Archivio | marzo, 2014

Marco Fantini. Per una pittura dubitativa (2007)

31 Mar

Di Ivan Quaroni

 

 

“Lavoro, e il risultato di quello che faccio
può anche piacermi, ma non tento di interpretarlo.
Dopotutto, non tento affatto di dire qualcosa,
tento piuttosto di fare qualcosa”.
(Francis Bacon)[1]
 
 

018- sad vehicle2008.160x180cm,  mixed media on canvas

In Media stat virtus?

Quello che la maggior parte degli artisti contemporanei affascinati dai nuovi media fanno è, nel migliore dei casi, trascinare la pittura fuori dai limiti che per secoli l’hanno serrata in una maglia circoscritta e allo stesso tempo potenzialmente sconfinata. Da Richter in poi, lo spazio pittorico è stato colonizzato prima dalla fotografia poi da immagini di derivazione digitale, magari passate al vaglio dei programmi informatici di fotoritocco. Taluni preferiscono ancora oggi, dopo Vermeer e Canaletto, proiettare sull’abisso bianco della tela le immagini che successivamente elaboreranno pittoricamente, alterandole fino a nascondere quel “peccato originale”, quella tremenda macchia, con cui saranno costretti a fare i conti per il resto dei loro giorni. Diranno – e in alcuni casi è vero – che la pittura ha abbandonato l’arena della pura maestria tecnica, del tanto bistrattato virtuosismo, per occupare lo spazio virtuale di una progettualità nuova, per adattarsi all’Era della riproducibilità delle immagini, utilizzando quelle stesse macchine che, fino a qualche tempo prima, minacciavano di seppellire definitivamente una pratica considerata da molti ormai obsoleta.

027-afraid. 2006 , mixed media on canvas 80x100cm

Diranno che in un’Era caratterizzata dall’iper-stimolazione visiva, alla pittura non resta che trasformarsi o perire. Si vedono oggi, soprattutto in Italia, schiere di artisti rubare fotogrammi di film famosi (Kubrick sembra essere il più saccheggiato), attingere all’immenso campionario iconografico delle riviste di moda, ricavare soggetti da un fermo-immagine televisivo o persino dalle schermate di un videogame. Mai, quanto oggi, la pittura è stata tanto influenzata dai media, non solo da un punto di vista iconografico, ma persino procedurale. Il problema di questa tipologia di artisti  è quello di recuperare dal profluvio d’immagini che ci circonda, quelle che più significativamente sono in grado di testimoniare le vicissitudini di questo nostro Tempo infausto. E così, finiscono per evitare il problema della tela bianca, ricorrendo, per dribblare il terrore dell’incipit, ad un’iconografia pret-a-porter di facile reperibilità.

023-chairman 2006,  mixed media on paper 100x140cm

Il corpo a corpo della pittura

Altri, né migliori né peggiori di loro, preferiscono, a rischio di sembrare demodé, non spostare i termini del problema pittorico, che, in ultimo, è sempre quello di popolare ex-nihilo lo spazio vertiginoso di una superficie bianca, di trasmutare, quasi alchemicamente, le istanze visive dell’immaginario umano, di restituire all’occhio dell’osservatore i dubbi e le incertezze che si annidano, come tormentati spettri, negli spazi angusti della psiche. Tra questi vi è senza dubbio Marco Fantini, capace di evocare nei claustrofobici confini delle sue stanze “sghembe”, visioni stranianti in cui figure reali e immaginarie si fondono sotto l’egida vigile di una creatività drammatica quanto surreale.

017.verbacrucis 2006 mixed media on canvas 130x150cm

Nelle opere di Fantini, dove inizialmente si mescolavano suggestioni della pittura di Rufino Tamayo e di Fortunato Depero, di Picasso e Sironi, ma anche di Bacon e di Licini, si avverte il senso della vertigine, il pericolo di un’indagine che prende forma lentamente, quasi con pigrizia, svolgendo la matassa di un linguaggio che è il risultato di progressivi accumuli e sottrazioni, di perfette intuizioni e fortunosi ripensamenti. Come in una sfida dall’esito incerto, Fantini conduce con la pittura un corpo a corpo fatto di improvvisi affondi e repentine ritirate, di finte e di colpi piazzati, di pause ed assalti dal ritmo altalenante. Quello dell’artista vicentino è un operare claudicante, oscillatorio, che procede tra dubbi ed esitazioni, sempre in bilico tra il rischio del fallimento e la sublime riuscita. Eppure, quella che ne sortisce è una grammatica viva, pulsante, che riesce nel difficile compito di articolare una pletora di variegati elementi visivi. Ad immagini chiaramente delineate, perfettamente riconoscibili, si alternano figure dai contorni fluidi, alla bizzarra precisione dei prismi geometrici – spesso cuciti sulla tela – fanno da contrappunto indecifrabili notazioni calligrafiche. Entro i confini di stanze dalla prospettiva mobile, somiglianti per molti versi ai palcoscenici dei teatrini per marionette, Fantini inscena il proprio racconto.

