte. Più sensata, invece, ci sembra la definizione di Achille Bonito Oliva, il quale, scartando la tradizionale antinomia tra astrazione e figurazione, scrive che “La figura è il punto focale dell’arte”, poiché “detiene la centralità del linguaggio, in quanto è portatrice dell’intenzione e del desiderio di potenza dell’immaginario”, aggiungendo, poi, che “tale desiderio si traveste mediante abbigliamenti vari, indossa i panni della circostanza legata alla necessità espressiva”. Se si accetta la definizione di Bonito Oliva, si chiarisce anche un dubbio riguardo la ricerca di Luca Serra, il quale ha più volte affermato che la sua “non è un’arte propriamente astratta”, in quanto prende le mosse da un accadimento reale e concreto, che è il risultato di una combinazione di fattori predeterminati e di accidenti guidati.

El Embrujo del Hombre del Saco 2008 Calco in gomma acrilica su tela cm 78x84

Per Serra “il lavoro pittorico non è letteralmente dipinto, ma è, piuttosto, l’esecuzione di un calco della pittura precedentemente stesa su una superficie preparata”. In pratica, l’artista si serve di pannelli ricoperti di carta catramata sui quali dispone, seguendo un personalissimo senso di ordine ed equilibrio, tempere, pigmenti, polveri, gessi e strati di colla. Su questa superficie preparata, l’artista fa aderire la tela, che successivamente rimuove. Lo strappo ha per conseguenza l’asportazione di parte della materia cromatica, delle colle e della carta catramata presenti sulla matrice e la tela risulta, così, impressa come in una sorta di calco i cui esiti sono solo parzialmente prevedibili. Osservando le opere di Luca Serra, viene spontaneo ascriverle all’ambito delle ricerche astratte. Sopra i suoi calchi in gomma su tela, infatti, non appaiono forme riconoscibili, né ombre vaghe che possano suggerire l’idea di una qualche presenza. Ci sono, piuttosto, segni e tracce, dilavature ed escoriazioni, lacerti e frammenti che compongono tra loro un’imprevista texture, una tramatura che appare coerente, bilanciata nel peso e nella massa. L’impressione che si ricava da queste marcature di colore, che pure possiedono una forma d’ordine in certe partiture orizzontali o verticali, è quella di essere alla presenza di superfici che abbiano subito l’azione abrasiva del tempo e delle intemperie.

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Quelle che affiorano sulle tele di Serra sono figure proprio nel senso espresso da Bonito Oliva, ovvero in quanto “portatrici dell’intenzione e del desiderio di potenza” di un immaginario che, nel suo caso, si traduce in un tentativo di appropriazione delle qualità estetiche della materia e in una volontà strenua di possedere, e forse di ricreare, l’incanto cromatico di certe superfici minerali, siano esse pietre o terre. È sulle note di fondo di questa fame di conoscenza, di questa curiosità insaziabile, che Serra interpreta la sua pittura. Una pittura che ha le caratteristiche di una sfida, a volte ludica e a volte drammatica, tra l’uomo e la natura, tra le qualità tecniche dell’artista e le proprietà intrinseche dei materiali. Per questo, il procedimento messo in atto da Luca Serra non somiglia in alcun modo a quello, tutto squisitamente mentale degli artisti astratti. La sua è una pittura egualmente equidistante dalla premeditazione teoretica del Minimalismo come dallo spontaneismo gestuale dell’Action Painting. Piuttosto si avverte in essa una necessità impellente di verifica empirica degli accadimenti che intercorrono nell’osmosi chimica del calco, quando la tela è impressa sulla matrice. “Sono affascinato dall’evento – scrive l’artista nei suoi appunti – da ciò che succede fuori dal mio controllo, aldilà delle mie intenzioni”. Luca Serra può solo immaginare il risultato delle metamorfosi chimiche, che si producono nell’unico momento di cecità dell’intero processo. Tuttavia, quando la matrice e il calco aderiscono, nel buio ottuso della pressione, le sostanze si mescolano e si alterano in modo pressoché incontrollabile, producendo risultati sorprendenti. Serra gioca dunque una rischiosa partita tra l’ordine e il caos, tra la causalità sequenziale del suo Opus, e la casualità (guidata) della trasmutazione alchemica.

