Archivio | settembre, 2021

Massimiliano Zaffino. Eventi profondi in superficie.

27 Set

di Ivan Quaroni

Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago, 2020, olio su tela, 125×100 cm.

Commentando il Salon parigino del 1859, Charles Baudelaire affermava che «L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile è una provincia del vero»[1].  Più precisamente, secondo il poeta e critico francese, l’immaginazione «scompone tutta la creazione, e, con i materiali raccolti e disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea un mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo»[2]. In altre parole, essa sarebbe un procedimento insieme analitico e sintetico la cui descrizione coincide sorprendentemente con la metodologia della pratica pittorica, la quale ci restituisce un’immagine trasformata del mondo.

Nel caso della pittura di Massimiliano Zaffino, gli elementi analitici e sintetici della facoltà immaginativa sono all’opera già nella fase progettuale, dove l’appropriazione di differenti fonti fotografiche è sottoposta al vaglio di una lucida prassi combinatoria che mira a ridurne al minimo lo scarto estetico e formale degli accostamenti.

Alla base del suo lavoro c’è il rapporto tra la fotografia e il dipinto, tra la tecnica del fotomontaggio e la pratica pittorica. Le opere di Zaffino nascono, infatti, dall’esplorazione delle potenzialità delle immagini nel fotomontaggio. All’origine, il suo progetto iconografico è ricavato da una crasi di fotografie diverse che, in un secondo momento, la pittura convalida nella forma di immagini uniformemente coerenti. Lui stesso afferma in una recente intervista di aver archiviato un buon quantitativo d’immagini: «mi ri-approprio della realtà altrui (le foto possono essere anche miei scatti) combinando più immagini; il paesaggio che ne risulta modifica la funzione scenica e il valore dello stesso»[3]. Dunque, ciò che al principio è il prodotto di una fusione di punti di vista, prospettive e geografie differenti – vale a dire l’esecuzione di collage come forme progettuali o come opere compiute – raggiunge, con la pittura, una dimensione di ulteriore credibilità proprio in virtù dell’amalgama atmosferico tra i differenti elementi che compongono l’immagine. 

Fiammata insolita non disturba il piacere di una giornata al mare, 2020, olio su tela, 105×120 cm.

Tuttavia, l’attenuazione delle zone di giunzione o di attrito tra i frammenti iconografici non annulla l’effetto collage della sua pittura, ma rende le sue rappresentazioni surreali decisamente più intellegibili. Si tratti di dipinti o di collage, al centro della ricerca visiva di Massimiliano Zaffino c’è sempre il paesaggio. Il paesaggio inteso come possibilità costruttiva, non come documentazione di luoghi reali. 

Pur adottando un linguaggio pittorico apparentemente realistico, l’artista scarta con decisione ogni opzione mimetica per concentrarsi sulla definizione di mondi plausibili. I suoi sono, infatti, luoghi immaginari, ma esplorabili e percorribili con lo sguardo proprio in ragione della loro plausibilità. Non sono geografie totalmente assurde, ma spazi che aprono a una più profonda comprensione delle forme visibili attraverso una fitta rete di corrispondenze tra morfologie differenti.

Quel che in queste immagini appare “fuori posto” – per usare la definizione del termine weird usata da Mark Fisher[4] -, è qui ricondotto alla naturalità dal processo pittorico stesso. Non mi riferisco soltanto alle curiose morfologie che compaiono in molti suoi landscape, come, ad esempio, Tratti irregolari di paesaggio salgono e si uniscono, lontano una strada d’asfalto (2019), Parco costituito da zone alberate, attrezzatura giochi e arco a levitazione laser (2019), Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago (2020) o Forme geometriche rivelano paesaggi a incastro (2018), che sono evidentemente il risultato della combinatoria di luoghi diversi. Alludo, soprattutto, ai magmatici fluidi che attraversano le opere più recenti, da Azione di contenimento di lama fuoco e pratica chiarificazione prerogativa di un mondo dissonante (2021) a Forme di magnetismo cosmico attraversano parco alberato (2021), e alle anomalie atmosferiche che caratterizzano lavori come Meccanismo simultaneo di oggetti luminescenti precipitano da est a ovest (2021), Fiammata insolita non disturba il procedere di una giornata al mare (2020) e, infine, Intrattenimento campestre fatto di ricordi con il ponte luminoso spaziale (2020). 

