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La famosa invasione degli artisti a Milano

21 Mag

La città dei miracoli

(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.

Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm

Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.

Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106x150 cm

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm

Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.

Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.

Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100x90 cm

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm

Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.

Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.

Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.

Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.

A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.

In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.

Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.


[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.

[2] Ivi, p. 109.


INFO:

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Elogio della Levità

28 Feb

Ivan Quaroni

Se l’eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo

sfondo, possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza.”

(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

2-Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24x30 cm., 2011

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24×30 cm., 2011

Una mostra sulla levità, in un momento come questo, può sembrare una scelta paradossale, quasi inopportuna. Eppure bisogna intendersi sul significato di questa parola. La levità non è necessariamente un sinonimo di “inconsistenza” o, peggio, di “superficialità”. Cicerone sosteneva che “la leggerezza è propria dell’età che sorge, la saggezza dell’età che tramonta”, ma io non concordo con il sommo retore latino. È piuttosto vero che la levità, come atteggiamento, attitudine e qualità, è una scelta propria dell’età matura. Una scelta creativa, che non si limita a costatare lo stato delle cose, ma si propone anzi di scoprire la bellezza nella complessità. Luigi Pirandello scriveva nel 1926 che “fare i cinici è pure un modo di dare leggerezza alla vita quando comincia a pesare”. E proprio dalla percezione della gravitas esistenziale e, dunque, delle difficoltà dell’esperienza umana, sorge la necessità di pervenire a uno stato di levità, che consenta, come dice Giovanni Soriano, di “attraversare il mondo in consapevole leggerezza”.

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Vanni Cuoghi, Nuove isole, acrilico e olio su tela, 45×45 cm, 2014

Italo Calvino ha trattato l’argomento nella prima delle sue Lezioni Americane, interrogandosi sul valore della levità nell’arte non all’inizio della sua carriera ma, appunto, nella sua piena maturità di scrittore: “Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto, ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.[1]

3-Kazumasa Mizokami, Senza muro, terracotta dipinta con polietilene, 32x32x115 cm., 2013-2006

Kazumasa Mizokami, Senza muro, terracotta dipinta con polietilene, 32x32x115 cm., 2013-2006

Un’analoga operazione di “alleggerimento”, che inevitabilmente passa attraverso una ristrutturazione del linguaggio e del racconto (sempre che si possa parlare di “racconto” in arte) caratterizza la ricerca di cinque artisti, che hanno fatto della levità la propria sigla espressiva. Vanni Cuoghi, Enzo Forese, Riccardo Gusmaroli, Mimmo Iacopino e Kazumasa Mizokami muovono dalla lezione di Calvino per elaborare tecniche, stili e codici linguistici diversi, in cui l’approccio ironico e giocoso convive con lo slancio lirico e perfino introspettivo. Mentre nelle opere di Riccardo Gusmaroli e Mimmo Iacopino l’attitudine ironica si salda alla ricerca espressiva sui materiali, dalla carta alla fotografia, fino all’object trouvé, in quelle di Kazumasa Mizokami prevale un approccio lirico, intimistico, che va di pari passo con la straordinaria capacità di alleggerire la terracotta con una pittura felice, ispirata ai colori delle forme naturali. Sono, invece, pittori, ma con una vocazione a sconfinare nel collage e nel paper cutting, Enzo Forese e Vanni Cuoghi, i quali, rispettivamente, trasferiscono la levità anche nella dimensione descrittiva e narrativa.

4-Riccardo Gusmaroli, Vortice rosso, 200x140,

Riccardo Gusmaroli, Vortice rosso, barche di carta e acrilico su tela, 200×140 cm., 2011.

Ironia, senso del ritmo, affabulazione, sperimentazione sono tutti elementi che accomunano questi artisti, capaci di irretire lo sguardo dello spettatore in una fitta trama di visioni. Visioni che, a ben vedere, corrispondono a quel modello linguistico che Calvino intendeva come orizzonte operativo in cui coesistono leggerezza, velocità, esattezza, visibilità, molteplicità e consistenza. Diversi per stile, tecnica e grammatica, questi cinque artisti sono accomunati, però, da uno stretto controllo formale, da una pratica paziente e certosina, quasi miniaturistica, che non lascia spazio a improvvisi cedimenti e dove, piuttosto, l’emotività, trattenuta e imbrigliata in forme, figure e pattern rigorosi, affiora solo sotto forma di messaggio. La pittura è limpida, circoscritta in confini compatti, in campiture nette; la geometria testurale è precisa, la stilizzazione necessaria, mai accessoria. Tutte qualità che indicano una disciplinata economia di gesti e d’intenzioni.

