Fuoco prometeico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 97×90 cm
Wilhelm Worringer pensava che all’origine dell’impulso creativo ci fosse “il bisogno di creare – di fronte allo sconvolgente e inquietante mutare dei fenomeni del mondo esterno – dei punti di quiete, delle occasioni di riposo, delle necessità nella cui contemplazione potesse sostare lo spirito esausto dell’arbitrarietà delle percezioni”[1]. Così, lo studioso tedesco pensava che, proprio perché svincolata da ogni legame col mondo esterno, l’astrazione geometrica offrisse a tale impulso una prima soddisfazione, anzi una forma di felicità. Eppure, “a causa della profondissima, intima connessione tra tutte le cose della vita, la forma geometrica costituisce anche la legge morfologica della materia cristallina inorganica”[2]. In altre parole, la forma geometrica rappresenterebbe sia una via di fuga dall’incessante metamorfosi delle forme, sia l’intima struttura di rocce, minerali, gemme e cristalli. Essa sarebbe, allo stesso tempo, fuori e dentro la materia.
Spazio cosmico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 84×113 cm
L’interesse di De Fazio per le forme inorganiche dei minerali e per le strutture (organiche e inorganiche) di cristalli e rocce si è poi precisata ulteriormente a partire dagli anni Novanta, attraverso il passaggio a una pittura che azzerava ogni spunto iconografico per virare verso una grammatica astratta, o meglio, apparentemente aniconica. Iniziavano, così, a emergere proprio in quegli anni gli elementi caratterizzanti di un linguaggio che ruotava attorno al rapporto tra il colore, la luce e geometria. Si registrava, insomma, nella sua pittura un piacere per i pattern e le trame ricorsive prodotte dalle forze geofisiche sulla terra e, in particolare, sugli oggetti studiati nelle discipline della petrologia, mineralogia e gemmologia.
Anche Henri Focillon ha affrontato il tema del rapporto tra opera d’arte e fissità, tra creazione e quiete, avvertendoci, però, che tutte le forme plastiche “Sono soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente, ed al principio degli stili, che, con una progressione ineguale, tende successivamente a saggiare, a fissare e a disciogliere i loro rapporti”[3]. In sostanza, per il grande storico dell’arte francese l’opera d’arte è immobile solo in apparenza, anzi essa “esprime un desiderio di fissità, è un arresto; ma alla maniera di un momento nel passato. In realtà l’opera nasce da un mutamento e ne prepara un altro”[4]. L’aspirazione alla fissità cristallina nell’arte s’incontra ben prima dell’affermazione dei linguaggi aniconici del Novecento. Nel Rinascimento italiano una tendenza mineralizzante si ravvede nel modo in cui Carlo Crivelli dipinge gli altari marmorei o tramuta i frutti in incorruttibili pietre dure (Immacolata Concezione, 1492, National Gallery, Londra); nella passione di Andrea Mantegna per la geologia (Madonna delle Cave, 1488-90. Galleria degli Uffizi, Firenze); nelle spigolose forme di Cosmè Tura (Calliope, 1460, National Gallery, Londra), di cui il Longhi rilevava la “natura stalagmitica; un’umanità di smalto e di avorio, con giunture di cristallo…”[5]. Questi, però, sono solo alcuni dei molteplici esempi. Lo sa bene Giuseppe De Fazio, artista che, a partire dalla fine degli anni Settanta, reinterpreta alcune iconografie di opere rinascimentali. All’inizio, come notava Valerio Terraroli, le scelte artistiche di De Fazio “si orientano verso il recupero del valore tattile della pittura e un costante impegno, talvolta capzioso, nell’elaborazione tecnica delle forme e dei colori, al fine di restituire una realtà vissuta e interpretata attraverso sedimentazioni di archetipi e qualità pittoriche di ascendenza classica”[6]. L’artista traeva, infatti, spunto da opere di Mantegna, Leonardo, Michelangelo, Giorgione, Tiziano e Caravaggio – ma anche di Matisse, Bonnard e Van De Velde -, i cui soggetti modificava in configurazioni spigolose e volumetrie che evocavano la consistenza dei cristalli.
Meduse Fusione mineralica, 2020, encausto cera e pigmenti su juta, 134×134 cm
A distanza di oltre trent’anni, ritroviamo quello stesso piacere nella recente produzione dell’artista, abbinato a un inesausto anelito sperimentale che si esprime soprattutto nella scultura, dove composti industriali come il siporex – un calcestruzzo costituito di cemento e sabbia silicea -, il polistirene o la resina cementizia, sono associati a materiali più nobili come il metallo in foglie o addirittura la madreperla. Nella pittura, invece, Giuseppe De Fazio preferisce combinare tecniche tradizionali come l’encausto e l’olio, che gli permettono di enfatizzare la componente luministica delle sue composizioni, immagini che indagano la materia inorganica con straordinaria fedeltà. Sono dipinti, scrive, infatti, Marcello Séstito, che “farebbero la gioia di musei naturalistici o geologici”[7], proprio perché scandagliano, come se si trattasse di un ingrandimento al microscopio, la struttura geometrica di quarzi (Ametista, 2015), detriti spaziali (Meteorite, 2007) o minerali (Fluorite, 2015). Il risultato della sua ricerca compone un vasto archivio di forme, luci e colori che fanno della sua pittura (ma anche della sua scultura) una sorta di prismatico regesto di geometrie sotterranee. L’artista le chiama “estrazioni dalla madre terra”, sorta di carotaggi che catturano il flusso energetico di un sottosuolo in continuo movimento e trasformazione. Infatti, più che il bisogno di staticità e quiete cui accennava Worringer, nella pittura di Giuseppe De Fazio emerge piuttosto la natura magmatica e dunque mobile delle forze che agitano il mondo geologico. L’artista non solo “tenta di pietrificare e mineralizzare attraverso la pittura che ha un supporto bidimensionale”, come sostiene Séstito, “ciò che per sua natura è tridimensionale”[8], come rocce, pietre e gemme, ma riserva lo stesso trattamento anche a oggetti del regno animale e vegetale – come nel caso di Meduse “Fusione mineralica” (2022), Olive (2021) e Melograna (2022) –, a fondali marini e fiotti di magma lavico – Sommersione (2023) e Fuoco prometeico (2023) – e perfino a iperoggetti di sovrumana estensione come lo Spazio cosmico (2022). Insomma, De Fazio cristallizza qualsiasi soggetto, mineralizza tutto, fabbricando, così, un alfabeto che definire aniconico sarebbe azzardato. È vero, infatti, che nei suoi dipinti le uniche figure che si scorgono sono quelle geometriche, forse il riflesso platonico di un antico ideale di perfezione archetipica, ma è altrettanto vero che tali geometrie sono desunte dall’osservazione di strutture reali e configurazioni concrete dell’organico e dell’inorganico. Semmai, c’è nel lavoro di De Fazio un procedimento astrattivo (oltre che estrattivo), nel senso che l’artista astrae – [dal latino abstrahĕre, composto da abs «via da» e trahĕre «trarre»] -, cioè distoglie l’attenzione dalla realtà circostante, per concentrarsi su ciò che è invisibile ai più, cioè la dimensione geologica dell’esistenza. Una dimensione che esubera di molto la nostra capacità di comprensione. De Fazio rende, quindi, visibile ciò che possiamo a malapena immaginare, cioè il tumulto interiore della materia, la tettonica molecolare che fonde e plasma e vetrifica le sostanze terrestri fino a renderle fulgide e iridescenti.
Pirite, Polistirene, resina cementizia, stucco e metallo in foglie
Tuttavia, mentre nella pittura il suo sguardo, come quello di Focillon, coglie le forme “soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente”, nella scultura, come voleva Worringer, riesce a soddisfare quel “bisogno di creare […] dei punti di quiete, delle occasioni di riposo” in cui contemplare ciò che ai nostri sensi appare inalterabile, come la purezza strutturale di una roccia sedimentaria (Alabastro fiorito 1 e Alabastro fiorito 2, 2023) o l’aliena corazza geometrica di un solfuro di ferro (Pirite, 2022). E così, si può dire che l’artista riesca a far convergere nelle sue memorie dal sottosuolo – le plastiche e le pittoriche – due concezioni contrapposte dell’arte: la visione statica, cristallina, di origine platonica e quella dinamica, mobile, più affine allo spirito avanguardistico del Novecento. Il tutto in un’epoca in cui le barriere stilistiche sono crollate e ogni contrapposizione ideologica (perfino quella tra figurazione e astrazione) risulterebbe nient’altro che il segno di un’ingenuità culturale.
Sommersione, 2023, olio su cotone, 140×205 cm
L’arte di Giuseppe De Fazio è un’arte in cui i confini tra le forme reali e le loro interpretazioni sono sfumati e incerti, dove la precisione realistica delle geometrie cristalline e minerali convive con l’arbitrarietà delle loro estensioni a ogni aspetto del mondo naturale. Un’arte così non può che essere considerata una forma di “astrazione ambigua”[9] o di “pittura ibrida”[10], che si sottrae a ogni rigida classificazione per abbracciare il mistero indistinto della creazione.
[1] Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, 2008, Einaudi, Torino, p. 37.
[5] Roberto Longhi, Officina ferrarese, 1980, Sansoni, Firenze, p. 24.
[6] Valerio Terraroli, Giuseppe De Fazio, catalogo della omonima mostra itinerante, San Zenone all’Arco, Brescia; Sala San Rocco, Este (PD); Biblioteca Comunale, Tropea (VV), 1989, Litografia G.A.M., Roma.
[7] Marcello Sèstito, Giuseppe De Fazio. Grumi contratti di senso, 2017, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (CZ), p. 18.
Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), 2023, oil on canvas, 120x150cm
It could be an extraterrestrial civilization or an alternative, parallel reality. More simply, it could be the survivalist version of our planet after a climate crisis, or a technological mishap of massive proportions. It doesn’t really matter which. What counts is that the universe described by Ryan Heshka is one of fantasy, a mad, wild world inhabited by masked pin-up girls, fearsome femmes fatales, bizarre chimeras and space monsters, superheroes and sub-humans, but above all genetic variations of all kinds, crossed, grafted hybrids of mutant humanity, of fauna and flora adapting to new conditions of life. This – in short – is the daily imaginary of an original Canadian artist, who in his canvases “projects” the carousel of a multicolored range of organic forms, a catalogue of promiscuous and spurious species that embody the Darwinist dream of evolution run amok.
Cult-ivation, 2023, oil on canvas, 60x45cm
The idea is to represent, as Ryan Heshka says, “the first generation of new life forms after the end of the world.” And in fact his paintings pullulate with freak show creatures, eccentric and rather outlandish entities that seem to have leapt off the pages of a DC comic – something like Doom Patrol by Grant Morrison, for example – but also anomalous morphologies worthy of the Southern Reach Trilogy by Jeff VanderMeer, or – if you will – Stalker by Andrei Tarkovsky. Nevertheless, unlike the leaden atmospheres of sci-fi dystopias, Heshka’s painting is packed with bright colors, blaring yellows, blazing reds and intense greens that curiously remind us of the palette of the leader of the Neue Leipziger Schule, Neo Rauch. Moreover, his whimsical characters, though unusual, even seem to be normal within his prophetic vision of a planet rising from the ashes of a human-built civilization, where life can survive only by inventing new and unforeseen genetic combinations.
Putting aside the dark tones of the previous exhibition Midnight Movie[1](2018), this time Ryan Heshka lets himself be guided by the idea of a rebirth, of form and creativity, that turns around concepts of germination, blossoming and proliferation, not only of unprecedented beings but also of natural landscapes halfway between a post-apocalyptic Eden and an alien Garden of Earthly Delights. “My new works portray the coming of spring after a long winter,” the artist says, “and perhaps this is why the botanical species that set the tone of these landscapes seem so lively and luminous.”
Hortus Renatus, 2024, gouache and mixed media on paper, 51x40cm
The theme of landscape has already been a recurring presence in the paintings of Romance of Canada[2] (2015), but it that case it was a sidereal nature made of snowy conifer woods and frozen grottos. Here, on the other hand, the artist shapes a new Jurassic geography, alternating uncertain morphologies such as those depicted in the painting Winter Swamp Oasis, a sort of geo-climatic oxymoron, or like the forest of modified cacti of Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), which seems to have been borrowed from the set of a classic episode of Star Trek.
Moreover, the theme of the Eden-like garden, which spontaneously arose during the preparation of the works, perhaps in relation to the impression of cloistered isolation during the pandemic, is accompanied by one of the most typical motifs of Heshka’s imagery, that of the man-animal hybrid, addressed through a singular gathering of figures ranging from the iridescent bug-woman seen in The Art of the Blind Beetle to the gallant couple composed of a muscular mermaid and an amphibious girl, in Frog Wife’s Paradise (also the protagonist of a comic book made by the artist), all the way to the advancing group of unnamable genetic oddities of Cult-ivation.
Sketches and studies
In short, the savage lands of Heshka host a plentiful assortment of weird creatures that elude any attempt at classification. There are not only crossings between identifiable species – like the women-octopi, for example, of The Blossoming Pond and Post Reign Fall – but also indeterminate, anatomically abnormal entities, like those that appear in Voice of Bloom and Sinister Grove, a lineage of prodigious and fatal monsters that unleash an almost enchanting power with their wings of changing colors, their skins striped with arterial branchings, their plumed raiment and petal-shaped pelts to cover feverish and toxic pudenda.
Frog Wife’s Paradise, 2023, oil on canvas, 60x45cm
The monster has a special place in the artist’s imagination, because it represents the frequentation of an overturned universe, the normality of an alternative dimension that can be seen as an allegory of the collective unconscious in the era of the downfall of civilization, and at the same time the foreshadowing of a future dominated by otherness, and the non-conformity with everything that is familiar to us.
Though with its usual irony and lightness, Heshka’s painting, feeding on the pop culture of science-fiction comics and B-movies, addresses a very timely subject, namely the hypothesis of a world without human beings (or, at lease “beings that are fully human”), in the wake of a dramatic biotic transition of mass extinction. Paradoxically, Ryan Heshka takes a non-anthropocentric perspective – curiously close to that of the contemporary philosophers of Speculative Realism[3] or the so-called Dark Ecology of Timothy Morton[4] – to describe a reality dominated by antediluvian creatures and Lovecraftian entities, like those that emerge from the depths of the earth in Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals).
Rosetta, 2023, pastels on paper, 18x13cm
But in this dimension of vintage science fiction, seething with trans-human figures that seem to reset the laws of genetic inheritance, what counts is the vision of an unstoppable proliferation of life forms, a joyful and springtime dissemination of organisms, some of which are partially anthropomorphic (and furthermore sheathed in bizarre “camp” garb), that reassure us about the fact that no end of the world will ever be quite definitive. If anything, there will be the end of an obsolete species like homo sapiens, the last of a long series of now-extinct hominids.
