Archivio | settembre, 2017

Matteo Nuti. Animånimale

22 Set

Di Ivan Quaroni

 

Tu mi spieghi che,
dietro ogni campo di grano
c’è il Divino,
c’è Van Gogh,
io, invece, temo il peggio.”
(Baustelle, Il Nulla, La Malavita, 2005)

 

Gregge -Transhumance - Bovarismo- 127x75 cm - 2017 - mixed media on photographic paper

Gregge -Transhumance – Bovarismo, 2017, 127×75 cm

 

Conosco molti pittori autodidatti che hanno sviluppato una maniacale attenzione per il dato tecnico. Di solito sono pittori dotati, che hanno dovuto imparare tutto quello che, forse erroneamente, presupponevano di essersi persi non frequentando l’Accademia. Sono artisti che hanno fatto di necessità virtù e si sono trovati a imparare da soli quel che – ma qui il condizionale è d’obbligo – avrebbero potuto acquisire a scuola. Insomma, si sono arrangiati e hanno fatto quel che i punk chiamavano DIY (acronimo di Do It Yourself) in un’epoca in cui non esistevano i tutorial di youtube. Sono stati loro, rispolverando i padri del Situazionismo, a trasformare l’arte di arrangiarsi in un’etica vera e propria. Matteo Nuti rientra più in questa categoria che in quella del classico autodidatta con la nostalgia, tutta immaginaria, per gli insegnamenti che non ha ricevuto. Il suo approccio linguistico, che ha supplito l’accademismo con l’interesse per la scienza e i nuovi media, è il risultato di una faticosa ricerca di senso, che ha fatto i conti con la necessità di prodursi autonomamente i propri strumenti progettuali, operativi e concettuali.

Il risultato cui è pervenuto deve molto a questo svantaggio iniziale, come pure alla scelta di abbandonare Milano, dove ha abitato per un periodo, per tornare a vivere nella provincia toscana. Possiamo riassumerlo così: Matteo Nuti ha trovato un modo per coniugare la pittura, intesa come pratica tradizionale e analogica, con gli strumenti offerti dalle tecnologie digitali applicate al campo dei videogame e degli effetti speciali. Dipinge in digitale con un software completamente personalizzato secondo le sue esigenze, stampa l’immagine con pigmenti naturali su una carta fotografica lucida, dopodiché la modifica in punta di pennello con solventi e diluenti chimici fino a trasformarla in qualcosa di completamente diverso. L’immagine stampata è una cosa, quella dipinta con i solventi un’altra. L’intera procedura ha una via d’ingresso digitale (input) e una via d’uscita analogica (output) e compendia le infinite possibilità dei nuovi software e hardware con l’artigianalità della pittura di bottega. Soprattutto, quando la osservi, la sua pittura tutto sembra tranne che digitale. Eppure, per Nuti l’uso della tecnologia sembra indispensabile per comprendere la contemporaneità, quasi fosse l’unico modo per capire la società in cui siamo, consapevolmente o meno, immersi.

Citavo la società non a caso. Perché è spesso l’orizzonte dei ragionamenti dell’artista, il luogo cui conducono tutte le sue riflessioni personali. Come dire che c’è l’individuo, con la sua storia, e poi c’è il mondo in cui quella storia s’inserisce.

Matteo Nuti lavora sempre per cicli tematici, cercando di sviluppare un’indagine che combini il fattore biografico con la riflessione sociale. Il tema iconografico e il contenuto concettuale, sono importanti tanto quanto gli aspetti formali e linguistici. Per esempio, nel ciclo precedente, intitolato On Demand, la ricostruzione pretestuosa, e in parte fantasiosa, delle vicende di David Kelly, impiegato del Ministero della Difesa britannico ed esperto di armi batteriologiche trovato morto – apparentemente suicida – nella foresta di Harrowdown Hill all’indomani della sua ispezione in Iraq allo scopo di stabilire la presenza di armi di distruzione di massa, era servita a evidenziare la sostanziale difformità tra verità e rappresentazione in una società in cui è fin troppo facile fabbricare false evidenze.

A latere, Nuti rifletteva sulla possibilità di avere oggi a disposizione, grazie alla rete informatica, tutte le informazioni su un caso irrisolto, come se si trattasse di un programma televisivo offerto in modalità on demand. Come sempre, partiva dalle sue memorie personali per approdare a una riflessione di carattere più ampio, diremmo quasi politico.