Nei paesaggi feriali di Zaffino, dove l’umanità è impegnata in attività di svago e di relax, l’irrompere di inaspettati effetti climatici e atmosferici – eruzioni vulcaniche, distorsioni magnetiche, bizzarri fenomeni di rifrazione della luce, vortici fluidi e prodigiose levitazioni – non ha nulla di apocalittico. La destabilizzazione della realtà sembra, infatti, abituale, quasi consuetudinaria. Caos e disequilibrio fanno parte della quotidianità, sono, cioè, fenomeni naturali come gli Iperoggetti teorizzati dal filosofo ecologista Timothy Morton: cose viscose, di singolare grandezza, che esistono su scale temporali che l’uomo non può comprendere, ma di cui subisce comunque gli effetti. Oggetti, insomma, come il riscaldamento globale o le scorie nucleari, il petrolio o la biosfera, le radiazioni solari o i buchi neri, i quali inaugurano una sorta di nuova dimensione masochistica dell’esperienza estetica. 

«Svegliarsi all’ombra degli iperoggetti», scrive Morton, «è come trovarsi in un film di David Lynch in cui diventa sempre più difficile distinguere il sonno dalla veglia»[5]. Qualcosa di simile avviene nella pittura di Zaffino, dove si avverte l’erompere di un’alterità irriducibile, di una esternalità, cioè di qualcosa che proviene da una dimensione altra, estranea, di cui quei bizzarri fenomeni fisici e climatici sono prefigurazione e annuncio. 

Secondo Morton, «l’arte e l’architettura nell’epoca degli iperoggetti devono (automaticamente) includere nel loro regno gli iperoggetti, anche quando questi si dimostrano recalcitranti»[6]. Perciò, il quieto stravolgimento della realtà nella pittura di Zaffino, conseguenza diretta di un’indagine estetica e formale sulle potenzialità combinatorie del collage fotografico, può anche essere interpretato come la visione premonitoria di un futuro più che prossimo in cui ci sembrerà normale ciò che oggi ci appare straordinario.

Questa capacità fittizia di dare corpo con la pittura a una realtà potenziale, ossia la «simulazione trionfante che progettava Baudelaire» [7], è in fin dei conti il nocciolo della questione. L’arte, ammette Baudrillard, «è sempre stata simulacro, ma un simulacro che aveva la potenza dell’illusione»[8]

Massimiliano Zaffino riesce a trasformare la potenza illusoria, che sta alle radici della mimesis pittorica, in qualcosa di sottilmente destabilizzante. I suoi landscape portano il concetto di perturbante nella sfera dell’ordinario e del plausibile e, così, amplificano la nostra percezione e orientano il nostro sguardo verso la comprensione di possibilità inedite. Alcune di queste possibilità hanno l’aspetto di morfologie fantastiche, luoghi che vorremmo aver visitato, altre prefigurano, forse inavvertitamente, la fine di un’era e l’inizio di una serie di accelerazioni catastrofiche. 


[1] Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1992, p. 223.

[2] Ivi, p. 224.

[3] Francesco Mancini, Gli incredibili specchi d’acqua di Massimiliano Zaffino, http://www.artwave.it, 2 marzo 2020.

[4] «È l’irruzione in questo mondo di qualcosa che proviene dall’esterno a fare da marcatore del weird», in Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018, p. 23.

[5] Timothy Morton, Iperoggetti, Nero edizioni, Roma, 2018, p. 197.

[6] Ivi, p. 143.

[7] Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, Abscondita, Milano, 2012, p. 29.

[8] Ibidem.



INFO:

Massimiliano Zaffino. Eventi profondi in superficie

a cura di Ivan Quaroni

Dal 25 settembre al 9 novembre 2021

Area\B, Via Passo Vuole 3, Milano

T. 02 58316316, 3346847606

Manuel Felisi. …e respirare

23 Set

di Ivan Quaroni

La pittura è il fuoco centrale della pratica di Manuel Felisi, la disciplina di costruzione delle immagini da cui in seguito si è sviluppata una ricerca plastica e oggettuale legata, come sappiamo, alla memoria, luogo di convergenza dei processi di conservazione e cancellazione dei ricordi. Infatti, ben prima delle installazioni in cui l’acqua, sotto forma di pioggia o di ghiaccio, assume il ruolo di ricettore mnestico e di sismografo organico di ogni accadimento, la pittura ha fornito all’artista l’opportunità di maturare un proprio linguaggio lirico. 