[1] Ryan Heshka, Midnight Movie, curated by Michela D’Acquisto, 2018, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milan.
[2] Ryan Heshka, Romance of Canada, curated by Ivan Quaroni, 2015, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milan.
[3] Speculative Realism is a philosophical current that began in 2007, involving various authors sharing the idea that unlike what has been sustained over the last two centuries, man can have access to the “thing itself,” not just to the phenomenon, the appearance, but to the essence of the real. Behind the various tenets of Speculative Realism there is an attempt to go beyond the anthropocentric approach.
[4] Dark Ecology is a radical revision of the concept of ecology, which seeks to surpass the anthropocentric approach by establishing a bond with non-human beings, and by acknowledging the dark, destructive side of nature. See Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016.
Ryan Heshka. Springs to come
di Ivan Quaroni
The Blossoming Pond, 2023, oil on canvas, 60x45cm
Potrebbe essere una civiltà extraterrestre oppure una realtà parallela alternativa o, semplicemente, la versione survivalista del nostro pianeta dopo una crisi climatica o una singolarità tecnologica di proporzioni epiche, poco importa. Quel che conta è che quello descritto da Ryan Heshka è un universo fantastico, un mondo folle e selvaggio popolato da pin-up mascherate e temibili femme fatale, bizzarre chimere e mostri spaziali, supereroi e subumani, ma soprattutto variazioni genetiche di ogni sorta, incroci, innesti e ibridi di un’umanità mutata e di una fauna e flora riadattate a nuove condizioni di vita. Questo è, in distillato, l’odierno immaginario di un originale artista canadese, che nelle sue tele “proietta” il carosello di una variopinta gamma di forme organiche, un catalogo di specie promiscue e spurie che incarnano il sogno darwinista di un’evoluzione fuori controllo.
L’idea è quella di rappresentare, come dice Ryan Heshka, “la prima generazione di nuove forme di vita, dopo un’ipotetica fine del mondo”. E infatti, nelle sue tele pullulano creature da freak show, entità eccentriche e un po’ bislacche che paiono uscite dalle pagine di un fumetto DC – qualcosa come il Doom Patrol di Grant Morrison, per esempio -, ma anche morfologie anomale degne della Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer o, se preferite, dello Stalker di Andrej Tarkovskij. Però, a differenza delle atmosfere plumbee tipiche delle distopie fantascientifiche, la pittura di Heshka è dominata da una felice gamma di colori brillanti, fatta di gialli squillanti, rossi accesi e verdi intensi che curiosamente richiamano la palette cromatica del capofila della Neue Leipziger Schule, Neo Rauch. Inoltre, i suoi estrosi personaggi, benché insoliti, appaiono addirittura normali nella sua visione profetica di un pianeta risorto dalle ceneri della civiltà antropica, dove la vita sopravvive inventando nuove e imprevedibili combinazioni genetiche.
Randy, 2023, pastels on paper, 18x13cm
Accantonati i toni dark della precedente mostra Midnight Movie[1], questa volta Ryan Heshka si lascia guidare dall’idea di una rinascita, insieme formale e creativa, che ruota attorno ai concetti di germinazione, fioritura e proliferazione, non solo di personaggi inediti, ma anche di paesaggi naturali che stanno a metà tra un eden post-apocalittico e un Giardino delle delizie alieno. “I miei nuovi lavori rappresentano l’avvento della primavera dopo un lungo inverno”, dice l’artista, “forse per questo, le specie vegetali che caratterizzano questi paesaggi appaiono così vivaci e luminose”.
Il tema del paesaggio era già stato uno degli elementi ricorsivi dei dipinti di Romance of Canada[2] (2015), ma in quel caso, si trattava di una natura siderale, fatta di boschi innevati di conifere e grotte ghiacciate. Qui, invece, l’artista plasma una nuova geografia giurassica, in cui si alternano morfologie incerte come quella raffigurata nel dipinto Winter Swamp Oasis, una specie di ossimoro geoclimatico, o come la foresta di cactacee modificate di Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals), che sembra rubata alla scenografia di un episodio classico di Star Trek.
Sketches and studies
Inoltre, il tema del giardino edenico, emerso spontaneamente durante la preparazione dei lavori, forse in reazione al clima di isolamento claustrale vissuto durante la pandemia, si accompagna a uno dei motivi più tipici dell’iconografia di Heshka, quello dell’ibridazione tra uomo e animale, trattato attraverso una singolare raccolta di figure che vanno dall’iridata donna-bacherozzo ritratta in The Art of the Blind Beetle, alla galante coppia composta dal muscoloso sirenetto e dalla ragazza anfibia di Frog’s Wife Paradise (peraltro protagonista anche di un comic book disegnato dall’artista), fino all’avanzante gruppo di innominabili anomalie genetiche di Cult-ivation.
Insomma, le lande selvagge di Heshka ospitano un nutrito campionario di creature weird che sfuggono a qualsiasi tentativo di classificazione. Non ci sono, infatti, solo incroci tra specie identificabili – come, ad esempio, le donne-polpo di The Blossoming Pond e Post-Reign Fall – ma anche entità indeterminate, anatomicamente eteroclite, come quelle che compaiono in Voice of Bloom e Sinister Grove, una teoria di mostri prodigiosi e fatali, che sprigionano un potere quasi incantatorio con quelle loro ali dai colori cangianti e le epidermidi striate di ramificazioni arteriose, quei loro abiti pennuti e le pellicce petaliformi a coprire le febbrili e venefiche pudende.
Melveena with Shrubs, 2023, oil on panel, 40x30cm
Il mostro occupa un posto privilegiato nella fantasia dell’artista, perché rappresenta la consuetudine di un universo capovolto, la normalità di una dimensione alternativa che può essere considerata come un’allegoria dell’inconscio collettivo nell’epoca del tramonto della civiltà e, insieme, l’anticipazione di un futuro dominato dall’alterità e dalla difformità con tutto ciò che ci è familiare. Pur con l’ironia e la levità che la caratterizzano, la pittura di Heshka, alimentata dalla cultura pop dei fumetti di fantascienza e dei B-Movie, contempla un soggetto quanto mai attuale, ossia l’ipotesi di un mondo privo di esseri umani (o, perlomeno, di “esseri del tutto umani”), quello che seguirebbe alla drammatica transizione biotica di un’estinzione di massa. Paradossalmente, Ryan Heshka adotta una prospettiva non antropocentrica – curiosamente vicina a quella dei filosofi contemporanei del Realismo Speculativo[3] o alla cosiddetta Ecologia oscura di Timothy Morton[4] – per descrivere una realtà dominata da creature antidiluviane e entità lovecraftiane, come quelle che fuoriescono dalle profondità terrestri in Love Letter to the Past (Prehistoric Vandals). Ma in questa dimensione da fantascienza vintage, brulicante di figure transumane che sembrano ridefinire le leggi dell’ereditarietà genetica, quel che conta è la visione di un’inarrestabile proliferazione di forme di vita, una gioiosa e primaverile disseminazione di organismi, alcuni dei quali parzialmente antropomorfi (e per di più inguainati in bizzarri abiti camp), che ci rassicurano sul fatto che nessuna fine del mondo sarà mai definitiva. Semmai solo quella di una specie obsoleta come l’homo sapiens, l’ultimo di una lunga serie di ominidi ormai estinti.
Gilbert, 2023, pastels on paper, 18x13cm
[1] Ryan Heshka, Midnight Movie, a cura di Michela D’Acquisto, 2018, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano.
[2] Ryan Heshka, Romance of Canada, a cura di Ivan Quaroni, 2015, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano.
[3] Il Realismo speculativo è una corrente filosofica nata nel 2007 e rappresentata da autori diversi, accomunati dall’idea che, diversamente da quanto si è sostenuto negli ultimi due secoli, l’uomo può avere accesso alla “cosa in sé”, non solo al fenomeno, all’apparenza, ma all’essenza del reale. Alla base delle varie anime del Realismo speculativo c’è il tentativo di superare l’approccio antropocentrico.
[4] L’Ecologia oscura è una radicale revisione del concetto di ecologia, che cerca di superare l’approccio antropocentrico stabilendo un legame con gli esseri non-umani è accogliendo il lato oscuro e distruttivo della natura. Timothy Morton, Dark Ecology: For a Logic of Future Coexistence, Columbia University Press, 2016.
Al centro dell’attuale dibattito sul global warming c’è il traumatico passaggio dall’antropocentrismo all’antropocene, cioè da una visione che pone l’uomo in posizione privilegiata al centro del mondo ad un’era geologica caratterizzata dalle conseguenze delle sue azioni sull’ecosistema terrestre. Conseguenze che, secondo molti, porteranno alla sesta estinzione di massa del pianeta.
Secondo lo scrittore e giornalista esperto di tecnologie James Bridle “Il cambiamento climatico è già una realtà e i suoi effetti sono visibili e pressanti sul panorama geopolitico quanto su quello geografico”[1]. Il fatto che ci siano ancora molte persone che negano la realtà dell’antropocene è una conseguenza dell’antropocene stesso, che è stato causato dall’uomo, non certo dagli scoiattoli o dai delfini. Il motivo per cui l’uomo fatica a concepire la crisi climatica come una realtà che lo riguarda direttamente è stato spiegato da Timothy Morton, scrittore e filosofo ecologista britannico che, ispirandosi alla canzone Hyper-Ballad di Björk, ha coniato il termine Iperoggetti per indicare entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo che ci avviluppano e ci collegano, ma che sono talmente grandi da sfuggire alla nostra piena comprensione. “Percepiamo gli iperoggetti”, spiega Bridle, “attraverso l’influenza che esercitano su altre cose – una calotta polare che si scioglie, un mare in agonia, lo scuotimento di scia in un volo transatlantico”[2].
Prima del compimento, 2023, acrilico su tela, 50×100 cm
Per Timothy Morton, un iperoggetto può essere un buco nero, un centro petrolifero nell’area di Lago Agrio in Equador, la riserva delle Everglades in Florida, la biosfera, il sistema solare, il cambiamento climatico oppure “il prodotto, incredibilmente longevo, della produzione umana: il polistirolo o le buste di plastica, o l’insieme di tutti i rumorosi macchinari del Capitale”[3]. Noi siamo entrati nell’epoca degli iperoggetti perché è solo da poco che ci siamo accorti della loro esistenza. In quest’ultimo scorcio di antropocene – un’era che possiamo far iniziare con le prime attività agricole nella zona della Mezzaluna fertile 11.500 anni fa – l’umanità, divenuta oramai una forza di scala geologica con i suoi 7,7 miliardi di individui, inizia a interrogarsi sull’impatto di altre forze di grande portata. “La fine del mondo”, afferma Morton, “è connessa con l’Antropocene, il riscaldamento globale e i conseguenti, drastici, cambiamenti climatici: tutti fenomeni la cui precisa portata rimane ancora poco chiara, laddove la loro realtà è assodata al di là di ogni ragionevole dubbio”[4]. Come è assodato il fatto che il vecchio concetto di natura, così come è stato fin qui interpretato, non è più funzionale allo scenario attuale. Proprio perché avvertita come una alterità, cioè come qualcosa di separato dall’umanità, la natura è stata da una parte considerata una risorsa da sfruttare, dall’altra un bene da difendere. In entrambi i casi la sua reificazione è parte del problema che ci ha condotti fino a questo punto. Timothy Morton – e con lui i filosofi della cosiddetta OOO (Ontologia Orientata agli Oggetti)[5] – pongono, infatti, gli esseri umani sullo stesso piano ontologico di non solo delle altre forme di vita, minerali, muschi e virus inclusi, ma anche degli oggetti. Secondo questa visione di una realtà non antropocentrica è possibile sviluppare una ecologia che faccia a meno del concetto di natura.
Curiosamente un artista come Pao, pur non essendo (ancora) un lettore di Morton, è giunto intuitivamente a formulare un immaginario coerente con le idee della OOO. Modificazione, mutazione, trasformazione, evoluzione sono, infatti, tutti concetti ricorrenti nella sua ricerca pittorica, popolata da strane forme di vita che sembrano il risultato di un nuovo tipo di adattamento. Nei suoi murales, come nei suoi dipinti su tela, animali, piante, funghi e perfino elementi come l’aria, l’acqua e la terra si combinano variamente per formare nuove specie ibride che appartengono a un mondo alternativo, un altrove che potrebbe benissimo essere la versione post-apocalittica del nostro pianeta, o di quel che ne resta alla fine dell’antropocene. Non solo, le sue bizzarre (e per la verità anche divertenti) metamorfosi includono imprevedibili incroci tra il regno animale e quello vegetale, ma perfino inaspettati innesti tra il mondo organico e quello inorganico.
Storia di Ciò, Cià e Cì, 2023, acrilico su tela, 70×100 cm.
In sintonia con quanto propone la moderna ontologia non antropocentrica, Pao immagina un mondo dove animali, vegetali e oggetti costituiscono organismi complessi e integrati. Così, ad esempio, in opere come Passerotto d’acqua(2023) e Il messaggero (2023), gli uccelli di vetro sono piccoli ecosistemi che includono elementi naturali come l’acqua ed artefatti umani come barchette di carta e messaggi rinchiusi in una bottiglia. Un esoscheletro vitreo, di natura oggettuale, caratterizza anche la creatura dalla forma di gufo che compare in Le farfalle nella pancia (2023), e al cui interno svolazzano, appunto, i corpi di cinque lepidotteri, oltre ai tre esseri appollaiati sul ramo in Storia di ciò, cià e cì(2023), dove quello centrale esibisce un curioso beccuccio fumante.
Nell’immaginario di Pao la fusione inter-specie è già una realtà, anzi si può dire, che il concetto stesso di specie viene definitivamente archiviato. Basti guardare ai bizzarri uccelli arborei che fioriscono, letteralmente, sui rami nei dipinti Sakura (2023), Si sta’ come d’autunno sugli alberi le foglie (2023), come pure nel grande murale intitolato Siamo tutti sullo stesso ramo (2023) recentemente inaugurato su un condominio di Quarto Oggiaro a Milano. Qui il processo di speciazione di nuove forme zoologiche e botaniche assume una connotazione felice, diventando il simbolo di una proprietà adattativa che non genera necessariamente mostri. Siamo lontani, infatti, dalle distopiche mutazioni narrate da Jeff VanderMeer nella trilogia di romanzi dell’Area X[6], che narra le vicende di un territorio anomalo, in continua espansione, dove leggi fisiche alterate trasformano gli animali e le piante, modificando perfino lo scorrere del tempo.