La mattina bio - 68x46- bovarismo

La mattina bio – Bovarismo, 2017, 68×46 cm

Lo stesso iter presiede alla costruzione del più recente ciclo di lavori, intitolato Animånimale, crasi dei due termini Anima e Animale, ma con un curioso segno diacritico al centro, forse a indicare che in quel punto la vocale finale dell’uno e quella iniziale dell’altro si fondono in una super-vocale.

Abbiamo detto che Nuti è tornato a vivere e lavorare nella provincia toscana, un luogo carico di memorie pittoriche, che ha suggerito all’artista una rivisitazione dell’immaginario artistico dei Macchiaioli, fatto di paesaggi percorsi da greggi di pecore, mandrie bovine, e pastori solitari, gli stessi che anche oggi, forse con minor intensità lirica, è possibile scorgere sulle colline pisane.

L’immaginario bucolico e naturalista dei Macchiaioli”, spiega Nuti, “mi ha suggerito una perfetta metafora della società contemporanea: penso ad un bovino, al suo ciclo di vita, a com’è la sua giornata e al fatto che si sveglia, pascola, mangia, ingrassa, produce latte, figli, fornisce carne, inquina e così via”. Il ciclo di vita, sempre identico, somiglia fatalmente a quello di molti uomini. “Quando vivevo a Milano”, continua l’artista, “per un periodo mi sembrava di andare a lavorare per poter continuare ad andare a lavorare, cioè tutto quello che facevo nel tempo e nell’economia mi serviva per potermi permettere di farlo, per dirla con i CCCP di Giovanni Lindo Ferretti: produci, consuma, crepa!”. Insomma, lo Shit and die di Maurizio Cattelan era diventato molto più che una profezia, forse una definitiva condanna.

animale da soma - bovarismo 50x60

Animale da soma – Bovarismo, 2017, 50×60 cm

La metafora delle mandrie guidate dal buon pastore, con tutte le implicazioni simboliche cui il Cristianesimo ci ha abituati (ma potremmo dire lo stesso delle divinità di altre religioni cui è affibbiato lo stesso attributo, dall’Horus egizio al Mitra persiano, dal Krishna vedico al Buddha indiano), ben si applica alla diade formata dal popolo e dai suoi governanti.

La pittura di Nuti, filtrata dalla visione naturalista (e simbolista) dei Macchiaioli, non può fare a meno di riportare la poetica alla politica e in maniera, questa volta, tanto più sottile, quanto più è pretestuosa la metafora.

Quel che l’artista ci offre con le sue immagini non è il remix di un genere pittorico ma, piuttosto, un ipertesto che mette le immagini, i titoli delle sue opere e lo stile con cui sono realizzate al servizio di una visione più ampia, che si dirama in sotto-cicli altrettanto allegorici.

Molti lavori, ad esempio, recano nel titolo la parola Bovarismo, che ha un’evidente assonanza terminologica con i soggetti rappresentati (buoi per lo più), anche se significa tutt’altro. Deriva, infatti, da Madame Bovary, la celebre protagonista del romanzo di Flaubert, e indica una corrente di pensiero sviluppatasi nel secondo ottocento che designava la tendenza di alcuni artisti a sfuggire alla monotonia della vita di provincia per ambire alle emozioni e suggestioni della metropoli. Insomma, l’opposto di quel che ha fatto Nuti, ma solo dopo avere sperimentato quelle “suggestioni”.

Per estensione, il bovarismo è diventato poi un modo per definire un atteggiamento psicologico evasivo della realtà che, in casi estremi, porta alla costruzione di una personalità fittizia. Anche qui, come nella serie su David Kelly, Nuti ratifica la discordanza, peraltro assai diffusa nella società contemporanea, tra realtà e rappresentazione.

animale VII - 50x40 - bovarismo - doppelganger

Animale VII – Bovarismo – Doppelganger, 2017, – 50×40 cm

Mentre osserviamo le sue immagini di greggi, sottoposte a un processo chimico dissolutivo e distruttivo, ma allo stesso tempo generatore di una nuova identità pittorica, ci ritroviamo a meditare sulla differenza tra noi e gli animali da pascolo, a riflettere sulle similitudini tra un mandriano e un primo ministro, scoprendo che la nostra realtà, sotto la patina edulcorata della civiltà, non è poi tanto diversa da quella delle bestie da soma.