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“Io voglio che la pittura – racconta l’artista – sia capace di darmi qualcosa; io sono lo spettatore, il primo spettatore della mia pittura”. In termini semplici, l’atteggiamento di Serra richiama quello di un ricercatore scientifico al quale, dopo aver predisposto tutti gli elementi, non rimane che assistere al risultato finale dell’esperimento. La sua è, dunque, un’immersione nel farsi stesso della pittura, intesa non tanto come lo svolgersi di un esercizio fine a se stesso, ma come possibilità di un’epifania, di una rivelazione dell’ordine estetico del cosmo, che trascende il mero atto volontario e allinea l’intenzione dell’artista con le segrete leggi che regolano la natura. Ecco perché, nel suo caso più che in quello di altri artisti, è lecito parlare di procedimento alchemico. I grandi alchimisti del passato sapevano che i loro sforzi erano tesi non tanto al raggiungimento di un risultato tangibile, come, ad esempio, la trasformazione del metallo vile in oro, ma alla comprensione del funzionamento della natura intima di tutte le cose. La Grande Opera corrispondeva a un cammino iniziatico e spirituale di imitazione del creato. Ora, l’arte di Luca Serra somiglia in tutto a un’indagine, tanto pittorica quanto ontologica, sulla genesi di effetti cromatici e visivi che ci sembra appartengano al mondo fenomenico molto più delle algide geometrie o delle forme pseudo-organiche che ricorrono in tanta arte astratta. Ed è per questo motivo che il termine “astratto”, riferito al suo lavoro, ci pare inadeguato, quasi restrittivo. Quando pensiamo ad un’opera astratta la interpretiamo innanzitutto come la formulazione estetica di un pensiero progettuale o di un modus operandi, che trasla le idee formali sul piano più fattuale dell’arte. Serra, invece, aggiunge un passaggio sostanziale, quello dell’evento inaspettato, dell’accadimento inafferrabile in cui l’intuizione estetica può manifestarsi sotto forma di disvelamento. Una rivelazione che giunge dalla materia stessa, dalla natura – saremmo tentati di affermare – assumendo, quindi, un valore di oggettività che l’artista non può dominare o controllare completamente. Ogni volta che la sua tecnica diventa troppo raffinata e il risultato di essa troppo prevedibile, Serra cambia metodo, introduce nuovi passaggi per “salvaguardare” quel fondamentale gradiente di sorpresa, preservando, con esso, il piacere stesso della scoperta e dell’apprendimento.

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“Se la pittura è esattamente ciò che sono in grado di fare o di dare – dice Serra – per quale motivo dovrei dipingere?”. Si palesa, in questa dichiarazione, il senso iniziatico del suo fare artistico, che intende la pittura come rapporto tra l’intenzione e il risultato e, dunque come lo scarto che s’insinua tra l’idea e la forma compiuta, che qui passa attraverso l’esperienza della materia, una materia, a suo dire “ostica al cambiamento”. Proprio come accade nel percorso alchemico, che impone al discepolo di confrontarsi prima di tutto con la sostanza bruta e informe, in quella lunga, preliminare fase conosciuta come Opera al nero. Le opere della serie Irreversibile, che rappresentano i più recenti esiti della ricerca dell’artista, sono l’ulteriore dimostrazione di come la pittura possa scavare negli intimi recessi della natura senza ricalcarla nella forme. Serra non imita il mondo fenomenico, ma tenta di catturarne i segreti, di ghermirne l’essenza.  Ed è per questo che le figure della sua pittura non assumono mai la foggia delle cose reali, ma si limitano a suggerire l’idea di consistenze informi e inafferrabili, che ricordano gli effetti cromatici delle infiorescenze rugginose delle terre, delle scrostature degli intonachi, delle emulsioni d’umidità, ma anche degli aloni bituminosi, delle corone di vapore acqueo, delle scalfitture dei gessi, delle abrasioni dei solventi, dei residui delle colle, delle tracce degli ossidi, insomma di tutto l’irresistibile e brutale affresco della chimica terrestre.

El hombre del saco, 2009  Abdruck von Kautschuk und Acrylgummi auf Leinwand  150 x 125 cm

Italian Newbrow. Cattive compagnie (seconda parte)

16 Mag

Il problema del male. Cattive compagnie

A proposito dell’intensa vitalità e della spinta fondamentalmente pulsionale, erotica, emotiva e psicologica che accomuna le opere degli artisti di  Italian Newbrow, avevo accennato nel libro edito da Politi Editore[1], citando uno scritto di Franco Bolelli (Cartesio non balla, Garzanti, 2007, Milano) sulla superiorità della cultura pop, in cui affermava che le grandi opere, come le grandi imprese che segnano a fondo l’immaginario collettivo, nascono sempre da un esubero energetico, da un’abbondanza che si traduce in slancio. Più avanti introducevo il tema del ritorno a una sensibilità gotica, legata alla rappresentazione del lato oscuro e delle zone d’ombra della società contemporanea, mediati attraverso i filtri dell’ironia, del paradosso, dell’ambiguità e dell’affabulazione, ma non sottolineavo abbastanza quanto sia dinamico, necessario, vitale, per gli artisti, questo processo di confronto con il tema della negatività. Argomento che, in fin dei conti, ha caratterizzato tutta la storia dell’arte e non solo, come affermava Baltruišaitis, i periodi in cui era alterata la stabilità sociale[2]. Il problema del male e della sua evidenza è uno dei più dibattuti dai teologi, filosofi e letterati d’ogni epoca. Si tratta di una questione che coinvolge l’esistenza stessa dell’uomo e dunque, inevitabilmente, anche la sua rappresentazione attraverso l’arte.