029-S,100x140cm,2007

Più simile a un rebus che ad una narrazione compiuta, il dramma immaginifico di Fantini si serve indifferentemente dei mostri partoriti da un inconscio febbrile, come di figure ricorrenti immediatamente riconoscibili. I suoi fortunati Mickey Mouse, ad esempio, altro non sono che pittogrammi reiterati, elementi di un alfabeto segnico che, pur con una certa malizia, l’artista dispone sulla tela in conseguenza di quella indagine, tutta formale, sulle proprietà del linguaggio pittorico. Come l’iconografia del Topolino disneyano non ha, almeno intenzionalmente, alcuna valenza di “ritorno all’infanzia” e nemmeno intende alludere ad una metaforica “morte dell’innocenza”, allo stesso modo il teschio, tradizionalmente legato ai temi della Vanitas, spogliato della sua drammaticità, finisce per trasformarsi in sberleffo sardonico o addirittura in una paradossale affermazione del valore intrinseco della pittura. Mickey Mouse e il teschio diventano allora significanti vacui, conduttori cavi di un segno pittorico che si dibatte tra lo sfumato e la messa a fuoco, in un’alchemica congiunzione degli opposti. “ A me interessa dipingere con la maggior chiarezza possibile le immagini che sorgono dall’inconscio e dalla fantasia – afferma Fantini – e sfocare piuttosto emblemi troppo riconoscibili come il Topolino e il teschio”. Ed è questo un atteggiamento scopertamente inquieto, in cui si rivela la fondamentale dicotomia esistenziale dell’artista, sempre sospettoso dinnanzi all’evidenza del reale, a ciò che è comunemente accettato per vero.

14-IMG_6956

Il vero e il falso

Topolino è un topos, ovvero un luogo comune del nostro immaginario, così come lo è il teschio, ecco perché Fantini preferisce sfumarne i contorni, annacquarli con una “pittura dubitativa”, fluida e mobile come l’incertezza. Indubitabili sono, invece, i mostri dell’inconscio, i vampiri della psiche che, soprattutto nei disegni, posseggono i tratti marcati e decisi del fumetto o dell’illustrazione, a metà strada tra le allucinazioni di Bacon e le follie lisergiche di Robert Crumb. Il nutrito campionario di personaggi psicotici che popolano le carte di Fantini (Verba Crucis, 2004), da Seimenomeno a Tennis was my favorite, da Crisi d’identità a Nix, fino a Ipersensibile e Sad Vehicle, assumono una più pastosa consistenza nelle tele. Qui, nell’infernale palcoscenico delle sue stanze, dove si aprono ulteriori squarci, quadri nel quadro come in un gioco labirintico di specchi, questi succubi “simpatici” si offrono allo sguardo benevolo dell’artista, tanto condiscendente verso la manifestazione delle nevrosi altrui, quanto severo nei confronti del filisteo “senso comune”.

024-deus ex machina - 2008. mixed media on canvas 160x200cm

All’origine di tale pietas, che a mio avviso è il tratto saliente della pittura come della personalità di Marco Fantini, c’è una fondamentale insofferenza verso il gioco sociale dei ruoli, verso la sicumera di talune esistenze, mai sfiorate dal dubbio eppure così strettamente imbrigliate in una fitta trama di menzogne. Ecco perché la sua pittura predilige la rappresentazione di personaggi intrinsecamente, addirittura fisicamente, contraddittori, di ossimori visivi spesso accompagnati da un perentorio punto di domanda, di automi meccanici vittime di edipici imprimatur. In tutta la pittura di Fantini abbondano i topoj psicanalitici, luoghi comuni di un vocabolario clinico ai quali, ancora una volta, è dato il beneficio del dubbio. Ma quando il dubbio è salvifico, la sola speranza di guarigione è quella di una lenta e paziente AUTO medicazione (2005). E tuttavia, sotto bende e cerotti, elementi ricorrenti nella produzione pittorica, ma anche plastica dell’artista – si vedano i nuovi teschi bronzei fusi a cera persa – le ferite e le cicatrici perdurano, come segni che nessuna terapia potrà cancellare.

 

04-IMG_7003

 

[1] David Sylvester – Francis Bacon, il maestro del dolore, in BACON, I Classici dell’Arte – Il Novecento, Rizzoli / Skira, 2004, Milano.