3-Mimmo Iacopino, Misure morbide, strisce di raso, strisce di velluto e metri su tela, 100x120 cm., 2013

Mimmo Iacopino, Misure morbide, strisce di raso, strisce di velluto e metri su tela, 100×120 cm., 2013

Levità e ironia si esprimono, nell’opera di Riccardo Gusmaroli, tramite la capacità di trasformare la realtà ordinaria in un’esperienza straordinaria. È un modo di osservare il mondo, di ripensarlo, per aprire la mente a nuove possibilità cognitive e a nuove categorie interpretative. Come quando l’artista, per esempio, osservando la geografia terrestre, trasforma la cartografia in un diagramma fantastico, percorso da sinuose spirali di barchette di carta (evidente riferimento ai giochi infantili) o altera la morfologia di una regione costellandone la superficie con centinaia di origami stelliformi. Gusmaroli riesce, attraverso lievi scarti formali, piccoli e, apparentemente insignificanti, interventi, a mutare il senso ultimo delle immagini e degli oggetti, ricorrendo a un materiale semplice e fragile, come la carta.

1-Mimmo Iacopino, Misure a colori n-1. 3, frammenti di metri per sarti e strisce di velluto e raso su tela, 30x30 cm. 2014

Mimmo Iacopino, Misure a colori n-1. 3, frammenti di metri per sarti e strisce di velluto e raso su tela, 30×30 cm. 2014

Anche Mimmo Iacopino lavora sul significato degli oggetti, sostituendo la loro naturale destinazione d’uso con una più alta e nobile funzione estetica. La sua attenzione si fissa soprattutto sulle qualità specifiche di alcuni materiali, come strisce di velluto e raso, metri sartoriali, trecce di fili da cucire, che annoda e compone con un paziente lavoro di tessitura, impuntura e rammendo, fino a ottenere degli arazzi, dei paramenti (si direbbe) su cui la luce danza, modulando effetti cangianti e producendo mutevoli iridescenze. Se Iacopino fosse un pittore, sarebbe di quelli che amano la matematica e la geometria. Invece è, con buona pace di Marcel Duchamp, un’artista, insieme retinico e concettuale, che sa tradurre l’algida eleganza dei numeri, delle unità di misura, delle scale musicali in suadenti partiture di pattern e texture.

4-Kazumasa Mizokami, Calendario – Primo di Marzo” 2013 , 24x18x03cm Terracotta dipinta

Kazumasa Mizokami, Calendario – Primo di Marzo , terracotta dipinta, 24x18x03 cm, 2013

Nei lavori di Kazumasa Mizokami, il numero, la quantità, la moltiplicazione adottano forme geminanti e fiorescenti. Le sue sculture di terracotta sono come giardini fioriti di un calendario senza fine, dove le stagioni si alternano seguendo i bioritmi non della natura, ma dell’immaginazione. Anche in Kazumasa c’è un’evidente tendenza al pattern, alla reiterazione di forme, ma la sua è, come direbbe Gilles Deleuze, una ripetizione differente, non geometrica, ma, piuttosto, spontanea, intuitiva, che lo porta a creare un almanacco lirico, uno scadenziario fantastico, dove ogni fioritura stagionale corrisponde a uno stato d’animo. Accanto al tocco lieve, poetico, dei suoi giardini, Kazumasa alligna anche opere di filosofico spessore. Il pensiero, luogo topico della speculazione, ma anche dell’immaginazione, è ossessivamente incarnato in figure umane, placidamente sospese in un’assorta contemplazione.

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Vanni Cuoghi, L’ombra della sera, acrilico e olio su tela, 45×45 cm, 2014

Con gli occhi chiusi, quasi a escludere la visione delle brutture del mondo, per aprirsi, invece, all’osservazione dei fatti interiori, alle infinite metamorfosi immaginifiche della coscienza, i personaggi inventati da Vanni Cuoghi sono protagonisti di storie assurde e paradossali, dominate da un sottile senso di straniamento e da una sorta d’ilare crudeltà. Cuoghi valorizza le anomalie e le idiosincrasie dell’umanità, cercando spunti tra le pieghe del senso comune, interrogandosi sui significati del frasario quotidiano, che egli sovverte e capovolge allo scopo di produrre sorprendenti narrazioni oniriche. È un artista intelligente, un pittore accorto, capace di dare corpo alla dimensione surreale senza mai cedere il controllo alle potenze caotiche dell’inconscio, ma, anzi, imbrigliando le forme, con un’acribia tecnica che gli permette di creare metafore, insieme chiare e profonde, in cui l’imperitura eleganza delle antiche miniature si sposa con la squisita semplicità delle immagini pop.