Nel trattato intitolato Piccola metafisica dell’omicidio, la scrittrice francese Eliette Abécassis scrive che “L’arte intrattiene con il male dei rapporti intimi. Il male è la sua forza, il suo soggetto, la sua ragion d’essere “.[3] Esso costituisce, di fatto, la premessa di ogni di ogni forma d’arte, la sua conditio sine qua non. Solo là, dove il male si manifesta, esiste una storia da raccontare. Che cosa sarebbero la Letteratura, il Cinema, il Teatro, il Fumetto, la Danza, la Musica e l’Arte senza una storia da raccontare?

Come afferma la Abécassis, “Perché l’arte, se non per esprimere il delitto nella società?  L’arte, contestatrice nella sua essenza, c’è unicamente per denunciare, per vomitare il mondo. Non per lavarlo, non per descriverlo, non per dare un senso a un mondo assurdo, non per gratificare, appagare, non per evadere dal mondo: non per criticarlo, ma per vomitarlo”.[4] L’arte è quindi un conatus, un rigurgito che restituisce al mondo i suoi squilibri in forma di rappresentazione, ma è anche, e soprattutto, un antidoto, una cura omeopatica, una forma di catarsi che l’artista vive da eterno convalescente, sempre teso verso un’impossibile guarigione. Il metabolismo dell’arte aggredisce il male con i suoi anticorpi poiché, come affermava Sheldon Kopp, “Tutto il male costituisce una vitalità potenziale bisognosa di trasformazione[5].

È un processo intensamente vitale, che gli artisti di Italian Newbrow hanno assimilato attraverso scelte linguistiche che escludono la tautologia e l’autoreferenzialità, a favore della narrazione e della rappresentazione. Se, infatti, è vero che dove c’è il male, c’è una storia da raccontare, è altrettanto vero che dove c’è una narrazione, affiorano direttamente o indirettamente, i temi dello squilibrio, del caos e del disordine, dell’oscurità e del buio, della crudeltà e del peccato, dell’ignoranza e della stupidità e, infine, dell’eterno scontro tra le forze positive e negative dell’esistenza. Difficile è, piuttosto, stabilire una precisa iconografia del negativo, tracciarne dei confini netti, dal momento che Italian Newbrow raccoglie una pletora di artisti diversi, ognuno dei quali affronta il problema da una prospettiva particolare.

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Giuspeppe Veneziano

Nella sua reiterata e pendolare oscillazione tra realtà e finzione, la pittura di Giuseppe Veneziano affronta il tema del male sotto il profilo dell’ambiguità e del travestimento. La maschera delle apparenze, come codice comunicativo che adombra la menzogna e la violenza, è un soggetto centrale in molte sue opere, a cominciare dall’inquietante ritratto di Pogo the clown – vero nome John Wayne Gacy –, famigerato pluriomicida, noto per aver intrattenuto i bambini ad alcune feste con un costume e un trucco da pagliaccio. Quest’opera, insieme alla scultura bronzea intitolata David’s Reinassence e al dipinto Electric Joker, si inserisce nella tradizione della coulrofobia, nota come “paura del clown”, che trova un illustre predecessore letterario nel Pennywise di “It”, il capolavoro assoluto di Stephen King che ha reso la figura del clown un simbolo del male assoluto. La sequenza iconografica rappresentata da Pogo the clown, David’s Reinassence e Joker disegna anche una progressiva escalation dal mondo reale (Pogo), a quello ambiguo del mito, in cui si mescolano verità e finzione (il clown decapitato), fino a quello del fumetto e dunque della pura immaginazione (Joker), in cui Veneziano compie innumerevoli incursioni. Lo dimostrano non solo i ritratti di personaggi negativi o politicamente scorretti dei cartoni animati, da Telespalla Bob dei Simpson a Cartman di South Park, da Bender di Futurama a Stewie dei Griffin, ma anche le opere in cui l’artista mette in luce il potenziale lato oscuro di eroi ed eroine da fiaba. In Indignados e La strage degli innocenti, Veneziano usa l’universale iconografia dei cartoon della Disney e della Dreamworks come metafora per descrivere una realtà instabile, violenta e contraddittoria. Una realtà che, in tempi di crisi, estende l’ombra lunga del male anche ai regni della fantasia e dell’immaginazione.