Quanto è profonda la tana del Bianconiglio, 2020, acrilico su tela e legno, 80×120 cm
Pao proviene da tutt’altro retroterra culturale. La sua visione del futuro è, infatti, più vicina alla sensibilità progettuale ed alla grammatica fantastica di Bruno Munari che non all’ecologia oscura di Timothy Morton e James Bridle, che analizzano le fondamenta logiche dell’attuale crisi climatica. Pao, invece, ci mostra direttamente un mondo senza uomini, dove i paesaggi assomigliano a quelli desertici dipinti da Salvador Dalì e le foreste e i prati sembrano artefatti digitali filtrati da moderni schermi OLED, come nel caso di Una luce nella notte (2020) e Prima del compimento (2023). Un mondo in cui l’artista ha immaginato – come diceva Munari – “qualcosa che già esiste ma che al momento non è tra noi”[7]. Ecco, la pittura di Pao è, allo stesso tempo, una moderna fiaba sulle evidenti fragilità del nostro ecosistema e una potente metafora sulle facoltà mutagene e rigeneranti di un ecosistema futuro che accoglierà ogni forma di ibridazione, perfino quella tra organismi e oggetti.
In questo nuovo capitolo della sua indagine, l’artista riflette non solo sui mutamenti che caratterizzano la nostra epoca – e quindi, inevitabilmente quelli climatici e ambientali che si manifestano ormai con sempre maggiore evidenza e con conseguenze talora drammatiche e catastrofiche – ma sulla natura fondamentalmente mutevole e cangiante dell’esistenza stessa. Ispirato dalla lettura dell’I Ching, Il libro dei Mutamenti, il più antico testo sapienziale della cultura cinese la cui stesura risale a circa 3000 anni fa, Pao mostra, attraverso una pletora di nuove creature dalle camaleontiche abilità adattative, che la capacità di rinascere e reinventarsi, pur in un mutato e spesso avverso contesto ambientale, è la più alta forma di saggezza ecosistemica.
Il messaggero, 2023, acrilico su tela, 70×100 cm
Perciò, se alcuni anfibi possono alterare la propria struttura e trasformarla in una sostanza gelificante (Jelly Frog, 2023), se le lucertole armadillo cingolate possono levitare nella posizione dell’uroboro (Eterno ritorno, 2023) e, infine, se alcune specie ornitologiche possono sviluppare trasparenti corpi vetrigni, è perché, almeno nel fantastico universo di Pao, le probabilità combinatorie e di collaborazione tra sostanze e organismi sono davvero infinite.
E d’altra parte, persino il concetto di “umano” sarebbe da rivedere, ammesso che in futuro ce ne sia ancora bisogno. Infatti, che cosa è umano e che cosa è non umano in un corpo letteralmente infestato da milioni di batteri che ne garantiscono la sopravvivenza? “Considerarci come ambienti infestati”, scrive lo scrittore Livio Santoro, “contenitori di moltitudini viventi che confutano le leggi moderne della soggettività – dove finisco io e dove cominciano i miei batteri? -, è per Morton un passo fondamentale verso l’ecognosi o ‘consapevolezza ecologica’: il processo di riconoscimento che ci porta a vedere umano e non-umano come parte del cosiddetto ‘reale simbiotico’ […]”[8].
Pao arriva alla medesima conclusione per via intuitiva e analogica costruendo un universo visivo che è la fabula picta di questo scorcio finale di antropocene, dove sembra aver adottato – come dice Richard Wilhelm a proposito di chi consulta dell’I Ching – “Lo sguardo di colui che ha riconosciuto il mutamento e [che] non osserva più le singole cose che gli fluiscono dinanzi, bensì l’eterna e immutabile legge operante in ogni mutamento”[9].
L’Eterno Ritorno, 2023, acrilico su tela, 100×70 cm
[1] James Bridle, Nuova era oscura, 2019, Nero edizioni, Roma, p. 67.
All’immaginario pittorico pop surrealista americano degli anni Novanta appartiene una sottocorrente definita “Big Eye Art” che predilige la rappresentazione di personaggi ipertrofici, caratterizzati da corpi infantili e volti dagli occhi grandi che somigliano a quelli delle bambole. Si tratta di un tema iconografico, o forse dovremmo dire di uno stile, in parte ispirato ai dipinti di Margaret Keane, artista americana diventata famosa negli anni Sessanta con il nome del marito, Walter Keane, e di cui il regista Tim Burton ha raccontato la storia nel film Big Eyes (2014).
Un riferimento imprescindibile di questo genere pittorico sono le Blythe, bambole dai grandi occhi, create nel 1972 dalla designer Allison Katzman per la ditta Marvin Glass and Associates, ma quasi subito ritirate dal mercato per il loro aspetto inquietante. Le Blythe, le cui forme sono chiaramente ispirate ai dipinti di Margaret Keane, sono state rilanciate nel 1991 dalla Takara, azienda giapponese che le ha trasformate in un prodotto di culto. Attraverso l’esasperata espressività di queste Big Eyed Dolls, molte pittrici pop surrealiste come Marion Peck, Amy Sol, Kukula, Lisa Petrucci e Ana Bagayan hanno trattato i temi dell’infanzia e dell’adolescenza ambientandoli in una dimensione fantastica in bilico tra fiaba e racconto horror.
Sempre negli anni Novanta, dall’altra parte del globo, il movimento Superflat fondato da Takashi Murakami promuove un linguaggio in cui convergono l’immaginario dei manga e dei cartoni animati giapponesi, l’iconografia della pop art occidentale e la subcultura deviata degli otaku. A questa corrente aderiscono artisti che utilizzano uno stile super deformed che si propone di potenziare l’espressività dei personaggi attraverso fattezze anatomiche tipicamente infantili. Oltre a Takashi Murakami, anche Yoshitomo Nara, Aya Takano e Chiho Aoshima saccheggiano la cosiddetta estetica kawaii (l’equivalente giapponese della Cuteness), incarnata da pupazzi e giocattoli che ispirano tenerezza come Hello Kitty o Miffy, popolarissimi non solo in Giappone, ma in tutto il mondo.
Mask, 2023, oil on linen, 123×103 cm
Eppure, i paradigmi della Big Eye Art e dell’estetica Kawaii, ormai diventati luoghi comuni della cultura pop contemporanea, riguardano solo superficialmente la pittura di Rachel Hobkirk, che eredita, semmai, un profondo senso di inquietudine da tanta pittura europea del Novecento – dalla Metafisica alla Nuova oggettività, dal Surrealismo al Realismo magico. Rispetto alla nuova categoria estetica della Cuteness, sviluppatasi a partire dall’epoca vittoriana come conseguenza dell’idealizzazione del mondo infantile, la pittura di Rachel Hobkirk è, piuttosto, il risultato di un processo di dissezione analitica del mondo infantile.
Le sue bambole e i suoi giocattoli, dipinti con uno stile insieme nitido e allucinato, sono innanzitutto oggetti transizionali che, come sosteneva il pediatra e psicologo britannico Donald Winnicot, svolgono la funzione di aiutare il bambino a distaccarsi dalla figura materna e a svilupparsi passando dall’iniziale stadio di onnipotenza soggettiva alla successiva comprensione della realtà oggettiva. Sono oggetti che, come i giocattoli e le bambole dipinti da Hobkirk (i Furby, le Barbie, i Playmobil o le Tiny Tears), accompagnano il traumatico processo evolutivo dei bambini. D’altra parte, perfino uno psicanalista come Sheldon Kopp ammetteva senza remore che “l’infanzia è un incubo”[1].
My Fragile Sweetheart, 2023, oil on linen, 200×170 cm.
Forse per questo Rachel Hobkirk ci mostra la matrice drammatica di questi giocattoli, di cui sottolinea la dirompente carica perturbante attraverso una serie di espedienti visivi di taglio cinematografico. Il primo dei quali è il Detail, usato tanto nel dipinto Crying (2023), per accentuare l’espressività sbigottita e dolente degli occhi di una bambola, quanto in Mouthing Words of Regret (2023), per mostrare, in un’altra bambola, la mimica labiale di un sentimento di rimpianto. Un altro artificio usato dall’artista è il cosiddetto split screen, molto in voga negli anni Settanta e impiegato sia in Mask (2023) che in My Fragile Sweetheart (2023), per accostare dettagli di giocattoli diversi e creare, così, una sorta di cortocircuito interpretativo non meno destabilizzante dei dettagli anatomici delle bambole. A questa categoria si può, in qualche modo, ricondurre anche un’opera come Tongue (2023), una specie di mise-en-scène del titillamento tra oggetti inanimati che è quanto di più vicino alle simulazioni erotiche nei giochi infantili. Infine, Hobkirk si serve anche della tecnica del close up, in particolare nell’opera Origin of the Female Painter (2023) dove il volto scarabocchiato a pennarello di una bambola diventa, retrospettivamente, visione profetica del destino dell’artista.
Rachel Hobkirk non celebra l’infanzia o i giochi infantili, non strizza l’occhio alla cultura pop per il solo gusto di condividere il sentimento nostalgico dell’infanzia perduta. Possiamo dire che il vero soggetto della sua pittura sia lo sguardo adulto e analitico che, nella rappresentazione di questi oggetti transizionali, individua l’origine della propria inquietudine esistenziale.
Tongue, 2023, oil on linen, 150×120 cm.
Il riferimento alla pittura del Novecento, soprattutto a quella tra le due guerre, non è casuale. L’inquietudine che sprigiona dalle bambole di Rachel Hobkirk è, infatti, simile a quella che emana dai giocattoli metafisici di Giorgio De Chirico e Alberto Savinio, dai molti object trouvé surrealisti in forma di enigmatici simulacri femminili – come, ad esempio, il Retrospective Bust of a Woman di Salvador Dalì o i conturbanti manichini dell’Exposition Internationale du Surréalisme del 1938, abbigliati, tra gli altri, da Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Joan Mirò e Max Ernst – e perfino da tutta la ritrattistica del Realismo Magico che, passando da Felice Casorati ad Antonio Donghi, da Christian Schad a Otto Dix, da Ubaldo Oppi a Max Beckmann, fino Cagnaccio di San Pietro, sembra composta di una sequenza ininterrotta di volti imbambolati e stupefatti, tanto algidi e immoti da apparire artificiali.
La grammatica pittorica di Hobkirk, così nitida e cristallina, quasi chirurgica, richiama le atmosfere fredde e oggettive della pittura degli anni Venti e Trenta, ma adatta quel tipo di rigore formale alla sensibilità dell’odierna civiltà digitale. Infatti, nei suoi dipinti ad olio su tela di lino si avverte la presenza invisibile di quel particolare filtro ottico che chiamiamo “schermo”. Se i suoi dipinti mostrano inquadrature tipiche del cinema è perché la sua pittura, più che “una finestra sul mondo”, è un telo proiettivo su cui l’artista fa scorrere feticci e simulacri che incarnano non solo le sue personali ossessioni e manie, ma anche quelle di una intera generazione intenta a formulare nuovi postulati estetici. Concetti poco rassicuranti, come una specie di nuova Edgy Cuteness[2], capace di traghettare il senso di turbamento dell’Unheimlich[3]freudiano nella forma di un oggetto inanimato che simula quelle caratteristiche di vulnerabilità, tenerezza e innocenza proprie dei bambini e di alcuni cuccioli di animali.
Origin of the Female Painter, 2023, oil on linen, 120×100 cm.
[1]An Eschatological Laundry list. A Partial Register of the 927 (or was in 928?) Eternal Truths, in Sheldon Kopp, If you meet the Buddha on the Road kill him, Sheldon Press, London, 1974, p. 165-167.
[2] Il termine Edgy Cute è usato per la prima volta nel libro di Harry Saylor, Carolyn Frisch, EdgyCute: From Neo-Pop to Low Brow and Back Again, Mark Batty Publisher, 2009.
[3]Das Unheimliche è il titolo di un saggio di Sigmund Freud, pubblicato nel 1919. Freud definisce Unheimlich la sensazione di spaesamento ed estraniamento provocata da qualcosa che prima era familiare e che poi è stata estraniata dal soggetto attraverso il processo di rimozione.
English Text
To the American pop surrealist pictorial imagery of the 1990s belongs a subcurrent defined as ‘Big Eye Art’ that prefers the depiction of hypertrophic characters, characterised by childlike bodies and large-eyed faces resembling those of dolls. It is an iconographic theme, or perhaps we should say a style, partly inspired by the paintings of Margaret Keane, an American artist who became famous in the 1960s under the name of her husband, Walter Keane, and whose story was told by director Tim Burton in the film Big Eyes (2014). An inescapable reference of this pictorial genre are the Blythe dolls with big eyes, created in 1972 by designer Allison Katzman for the firm Marvin Glass and Associates, but almost immediately withdrawn from the market due to their disturbing appearance. The Blythe dolls, whose shapes were clearly inspired by Margaret Keane’s paintings, were relaunched in 1991 by Takara, a Japanese company that turned them into a cult product. Through the exasperated expressiveness of these Big Eyed Dolls, many pop surrealist painters such as Marion Peck, Amy Sol, Kukula, Lisa Petrucci and Ana Bagayan have dealt with the themes of childhood and adolescence by setting them ina fantastical dimension hovering between fairy tale and horror story.Also duringthe 1990s, on the other side of the globe, the Superflatmovement founded by Takashi Murakami promoted a language in which the imagery of Japanese manga and cartoons, the iconography of Western pop art and the deviant subculture of otaku converged. This current includes artists who use a super deformedstyle that aims to enhance the expressiveness of characters through typically childlike anatomical features. In addition to Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Aya Takano and Chiho Aoshima also plunder the so-called kawaii aesthetic(the Japanese equivalent of Cuteness), embodied by tenderness-inspiring puppets and toys such as Hello Kitty or Miffy, popular not only in Japan, but worldwide. And yet, the paradigms of Big Eye Art and Kawaii aesthetics, which have become commonplaces of contemporary pop culture, only superficially concern Rachel Hobkirk’s painting, which inherits, if anything, a profound sense of disquiet from so much 20th-century European painting – from Metaphysics to New Objectivity, from Surrealism to Magic Realism. Compared to the new aesthetic category of Cuteness, which developed from the Victorian era onwards as a consequence of the idealisation of the world of childhood, Rachel Hobkirk’s painting is, rather, the result of a process of analytical dissection of the infantile world.Her dolls and toys, painted in a style that is at once sharp and hallucinating, are above all transitional objects that, as the British paediatrician and psychologist Donald Winnicot argued, serve the function of helping the child to detach itself from the mother figure and develop from the initial stage ofsubjective omnipotence to the subsequent understanding of objective reality. They are objects that, like the toys and dolls painted by Hobkirk (the Furby, Barbie, Playmobilor Tiny Tears), accompany the traumatic developmental process of children. On the other hand, even a psychoanalyst like Sheldon Kopp admitted without hesitation that ‘childhood is a nightmare’1.