4-Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24x30 cm-1-2011

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24×30 cm, 2011

Nelle opere di Enzo Forese la levità è raggiunta attraverso l’elaborazione della tradizione plurisecolare del paesaggio e della natura morta, cui l’artista si approccia con umiltà, ma anche con impeccabile intento semplificatorio. Compito che gli permette di sintetizzare il multiforme e variegato mondo naturale in piccoli dipinti che hanno l’eleganza e l’efficacia espressiva di un haiku giapponese. Forese dipinge paesaggi edenici, benedetti da una sempiterna primavera, luoghi interiori, di placido splendore, dove talvolta si attardano languide bagnanti, incarnazioni di una bellezza muliebre che mai sfiorisce nel tempio immacolato dei ricordi. Anche i vasi di fiori, modulati nelle mille sfumature che l’immaginazione sa concepire, diventano, così, gli archetipi di una bellezza imperitura, che Forese strappa alla brama vorace del tempo, pur nell’amara consapevolezza che si tratta di una finzione superflua e consolatoria.

3-Riccardo Gusmaroli, 1141, Lombardia piegata, 148x156 cm., 2010

Riccardo Gusmaroli, 1141, cartina della Lombardia piegata, 148×156 cm., 2010

Cuoghi, Forese, Gusmaroli, Iacopino e Kazumasa prolungano una stagione all’insegna della levità, inaugurata in Italia negli anni Novanta, prima con le esperienze concettuali di Stefano Arienti, Massimo Kaufmann, Marco Cingolani e Mario Della Vedova, i quali riscoprivano il valore dell’intelligenza e della speculazione nell’arte, e poi con le vicende di Portofranco, capitanate dal gallerista Franco Toselli, le quali riaffermavano il valore dello humor e della poesia, attraverso meccanismi di détournement e straniamento visivo. D’altra parte, il vero senso della pratica situazionista del détournement, fu proprio quello di allenare il soggetto ad aprire la propria mente verso nuovi, stranianti aspetti della realtà, favorendo inedite esperienze sensoriali ed estetiche. Una cosa che questi cinque artisti hanno dimostrato di saper fare.


[1] Italo Calvino, Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, 1988, Garzanti Libri, Milano, p. 5.

Enzo Forese e Mimmo Iacopino. Gulliver

20 Dic

 di Ivan Quaroni

Enzo Forese, Senza titolo, olio su carta intelata, 2010

Enzo Forese, Senza titolo, olio su carta intelata, 2010

La grandezza dell’arte non dipende dalle dimensioni dell’opera. La bontà non si misura in metri e centimetri, ma risponde a una scala di valori che non è ancora stata codificata e che forse non lo sarà mai. È qualcosa che ha a che fare con l’intensità e con un sistema di corrispondenze e vibrazioni, di variabili che cambiano da persona a persona. Qualcosa di simile alla meraviglia di Gulliver, che si risveglia prigioniero di una razza di uomini alti sei pollici, in un universo che gli si stringe attorno, obbligandolo ad acuire la vista e a sviluppare i sensi. Ecco, l’arte è una specie di sindrome di Lilliput, che richiede una più alta forma di concentrazione. Più grande e titanica è l’opera, minore è il nostro grado di attenzione. Le opere di piccole dimensioni, invece, ci obbligano ad avere una maggiore cautela, ci costringono a focalizzare lo sguardo, ma anche ad affinare il pensiero e a moltiplicare la nostra capacità di “ascolto”.

Mimmo Iacopino, Senza titolo, strisce di velluto e raso su tela, 2010.

Mimmo Iacopino, Senza titolo, strisce di velluto e raso su tela, 2010.