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Massimiliano Pelletti

Attraverso un video, un light box e una serie di sculture racchiuse in piccole teche di plexiglas, Massimiliano Pelletti ricostruisce scene di ordinaria follia, ispirate alla vita quotidiana e a fatti di cronaca. “Contiene parti ingeribili” è il titolo di questa serie di lavori, che allude alle tassative avvertenze contenute nelle istruzioni dei giocattoli per bambini. E infatti, ogni opera è fabbricata manipolando esemplari di Playmobil, attraverso interventi di microscultura che plasmano le espressioni, aggiungono dettagli e ridisegnano il contesto entro cui si svolge l’azione di questi popolari omini di plastica. L’artista usa un linguaggio volutamente pop, che fa leva su meccanismi d’immediata riconoscibilità, per trattare temi assai meno pacificanti, come la morte, la violenza e il cinismo della società contemporanea. Mentre il light box intitolato  P.G.R – Per Grazia Ricevuta si limita a ironizzare sull’iconografia popolare degli ex voto, le sculture Festa della Mamma e Del Maiale non si butta via niente vanno meno per il sottile e affrontano il problema dell’informazione giornalistica, che asseconda il gusto collettivo per le atmosfere morbose e patologiche della cronaca nera. Cinica e spietata come una lucida analisi sociale è invece l’opera Il profumo della vita, dove l’atmosfera mesta e compunta di un funerale è interrotta dal dettaglio triviale di un corteggiamento canino. Ma l’ironia trionfa soprattutto nel video Rapina Funky, realizzato con la tecnica dello stop motion, che ci precipita improvvisamente nell’effervescente clima pulp di una sequenza di Tarantino.

Michael Rotondi, My Kim

Michael Rotondi

Attraverso il suo stile rapido e bozzettistico, che pone l’accento sugli elementi espressivi dell’immagine, Michael Rotondi approccia il tema del male recuperando iconografie del folclore religioso e popolare e figure emblematiche della storia. L’artista concepisce il racconto come una struttura aperta, formata da accumuli e affastellamenti di tele e carte che tracciano una sottile rete di analogie e rimandi all’interno delle sue installazioni. L’elemento negativo, ma anche vitale e catartico, del linguaggio di Rotondi è evidente soprattutto nella furia iconoclasta di My Kim e Con lo smalto nero sulle unghie posso solo urlarti una canzone, memori della lezione dei neoespressionisti tedeschi, mentre le carte sembrano piuttosto dominate da una più quieta vena memoriale. In Kill your idols landscape Rotondi presenta, infatti, due incarnazioni storiche del male (Stalin a Lenin) e un animale simbolo del peccato (la rana rovesciata), desunto direttamente da una celebre tela del Bramantino. Ma il male cui l’artista si riferisce è anche quello biblico della possessione demoniaca, tema del dipinto Vai via!!, ispirato a un antico casellario spagnolo, e, infine, quello metafisico, contro cui si batte il bellicoso San Michele Arcangelo di Autoritratto.

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Vanni Cuoghi

Inventa una nuova cosmogonia, sospesa tra fiaba e mito, Vanni Cuoghi, le cui immaginifiche visioni rinnovano il racconto dell’eterna lotta tra angeli e demoni, introducendo elementi di ambiguità che riguardano sia l’identità di genere dei suoi personaggi, che e le loro accezioni simboliche. Come Henry Darger, il visionario artista autodidatta autore di The Realm of Unreal, Vanni Cuoghi immagina un universo alternativo, dove il primigenio conflitto tra uomini e donne assume connotati epici. Le sue streghe, abbigliate come aristocratiche dame vittoriane, sono, infatti, protagoniste di una guerra senza esclusione di colpi con le forze maschili, spesso incarnate da schiere di demoni e altri esseri ultraterreni. Mescolando pittura, collage e psaligrafia (arte antica del ritaglio di carta), l’artista costruisce affascinanti diorami tridimensionali, racchiusi in preziose scatole di plexiglas. Ogni diorama rappresenta un evento particolare, diciamo pure un episodio dell’immaginifica saga di Cuoghi, in cui le streghe recitano il ruolo delle eroine di una rivoluzione proto-femminista che, metaforicamente, allude a conflitti di ben altra portata. Conflitti che attengono alla sfera immaginifica dell’inconscio individuale e collettivo, dove si allignano figure incerte e simboli ambigui, che rendono opaco e indeterminato il confine ontologico tra il bene e il male.