Perhaps this is why Rachel Hobkirk shows us the dramatic matrix of these toys, whose disruptive charge she emphasises through a series of cinematic visual devices. The first of which is the Detail, used both in the painting Crying (2023), to accentuate the stunned and pained expressiveness of a doll’s eyes, and in Mouthing Words of Regret (2023), to show, in another doll, the lip mimicry of a feeling of regret. Another artifice used by the artist is the so-called split screen, very much in vogue in the 1970s and employed both in Mask (2023) and in My Fragile Sweetheart (2023), to juxtapose details of different toys and thus create a sort of interpretative short-circuit no less destabilising than the anatomical details of the doll.A work such as Tongue (2023), a kind of mise-en-scène of titillation between inanimate objects that is as close as one can get to erotic simulations in childhood games, can also be traced back to this category. Finally, Hobkirk also makes use of the close-up technique, in particular in the work Origin of the Female Painter(2023) where the face scribbled in felt-tip pen of a doll becomes, in retrospect, a prophetic vision of the artist’s destiny. Rachel Hobkirk does not celebrate childhood or childish games, she does not wink at pop culture just for the sake of sharing the nostalgic feeling of lost childhood. We can say that the real subject of her painting is the adult and analytical gaze that, in the representation of these transitional objects, identifies the origin of its own existential restlessness. The reference to 20th-century painting, especially that between the two wars, is not accidental.The uneasiness emanating from Rachel Hobkirk’s dolls is, in fact, similar to that emanating from the metaphysical toys of Giorgio De Chirico and Alberto Savinio, from the many Surrealist object trouvés in the form of enigmatic female simulacra -such as, for example, Salvador Dali’s Retrospective Bust of a Woman or the perturbing mannequins of the 1938 Exposition Internationale du Surréalisme, dressed, among others, by Marcel Duchamp, Yves Tanguy, Joan Mirò and Max Ernst -and even by all the portraiture of Magic Realism, which, passing from Felice Casorati to Antonio Donghi, from Christian Schad to Otto Dix, from Ubaldo Oppi to Max Beckmann, up to Cagnaccio di San Pietro, seems to consist of an uninterrupted sequence of stunned and stupefied faces, so algid and motionless as to appear artificial. Hobkirk’s pictorial grammar, so crisp and crystalline, almost surgical, recalls the cold and objective atmospheres of the painting of the 1920s and 1930s, but adapts that kind of formal rigour to the sensibility of today’s digital civilisation. Indeed, in her oil paintings on canvas, one can feel the invisible presence of that particular optical filter we call ‘screen’.If her paintings show typical cinema shots, it is because her painting, more than “a window on the world”, is a projective canvas on which the artist runs fetishes and simulacra that embody not only her personal obsessions and manias, but also those of an entire generation intent on formulating new aesthetic postulates. Not very reassuring concepts, like a kind of new Edgy Cuteness2, capable of conveying the sense of disturbance of the Freudian Unheimlich in the form of an inanimate object that simulates those characteristics of vulnerability, tenderness and innocence typical of children and certain puppies.
[1]An Eschatological Laundry list. A Partial Register of the 927 (or was in 928?) Eternal Truths, in Sheldon Kopp, If you meet the Buddha on the Road kill him, Sheldon Press, London, 1974, p. 165-167.
[2] The term Edgy Cute is first used in Harry Saylor, Carolyn Frisch, EdgyCute: From Neo-Pop to Low Brow and Back Again, Mark Batty Publisher, 2009.
[3]Das Unheimliche is the title of an essay by Sigmund Freud, published in 1919. Freud defines Unheimlichas the feeling of disorientation and estrangement caused by something that was previously familiar and then was estranged from the subject through the process of removal
Nel suo famoso studio intitolato Arte e illusione, Ernst Gombrich ricordava che già nell’antichità classica Plinio aveva compendiato la distinzione tra realismo e illusionismo sostenendo che «la mente è il vero strumento della vista e dell’osservazione, [mentre] gli occhi agiscono come una sorta di vaso che riceve e trasmette la parte visibile della coscienza»[1]. Si tratta di una precisazione che si attaglia perfettamente alla pittura di Nicola Nannini, il cui realismo schietto, maturo, otticamente appagante non scade mai nella categoria dell’illusionismo e della pura mimesi. Tant’è che perfino uno dei suoi maggiori estensori critici, Roberto Cresti, qualche anno fa ribadiva che, nel suo caso «non si tratta più di dimostrare d’essere capace di rendere un particolare o un contesto tratto dal mondo esterno, ma di costruire l’esterno attraverso la realtà dell’interno, affinché i ruoli si scambino»[2].
Certo, la pittura di Nannini evoca la realtà con sguardo acuto, nitido, restituendoci il sapore di paesaggi, edifici e persone come quella di pochi altri pittori italiani contemporanei. Eppure, non bisogna scambiare il suo modo di “vedere” la realtà con una mera registrazione ottica. Ancora Gombrich ammoniva il lettore a non confondere il “vedere” con la “sensazione visiva” e ricordava l’importante ruolo della memoria nella pratica pittorica. A tal proposito citava, infatti, il grande paesaggista inglese John Constable, il quale sosteneva che «l’arte dà piacere con il ricordo non con l’inganno»[3].
Della pittura di Nannini – apprezzata anche per la capacità di restituire il sapore, quasi allucinato, di certi squarci realistici – è importante rilevare l’aspetto squisitamente “mentale”. Infatti, se la sua tecnica, che alcuni hanno accostato alla grande tradizione fiamminga e olandese ed altri alla Metafisica ferrarese, può corroborare l’impressione di una pittura veristica – più vera del vero -, la presenza nei suoi lavori di alcuni espedienti reiterati nel tempo – come, ad esempio, l’abitudine di lasciare abbozzati il margine inferiore e talvolta i bordi della tela, quasi per mostrare la natura fittizia della visione, oppure l’inserzione di personaggi nel paesaggio come se si trattasse di pezzi di un collage -, ci dicono che l’artista, più che al problema della mimesi illusionistica, è interessato alla rappresentazione di quel che non si può rilevare coi sensi. Non deve sorprendere, a tal proposito, se a commento del convincimento leonardesco secondo cui la pittura è un procedimento tutto mentale, qualche anno fa il compianto Alberto Agazzani notava che «non esiste e non esisterà mai un pittore che desidera fermarsi all’apparenza delle cose, soprattutto un pittore figurativo»[4].
Da pittore figurativo, Nicola Nannini ha esplorato principalmente i generi del paesaggio e del ritratto, cercando spesso di farli coincidere o, meglio, di far apparire sulla morfologia del primo, le fisionomie del secondo. I suoi dipinti più celebri sono quelli che ritraggono le piatte e silenti geografie della Padania – toponimo che non ha qui nessuna accezione politica, dato che deriva da Padus, il nome latino del fiume Po’. Sono luoghi che l’artista conosce fin dall’infanzia e che ha continuato a frequentare con gli occhi e con la memoria, fino a trasformarli in metafore di una condizione interiore di incantata sospensione.
Accadde tutto una domenica mattina, 2023, olio su tela, cm 72×102
Una presenza constante in questi paesaggi piani, fatti di distese d’erba attraversate da viottoli costeggiati da rogge, tagliati da fossi o intersecati da strade appena asfaltate, sono edifici isolati, abitazioni monofamiliari dai luccicanti infissi in alluminio anodizzato, che non emanano il fascino pittoresco delle antiche cascine, delle vecchie masserie o delle case coloniche ma che, tuttavia, mostrano la brutale schiettezza di certa architetturada geometri, insomma di quel tipo di edilizia residenziale che caratterizza gran parte dei sobborghi e delle provincie italiane. Eppure, con questo stesso materiale iconografico Nannini riesce a fare quel che David Lynch e Tim Burton hanno fatto con la visione stereotipata del sobborgo americano. E, cioè, creare una geografia simbolica dell’isolamento esistenziale che è, al tempo stesso, una topografia di memorie, ovvero di tutte quelle cose aleatorie, impalpabili e invisibili, appunto, che un vero pittore figurativo ha l’ambizione di rappresentare.
Venendo ai ritratti, presenti fin dagli esordi nei paesaggi di Nannini, non si può, ignorare come sovente essi abbiano una qualità fantasmatica, una consistenza, per così dire, evanescente. Soprattutto in alcune opere dei primi anni Duemila, dove la presenza umana si aggrega in spettrali cortei funebri che attraversano nottetempo silenziose piazze italiane o planano, da un cupo cielo parigino, sulle sponde dell’Île de la Cité. Ritratti di abitanti associati a villette a schiera e case unifamiliari caratterizzano, invece, le opere successive, ad esempio quelle della serie Houses, dove all’evanescenza si sostituisce l’effetto collage, ottenuto dipingendo i personaggi come fossero elementi isolati, che fanno da corredo al paesaggio sub o extra urbano.
Nella pittura di Nannini il genere del ritratto sembra raggiungere una completa autonomia dal paesaggio solo nella serie intitolata Type, composta di grandi figure intere a grandezza naturale che formano un analitico regesto di caratteri tipologici, ognuno dei quali è corredato da una gamma di accessori, oggetti o feticci che aiutano l’osservatore a sceverare la natura di ciascun soggetto. Eredi dei ritratti della serie Type sono le minute carte Senza titolo che costituiscono quasi una versione portatile di quel regesto, qualcosa che potrebbe stare comodamente nei comparti della duchampiana Boîte-en-Valise.
Un nuovo tipo di interpolazione tra paesaggio e ritratto è quello che caratterizza la recente produzione di Nicola Nannini, che approfondisce il dialogo tra i due generi pur continuando a riconoscere a ciascuno di essi una sorta di indipendenza. Quel che troviamo nei suoi ultimi racconti visivi sono, da una parte, soggetti già noti come cascine, caseggiati e abitazioni, immersi in una pianura che potremmo definire – per usare un’espressione di Giovanni Lindo Ferretti – “densamente spopolata”, quel genere di edifici che, insomma, sono divenuti oramai simbolo di una condizione di provincialità quasi archetipica e universale, dall’altra, una pletora di personaggi spiazzanti, geograficamente incongrui. Ci sono, infatti, accanto alle figure dei “locali”, una schiera di figure letteralmente catapultate da un altro contesto culturale, quello dell’America degli anni Cinquanta o meglio delle sue molteplici rappresentazioni cinematografiche.
Questo sorprendente accostamento all’interno delle opere di Nannini produce un effetto di alterazione della continuità spaziotemporale che, oltre ad essere il segno di una felice libertà espressiva, serve a rimarcare il carattere universale delle sue immagini, non più riferite a una precisa cultura o area geografica. Poco importa, infatti, se alle origini delle osservazioni dell’artista ci sono scorci e vedute della piana ferrarese. Quel che conta è, piuttosto, l’atmosfera stupefatta e sospesa, che potremmo trovare anche in un ipotetico altrove, sia esso collocato nelle campagne dell’Iowa o dell’Europa centrale o in una qualunque «pianura uguale a mille altre da intendersi», come dice l’artista, “come una sorta di foglio bianco su cui scrivere qualsiasi cosa reale o immaginata»[5].
Bonjour Monsieur Gauguin, 2023,olio su tela, cm 72×102
Il senso di queste anomalie è, infatti, di produrre uno spaesamento, cioè quel senso di disagio e perdita d’orientamento di chi si trova fuori del proprio ambiente abituale. Un sentimento che viene, se possibile, acuito dalla presenza di immagini “fuori posto”, ma riconoscibili come lemmi di una lingua diffusa, di una koinè occidentale che passa attraverso pellicole classiche come The Wizard of Oz – nel dipinto intitolato Bonjour Monsieur Gauguin (2023), dove i personaggi del film di Victor Fleming sono impaginati in uno spazio simile a quello di un omonimo olio su tela di Paul Gauguin – , oppure molteplici riferimenti alla fantascienza classica – con dischi volanti, invasori alieni e astronauti che invadono la bassa padana in opere come Accadde tutto una domenica mattina (2023), Defcon 2 (2023) e Lo strano caso del ragazzo che sapeva volare (2023) – usati come metafore della Guerra fredda, peraltro evocata anche nelle figure collocate nel margine destro di Nota zona di avvistamenti (2023), che fanno il verso all’estetica da Realismo socialista del primo Neo Rauch.
Le neveu aviateur, 2023, olio su tela, cm 72×102
In questo territorio, che Nannini interpreta come un foglio bianco da riempire, non ci sono solo i fantasmi del cinema, ma tutti i segnali dell’immaginario sociale e consumistico dell’American Graffiti, con le pin up e le caramelline gommose (Una rissa finita male, 2023), le automobili e le insegne al neon (Nota zona di avvistamenti) e perfino i rockabilly (Sotto bianchi cieli e Sala prove, 2023), superstiti cultori di un rock & roll che nell’Emilia degli anni Ottanta vantava ancora molti seguaci. Ma se la Padania è un foglio bianco, appunto, perché limitarsi a evocare l’America felix degli anni Cinquanta e Sessanta? Nannini introduce nella rappresentazione l’espediente dell’anomalia spazio-temporale per muoversi a piacere tra epoche e luoghi disparati. Al periodo tra le due guerre alludono sia la figura di Le Neveu aviateur (2023), asso dell’aeronautica che pare uscito dalla penna di Hugo Pratt, sia quella di Lawrence d’Arabia (Lettera al governatore della Libia, 2023), l’avventuriero che affinò il Grande gioco[6], l’attività di spionaggio dei servizi segreti e delle diplomazie occidentali in Medio Oriente e Asia Centrale. Cita, invece, la pittura veneziana del Settecento e l’Orientalismo romantico il dipinto La memoria dell’acqua (2023), un incredibile capriccio che, da un lato, confonde la morfologia fluviale della pianura lombardo-emiliana con una veduta lagunare popolata di figurine degne di Bernardo Bellotto e, dall’altro, fantastica attorno al fascino di una villa eclettica (o Liberty) che rimanda agli sfondi esotici della pittura di Alberto Pasini. Nannini concepisce evidentemente la pittura come un campo dalle infinite possibilità combinatorie e, così, dissemina le sue nuove opere di segnali e codici esogeni che hanno forme di oggetti e figure inconseguenti rispetto ai luoghi delle sue memorie. Sono apparizioni che provengono da un altrove che non è necessariamente “vissuto”, “esperito”, ma può essere anche solo pensato o immaginato. D’altronde, se c’è un segnale – come ricordava lo storico dell’arte George Kubler – il messaggio è necessariamente nel passato, anche se la sua ricezione avviene nel presente. L’altrove da cui partono questi segnali non è altro che l’attività mentale e associativa, quel coacervo di idee, impressioni, segni, tracce e visioni che l’artista dispone sempre più liberamente sulla solida impalcatura dei suoi paesaggi padani. Perfino in quei notturni, cui da lungo tempo ci ha abituati, che ora sembrano scorci di territori artici.
[1] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1965, p. 17.
[2] Roberto Cresti, Attraverso la notte, in Nicola Nannini.Attraverso la notte, a cura di Roberto Cresti, catalogo mostra Centro Culturale Le Muse, Andria, 12 novembre 2017 – 31 gennaio 2018, p.19.