Qualche tempo fa, notavo che l’uomo contemporaneo sta assistendo ad un nuovo paradosso evolutivo. Mentre l’universo si espande in ogni direzione grazie alle nuove tecnologie e si amplia la geografia delle relazioni e dei rapporti, le dimensioni degli spazi domestici si riducono sempre più. Nelle grandi città aumenta il numero dei single e diminuisce quello dei nuclei familiari. Quelle che un tempo erano spaziose abitazioni, sono ora smembrate e suddivise in piccole unità abitative. Il mondo si espande e si contrae allo stesso tempo. Forse involontariamente, Enzo Forese e Mimmo Iacopino rispondono a questo mutato scenario evolutivo con una vocazione miniaturistica e calligrafica in netto contrasto con lo spettacolare gigantismo di tanta arte contemporanea. Paradossalmente, nelle loro opere il restringimento dimensionale corrisponde a un’estensione dello spazio cognitivo e percettivo. L’uno attraverso le forme del paesaggio e della natura morta, l’altro tramite una reinterpretazione dell’astrazione geometrica, costruiscono opere che intrappolano lo sguardo e lo conducono in universi emotivamente sconfinati.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su carta, 2008.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su carta, 2008.

Appassionato di poesia dell’antica Grecia e assiduo lettore dei frammenti lirici dell’Antologia Palatina, Enzo Forese ha sempre intrattenuto un rapporto intimo e accorato con la pittura. I suoi lavori, si tratti di dipinti oppure di collage, eseguiti su piccoli frammenti di carta, sono finestre che si affacciano su paesaggi fantastici, vedute di un Mediterraneo ideale, in cui si mescolano echi della pittura di Salvo e suggestioni matissiane.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 2010.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 2010.

Come un miniaturista, Forese riesce sempre a convogliare in pochi centimetri segni precisi e colori suadenti, capaci di sprigionare folgoranti visioni poetiche. Laureato in Storia della Filosofia e impregnato di cultura classica, l’artista milanese mescola, con grande libertà compositiva, il gusto metafisico per scenari silenziosi e capricci archeologici con lo slancio vitale ed espansivo dell’arte pop.  Libero dai vincoli della cultura accademica, egli riesce a mettere a punto un linguaggio personale, insieme malinconico e lieve, che nonostante l’ampio uso di riferimenti e citazioni lo colloca in quella tipologia di artisti refrattari a ogni definizione. Una schiera, questa, per la quale Henri Focillon si appellava ad una sorta di genealogia dell’unico.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su carta intelata, 2010.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su carta intelata, 2010.

Proprio la levità è un segno distintivo delle opere di Forese, nelle quali la semplicità formale è il prodotto di una saputa elaborazione della complessità. Le sue Primavere appaiono come luoghi di un’intimità inviolata, paesaggi dell’anima in cui germogliano, come affermava Baudelaire, “strani fiori dischiusi per noi sotto cieli più belli”. Sono scorci di Isole greche, che l’artista plasma a sua immagine, tracciandone una morfologia inedita, assai prossima all’ideale edenico.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tavola, 2010.

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tavola, 2010.

Anche le nature morte e i vasi di fiori, punti estremi di una tradizione figurativa che congiunge De Pisis a Salvo, nelle mani di Forese diventano soggetti vivi e vibranti, in cui il tema della Vanitas e della bellezza effimera e provvisoria, assumono una nuova grazia. La bellezza muliebre, altra metafora della Vanitas è, appunto, il perno intorno a cui l’artista dispone la muta poesia dei suoi paesaggi, la chiave di volta che trasforma il motivo del Tempus fugit nel gaudium vitae tanto caro a Lorenzo il Magnifico. E, dunque, nonostante l’artista dichiari che è la malinconia il sentimento che impronta tutto il suo operato, ciò che, infine, affiora dai suoi paesaggi primaverili, popolati di languide bagnanti e piccole case colorate, è piuttosto un senso di pace interiore, un affettuoso impulso d’umana pietà.

Mimmo Iacopino, Visione pittorica, strisce di velluto e raso su tela, 2011.

Mimmo Iacopino, Visione pittorica, strisce di velluto e raso su tela, 2011.

Trappole visive, ma di natura aniconica, sono quelle elaborate da Mimmo Iacopino, che trasforma materiali d’uso comune oppure immagini prelevate dal quotidiano in incantevoli pattern e suggestive texture. L’artista intreccia strisce di velluto e di raso, filamenti di poliestere, metri sartoriali, frammenti di spartiti, trecce di filo per cucire, sottoponendo ogni cosa al disciplinato rigore della trama e dell’ordito.

Mimmo Iacopino, Senza titolo, metri bindelle su tela, 2004.

Mimmo Iacopino, Senza titolo, metri bindelle su tela, 2004.