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Diego Dutto

Diego Dutto trasferisce l’ambiguità sul piano biologico, aprendo una riflessione sulle future (e nemmeno troppo lontane) possibilità d’innesto tra organismi naturali e parti robotiche. Quelle plasmate dall’artista torinese sono, infatti, entità ibride, le quali assimilano forme umane, animali o vegetali e strutture sintetiche che richiamano il nitore di manufatti altamente tecnologici. Pnèymon, ad esempio, è un macabro trofeo, una sorta di cuore meccanomorfo, da cui fuoriescono due canne metalliche, simili ai tubi di scappamento delle automobili. Nonmama è una scultura da giardino che rappresenta un grande fiore biotech, degno de La piccola bottega degli orrori di Roger Corman. Ma Dutto non risparmia nemmeno il mondo animale e, così, ridisegna il guscio delle sue tartarughe fino a farlo somigliare a una corazza da combattimento in kevlar, decorata con preziose finiture cromate. Allucinata, con le sue plastiche forme sintetiche sembra, infine, l’insetto di un cartone animato della Pixar. Il mondo post-umano di Diego Dutto è, dunque, il prodotto di una sensibilità ultracontemporanea, sviluppatasi all’incrocio tra il design, la tecnologia e la computer grafica.

Paolo De Biasi, Ephemeral Painting 5, acrilico su tela, 50x40 cm., 2012

Paolo De Biasi

L’elemento provocatoriamente negativo della pittura di Paolo De Biasi è rappresentato dalle fonti iconografiche, che non riflettono la tendenza autoreferenziale di larga parte dell’arte contemporanea. Per De Biasi le cattive compagnie sono le frequentazioni culturali che hanno formato il suo gusto e la sua sensibilità, maturate per lo più al di fuori dell’ambiente artistico. Le immagini delle riviste degli anni Sessanta, le copertine dei dischi degli Smiths, l’architettura razionalista del secondo Novecento hanno contribuito alla formazione della sua attitudine pop e fondamentalmente anti-concettuale. “La pittura che parla di pittura”, afferma De Biasi, “si riduce a una tautologia o, nella migliore delle ipotesi, a un sistema di specchi opposti, che riflettono la propria immagine distorcendo la realtà, senza creare alcun significato ulteriore”. De Biasi definisce la sua ricerca come una sorta di beta test, cioè la versione provvisoria di un programma, spesso realizzata per saggiare la validità del prodotto prima del suo definitivo lancio sul mercato. Per l’artista pensare la pittura come una fase beta permanente, significa quindi sperimentare la possibilità di ripensare la realtà. Come afferma Gianni Canova, “Il problema del nostro tempo è capire se siamo ancora capaci di pensare a quello che vediamo o se vediamo sempre e solo ciò che già pensiamo”. Opere dalla struttura frammentaria e quasi centrifuga come Code of conduct, Back to the Old House e Doppelgänger incarnano, di fatto, questa possibilità di ricostruzione fenomenologica del mondo, fondata non più gerarchie logiche e spaziali, ma semmai su un nuovo assetto pulsionale, aperto e multicentrico.

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Giuliano Sale

Una pittura viscerale, ma disciplinata da un severo controllo formale, è quella di Giuliano Sale, che declina in immagini equivoche e misteriose le pulsioni più ineffabili dell’essere umano. Con il suo stile fitto di rimandi alle atmosfere del Simbolismo e della Neue Sachlickeit, l’artista è riuscito a sviluppare una personale sigla linguistica, che gli consente di esplorare i meandri dell’inconscio senza rinunciare alla narrazione. La sua indagine si appoggia ai generi tradizionali del paesaggio e del ritratto per dare corpo e solidità a una materia psicologica sfuggente e inafferrabile quanto un incubo narcotico. Sale descrive  un universo metafisico, fatto di crepuscolari arcadie e paesaggi d’ombra, dove balenano spettrali figure e temibili apparizioni. Ma è soprattutto nei ritratti, un singolare repertorio di fisionomie e anatomie anomale, che affiora con evidenza il tema del male. Sale lo affronta illustrando quel connubio tra abiezioni organiche e morali, che è il segno distintivo dei suoi personaggi, ma che, in qualche modo, riecheggia anche nella morfologia allusiva dei suoi paesaggi, costellati di anfratti bui e inquietanti distese d’acqua scura. Quello dipinto da Sale è, dunque, un mondo di rovinosa decadenza, un’immaginifica apoteosi del mal di vivere, dove il vizio e la corruzione che albergano nel cuore degli uomini, riecheggiano nelle lande di una natura afflitta e desolata.