[4] Alberto Agazzani, La scelta di Nicola, in AA.VV., Nicola Nannini.Divertissement, a cura di Graziano Campanini, catalogo mostra Associazione Artistico Culturale Il Ponte, Pieve di Cento, Bologna, dicembre 2004 – gennaio 2005, Skira editore, Milano, 2004, p. 13.
[6] Gli storici chiamarono “Grande gioco” la contrapposizione strategica tra Impero Britannico e Russia zarista nel XIX secolo nella lotta al controllo coloniale dell’Asia centrale e del subcontinente indiano. A rendere popolare il termine fu lo scrittore britannico Ruyard Kipling nel romanzo Kim, che introduce il tema della rivalità e dell’intrigo spionistico tra potenze rivali.
La vexata quaestio del rapporto della pittura con la realtà, ovvero della sua presunta funzione mimetica nei confronti del mondo fenomenico, subisce un’impennata iperbolica con l’irrompere prima della fotografia, poi del cinema e, infine, inevitabilmente, della televisione e dell’immagine digitale computerizzata. Queste rivoluzioni ottiche di portata cataclismatica hanno prodotto una profonda accelerazione e, come avvertiva Peter Seger, una “perturbazione dell’equilibrio della coscienza della realtà”[1]. Definire che cosa sia la realtà, pur nel solo ambito della rappresentazione pittorica, è diventato problematico, se non addirittura impossibile.
Nel 1855, all’epoca in cui fu inaugurato il suo Pavillon du Réalisme, per Gustave Courbet la pittura realistica consisteva unicamente nella rappresentazione di cose che l’artista può vedere e toccare. Oggi, però, l’ambito del “vedere” si è enormemente accresciuto, è diventato ipertrofico. L’equilibrio tra le strutture e le attività del nostro apparato sensorio è stato alterato a favore della vista, che ha assunto un ruolo primario rispetto alle altre facoltà percettive. La realtà si è virtualmente amplificata nel momento in cui il “vedere” è diventato anche un “tele-vedere”, cioè, secondo la radice greca del termine “tèle”, un vedere “da lontano”, dove la “lontananza” marca una distanza fisica tra il corpo e l’oggetto ormai smaterializzato della nostra visione.
Per comprendere il lavoro di Sarah Ledda è necessario partire da qui, ossia dal mutato regime delle condizioni in cui si trova a operare l’odierno pittore della realtà. Una realtà moltiplicata, espansa, deterritorializzata attraverso la produzione e riproduzione di immagini finzionali che lambiscono e insidiano il perimetro dell’esperienza sensibile.
Ma è anche vero, come scriveva Seger, che “ogni realismo è diverso dalla realtà” e che “[…] non c’è rappresentazione della realtà senza il suo concetto, senza una visione almeno quotidiana di essa, senza l’esperienza e la concezione di ciò che la realtà è per ogni epoca”[2]. In tal senso, perfino la pittura più mimetica non può essere considerata il prodotto di un semplice atto di riproduzione della realtà ma, semmai, un tentativo di appropriazione e di interpretazione della realtà stessa. Tentativo che altera, talvolta radicalmente, ciò che viene raffigurato attraverso il filtro della rappresentazione concettuale e della produzione tecnica e ideativa. Altrimenti “copiare la realtà” sarebbe, come pensava Hegel, un lavoro inutile e “uno sport presuntuoso”.
Me at funfair, 2018, olio su tela, 80×120 cm
La pittura di Sarah Ledda, com’è evidente, non concerne affatto la mera rappresentazione della realtà, ma nemmeno la celebrazione di un immaginario mediatico facilmente condivisibile attraverso l’innesco di una mutua complicità tra artista e osservatore, basata sul riconoscimento di icone del cinema hollywoodiano, che sarebbero entrate di diritto nel patrimonio delle immagini universali – cosa della quale si potrebbe dubitare nello sfaccettato scenario multiculturale globale.
Quella di Ledda è piuttosto una ricerca incentrata sull’atto della visione, intesa come capacità di rielaborazione consapevole delle immagini e, insieme, come processo di riorganizzazione del mondo, dell’insieme delle esperienze interiori ed esteriori che l’artista ha maturato e poi eventualmente trasferito nella sua prassi artistica. Non si tratta, nel suo caso, di riprodurre con esattezza l’immagine che sta davanti ai suoi occhi, sia essa il fotogramma di un film di Hollywood o di una vecchia serie televisiva americana, ma di tradurre con la potenza metamorfica del linguaggio pittorico una visione interiore che il frame può incarnare o “personificare”, per effetto di una sorta di transfert o di scambio simbolico tra la memoria personale dell’artista e l’immagine virtuale e mediatica.
Dal momento che le scene dipinte da Sarah Ledda sono innanzitutto quelle viste dalla prospettiva di uno spettatore davanti a uno schermo, la loro trasfigurazione pittorica assume anche il significato di una sottrazione della pittura alla mimesi del reale e, di conseguenza, di una restituzione alla sua funzione mitopoietica.
La ricerca dell’artista, infatti, si configura come una pratica di ricodifica dell’immagine filmica in grado di trasformare l’essenza traumatica della realtà in un alfabeto di figure riconoscibili, anche se non necessariamente universali. In particolare, il repertorio del cinema classico hollywoodiano e di certe serie televisive che hanno plasmato l’immaginario mediatico occidentale, si offre come una sorta di dispositivo allegorico, una “macchina per pensare” i motivi di una poetica che ruota, sovente, attorno alla questione della formazione dell’identità femminile.
Tutto in una lettera, 2021, olio su tela, 180×240 cm
In questo senso, il frame – sia esso quello del volto di una diva di hollywoodiana come Marilyn Monroe, Audrey Hepburn, Liz Taylor e Judy Garland o, ancora, quello della giovane Inger Nilsson nei panni di Pippi Calzelunghe oppure dei bambini protagonisti della sitcom Family Affair – non solo appartiene alla memoria personale dell’artista, ma può trasformarsi, grazie alle comuni esperienze di un pubblico multigenerazionale, in un segnale condiviso, capace di stimolare una reazione in chiunque lo riconosca.
Il fotogramma sublimato nella grammatica pittorica può diventare, così, l’espressione di un nuovo tipo di rappresentazione realistica, che usa il filtro delle produzioni mediali della cultura di massa per indagare i temi della memoria e delle emozioni nel rapporto dialettico tra fiction e realtà.
Tuttavia, come acutamente notava Ernst Gombrich, “la pittura è un esercizio attivo, perciò l’artista tenderà a vedere quello che dipinge più che dipingere quello che vede”[3]. Così è per Sarah Ledda, che non si limita a riprodurre fedelmente il fotogramma, ma introietta l’immagine filmica nella pittura per farla coincidere con memorie, sentimenti e stati d’animo che talvolta precedono l’atto della visione e talaltra coincidono con il momento di selezione del fermoimmagine. “Ogni soggetto trasformato in dipinto”, racconta l’artista, “è un elemento mitobiografico che mi aiuta a definire la mia identità”[4]. Ma un effetto secondario di questo processo è inevitabilmente anche quello di rivitalizzare e riattualizzare quei frammenti di simulazione che, per dirla con Baudrillard, sono “frammenti di quella simulazione universale che è diventato per noi il mondo che si dice reale”[5].
Per il sociologo francese, infatti, non è più possibile fabbricare l’immaginario a partire dal reale, anzi “il processo sarà piuttosto l’inverso: si tratterà di realizzare […] modelli di simulazione e di ingegnarsi a dar loro i colori del reale, del banale, del vissuto, di reinventare il reale come finzione, proprio perché il reale è scomparso dalla nostra vita”[6].
Light view, 2022, olio su tela, 60×80 cm
Il formato del frame, la singola immagine visualizzabile da un nastro videomagnetico, ma anche il fotogramma di un lettore dvd e perfino l’artificio del Technicolor – una tecnica di ripresa cinematografica a colori accesi e vivaci – diventano, così, il quadro concettuale entro cui Sarah Ledda opera questa reinvenzione del reale.
E, tuttavia, l’artista si appropria di questa strumentazione alterandola. Ciò significa non solo che può selezionare solo una porzione circoscritta dell’intero fotogramma, oppure nascondere o esaltare particolari della scena come gli oggetti e gli sfondi, ma può anche rimodulare, grazie alla pittura, la grana stessa dell’immagine, ad esempio acuendo l’intensità cromatica con l’esasperazione del Technicolor, virando i colori verso le gamme dei rosa o degli azzurri e, infine, sfocando i contorni delle figure e smaterializzando lo sfondo in campiture astratte. L’evidenza del segno pittorico, per quanto sorvegliato e privo di accentuazioni gestuali, resta, infatti, tanto palese da non lasciare dubbi. Inoltre, altri elementi evidenziano come la sua sia, anzitutto, un’indagine sulla pittura stessa, concepita come strumento costruttivo che si avvale di lemmi extra-pittorici, come il taglio cinematografico dell’inquadratura, gli espedienti ottici della sfocatura e della dissolvenza e perfino i sottotitoli impressi sul bordo inferiore dei fotogrammi.
In particolare, l’inclusione dei sottotitoli, rilevabile soprattutto in alcune tele della serie Deadline, ha una duplice funzione: da un lato, rivela immediatamente la fonte mediatica dell’immagine, dall’altra, la risemantizza tramite l’interruzione del tessuto narrativo della pellicola. Così, il cortocircuito prodotto dall’associazione tra il volto di Anissa Jones – la “Buffy” di Family Affair – e il sottotitolo estrapolato dal più ampio contesto di un dialogo, può diventare un’immagine gnomica, che compendia un significato morale (ad esempio, “Her eyes are bigger than her stomach”), oppure può assumere un valore enigmatico (come nel caso di “and a tree with a tree house”). Come afferma l’artista, “è pittura anche la parola scritta, parte integrante di immagini che includono anche il senso di una specie di oracolo”[7] [quasi che il sottotitolo, isolato e sottratto al flusso sequenziale dei dialoghi, acquisisse la medesima qualità enigmatica delle epigrafi del Tempio di Apollo a Delfi].
Fading, 2014, olio su tela, 16×14 cm
In molte opere di Ledda, il carattere pretestuoso del frame appare inequivocabile. La fonte mediatica di partenza sembra retrocedere, fino quasi a scomparire, lasciando emergere la qualità squisitamente pittorica del materiale visivo. In alcuni lavori della serie Deadline, ad esempio, l’artista sembra quasi svelare il momento generativo dell’immagine, mostrandoci la quadrettatura sottostante, tradizionalmente usata dai pittori per costruire l’impianto disegnativo di un quadro. In molte tele, invece, si può notare come l’iconografia di partenza venga traslata in immagini a cui sembra sia stata sottratta l’originaria esattezza ottica. Non solo i contorni delle figure sono talvolta sfocati (Light View, 2022; Me at the Funfair, 2018; e-mer-sió-ne, 2018) e gli sfondi talora ridotti a un magma cromatico indifferenziato (In my Garden, 2019; Beata Solitudo, 2019), ma l’intero impianto delle opere dell’artista sembra caratterizzato da una sorta di bassa fedeltà retinica, che riproduce in termini pittorici la qualità aleatoria e frammentaria dei ricordi. Memorie che, in questo caso, sono letteralmente reinventate con l’ausilio dell’immaginario filmico e quindi riprodotte in pittura attraverso quella che Gilles Deleuze ha definito come una “ripetizione differente”, non pedissequa.
Beata solitudo (sola beatitudo), 2019, olio su tela, 68×80 cm
D’altra parte, a proposito di quanto riferito dall’artista sul fatto che ogni suo quadro può essere considerato un elemento mitobiografico di costruzione dell’identità, vale la pena ricordare quanto scritto proprio da Deleuze, e cioè che “tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è [appunto] quello della differenza e della ripetizione”[8].
Un gioco che ritroviamo anche nell’unico lavoro extra-pittorico di Sarah Ledda, intitolato A/R (Frames), una serie di fotografie, montate in sequenza video, che ritraggono scorci di paesaggio catturati nell’arco di dieci anni lungo la tratta ferroviaria tra Aosta e Torino. Sono geografie mobili che subiscono continue, impercettibili variazioni nel tempo, dovute non tanto alle inevitabili modificazioni morfologiche del paesaggio, quanto alle mutazioni che lo sguardo dell’artista subisce nell’impresa di tradurre il proprio vissuto in immagini e trasformare, così, la propria bildung in un complesso apparato visivo dove l’occhio interno dell’artista e quello esterno dell’osservatore s’incontrano sul piano della pura simulazione.
[1] Peter Seger, Le nuove forme del realismo, 1976, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, p. 10.
Questo testo è stato scritto in occasione dell’omonima mostra, curata dal sottoscritto insieme a Linda Tommasi, a Villa Ciani, a Lugano, dal 15 al 21 novembre 2021, e dunque riflette il clima di entusiasmo di quel particolare periodo. The Future is Unwritten, che io sappia, è stata la prima esposizione pubblica di opere di Crypto Art in Svizzera, realizzata dal comune di Lugano grazie al fondamentale contributo di un importante collezionista, Poseidon NFT Fund (oggi Poseidon DAO).
Introduzione
Di Ivan Quaroni
Se ne è parlato e scritto molto. Il nuovo hype è la Crypto art, l’arte digitale che si acquista con le cripto valute (Ethereum soprattutto) su piattaforme come SuperRare, Nifty Gateway, Rarible, Opensea o Foundation, tanto per citarne alcune. Un’arte che, a dire il vero, esisteva già, ma era completamente, o quasi, ignorata dal sistema mercantile tradizionale in ragione della sua immaterialità e quindi invendibilità. Si tratta, infatti, di opere fatte solo di immagini, animazioni, Gif o brevi video che i collezionisti non usano (almeno non tutti) per arredare il proprio salotto, ma che possono comunque essere esposte in gallerie virtuali o attraverso monitor nei musei e nelle gallerie d’arte. Nella stragrande maggioranza dei casi è un’arte nativa digitale, realizzata con software e strumenti di elaborazione delle immagini come Photoshop o Cinema 4D, ma può essere anche il prodotto della digitalizzazione di opere tradizionali, come quadri, fotografie o sculture trasformati in NFT.
L’NFT (Non Fungible Token) è un sistema crittografico che consente di fornire prove di autenticità e proprietà dell’arte digitale. La portata innovativa di questo sistema consiste nel prevenire falsificazioni di ogni tipo. L’immagine di un’opera crypto potrà anche essere copiata, ma non il suo certificato di proprietà, le cui informazioni sono fissate nella blockchain – una sorta di registro digitale delle transazioni in cripto valuta – e quindi non possono in alcun modo essere alterate. A far emergere il fenomeno hanno contribuito i numerosi articoli sull’argomento che, però, si limitavano a sottolineare la rilevanza economica di questo nuovo mercato, snocciolando cifre e record d’asta come nel caso dei 69 milioni di dollari totalizzati da Christie’s per la vendita di Everydays: The First 5000 Days di Beeple, e trascuravano invece gli aspetti culturali della crypto arte e i motivi che ne hanno favorito l’emersione.