Tuttavia, parlare di pittura, nel caso di Felisi, significa indicare una somma di procedure ibride e di tecniche spurie che includono, accanto all’atto gestuale del dipingere, l’uso di strumenti reiterativi per produrre pattern ornamentali (come i vecchi rulli per la decorazione d’interni), la scelta di supporti e materiali di origine industriale (come la resina o il feltro) e la stampa d’immagini fotografiche digitalizzate che si imprimono, come sigilli definitivi, sulla massa stratificata dei depositi pigmentali. Il risultato finale è un quadro, e più spesso un polittico, costruito, come i file digitali, per sovrapposizione di più livelli pittorici, ognuno dei quali è l’inconcluso e indefinitivo tassello di un percorso progettuale che si palesa solo alla fine della lavorazione dell’opera. Ciò significa che la pittura di Felisi è anche una forma di design, cioè di progettazione dell’immagine, che non esclude, però, la possibilità di deviare dall’intento originario e di includere la componente erratica della pittura tradizionale. Vale a dire che, in questa versione attualizzata della pittura, in parte figlia della rivoluzione digitale, la componente gestuale, lirica e profondamente umana del dipingere sopravvive nella massa cromatica indifferenziata che costituisce la base su cui si staglia prepotentemente l‘immagine fotografica, quasi scheletrizzata nella forma essenziale della silhouette. 

Sintetizzando, forse un po’ brutalmente, il pensiero di Arthur Schopenhauer, Franco “Bifo” Berardi ha scritto che “il mondo è rappresentazione, in quanto è proiezione di una volontà di rappresentare”[1], e che, in definitiva – sulla scorta di Edmund Husserl, padre della Fenomenologia – “possiamo dire che il mondo è la proiezione di un’intenzionalità che è al tempo stesso trasformazione e rappresentazione”[2]. Ora, che cosa rappresenta (e trasforma) la pittura di Manuel Felisi? 

L’immagine più frequente è la forma arborea, reiterata in una serie di dipinti curiosamente intitolati “Vertigini”. Un albero è un simbolo potente, che dischiude una pletora di significati. Lo ritroviamo, ça va sans dire, in tutte le tradizioni millenarie dei popoli della terra. Ha suggestionato, nei secoli, mistici e sciamani, filosofi, e alchimisti nelle più diverse varianti semantiche, dall’Albero Cosmico all’Asse del Mondo, dall’Albero Rovesciato a quello della Vita, dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male a quello Alchemico, dall’Albero Mistico a quello, più laico, della Libertà. In tutte le sue accezioni l’albero è un pittogramma che allude alla vita (fisica, morale, spirituale) e, dunque, per estensione, alla natura stessa. 

Nei quadri di Felisi, nulla ci vieta di interpretare questa iconografia in tal senso. Ogni immagine è un dispositivo per pensare, che dischiude in ognuno di noi significati che non possono prescindere dal nostro vissuto e dalla nostra esperienza. Personalmente, preferisco non ricorrere alla simbologia e provare a dare una lettura diversa degli alberi di Felisi. Prima di tutto, perché non sono iconografie frontali come nei suoi primi dipinti, ma scorci vertiginosi di rami e fusti. Si chiamano “Vertigini” perché riproducono quel tipico effetto di distorsione rotatoria della percezione visiva che si può avere osservando da sdraiati la fuga prospettica degli alberi. Non è la vertigine che provoca il timore panico di chi guardi verso il basso dal parapetto di un grattacielo o dal bordo di un dirupo. Tecnicamente, è una vertigine anche quella descritta dai dipinti di Felisi, anche se la prospettiva conica, convergente verso il centro perfetto dell’immagine, produce, piuttosto, una sensazione di un moto ascensionale. 