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Silvia Argiolas

L’arte di Sivia Argiolas è la più compiuta espressione del conatus di cui parla Eliette Abécassis, di quel rigurgito espressivo che è, appunto, una forma di metabolica trasformazione e sublimazione della negatività, compiuta attraverso gli strumenti della rappresentazione pittorica. L’artista materializza sulle sue tele una cosmogonia paranoica, di puro delirio e lucida alienazione, in cui le manie e le ossessioni personali vengono sublimate attraverso la mise en scene di imperscrutabili liturgie catartiche. Nella sua folle visione, la dimensione aleatoria della psiche si trasforma in un palcoscenico affollato di autoritratti, dove le più diverse incarnazioni della sua personalità entrano in contatto con le forze primigenie della vita in forma di animali totemici e ombre spettrali. La pittura espressionista di Silvia Argiolas, fatta d’interventi gestuali e accumuli materici, assume la natura come ambientazione, facendone il teatro di una pletora di narrazioni drammatiche. Ma il suo è, piuttosto, un Eden capovolto, un inferno arboreo disseminato di proiezioni lisergiche e presenze ctonie.


[1] Ivan Quaroni, Italian Newbrow, Giancarlo Politi Editore, 2010, Milano.

[2] Jurgis Baltruišaitis, Il medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, 1997, Milano.

[3] Eliette Abécassis, Piccola metafisica dell’omicidio, 2004, Il Nuovo Melangolo, Genova.

[4] Ibidem.

[5] Sheldon B. Kopp, Se incontri il Buddha per strada uccidilo, Astrolabio Ubaldini Editore, 1975, Roma.

Italian Newbrow. Cattive compagnie (Prima parte)

15 Mag

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Nessun artista tollera la realtà”.

(Friederich Nietzsche)

 Newbrow versus Lowbrow. Una definitiva precisazione.

Mi sono chiesto spesso se possa esistere una via italiana, anzi europea, a quel variegato e complesso fenomeno chiamato Lowbrow Art (o Pop Surrealism), tutto giocato sull’orgogliosa rivendicazione di un approccio figurativo, narrativo, ironico e fondamentalmente popolare al problema della rappresentazione. Ho avuto la sensazione, poi avvalorata da molteplici letture ed esperienze di visione diretta delle opere, che quello del Lowbrow è un modo intimamente americano di affrontare il problema, un modo che affonda le radici nel crogiuolo delle sottoculture di quel paese e che non può essere esportato senza dare vita a espressioni derivative o imitative. L’artista europeo può davvero condividere le esperienze maturate nella West Coast Californiana, dal fenomeno delle Hot Rod alla Kustom Kulture, dagli stili di vita del surf e dello skate, fino alla rilevanza sociale del fumetto underground e dell’immaginario psichedelico? Lowbrow è, in fondo, un termine che descrive il coagulo delle esperienze della cultura popolare americana degli ultimi sessant’anni. Dentro c’è di tutto: l’architettura cheap dei rivenditori di hot dog e di donut, le roadhouse e le sale da Bowling affollate, Disneyland e i Monster Movie proiettati nei drive-in, i ristoranti Tiki colmi di paccottiglia hawaiana, i poster lisergici della Summer of Love, la mitologia Beat, il mito dei bolidi truccati e delle gare illegali nelle piane desertificate della California, la fantascienza retro-futurista dei Jetson, il rock and roll e il Be Bop, le bande di teppisti e teddy boy, l’estetica da centauri degli easy rider, il punk e i graffiti, la nostalgia dei vecchi cartoon della Warner Bros, Norman Rockwell e Robert Crumb, i tatuaggi, le pin up, le vecchie insegne dei sideshow, la musica country e l’arte folk, i cowboy e il Ku Klux Klan, le bandiere degli Stati Confederati, la solitudine della provincia e lo spirito di frontiera. L’America, insomma. Nel bene e nel male. Italian Newbrow è tutt’altro. Un fenomeno che affonda le radici nel nostro background e, semmai, in quello della cultura continentale comunitaria e che, in genere, assorbe suggestioni dell’immaginario globale, senza per questo appiattirsi su posizioni di mera derivazione linguistica. L’universo fantastico della Lowbrow Art è, per noi italiani, alla più una curiosità d’oltreoceano, un’eccitante novità pervenutaci attraverso la diffusione planetaria di Juxtapoz, la rivista portabandiera del Movimento, e tramite gli stimoli di certo cinema pulp, così come l’abbiamo vissuto attraverso la visione della filmografia di Quentin Tarantino, di Robert Rodriguez e, naturalmente, di Tim Burton. Qualcosa, insomma, che abbiamo vissuto di rimando, dunque per lo più indirettamente, osservando le capricciose immagini di Robert Williams, Mark Ryden o Gary Baseman in qualche rara mostra italiana oppure, il più delle volte sulle pagine di riviste di largo consumo. Italian Newbrow, dicevo, è tutt’altro. È un fenomeno che cresce e si sviluppa nel tessuto connettivo dell’arte italiana contemporanea, funestata da un pluriennale dibattito tra l’arte colta, di matrice post-concettuale, e l’arte figurativa, tornata ad affermare le necessità del racconto, della rappresentazione e dell’espressione, talvolta (ma solo talvolta) tramite pratiche di saccheggio di quell’immenso serbatoio iconografico che è la cultura di massa. Se esiste un’analogia tra il Pop Surrealismo americano e il Newbrow Italiano è solo sul piano dell’eterna diatriba tra l’arte “alta” delle gallerie “mainstream” e quella “popolare” delle nuove forme di figurazione. Un’ultima analogia consiste forse nell’ampio uso che entrambi gli scenari, quello statunitense e quello italiano, fanno delle fonti iconografiche derivate dal web, nella confidenza che gli artisti della Google Generation hanno sviluppato nei confronti dei tool digitali. Ma si tratta di una questione di portata globale, valida tanto per gli artisti europei, quanto per quelli indiani, cinesi, russi o mediorientali. Le analogie finiscono qui. Ogni altra forma di parentela, filiazione o debito è relegabile all’ambito dell’ispirazione diretta o, peggio, dell’imitazione pedissequa. Italian Newbrow non è mai stata (ne sarà mai) una forma di Italian Pop Surrealism, termine peregrino che qualcuno ha già iniziato a utilizzare.