Massimo Dalla Pola. Paesaggio italiano

10 Mar

di Ivan Quaroni

La storia non è che un quadro di delitti e sventure.

(Voltaire, L’ingenuo, 1767)

Massimo-Dalla-Pola,-22.07.1970-(Gioia-Tauro),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Massimo-Dalla-Pola,-22.07.1970-(Gioia-Tauro),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Il lavoro di Massimo Dalla Pola discende da quella linea chiara dell’arte italiana, capace di coniugare la sintesi con il rigore e l’esattezza ottica. Se dovessimo fare un’esegesi delle fonti, come in un gioco di citazioni e sottili rimandi, dovremmo cominciare dalle ricerche che hanno contraddistinto larga parte dell’astrazione analitica, oppure potremmo, senza scomodarci troppo, trovare delle parentele con le espressioni più contigue al disegno industriale e all’architettura. Eppure, Massimo Dalla Pola non è un artista astratto, aniconico. Egli pone l’oggetto, sia esso paesaggio, architettura o utensile, al centro della rappresentazione, con un’intensità che appare, però, priva di coinvolgimento. La matrice o, se vogliamo, il filo conduttore della sua esperienza artistica, consiste, infatti, nel privilegiare l’approccio razionale, oggettivo, rispetto a quello lirico, quasi egli volesse sgombrare il campo da ogni sorta di sentimentalismo o di arbitrarietà legata alla lettura delle immagini.

Massimo-Dalla-Pola,-12.12.1969-(Piazza-Fontana),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Massimo-Dalla-Pola,-12.12.1969-(Piazza-Fontana),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Le sue opere sono inequivocabili, iconograficamente esatte, per effetto di una sintesi formale che, davvero, appare prossima alla tautologia del marchio e del logotipo. Si legge, in quest’attitudine, la volontà di raggiungere la massima efficacia comunicativa possibile, scartando le soluzioni più esornative. Figlio illegittimo di Mies Van Der Rohe, che appunto giudicava la decorazione “una sozzura”, Dalla Pola adotta questa visione purista per non essere frainteso. Ma l’esattezza e il rigore, nel suo caso, sono posti al servizio di un’indagine che riguarda l’uomo. O meglio, il suo rapporto con la realtà circostante, nelle fattispecie del paesaggio, dell’architettura, dell’urbanistica e, in generale, di tutte quelle espressioni che denunciano la progressiva, forse irreversibile, antropizzazione dell’universo.

Massimo-Dalla-Pola,-Prawler,-2013,-acrilico-su-tela,-õ-20-cm

Massimo-Dalla-Pola,-Prawler,-2013,-acrilico-su-tela,-õ-20-cm

Il rapporto con l’Arte e con la Storia, ma anche con la società (e dunque con la cronaca), è spogliato di ogni contenuto emotivo, affinché possa occupare il proprio posto negli annali del Tempo ed essere rubricato tra gli eventi inamovibili, incancellabili. È quanto accade in questa nuova serie di lavori, dedicata ai fatti più drammatici della storia italiana. Una storia che si tinge di nero, come la cronaca di cui fa parte, e che annovera gli episodi più terribili, dalla tragedia del Vajont (1963) alla strage di Piazza Fontana (1969), dall’enigma di Ustica (1980) all’attentato di Via D’Amelio ai danni di Paolo Borsellino (1992), fino alla bomba della stazione ferroviaria di Bologna (1980) e alla mattanza sull’autostrada A29, in prossimità di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone e gli uomini della sua scorta (1992). E poi, ancora, le esplosioni di Via Palestro a Milano (1993) e di Via Dei Georgofili a Firenze (1993), il grave “incidente” aereo sulla funivia del Cermis (1998), il disastro di Gioia Tauro, provocato dal deragliamento del direttissimo Palermo-Torino (1970), l’eccidio dei lavoratori a Portella della Ginestra, sulla Piana degli Albanesi, per opera di Salvatore Giuliano (1947). Tutto il peggio dell’Italia del secondo dopoguerra. Una teoria di casi solo in parte risolti, che evidenziano le contraddizioni, le debolezze e le colpevoli connivenze e complicità di un paese che ha fatto del mistero e dell’irresolutezza i suoi segni distintivi.