La luce, con i suoi effetti mutevoli – ora cangianti ora iridescenti – è la vera protagonista dell’indagine di Iacopino, il quale ama costruire sorprendenti artifici ottici e prismatici. Attorno alle tele, l’artista imbastisce, infatti, un paziente lavoro di tessitura, impuntura, rammendo. Un lavoro di metamorfosi e manipolazione su cui, è pur vero, aleggia lo spettro di Alighiero Boetti, ma che originalmente tramuta in pittura oggetti familiari e prosaici, come quelli in vendita nelle mercerie. La forma finale è quella dell’arazzino, su cui Iacopino imbriglia strutture rigorose e geometrie frattali, ma anche scale musicali e sequenze numeriche e millimetriche.

Mimmo Iacopino, Senza titolo, strisce di velluto e raso su tela, 2011.

Mimmo Iacopino, Senza titolo, strisce di velluto e raso su tela, 2011.

Il gioco si estende fino a comprendere la citazione, sotto forma di rilettura ironica e scanzonata delle intuizioni di grandi maestri come Lucio Fontana e Paolo Scheggi, che ispirano i tagli e buchi circolari delle opere Taglio cucito e Musica a colori.

Mimmo Iacopino, Color Numbers, strisce di velluto e metri sartoriali su tela, 2011.

Mimmo Iacopino, Color Numbers, strisce di velluto e metri sartoriali su tela, 2011.

Parallelamente al lavoro di tessitura, Iacopino si cimenta con il medium fotografico e, così, crea pattern che sono frutto di programmi per l’elaborazione d’immagini digitali. Con alle spalle oltre vent’anni di esperienza come fotografo di still life, l’artista riesce in queste opere a trasfigurare e moltiplicare oggetti banali come fiammiferi e matite, fino a fonderli in affascinanti trame, simili a scintillanti mandala post-moderni. Come molti degli artisti di quella formidabile esperienza che va sotto il nome di Portofranco, Iacopino dimostra di aver maturato nel tempo uno stile unico e originale, un idioma in cui convergono le tre imprescindibili qualità: poesia, ironia e levità di tono. Le sole che garantiscono all’arte di resistere, inossidabile, al trascorrere dei gusti e delle mode del tempo.

Mimmo Iacopino, Vibrazioni, trecce di fili da cucito in cotone su tela, 2011.

Mimmo Iacopino, Vibrazioni, trecce di fili da cucito in cotone su tela, 2011.

Enzo Forese. Fumo dei fumi

8 Lug

di Ivan Quaroni

“Tutte le cose che ora vedi saranno presto trasformate
dalla natura che tutto governa, che altre ne produrrà
con la loro materia, e con la materia di queste via via
altre ancora, perché il mondo resti sempre giovane”.
(Marco Aurelio, Pensieri, VII, 25)

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Della sua passione per l’antica poesia greca Enzo Forese non ha mai fatto mistero, in particolare, per i frammenti lirici dell’Antologia Palatina, in buona parte anonimi, dove ricorrono ossessivamente il motivo del tempus fugit, della bellezza e del vigore fisico che svaniscono e delle illusioni che si dissolvono come cenere al vento. Tutto ciò che è effimero, instabile e volatile è indicato, secondo tradizione, come vanitas vanitatis, espressione usata per tradurre, in origine, un verso dell’Ecclesiaste, “havel havelim”, per il quale Guido Ceronetti ha recentemente proposto la versione “fumo dei fumi”. Proprio il fumo, sostanza evanescente per eccellenza, è il pilastro sul quale poggiano i nuovi lavori di Forese, sospesi tra pittura, assemblaggio e collage. Il fumo “fumato” delle sigarette e delle pipe, ma anche quello “residuo” dei fiammiferi, dei cerini e degli svedesi, di cui non restano che i contenitori, le stecche, i pacchetti, gli astucci, le custodie, le scatolette. Su questi resti di packaging, simulacri di un piacere ormai spento, di un godimento estinto, l’artista allestisce il suo falò delle vanità, convertendo il monito sull’imminenza della fine in esortazione a cogliere i piaceri della vita. Sono lavori in cui risulta evidente che Forese ha compiuto una scelta tra due facce di una stessa medaglia, preferendo il gaudium vitae di Lorenzo il Magnifico al memento mori di Savonarola.