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Le origini culturali. Il background italiano.

Italian Newbrow è, in larga parte, uno scenario – e non un movimento, come ho più volte ribadito -che si è sviluppato nel contesto artistico italiano, sulla scia di precedenti esperienze critiche, che documentavano l’insorgere di una nuova sensibilità, orientata al recupero della cultura popolare e di massa e alla rivalutazione della pittura e della scultura, per lungo tempo sottovalutate e considerate da una parte del sistema dominante alla stregua di pratiche obsolete, se non addirittura retrive. In tal senso, in Italia, un ruolo molto importante è stato ricoperto dalla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, che ha avuto il merito non solo di riportare la pittura al centro del dibattito artistico, ma anche di riaffermarne con orgoglio la spinta pulsionale e libidica. Durante tutti gli anni Ottanta, nel nostro paese si assiste a una rigogliosa fioritura di gruppi, scuole, movimenti e individui che, lasciandosi definitivamente alle spalle il clima plumbeo del decennio precedente, dominato dai concettualismi e dagli ideologismi barricadieri, riscoprono attraverso la pittura e la scultura il valore della manualità e della Storia. Basti pensare ai Nuovi Nuovi di Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daoglio, agli Anacronisti di Maurizio Calvesi, ai Nuovi Futuristi di Luciano Inga Pin, ma anche, e soprattutto, ad artisti trasversali, spesso inclusi in una generica area espressionista, come Mimmo Germanà, Nino Longobardi, Ernesto Tatafiore, Arcangelo, Marco Del Re e Sabina Mirri. Negli anni Novanta, accanto alle esperienze degli artisti post-concettuali milanesi che ruotano attorno alla figura di Corrado Levi e che in parte confluiscono nella mostra La scena emergente del Museo Pecci di Prato, ci sono i Medialisti capitanati da Gabriele Perretta, L’Officina Milanese di Alessandro Riva, il Nuovo Quadro Contemporaneo di Gianluca Marziani e il tentativo di crossorver tra arte e letteratura Cannibale di Luca Beatrice in Stesso Sangue. Tutte esperienze che precedono la sensibilità indeterminata e inclusiva della cosiddetta Nuova Figurazione, che si presenterà come una sorta di “sensibilità” quanto mai variegata in termini di linguaggio e stile e soprattutto interessata al confronto tra Arte e Nuovi Media e tra Arte e Fumetto, Cinema e Letteratura. Con l’inizio del nuovo millennio, il dialogo dell’arte con la cultura di massa si fa ancora più serrato. Nel 2000 Alessandro Riva inaugura al PAC di Milano la mostra Sui Generis, che insiste sulla ridefinizione dei generi della nuova arte italiana e che include, accanto al ritratto e alla natura morta, la fantascienza, il giallo, l’erotismo, la contaminazione e la moda. Un anno dopo, Gianluca Marziani pubblica Melting Pop (Castelvecchi editore), un libro, seguito da una serie di mostre, che pone l’accento sulla contaminazione e sulla combinazione tra arte e tecnologia e sulla necessità di un approccio creativo trasversale, multidisciplinare e aperto. Parallelamente, prima con la mostra La linea dolce della Nuova Figurazione (2001) e successivamente con Ars in fabula (2006), Maurizio Sciaccaluga documenta il carattere ironico e, allo stesso tempo, languido e trasognato della giovane arte italiana. Sono anni in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche all’attenzione delle riviste di settore e al costante monitoraggio dei premi nazionali e delle grandi rassegne pubbliche. Rassegne che culminano nel 2007 con le mostre Arte Italiana 1968-2007, a cura di Vittorio Sgarbi (Palazzo Reale, Milano), e La Nuova Figurazione Italiana – To Be Continued…, a cura di Chiara Canali (Fabbrica Borroni, Bollate), cui partecipano, peraltro, anche artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Fulvia Mendini, Elena Rapa e Eloisa Gobbo, che poi formeranno il nucleo centrale della nascente sensibilità Newbrow. Proprio in questo brodo di coltura si sviluppano i primi germi del nuovo scenario artistico e, segnatamente, nel ritrovato valore di un’arte eloquente, diretta, capace di raccontare e “suggestionare” il pubblico attraverso immagini immediate e di forte impatto. La tensione comunicativa e l’apertura a una platea più vasta di quella tradizionalmente interessata all’arte, diventano questioni centrali per le generazioni che hanno sperimentato il potenziale mediatico di internet. E in tal senso, il saccheggio da parte degli artisti dell’immaginario di massa gioca un ruolo fondamentale.