Il grande merito della rivoluzione Crypto, per molti versi assimilabile all’esplosione del Punk alla fine degli anni Settanta (tanto da contenere elementi di filiazione fin troppo evidenti, dal fenomeno dei CryptoPunks alla collaborazione di Hackatao con i Blondie, fino all’estetica DIY di XCOPY), è stato quello di aver liberato un potenziale creativo abnorme, fornendo una dimensione mercantile a linguaggi, espressioni e grammatiche artistiche fino a quel momento marginalizzate dal sistema dell’arte tradizionale. Tra le centinaia, anzi migliaia, di artisti che si sono avventurati nel mondo degli NFT, oltre quelli che provengono da precedenti esperienze artistiche e che possono vantare un curriculum di tutto rispetto, ve ne sono molti che, invece, si sono fatti le ossa nell’industria cinematografica o in quella dei videogame, nella pubblicità o nella televisione, lavorando come graphic designer, conceptual artist, character designer, art director, matte painter, 3D artist, visual designer o game designer, ed altri che, semplicemente, si dilettavano a produrre arte per se stessi. Per molti, soprattutto per quelli che rientrano nella categoria dei commercial artists, la scoperta degli NFT è stato un modo per ritornare a una dimensione artistica e autoriale, finalmente libera dagli obblighi imposti dalla committenza. Sono emerse, così, nuove personalità che altrimenti non avrebbero trovato posto in un settore, come quello artistico, viziato da storture sistemiche ormai note a tutti.
Un altro elemento rivoluzionario dell’ondata di Crypto Art riguarda l’accorciamento della filiera tradizionale dell’arte, che ha portato gli artisti a diretto contatto con i collezionisti, cancellando, di fatto, la mediazione economica delle gallerie e, in un primo momento, anche quella culturale dei curatori e dei critici d’arte, che sono stati poi reintegrati come elemento indispensabile di divulgazione e storytelling. Si può, infatti, affermare che la mediazione economica sia passata alle succitate piattaforme di vendita, le quali, però, si accontentano di percentuali assai minori su ogni transazione rispetto a quelle applicate nel vecchio mercato. In molti credono che questa rivoluzione stia tagliando fuori gli elementi ingiustamente considerati parassitari e che costituivano la “catena del valore” attraverso le strategie di posizionamento e l’elaborazione critica e documentaria, e che abbia finalmente restituito centralità alla figura dell’artista (e forse anche a quella del collezionista e mecenate). Ma è un’impostazione che alcune piattaforme hanno subito abbandonato, dotandosi di board interni, formati da curatori, collezionisti, artisti e membri della community che garantiscono la presenza di procedure che vagliano la qualità delle proposte artistiche.
Il problema, tuttavia, resta quello di orientarsi nella sterminata galassia della Crypto Art. Per trovare la bussola bisogna prima familiarizzare col gergo strettamente tecnico di questo nuovo mondo, imparando a distinguere, nella pletora dei neologismi, quelli che possono aiutarci a capire meglio il fenomeno. Per prima cosa bisogna capire che il cosiddetto “NFT”, il Non Fungible Token, non è l’opera, ma il dispositivo che rende possibile la sua presenza sulla blockchain. Capita spesso di riferirsi al lavoro di un artista con questo termine, ma è solo un’approssimazione comoda per distinguere questo tipo di opere da altre opere digitali. Anche “crypto arte” è una definizione di comodo per indicare – come spiega Domenico Quaranta in Surfing with Satoshi (2021, postmedia books, Milano) – “un’arte digitale oppure digitalizzata resa rara dalla sua registrazione su blockchain”. Questo significa che la Crypto Art non è un fenomeno artistico alla stregua dell’Impressionismo, del Futurismo o del Dadaismo, caratterizzato da uno stile, da una tecnica o da contenuti programmatici coerenti, ma qualcosa di estremamente variegato, tentacolare, multiforme e, dunque, molto difficile da definire. Quel che si può e si deve fare per esplorare questo nuovo territorio è ricostruire la catena del valore. Manca, infatti, una letteratura che sappia interpretare in termini artistici, critici, estetici, stilistici (ma anche politici e sociologici) il valore di opere che sembrano ricollegarsi più all’immaginario fantascientifico del cyberpunk o a quello delle subculture della rete come la Vaporwave e la Retrowave, o a quello popolare di fumetti e cartoni animati, piuttosto che non alle evoluzioni della storia dell’arte. L’unico modo per costruire una documentazione valida è iniziare ad occuparsi non del fenomeno, ma dei singoli artisti, delle loro genealogie culturali, delle ricorrenze e iterazioni che caratterizzano le loro ricerche. Solo così diventa possibile tracciare una mappa e costruire una geografia di questo universo che – ho la netta impressione – sia tutto, fuorché una moda passeggera o una temporanea tendenza della stagione pandemica.
La mostra The Future is Unwritten nasce come una selezione di opere tra le centinaia di NFT che costituiscono la collezione del Gruppo Poseidon, una delle più grandi e cospicue in Europa. I criteri di scelta hanno tenuto conto prima di tutto del principio di autorialità, che ci hanno condotto a scartare tutte le produzioni NFT non specificamente artistiche, come ad esempio i collectible, e le card. Secondariamente abbiamo valutato la rilevanza dei nomi e il loro contributo alla nascita e allo sviluppo della Crypto Art. Accanto ad artisti di caratura internazionale, come Beeple, XCOPY, Hackatao, Dangiuz, Federico Clapis, Skygolpe, Fabio Giampietro, Raphael Lacoste, Giovanni Motta, Andre Chiampo, che hanno giocato, con pesi e misure differenti, un ruolo di anticipatori, pionieri o attivisti nella definizione di questa nuova compagine, abbiamo selezionato un nucleo di artisti esordienti nell’universo NFT, come Niro Perrone, Nicola Caredda, Giuseppe Veneziano, Adriana Glaviano e Giò Roman, per la qualità e l’originalità delle loro opere. Unica eccezione al principio di autorialità, ma non a quello dell’innovazione pionieristica, è rappresentato dall’inclusione in questa mostra collectible come i due CryptoPunks del Larva Labs e l’esemplare di Bored Ape Yacht Club dello Yuga Labs, scelti per il loro valore iconico e per tutto ciò che hanno rappresentato e continuano a rappresentare per la comunità crypto, insieme dei brand, degli status symbol e, soprattutto, dei codici e dei segnali di riconoscimento e di appartenenza. La mostra ci fornisce una visione inevitabilmente parziale, ma significativa dei linguaggi che caratterizzano questo nuovo comparto dell’arte digitale, un mondo che è appena nato, ma che crediamo, come suggerisce il titolo, sarà foriero, nei prossimi anni, di ulteriori e forse imprevedibili sviluppi.
Beeple
di Ivan Quaroni
È il più importante artista della scena crypto, divenuto l’emblema di una rivoluzione che, come lui stesso ha affermato, ha aperto “un nuovo capitolo della storia dell’arte”. Il suo nome è rimbalzato su tutti i principali canali d’informazione come l’autore di Everydays: The First 5000 Days, la terza più costosa opera d’arte al mondo, dopo Rabbitdi Jeff Koons e Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) di David Hockney, battuta lo scorso 11 marzo da Christie’s per l’incredibile cifra di 69,3 milioni di dollari, cosa che lo ha reso anche il più celebre artista digitale di tutti i tempi e il primo a raggiungere il record per la vendita di un’opera immateriale. Il suo gigantesco collage, composto da 5000 immagini, ognuna delle quali è stata realizzata in uno dei 5000 giorni richiesti per completare l’intero lavoro, non solo ha sorpassato in valore Old Masters come Raffaello e Tiziano, ma ha anche segnato il passo del lungo percorso di riconoscimento delle opere digitali, che, grazie a lui, sono ora trattate sul mercato dell’arte alla stregua delle opere tradizionali. La persona che sta dietro lo pseudonimo di Beeple è Mike Winkelmann. Classe 1981, nato e cresciuto a North Fond du Lac, una piccola cittadina del Wisconsin, Beeple ha cominciato la sua carriera d’artista nel 2007, quando ha creato il ritratto di suo zio Jim, la prima delle immagini di Everydays: The First 5000 Days. Il suo immaginario è influenzato dalla cultura di massa, dal fumetto, dai cartoni animati, dalla fantascienza, ma anche dai videogame e dalla cronaca. Dopo una laurea in informatica e un’esperienza come web designer, Beeple – un nome preso in prestito da un peluche degli anni Ottanta -, si è dedicato all’arte con una disciplina esemplare, realizzando un’opera al giorno per 13 anni, usando programmi come Photoshop e Cinema 4D. Il risultato di tanta dedizione, aldilà dei suoi successi personali, è stato di aver aperto la strada a migliaia di artisti digitali snobbati dal vecchio sistema dell’arte, che li considerava poco più di semplici illustratori.
L’opera esposta in questa mostra è GIGACHAD, un video in cento esemplari che raffigura Elon Musk a passeggio con un cane. Il Ceo di Tesla è rappresentato col corpo muscoloso di Gigachad, un personaggio meme simile all’Incredibile Hulk, accompagnato da un cane della razza giapponese Shiba Inu, simbolo della dogecoin, una criptovauta nata per scherzo nel 2013, che si sviluppò rapidamente grazie al sostegno di una community e che nel gennaio 2014 ha raggiunto una capitalizzazione di mercato di 60 milioni di dollari. Quest’opera dimostra come il mondo della crypto arte, tanto nelle immagini quanto nei contenuti, sia spesso autoreferenziale.
Nato a Cagliari nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi pop surrealisti e suggestioni distopiche. Il salto dalla pittura agli NFT avviene, dunque, sotto il segno di un immaginario post-apocalittico che trasferisce l’atmosfera di metafisica sospensione degli Enigmi dechirichiani in un Pianeta Terra devastato dalle macerie e dai detriti dell’era post-moderna. I suoi paesaggi mostrano ciò che rimane dopo l’ecatombe ecologica, un globo disabitato e silente, costellato di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Sono visioni notturne che raccontano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la principale causa delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema. Caredda ce ne fornisce un’immagine oleografica, la convincente prefigurazione della fine del mondo dove, però, sopravvivono tracce e segni dell’identità italiana nei reperti dell’iconografia cattolica o nei graffiti dipinti sui muri di cemento di una sterminata periferia urbana.
Andrea Chiampo è nato a Vicenza nel 1991. Ha studiato Disegno Industriale presso lo IAAD di Torino e dopo aver lavorato come Product designer è passato all’Entertainment Design con produzioni in ambito cinematografico, come quelle con 20th Century Fox, Netflix, MPC e The Mill. Attualmente lavora a Londra come Concept Artist presso la Disney – Industrial Light and Magic.
Cresciuto in una famiglia di antiquari, circondato da stampe antiche, sculture e opere d’arte, Chiampo ha sviluppato una spiccata sensibilità estetica che traspare non solo nei lavori commerciali, ma soprattutto nelle opere NFT. Sono, infatti, opere che esplorano l’inconscio, attraverso la creazione di ambienti surreali, costruiti come complessi di caverne e cunicoli formati da rocce millenarie. Sparsi in questi landscape mineralizzati, che sembrano quasi fatti di grafite, compaiono scheletri, teschi e detriti ossei che rimandano a una sorta di gigantesco memento mori. Lo stile digitale di Chiampo richiama quello delle incisioni, ma con i temi tradizionali della Vanitas e della Melancholia trasferiti in una dimensione aliena e post-apocalittica. Abilissimo nella resa degli effetti di traslucenza, texturing e illuminazione, Chiampo è riuscito a costruire un linguaggio visivo capace di indagare il lato oscuro dell’uomo. I suoi lavori, soprattutto quelli della serie intitolata Futured Past, danno corpo e immagine a una gamma di ossessioni, paure, allucinazioni che abitano lo spirito umano fin dai tempi più remoti.
La sua arte è il risultato di un’epifania spirituale, di un’illuminazione che l’ha condotto ad abbandonare nel 2015, al culmine della sua popolarità, una carriera di youtuber, attore e performer con un vasto seguito per dedicarsi unicamente alla creazione dei suoi lavori.
Nato a Milano nel 1987, Federico Clapis è uno dei più noti artisti della scena crypto, ma le sue opere esistono da prima che nascessero gli NFT. Realizzate in bronzo, resina e cemento, le sue sculture sono state create mescolando progettazione digitale e raffinate tecniche di lavorazione artigianale. La sua ricerca ruota attorno a due polarità, una interiore, basata sull’introspezione individuale attraverso l’esercizio di pratiche meditative come l’Out of Body Experience, l’altra esteriore, incentrata sull’osservazione della società e sulle sue traiettorie possibile. Il tema principale dei suoi lavori è, infatti, il rapporto tra l’uomo e la tecnologia. O, meglio, il ruolo pervasivo che essa avrà nella vita quotidiana delle prossime generazioni, plasmando le abitudini e costumi di una civiltà che l’artista immagina da un punto di vista retrospettivo, come se si trattasse di una scoperta archeologica avvenuta in un remoto futuro. Anche i suoi NFT conservano queste qualità iperstizionali. Sono cioè, in riferimento al termine iperstizione inventato dal filosofo accelerazionista Nick Land, delle profezie che si auto-avverano per il semplice motivo di essere riuscite a penetrare nell’immaginario collettivo. Come nel caso delle opere, oramai diventate iconiche, Babydrone in Space e Connection in Space, che raccontano, e insieme plasmano, l’idea di un futuro plausibile, dove perfino l’esperienza della maternità potrà assumere inediti sviluppi e nuovi significati.
Nato a Torino nel 1995, Leopoldo D’Angelo, meglio conosciuto col nome di Dangiuz, appartiene a una generazione che si è nutrita delle subculture della rete ed è stata influenzata dalla diffusione online di generi estetici e musicali, come ad esempio la Synthwave e l’Outrun. Questi elementi hanno, infatti, contribuito alla definizione del suo stile, soprattutto nei riferimenti visivi alla fantascienza degli anni Ottanta e Novanta. Le sue visioni sono ambientate in una notturna congerie urbana, illuminata da ologrammi e scariche incandescenti di neon, scenario di un futuro prossimo più che plausibile. Dangiuz ci catapulta, infatti, nella dura realtà del Conglomerato, lo Sprawl del William Gibson di Count Zero (1986) o la Neo-Tokyo immaginata da Katsuhiro Otomo in Akira (1988), un agghiacciante incubo verticale di sopraelevate e grattacieli collegati da ponti sospesi, affacciati su un’abissale giungla di livelli stradali. È, infatti, in una megalopoli che ricorda la Los Angeles di Rick Dekard che si ambientano le sue storie. I suoi personaggi, buie silhouette stagliate sui lampi intermittenti della metastasi urbana, abitano una realtà che incarna tutti gli squilibri del tardo-capitalismo: dalle feroci disuguaglianze sociali dell’economia globale all’immane catastrofe ecologica, dalla polverizzazione del patto sociale al controllo delle multinazionali, dalla connettività post-umana dei servo-meccanismi alla claustrale solitudine dell’individuo isolato nella propria cellula abitativa. È un mondo che cade a pezzi, un universo cyberpunk che recentemente si è evoluto in una nuova dimensione estetica, iniziata con l’opera Wasteland, la descrizione di un mondo di carcasse in rovina.