Massimo-Dalla-Pola,-04.08.1974-(Italicus),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Massimo-Dalla-Pola,-04.08.1974-(Italicus),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Ecco, quell’oggettività e quella apparente “freddezza” espressiva, cui ricorre Massimo Dalla Pola, servono qui a estrapolare gli eventi dal flusso magmatico del tempo, a estirparli da quella dannata successione di fatti che chiamiamo “Storia”. Forse perché, come spiegava Hegel, “Ciò che l’esperienza e la storia insegnano è questo: che uomini e governi non hanno mai imparato nulla dalla storia, né mai agito in base a principi da essa edotti” (Lezioni sulla Filosofia della Storia, 1837).

Massimo-Dalla-Pola,-Locomotiva,-2013,-acrilico-su-tela,-õ-20-cm

Massimo-Dalla-Pola,-Locomotiva,-2013,-acrilico-su-tela,-õ-20-cm

Distillare i momenti più oscuri, gli episodi più crudi e feroci di questo tempo devastato (e vile), significa per Dalla Pola erigere una teoria di monumenti sempiterni. Depurarli da tutto quel condensato, controverso, ribollente flusso di emozioni dolorose, che essi inevitabilmente suscitano, significa ordinare una sequenza iconografica che ha il valore di un promemoria, un memorandum limpido, rischiarato dalla tersa luce della ragione e, tuttavia, avvolto in un’aura di silente, imponderabile sacralità. I suoi lavori, infatti, desumono dalle icone bizantine l’atemporalità dell’oro, simbolo di purezza e perfezione. L’oro diventa, così, lo sfondo, incorrotto e incorruttibile, che inquadra i soggetti in una dimensione ieratica. E i soggetti sono luoghi, circostanze, cose. Talvolta sono i teatri del dramma, talaltra gli strumenti della violenza, quasi sempre i feticci di una narrazione inconclusa, i simboli di una vicenda paradigmatica, come quelli che si allignano negli ex voto, in segno di grazia ricevuta. Qui, invece, la grazia è di là da venire, il perdono, una chimera impossibile.

Massimo-Dalla-Pola,-03.02.1998-(Cermis),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Massimo-Dalla-Pola,-03.02.1998-(Cermis),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Massimo Dalla Pola raccoglie immagini come testimonianze. Le ordina con un’acribia da archivista votato alla classificazione e le dispone sul fondo aureo con accuratezza da tassidermista, quasi a comporre una collezione. Come ogni collezionista, sa che la sua è un’opera potenzialmente infinita, che può allargarsi fino a comprendere altri periodi, altre geografie. E tuttavia, almeno per il momento, l’artista circoscrive la sua indagine, disegnando un paesaggio italiano che ben conosciamo, ma che frequentemente dimentichiamo.

Le sue immagini, rastremate fino all’osso, sono nere come l’ombra che quei fatti proiettano nella coscienza collettiva. Nere come il mistero più fitto, come quel sonno della ragione da cui sono generate. Sono immagini aggettanti, che quasi si spingono oltre, e fuori, la dimensione cristallina del fondo, richiedendo all’osservatore un’attenzione esclusiva.

Massimo-Dalla-Pola,-27.12.1985-(Fiumicino),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Massimo-Dalla-Pola,-27.12.1985-(Fiumicino),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Dentro ogni tela convivono due forze opposte, respingenti: l’una è quella apollinea e auratica del sempiterno, l’altra è quella linfatica e tumorale della storia. Dalla Pola mette queste forze in equilibrio, ne calibra le polarità per raggiungere una stasi che la natura normalmente non consente. E, in tal senso, il suo lavoro rivela una sorprendente carica utopica. È idealista, infatti, la pretesa di sottrarre i fatti all’incessante corso della narrazione storica, smarcarne i contorni perché diventino forme e concetti statici e quindi, finalmente, osservabili. Ma, d’altra parte, fissare il momento, prolungarlo oltre l’orizzonte degli eventi, a beneficio dei posteri, non è forse una delle funzioni più nobili dell’arte?

Massimo-Dalla-Pola,-Mosbach-Gruber,-2013,-acrilico-su-carta,-13x18cm

Massimo-Dalla-Pola,-Mosbach-Gruber,-2013,-acrilico-su-carta,-13x18cm

 
Massimo Dalla Pola | Paesaggio italiano
a cura di Ivan Quaroni
Inaugurazione martedì 11 marzo 2014, dalle 18.30
In mostra dall’11 al 31 marzo 2014
Catalogo testo critico di Ivan Quaroni; intervista di Flavio Arensi
Orari da lunedì a venerdì dalle 15 alle 19, o su appuntamento
Informazioni:
info@circoloquadro.com, Tel. 348 5340662 – 339 3521391
 
Massimo-Dalla-Pola,-19.07.1992-(Via-d'Amelio),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm

Massimo-Dalla-Pola,-19.07.1992-(Via-d’Amelio),-2013,-acrilico-su-tela,-40x80cm