Sarà capitato a tutti, credo, di distendersi su un prato e rivolgere gli occhi al cielo per guardare il firmamento in una notte stellata o per osservare la curiosa forma delle nuvole o per lasciarsi irretire dalla trama capillare delle piante, magari immaginando di riconoscere i lineamenti di un volto o la forma di un oggetto. La chiamano paraeidolia, questa tendenza inconscia e automatica a trovare strutture ordinate e riconoscibili in forme apparentemente caotiche. Ma non è questo il punto. Il punto, semmai, è capire perché l’artista abbia scelto proprio questo scorcio, questo modo di vedere dal basso verso l’alto. Un modo che, se ci pensate, è il contrario della vertigine generata dall’altitudine, ma è anche, in senso lato, opposto rispetto a un certo modo altero di guardare la vita, le situazioni, le persone (cioè, dall’alto in basso, con sussiego, boria, sufficienza). Guardare dal basso in alto, significa relativizzarsi, ricondursi alla giusta misura e, insieme, accorgersi della vastità che ci circonda, della plenitudine che ci comprende. Insomma, quel che si prova nelle “Vertigini” è una sorta di rovesciamento del sublime kantiano, categoria estetica simbolizzata dal celebre dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (1818), con cui solitamente si spiega, forse un po’ didascalicamente, il contrasto tra l’individuo e le imponenti forze della natura e la conseguente scoperta della superiore dimensione morale dell’uomo. Ecco, in tal senso, queste immagini potrebbero essere considerate come un antidoto alla vecchia etica illuminista, con la sua esasperata visione antropocentrica del cosmo. Qui, infatti, non troviamo l’immagine di un uomo sulla vetta di un’altura, intento a contemplare (e dominare!) lo spettacolo della natura, ma un punto di vista zenitale, che inquadra, perpendicolarmente, la porzione di universo sovrastante. È una differenza che produce un significativo slittamento di senso, uno scarto ontologico che piacerebbe ai seguaci della OOO (Object-Oriented Ontology), “un movimento filosofico che”, come afferma Timothy Morton, “sposa una particolare forma di realismo e assieme a questo un pensiero non antropocentrico”[3] che affonda le radici nella certezza della futura estinzione dell’uomo e che, di conseguenza, si propone di indagare le relazioni tra tutti gli oggetti, siano essi naturali, artificiali, umani o non-umani. 

Accanto a questa lettura delle “Vertigini” vorrei suggerirne un’altra, forse meno peregrina della precedente, ma nondimeno suggestiva. L’atto preliminare che ci porta a adottare lo sguardo zenitale delle “Vertigini” è radicale, rivoluzionario come la pratica del vagabondaggio o le tecniche comportamentali del Situazionismo. Si può considerare un gesto politico, di critica alla società. Sdraiarsi su un prato a guardare le cime degli alberi è come girovagare per la città senza una meta precisa. È una “situazione” che fuoriesce dallo schema vizioso del capitalismo avanzato, oscillante tra produzione e consumo, esattamente come il concetto di deriva situazionista, che si presentava come una tecnica di veloce passaggio attraverso gli ambienti urbani. “Nostra idea centrale”, scriveva Guy Debord, teorico dell’Internazionale Situazionista, “è quella della costruzione di situazioni: vale a dire la costruzione concreta di scenari momentanei di vita e la loro trasformazione in una qualità passionale superiore”[4].  Esattamente come l’azione deliberata e gratuita cui ci rimandano le “Vertigini” di Manuel Felisi, le quali, peraltro, dimostrano che l’arte è un potentissimo strumento di emancipazione personale. Se io avessi in casa uno dei suoi quadri lo considererei non solo un dispositivo per la contemplazione, ma un promemoria per l’azione. Mi ricorderei, per esempio, come fosse una norma d’igiene spirituale, di trovare il modo di sottrarmi di tanto in tanto al mondo, di fare una passeggiata solitaria nella natura, distendermi su un prato, osservare l’ipnotico ordito dei rami … e respirare.


[1] Franco “Bifo” Berardi, Futurabilità, 2019, Nero edizioni, Roma, p. 87.

[2] Ibidem.

[3] Timothy Morton, Iperoggetti, 2018, Nero edizioni, Roma, p. 12.

[4] Guy Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni, citato in Edmund Berger, Accelerazione. Correnti utopiche da Dada alla CCRU, 2021, Nero edizioni, Roma, p. 36. 


INFO:

Manuel Felisi. … e respirare

a cura di Ivan Quaroni

Fabbrica Eos Gallery, viale Pasubio, angolo via Bonnet 
Milano – Tel. 02 6596532

Giovedi 23 settembre – Sabato 23 ottobre 2021