È considerato uno dei pionieri italiani della crypto art, ma viene, come altri artisti NFT, dalla pittura tradizionale. Fabio Giampietro, nato a Milano nel 1974, ha dipinto per anni immense megalopoli viste dall’alto, organismi urbani proliferanti, che sembrano usciti dalle fantasie distopiche di un romanzo di Neal Stephenson, l’inventore del termine mataverso. I suoi quadri affondano le radici nella tradizione del Futurismo e dell’Aeropittura italiana del primo dopoguerra e nelle ricerche spazialiste, ma la passione per la tecnologia caratterizza da oltre un decennio la sua indagine artistica. La maggior parte dei suoi dipinti è ispirata a New York, il primo modello di città futuribile che più tardi sarebbe stato soppiantato dalle nuove megalopoli asiatiche. La sua è una metropoli vista dall’alto, quasi a volo d’uccello, su cui si spalanca il vertiginoso scorcio del reticolo urbano. Non a caso Giampietro chiama questi lavori Vertigini, riferendosi allo spaventoso disorientamento generato dall’altezza dei grattacieli. Una sensazione che, tra i primi in Italia, è riuscito trasferire in VR con l’installazione Hyperplanes of Simultaneity, che ha vinto il prestigioso Lumen Prize, il più importante riconoscimento nell’ambito delle opere d’arte create con mezzi tecnologici. Le opere crypto di Giampietro sono tutte ricavate da dipinti ad olio di grandi dimensioni e dunque conservano intenzionalmente intatta l’originale grana pittorica dell’immagine.
Nata a Palermo, ma diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, Adriana Glaviano ha lavorato come grafica e illustratrice per numerose riviste di moda, diventando prima Fashion Editor di “Vogue Italia”, poi collaborando come vicedirettore moda a riviste del gruppo Rcs come “Amica”, “Io Donna” e “Anna” e, infine, assmendo l’incarico di Fashion Director di “Vogue Gioiello” e “Vogue Pelle”. Oggi lavora sia nel campo dell’editoria e della moda, sia come artista, autrice di sontuosi wallpaper ispirati alla pittura e al genere dei trompe-l’oeil. L’influenza dell’arte barocca è visibile anche nelle sue opere digitali, popolate di animali esotici e disseminate di rovine architettoniche immerse in un lussureggiante paesaggio naturale. L’opera Jungle Palace, realizzata in esclusiva per la galleria d’arte NFTART.CH di Lugano, è un monumento alla natura selvaggia, ma anche all’arte e all’architettura del passato, una perfetta combinazione tra un bestiario esotico e un paesaggio arcadico rivisitato alla luce dell’incombente catastrofe climatica. Con quest’opera, Adriana Glaviano oppone agli effetti distruttivi della società consumista e tardo-capitalista, gli eterni valori della bellezza e dell’arte.
Punta di diamante della frangia italiana della crypto arte, gli Hackatao sono un duo di artisti riconosciuto a livello internazionale tra i pionieri della rivoluzione NFT. Il loro nome è formato dalla crasi delle parole hacker e tao, indicazioni di un retroterra culturale che mescola antagonismo cyberpunk e spiritualità nel segno di un’arte di immediata riconoscibilità, che combina elementi pop surrealisti ed immaginario manga. Gli “Hacker del Tao” sono due artisti che combinano i loro talenti in una grammatica che fonde l’impulso disegnativo dell’uno con la sensibilità cromatica e strutturale dell’altra. Il loro sodalizio nasce a Milano nel 2007 e si concretizza prima nella creazione dei Podmork, sculture in resina e ceramica che formano un campionario di figure a metà tra l’estetica kawaii giapponese e la moda lowbrow dei vinyl toys, poi nel passaggio a una pittura pop, in cui le forme dei loro bizzarri personaggi sono riempite da una fitta trama di disegni, una sorta di ipertesto visivo in cui si annidano frasi, immagini e riferimenti che formano un ininterrotto flusso di coscienza e, allo stesso tempo, una trappola ottica per l’osservatore. Il cortocircuito generato dalla combinazione tra linearismo grafico e pittura flat – una polarizzazione che ricorda la diade taoista di Yin e Yang -, è, infatti, la caratteristica principale della ricerca degli Hackatao, mantenuta intatta anche nel formato digitale. Il loro contributo alla definizione della crypto arte è fondamentale e passa attraverso una serie di sperimentazioni che combinano la pittura su quadro a elementi di animazione digitale. Nel 2018, quando vivono già da sette anni in uno sperduto borgo medievale sulle Alpi Carnie, arriva la svolta con l’ingresso nell’ancora misconosciuto mondo degli NFT. In reazione alle vecchie logiche elitarie del sistema dell’arte, cominciano a realizzare lavori digitali ricevendo l’apprezzamento di una community ancora esoterica, ma in procinto di espandersi a macchia d’olio. Solo dopo giungono l’attenzione rapace delle case d’asta e le vendite milionarie che li fanno balzare agli onori della cronaca. Il loro lavoro resta però fedele alla loro estetica binaria anche nel nuovo formato digitale, come dimostrano le opere esposte in questa mostra. La prima è Beyond the Void, un lavoro finito sulla copertina di “NFT Mag”, prima rivista dedicata alla crypto arte pubblicata su OpenSea, ma è soprattutto un tributo a Lucio Fontana, l’artista che con i suoi tagli, ha gettato luce su ciò che sta oltre la superficie del quadro, aprendo le porte della percezione alla comprensione di uno spazio ulteriore. L’NFT Beyond the Void nasce, infatti, da una esperienza espositiva degli Hackatao al Museo di Cà la Ghironda di Ponte Ronca, nei pressi di Bologna, dove hanno proiettato un proprio lavoro sull’opera Concetto Spaziale-Attese, sette tagli, creando, così, un intimo dialogo con la tridimensionalità di Fontana. Le altre due sono opere nate dalla collaborazione con la band punk americana dei Blondie in occasione del 93° anniversario della nascita di Andy Warhol. Rappresentano, con il tipico stile degli Hackatao, la cantante del gruppo Debbie Harry, oggetto, già nel 1985, di una delle sue prime opere digitali realizzate da Warhol con un Commodore Amiga 2000. I lavori della serie Hack the Borders rappresentano quindi un collegamento non solo tra le rivoluzioni della crypto art e del movimento punk, ma anche tra il mondo degli NFT e le prime seminali sperimentazioni digitali del padre della Pop Art.
Nato in Francia nel 1971, ma residente a Montreal dal 2002, Raphaël Lacoste ha lavorato nel mondo dei videogame come art director dei franchise Prince of Persiae Assassin’s Creed, e poi nell’industria cinematografica in qualità di Concept Artist, Production Designer e Matt Painter in film come Terminator Salvation (2009), Journey to the Center of the Earth (2008), Death Race (2008), Repo Men (2010), Immortals (2011) e Jupiter Ascending (2015). Nel suo universo visivo il paesaggio ha un ruolo centrale. Influenzato dalla fantascienza e dal cyberpunk, ma anche da pittori romantici come Caspar David Friedrich e Albert Bierstadt e da fotografi contemporanei come Greg Girard e Gregory Crewdson, Lacoste ha creato l’immaginario di un futuro ipertecnologico dove immensi edifici verticali, simili a nuove cattedrali gotiche, sorgono accanto a scenari naturalistici incontaminati. Come nella serie AI Metropolis, che rappresenta le vicende di un gruppo di esploratori al confine tra i territori selvaggi e gli immensi conglomerati urbani. In questo connubio tra mondo naturale e civiltà avanzata, Lacoste ha scoperto un nuovo senso del sublime. Non più il sentimento kantiano di sgomento generato dalla visione delle forze distruttive della natura, quello delle tempeste di William Turner o del Wanderer above the Sea of Fog di Friedrich, ma quello che proviamo davanti allo smisurato sviluppo della tecnologia umana e dei suoi artefatti: un sublime per l’era dell’Antropocene.
Quando nel giugno 2017 viene lanciato il progetto CryptoPunks, lo standard di token ERC-721 di Ethereum non era ancora qualcosa di reale. A creare quelle che più tardi sarebbero diventate le più popolari icone nel mondo NFT è stato Larva Labs, uno studio di New York composto dagli ingegneri creativi Matt Hall e John Watkinson che hanno tokenizzato 10.000 ritratti in grafica 8bit di personaggi unici per tipologia e caratteristiche estetiche. Dell’intero lotto, 9000 di questi esemplari unici sono stati lanciati sul mercato, mentre i restanti 1000 sono rimasti di proprietà dello studio che li ha creati. Di fatto, i CryptoPunks sono un insieme di avatar generati casualmente, alcuni dei quali sono più rari, come ad esempio la serie Zombie o quella degli alieni. Il loro valore è più simbolico che estetico, perché non solo rappresentano uno dei più antichi esempi di Non Fungible Token, ma hanno anche saputo avviare una florida economia. Un mercato che ha attirato l’attenzione di case d’asta come Christie’s che lo scorso maggio ha venduto una raccolta di 9 esemplari a quasi 17 milioni di dollari.
Giovanni Motta è uno dei crypto artisti italiani che meglio incarna l’epocale transizione dall’arte fisica al mondo immateriale degli NFT. Nato a Verona nel 1971, arriva all’arte dopo un passato da pubblicitario. Il disegno, però, è una sua passione fin dall’infanzia. Dal 2000 inizia ad esporre in gallerie e spazi pubblici le proprie opere, disegni, dipinti e sculture 3D che rivelano la sua passione per i manga e gli anime, ma anche per i cartoni animati americani. Al centro del suo lavoro c’è Jonny Boy, personaggio che incarna l’innocenza dell’infanzia, ma che è anche metafora del bambino interiore che abita la coscienza di ogni uomo. La sua pittura quasi iperrealista, ma contaminata dalla cultura pop, ha un messaggio tanto semplice quanto potente: la ricoperta della creatività infantile come energia vitale che risiede nella memoria degli individui e che può essere riscoperta attraverso un lavoro di scavo psicologico e spirituale. Tutte le sue opere nascono dalla quotidiana pratica della meditazione regressiva, una tecnica che gli permette di far riaffiorare dalle profondità sepolte dell’inconscio ricordi vividi del passato, che poi traduce in immagini che catturano il senso di stupore ed eccitazione delle esperienze infantili. Questo sentimento di entusiasmo è codificato nella forma della metafora videoludica. Le fluttuazioni di Jonny, infatti, richiamano la condizione del player immerso nel flusso del gioco, in una dimensione di dilatazione sinestetica che altera la percezione del tempo. Jonny è, dunque, il simbolo di tutte le qualità del bambino, non ancora corrotto dal cinismo della vita adulta.
Aretino, classe 1985, Niro Perrone ha scoperto il mondo degli NFT nel 2020, in piena crisi pandemica, quando ha iniziato a disegnare storie per i suoi figli. Prima lavorava in ambito musicale come Producer e Dj, pubblicando singoli ed EP con etichette indipendenti. I suoi disegni nascono come flash narrativi ispirati alle vicende della sua vita quotidiana, ma diventano presto opere quando passa dalla matita alla tavoletta grafica. Diventate un’occupazione a tempo pieno, le opere di Niro Perrone, pubblicate su Instagram, iniziano a circolare in rete. Poi, con l’esplosione dell’arte crypto, crea i suoi primi NFT, caratterizzati da uno stile che ricorda quello della cosiddetta Linea Chiara del fumetto francese degli anni Ottanta. Vengono in mente autori come Moebius e Jacques Tardi, soprattutto per la pulizia e la chiarezza di contorni con cui Perrone da forma alle sue narrazioni. Sono storie fantastiche popolate di personaggi ibridi, chimere e mostri caratterizzati, però, da una vivacissima gamma cromatica, che stempera i contenuti, talvolta drammatici, delle sue creazioni. All’interno di questo caleidoscopico affollamento di figure, proiezione di un universo insieme allegro e nevrotico, si trovano talvolta personaggi iconici, come nel caso di Vicious Murphy, in cui riconosciamo un lubrico RoboCop intento a masturbare un device elettronico della Omni Consumer Product, l’immaginaria multinazionale costruttrice del cyborg nel popolare film di Paul Verhoven.
Nato nel 1987 a Galatina, Giovanni Romano aka Gio’ Roman, è laureato in Economia e Marketing. All’arte è arrivato più tardi, da autodidatta, nel 2017, realizzando una serie di opere che raccontano storie d’amore proiettate in futuribili scenari urbani, che rimandano, quasi classicamente, alle notturne ambientazioni di Blade Runner. La sua opera, intitolata Forever, dedicata a Koby Bryant e a sua figlia, ha fatto il giro del mondo. Condivisa sui social da Alicia Keys e riprodotta su una t-shirt vestita dalla popolare comica americana Leasly Jones durante il Late Night Set, l’opera rappresenta la stella del basket americano mentre accompagna la figlia in un’aerea schiacciata sullo sfondo di un romantico cielo al tramonto. Non tutti i suoi lavori, però, rivelano una vena lirica. L’opera Provocation, ad esempio, ci introduce nei meandri di un’utopia negativa, in cui alla rovina dell’arte tradizionale, rappresentata dai capolavori di Leonardo, Vermeer, Van Gogh, Picasso e Munch sparsi sul pavimento nel caveau, corrisponde il collasso della blockchain e degli NFT, simbolizzati dalle crytovalute Bitcoin ed Ethereum e dalle icone dei Cryptopunk.