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Entrambi gli avvertimenti muovono, infatti, dal presentimento di un destino inevitabile, ma mentre nel primo prevale un’intenzione celebrativa, una lieta gratitudine, nel secondo domina il rifiuto per i piaceri effimeri, in vista di presunti benefici durevoli. Forese opta per il bicchiere mezzo pieno, perché quello mezzo vuoto non si può bere. E così, pur prendendo le mosse da un sentimento malinconico, egli riesce a costruire un universo felice e accogliente, un mondo di forme e colori in cui si avverte, palese, tutto l’amore per l’inafferrabile bellezza del creato. In questa nostalgia, assai diversa dall’umor nero degli alchimisti, non v’è traccia di acredine, né di rovello. Il rimpianto per le morte stagioni per la giovinezza che si fugge, è sublimato nella concezione di un’arte profonda e lieve ad un tempo.

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Così, come negli altri artisti cresciuti nell’humus toselliano, da Kazumasa Mizokami ad Antonio Sofianopulo, da Gabriele Turola a Paolo Truffa, da Lisa Ponti a Bonomo Faita, anche in Forese si avverte quella levità di tono, divenuta il segno distintivo della galleria. Una levità che, tuttavia, è bene non scambiare per leggerezza, poiché, com’è noto, la semplicità è sovente frutto di una saggia elaborazione della complessità. Cosa evidente soprattutto in queste nuove opere dell’artista, tributo ad una “dissipazione felice”, rappresentata dalle donne, dal fumo e dalla sensibile grazia dei colori. In trasparenti scatole di plexiglas, Forese racchiude una teoria di templi dedicati a conturbanti dee terrene, santuari effimeri innalzati su basamenti fragili, vestigia di una consumazione (quella di tabacco) che allude al dispendio di energie vitali, che sfumano, anch’esse, come le volute azzurrine di un sigaro.

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Forese edifica questi altari recuperando miniature di conturbanti, quanto discinte, damine parigine, di seducenti pin up giapponesi e di eroine dei fumetti e dei cartoon, come Betty Boo o Wonder Woman, dimostrando, così, di saper piegare gli emblemi della cultura pop globale alle proprie urgenze espressive, restando impermeabile all’influsso delle mode del tempo. Così, mentre si diffonde in Europa la mania americana e giapponese per vinyl toy, action figure e pupazzetti di plastica disegnati da artisti e designer di grido, sorprende che Forese si trovi, senza volerlo, perfettamente allineato allo zeitgeist contemporaneo. Proprio lui, che ha fabbricato con la pittura un universo introspettivo di paesaggi disabitati ed eterne primavere, di fiori fragranti e languide bagnanti, lui, che si è ispirato alla Poesia e alla Filosofia dell’età classica, gettando, di tanto in tanto, uno sguardo furtivo alle immagini grossolane della cultura di massa.

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In un certo senso, gli ultimi lavori dell’artista appartengono al genere delle vanitas, sebbene, rispetto all’ormai consunto immaginario delle nature morte, introducano un sentimento giocondo e festoso. Le maliziose eroine di Forese sono, infatti, perfette incarnazioni della joie de vivre, ma, attenzione, il loro valore è duplice, poiché se da un lato rappresentano la giovinezza e il piaceri della vita, dall’altro trasmettono un sentimento di nostalgico languore e pacato rimpianto. Forese accentua questa anomalia, tutta giocata sulla contraddizione tra forma e significato, quando dipinge sulle scatole di tabacco e i pacchetti di sigarette pattern geometrici dai colori vivaci, alcuni dei quali, in verità, sono riprese e citazioni di sue opere precedenti. La sensazione è che Forese abbia voluto estendere il linguaggio della sua pittura oltre i confini bidimensionali, includendo elementi che non sono estranei al suo modus operandi. È il caso dei pacchetti di sigarette, usati in passato come supporti per la costruzione di splendidi fiori circolari, ma anche delle pin up, già incluse in una precedente serie di piccole tele pop dedicate all’immaginario erotico degli autotrasportatori.

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Ora, sebbene l’artista ribadisca che il motore del suo operare è il sentimento malinconico, ciò che affiora in questi, come nei precedenti, lavori è invece un senso d’ineludibile serenità interiore, che sfocia in un moto di umana pietas. Qualità rare, queste, che si trovano unicamente in quei pittori solitari e senza tempo – come Salvo e Jan Knap – capaci di rappresentare la realtà senza ricalcarla mimeticamente, ma anzi deformandola e stravolgendola fino trasfigurarla in una dimensione spirituale alternativa. A questa tipologia di pittori, per i quali lo storico dell’arte francese Henri Focillon faceva appello ad una genealogia dell’unico, appartiene anche Enzo Forese, costruttore di mondi immaginifici, dove gemmano fiori sconosciuti.