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Se ne accorge anche Gianni Canova, che in un articolo su Il Fatto Quotidiano scrive: “Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv e il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paiste digitale (che è poi l’evoluzione del collage cubo-futurista) [1]. Ma non si tratta solo di questo. Oltre alle suggestioni dell’iconografia pop, Italian Newbrow registra anche le ansie e le inquietudini della moderna società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman. L’articolo di Canova associa le atmosfere del film I Soliti Idioti (di Enrico Lando, con Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli) all’estetica newbrow: “Piaccia o no ai suoi arcigni e sgomenti censori”, scrive il critico, “I Soliti Idioti ha gli stessi colori saturi del movimento newbrow e del quadro che assume a emblema del movimento [Alter Ego di Paolo De Biasi]: è un film molto più scuro e invaso da zone d’ombra…”. Con la promessa di un’impossibile catarsi comica, dietro la facciata ridanciana e sboccata del film, striscia il verme del malessere sociale, con il suo inevitabile corredo di tic, manie, ossessioni e disagi. La stessa cosa avviene nelle opere degli artisti newbrow, che spaziando tra differenti registri espressivi documentano il lato oscuro della civiltà contemporanea attraverso il saccheggio dell’immaginario di massa e la rappresentazione, spesso metaforica, dei turbamenti individuali e collettivi del nostro tempo. Così, se Giuseppe Veneziano si avvale di una figurazione semplice e immediata, popolata di personaggi e icone universalmente riconoscibili, per affrontare questioni legate all’ambiguità e all’indeterminatezza della comunicazione visiva, sovente carica d’implicazioni politiche e sociali, Vanni Cuoghi ricorre all’armamentario classico della fiaba e del folclore con l’intento di trasfigurare, in chiave surreale, gli impulsi negativi latenti nell’immaginario fantastico. Analogamente, Massimiliano Pelletti modifica giocattoli di largo consumo per inscenare situazioni disturbanti, in bilico tra quotidianità e cronaca nera, mentre Silvia Argiolas tratta il problema del “male di vivere” costruendo un personalissimo universo parallelo, in cui proietta visioni paranoiche e allucinate che sfiorano il parossismo. Sembrano originati dall’inconscio anche i paesaggi e i ritratti di Giuliano Sale, artista che descrive il turbamento esistenziale con un realismo quasi carnale, non privo di sottintesi allusivi e simbolici. Più freddo è, invece, l’approccio di Paolo De Biasi, che destruttura lo spazio della rappresentazione pittorica, interpretando la realtà come un simultaneo affastellamento di luoghi ed episodi narrativi, i quali ci restituiscono il senso d’urgenza e vitalità dell’esperienza umana. Esperienza che Michael Rotondi affronta da un’angolatura autobiografica, dipingendo immagini che sono l’equivalente di un ipotetico diario visivo, fatto di esperienze, impressioni e tracce che si sovrappongono al “vissuto collettivo” della sua generazione. In ultimo, Diego Dutto opera, con la scultura, sul crinale ambiguo che separa la biologia dalla tecnologia e ipotizza un futuro distopico e post-umano, popolato di organismi meccanicamente modificati.


[1] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», Venerdì 11 novembre.