“Skygolpe è l’identità. Skygolpe è il vuoto. Il suo lavoro esplora la loro giustapposizione, insieme all’esistenza fisica e digitale del corpo”. Questo è il succinto ed enigmatico statement con cui si presenta uno dei più famosi crypto artisti italiani su Artifex, uno dei molti marketplace che ospitano le sue opere. Appassionato di filosofia e con alle spalle un’esperienza di collaborazione con Stix, un celebre street artist inglese, dopo il suo ritorno in Italia dopo sei anni di permanenza a Londra, Skygolpe ha realizzato dipinti, fotografie, installazioni e lavori digitali. Prima dell’esplosione degli NFT, il suo lavoro era caratterizzato da una matrice concettuale, un elemento che contraddistingue anche le sue opere cypto, sebbene con un’attitudine nuova, che lo spinge a indagare i contrasti e le polarità che caratterizzano la società contemporanea. Il nome che si è scelto, Skygolpe, è il riflesso di questo interesse verso elementi eterocliti, come la bizzarra crasi tra il concetto di golpe (colpo di stato) e l’immagine del cielo. Il ritratto, o meglio la forma del volto umano, costituisce il motivo iconografico di tutta la sua ricerca, un perimetro cognitivo ed estetico entro il quale dipana la sua indagine sui rapporti tra identità e alienazione, ma anche tra dimensione fisica e virtuale. Questa sagoma anonima, ossessivamente reiterata, diventa così il contenitore di una pletora di frizioni, incontri, collisioni stilistiche tra le più variegate, che polverizzano l’idea, tanto cara all’arte tradizionale, dello sviluppo di un linguaggio coerente. Il lavoro di Skygolpe accoglie infatti, una moltitudine di grammatiche visive, una babele di vocabolari grafici che si declinano, anche attraverso le sue numerose collaborazioni con artisti di ogni genere e provenienza, in un regesto enciclopedico di stili, che ruota attorno all’immagine simbolo di un’umanità fragile, alla continua ricerca del proprio centro di gravità permanente.
Nato a Mazzarino, in Sicilia, nel 1971, con una formazione di architetto e un passato da vignettista satirico, Giuseppe Veneziano è oggi uno dei principali artisti italiani della corrente New Pop. Con il suo linguaggio pittorico, insieme originale e riconoscibile, l’artista affronta temi sensibili come la politica, il sesso e la religione, attraverso cui ci fornisce un’immagine oggettiva e disincantata della società odierna. Le sue tele sono popolate da personalità storiche e celebrità del presente, icone del cinema e personaggi dei fumetti e dei cartoni animati. Per Veneziano non c’è differenza tra fiction e realtà, elementi che tendono a mescolarsi e confondersi nell’odierna società mediatica. L’artista lavora sull’impatto iconico dei suoi soggetti, siano essi estrapolati da un’opera del passato, da una striscia a fumetti o da una foto di cronaca. Quel che conta, è la capacità comunicativa delle immagini, che diventano come i vocaboli di un linguaggio universale e comprensibile, proprio perché radicato nella cultura di massa globale. Il suo esordio negli NFT trae spunto dalla Madonna Northbrook, dipinta da Raffaello attorno al 1507. Elemento tipico dell’arte di Veneziano è, infatti, l’appropriazione iconografica di fonti del passato (soprattutto opere del Rinascimento italiano), in cui l’artista opera una sostituzione delle figure originali con personalità storiche, celebrità contemporanee o personaggi provenienti da cinema, cartoni animati e fumetti. Nella sua Madonna of the Sacred Heart, che contiene un omaggio al Jonny Boy di Giovanni Motta, Veneziano riesce a trovare un perfetto equilibrio espressivo, che gli consente di riattualizzare, vivificandola con una grammatica adeguata ai tempi correnti, il miracolo della pittura antica.
Figura leggendaria di artista crypto tra i più influenti, XCOPY è un personaggio misterioso, di cui si sa poco o nulla, se non che opera a Londra e che è stato uno dei pionieri della rivoluzione NFT, attivo, addirittura prima dello sviluppo della blockchain Ethereum sull’effimera piattaforma di Ascribe e poi su marketplace d’avanguardia come RARE Art Labs e Digital Objects. I suoi lavori compaiono già dal 2010 su tumblr con uno stile grezzo e graffiante, che richiama alla memoria le produzioni DIY e delle prime sperimentazioni multimediali. Nell’estetica della rete, le sue immagini spiccano per l’originalità stilistica ed il forte impatto grafico, ma anche per i messaggi critici nei confronti della società contemporanea. Realizzati sotto forma di Gif, sovrapponendo immagini sintetiche simili a graffiti caratterizzate da una palette cromatica essenziale, i lavori di XCOPY colpiscono proprio per la loro efficacia comunicativa, una combinazione di disegno scarno e di animazione minimale, tutta giocata su effetti di intermittenza. I soggetti sono volti quasi scarabocchiati, maschere mostruose, teschi o scheletri che lampeggiano su sfondi monocromi. Sono visioni disturbate dai glitch oppure dal tipico “effetto neve” provocato dall’interferenza dei segnali elettromagnetici sugli schermi dei vecchi televisori a tubo catodico, lo stesso evocato da William Gibson nel celebre incipit di Neuromante. Il linguaggio visivo di XCOPY è figlio della cultura antagonista degli hacker, ma anche evoluzione digitale dell’estetica anarcoide del punk.
Se i CryptoPunks hanno aperto la strada al mercato degli oggetti da collezione digitali rari, la cui scarsità è verificabile, il progetto denominato Bored Ape Yacht Club ne rappresenta l’ideale continuazione. Sviluppato da Yuga Labs, il Bored Ape Yacht Club è una raccolta di 10,000 illustrazioni di personaggi che rappresentano altrettanti ritratti di scimmie dall’espressione annoiata. Di queste immagini non ne esistono due uguali, perché ognuna delle scimmie possiede colori, accessori o caratteristiche uniche. Come suggerisce il nome, il Bored Ape Yacht Club è una specie di società elitaria e possedere uno di questi NFT è il solo modo per entrare nel club, dato che consente agli utenti l’accesso a un esclusivo server Discord, dove altri proprietari, comprese alcune celebrità, si incontrano e chattano. I membri di questo club, riconoscibili dai loro avatar con l’effige di una delle scimmie annoiate, si ritrovano sui social media formando una sorta di confraternita digitale. Anche in questo caso, considerate le cifre da record raggiunte da alcuni di questi avatar, non conta tanto il loro contenuto estetico, quanto il valore di status symbol ed il fatto che possedere un NFT Bored Ape sblocca l’accesso per ulteriori oggetti da collezione NFT, come gli esemplari di Mutant Ape Yacht Club o i cani di Bored Ape Kennel Club.
Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider.
Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive.
Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative.
Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson.
Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti.
Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010).
Genoma italiano
La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale.
A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].
Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo.
Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione.
Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC.
Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale.
Eccentrici, apocalittici, pop
Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani.
La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.
Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.
L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason.
Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù.
Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue operesi possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd.
Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.
Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione.
L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.
Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.
Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop Surrealism, Nicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.
Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro.
Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.
Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore. El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso.
Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.
Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.
Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità.
Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.
[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.
[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.
[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.
[4]Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.
Nella cultura pop asiatica, e soprattutto in quella giapponese dominata dalla produzione di manga e anime, si è affermato uno stile super deformed, basato sulla rappresentazione caricaturale di personaggi dalle fattezze infantili, come, ad esempio, la testa grande, gli occhi enormi, il corpo goffo e i lineamenti morbidi e tondeggianti. Artisti contemporanei come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Aya Takano, Chiho Aoshima ed altri appartenenti al movimento Superflat, hanno coscientemente ereditato lo stile ipertrofico e piatto dei mangaka. Infatti, i personaggi delle loro opere, quando non sono una citazione diretta di quelli disegnati da maestri come Hayao Miyazaki, ne ricordano comunque lo stile.
Nelle deformazioni anatomiche e nelle ibridazioni antropo-zoomorfe usate da moltissimi artisti e illustratori asiatici, l’influsso di manga e anime si traduce essenzialmente nell’adesione alla cosiddetta estetica Kawaii, che nel Giappone contemporaneo indica un tipo di bellezza associata a sentimenti di timidezza e vulnerabilità tipicamente infantili.
Il termine Kawaii è assimilabile al concetto anglosassone di Cuteness, che si è sviluppato in epoca vittoriana come conseguenza dell’idealizzazione del mondo infantile e che è utilizzato per indicare tutto ciò che è grazioso, carino, tenero.
Cute può essere un bambino, un animale o anche un oggetto che possiede le caratteristiche di “piccolezza”, “incompiutezza”, ma anche “difformità”. Una cosa animata o inanimata è cute o kawaii quando possiede una natura tenera e, al contempo, mostruosa e commuovente, caratteristiche tipiche di molti personaggi manga come Doraemon, Hello Kitty e i Pokemon.
L’estetica Kawaii fin dagli anni Ottanta non solo ha permeato profondamente la società giapponese in ogni ambito, irradiandosi dalla cultura popolare al mondo delle corporate e perfino delle istituzioni – tanto che ognuna delle 47 prefetture nipponiche possiede un proprio personaggio kawaii – ma, attraverso la diffusione di fumetti, cartoni animati e videogiochi, ha conquistato l’immaginario di massa globale.
A World of Hope, 2022, Video (MP4)
Naturalmente, il mondo della Crypto Art non ha fatto eccezione, come dimostra la abnorme pletora di linguaggi derivati dallo stile dei manga che oggi occupano una larga fetta delle produzioni NFT. Nel composito universo di artisti che hanno fatto proprio la grammatica kawaii, magari adattandola alla sensibilità della propria cultura d’origine, c’è anche la tailandese FourLeafClover, autrice di immagini gremite di personaggi infantili che suscitano sentimenti di tenerezza.
Appassionata disegnatrice fin dall’infanzia, FourLeafClover è un’artista autodidatta che utilizza programmi come Clip Studio e Pro-create per realizzare immagini gioiose e divertenti. L’ispirazione per le sue opere risale, come ammette lei stessa, ai tempi in cui lavorava nel campo dell’editoria: “Vedevo che i libri a cui lavoravo rendevano la gente felice e, così, ho deciso di applicare questo concetto alla mia arte: voglio che chiunque veda le mie opere sorrida e sia felice”. Non è un caso, peraltro, che abbia scelto come proprio nome quello di una pianta erbacea tradizionalmente associata alla fortuna e dunque a sentimenti di ottimismo e positività.
FourLeafClover ha esordito nel mondo degli NFT nell’agosto 2021, con la serie di illustrazioni mintate su OpenSea intitolata Go BaBy Go !!, popolata di personaggi infantili che sarebbero diventati tipici del suo stile disegnativo. Tra le molte collezioni lanciate dall’artista, con le quali si è garantita un posto stabile nel mondo degli NFT, ci sono anche quelle derivate dalla reinterpretazione d’icone crypto come le mitiche Bored Apes di Yuga Labs(Ape BaBy Ape !!) e Pepe The Frog (Fake Rares), il personaggio nato dalla matita di Matt Furie per il fumetto Boy’s Club, poi diventato popolare attraverso la strabordante produzione di meme circolati in rete e su Twitter.
L’artista si è fatta un nome non solo grazie al costante impegno nella creazione di illustrazioni e brevi video che attingono alle memorie infantili e che spesso sono caratterizzate da ambientazioni nostalgiche, come nel caso della serie Life Baby Life, ma anche attraverso la collaborazione con le community di portali come Sappy Seals, Boki, Alien Frens, Uwu Crew e Squishverse, per i quali ha realizzato personaggi originali e adesivi animati che rappresentano il suo personale contributo all’estetica Kawaii.
FourLeafClover è talmente convinta del potenziale creativo dell’immaginario infantile da aver creato insieme a @HGESOL il progetto ABC abracadabrasul marketplace di Magic Eden, che consiste in una collezione di diecimila NFT realizzati nel tipico stile dei disegni infantili per ricordare a tutti la gioia della creazione prima dell’avvento dell’età adulta.
Ironia, gioia e leggerezza caratterizzano tutte le sue creazioni, spesso influenzate non solo dall’estetica Kawaii, ma anche dalla cultura pop occidentale. Molti, infatti, sono i riferimenti alle saghe cinematografiche di Star Wars, Harry Potter e Back to the Future soprattutto nella serie di lavori del ciclo Metaverse, dove i suoi personaggi infantili fuggono dalla realtà quotidiana per immergersi nell’universo virtuale dei propri eroi.
A questo ciclo appartiene in qualche modo anche l’opera intitolata A World of Hope (si può vedere qui: OpenSea. Si tratta di un’animazione da cui traspare la preoccupazione dell’artista per un mondo che si avvia verso un’inevitabile rovina. La linea narrativa rispecchia quella di altre opere analoghe, che mostrano i momenti immediatamente precedenti e successivi all’immersione nel Metaverso tramite un visore. In A World of Hope il protagonista, proveniente da una megalopoli apocalittica, devastata dalle fiamme, si rifugia virtualmente in una dimensione illusoria, in cui il mondo non è ancora stato distrutto dalle conseguenze del cambiamento climatico. Il vero tema dell’opera è, però, la speranza, qui rappresentata dal desiderio di vivere una dimensione esistenziale, dove l’uomo e la natura convivono in perfetta armonia.
Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)
Nonostante le origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno inizialmente favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso fa riferimento non solo alla corrente storica fondata da André Breton, ma a tutte le forme di arte fantastica. Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti provenienti dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è diffuso anche in Italia, influenzando numerosi artisti, tra i quali anche Nicola Caredda.
Nato a Cagliari (Italia) nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è prima di tutto un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi fantastici e suggestioni distopiche. Nel passaggio dalla pittura agli NFT – presenti marketplace di SuperRare -, l’artista è riuscito a trasferire l’atmosfera sospesa e rarefatta dei suoi dipinti, dominati da macerie e detriti dell’età post-moderna, in una serie di animazioni distorte e allucinate, che danno corpo e solidità alle sue creazioni.
I suoi paesaggi, realizzati con la precisione di un miniaturista, mostrano i resti di una società trascorsa, i reperti di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo un’ipotetica quanto plausibile catastrofe nucleare oppure in seguito a un’apocalisse ecologica, è un globo disabitato e silente, una sorta di grande natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, scheletri architettonici e malinconici residui della società dei consumi.
Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)
Influenzato tanto dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e dagli artisti del Realismo Magico italiano e tedesco tra le due guerre, quanto dal contemporaneo Pop Surrealismo americano, l’artista ha costruito un linguaggio visivo che trasferisce il gusto decadente per le rovine e la passione per il mistero nel vocabolario iconografico della Modernità Liquida raccontata da Zygmunt Bauman.
Le sue visioni notturne, disseminate di angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati o elettrodomestici abbandonati, sommersi da una proliferante vegetazione, sembrano la perfetta rappresentazione della fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoermer, sarebbero la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.
Un altro modo di interpretare le opere di Caredda è, però, quello di considerarle come la raffigurazione dello stato di degrado delle moderne periferie urbane, che nella loro atmosfera di malinconico abbandono prefigurano la futura morfologia di un mondo post-apocalittico. È il caso di Everyone at Rolling Loud (si può vedere qui: OpenSea), in cui l’artista rappresenta ciò che resta alla fine di un rito collettivo come il Rollling Loud – il più importante festival di musica Rap e Trap -, quando, finita la musica, echi e vibrazioni sonore riverberano ancora nell’atmosfera satura di un luogo desolato e fatiscente, divenuto stranamente intimo e familiare.
Everyone at Rolling Loud, 2021, acrilico su tela, 120×100 cm
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.