Nuti usa anche il termine Transhumance, vocabolo inglese che significa transumanza, ossia migrazione stagionale delle mandrie, perché foneticamente ricorda il termine Trans-human che, a sua volta, indica un superamento dello status di umanità verso una condizione d’instabilità esistenziale che ricorda, inevitabilmente, le recenti teorie di Zygmunt Bauman sulla società liquido-moderna.

Un’altra parola presente nei titoli delle opere di Nuti è Doppelganger, che in tedesco significa letteralmente “doppio viandante” e che si riferisce tanto alla bilocazione di un soggetto, quanto al suo “gemello negativo”. Si tratta di un’entità che compare in molta letteratura fantastica, da Stevenson a Dickens, da Wilde a Bram Stoker, e che la psicanalisi freudiana connette al concetto di “disturbante” (das unheimliche) e ai disturbi della personalità. Anche in questo caso, si possono leggere tutte le implicazioni sociali di tale allusione, a conferma che l’artista gioca sul sottile crinale tra l’evocazione di una tradizione storico-artistica, che come vedremo si allarga dai Macchiaioli al Post-impressionismo e al Divisionismo, e la disamina dei comportamenti e delle abitudini nella civiltà globalizzata. Basti pensare a come la figura del doppelganger sia oggi trasmigrata nelle identità fittizie degli avatar digitali e dei profili dei social network.

animale II - 84x70 bovarismo

Animale II – Bovarismo, 2017, 84×70 cm

Tornando alla sostanza linguistica della ricerca di Nuti, è bene rimarcare che vi sono alcune differenze con il ciclo precedente. “Da un punto di vista tecnico”, spiega l’artista, “ho mantenuto la cifra digitale e tecnologica, ma ho ridotto notevolmente lo spettro cromatico per evidenziare alcune caratteristiche formali e gestuali del mio lavoro”. Animånimale è, infatti, un ciclo caratterizzato da una maggiore dissoluzione delle forme e da una frammentazione segnica che esaspera, portandola fino alle estreme conseguenze, la maniera del gruppo guidato da Guido Martelli. Le “macchie” di Nuti sono il prodotto di un disfacimento formale che trascende le mere esigenze di sintesi della pittura macchiaiola. L’atto di rimozione del colore, il suo scioglimento per mezzo di agenti chimici, ricorda, per certi versi, la procedura alchemica conosciuta come solve et coagula. Lo scioglimento e la coagulazione del colore sono, innanzitutto, operazioni di rigenerazione, che permettono la fondazione di un nuovo linguaggio. Un linguaggio in cui, per la prima volta, compaiono precisi riferimenti storico-artistici: i Macchiaioli, certo, ma soprattutto il Post-impressionismo, il Simbolismo e la sua variante divisionista. A dominare i cieli e i pascoli dei paesaggi di Nuti sono lo spettro del Van Gogh delle Notti stellate, con le sue nubi spiraliformi, e quello del Segantini più decadente. Da entrambi, l’artista eredita la pennellata flessuosa e filamentosa che, trascinando il pigmento disciolto sulle superfici di carta lucida, ben si adatta alla natura mobile e vibrante della sua pittura. Una natura che, inevitabilmente, riecheggia – è il caso di dire “simbolicamente” – soprattutto la sua fondamentale irrequietezza d’animo e la conseguente attitudine a concepire l’indagine artistica come un’esperienza erratica, se non addirittura nomadica.


 

Matteo Nuti – Animånimale
a cura di Ivan Quaroni
13 Ottobre – 11 novembre 2017
C2 contemporanea
via Ugo Foscolo, 6 Firenze
Tel. 334 797 0531
in collaborazione con:
Casa d’Arte San Lorenzo, San Miniato
C.R.A. Centro Raccolta d’Arte, San Miniato
info:
Tel. 0571 43595
galleria@arte-sanlorenzo.it
www.arte-sanlorenzo.it 

 

 

 

 

 

Italian Newbrow. Apocalittica

5 Set

Di Ivan Quaroni

Se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe bisogno di dipingerlo.”
(Edward Hopper)

Non lasciatevi ingannare dal titolo, questa mostra non è sull’iconografia dell’apocalisse. Non ci saranno piaghe, pestilenze e catastrofi che annunciano l’imminente fine dei tempi e nemmeno dotte allusioni alla celeberrima raccolta di xilografie di Albrecht Dürer (Apocalisse, 1498). Molte sono, invece, le immagini critiche e problematiche che, da un lato, registrano lo stato di crisi della società odierna, dall’altro, attestano la ricostruzione di un linguaggio narrativo adeguato alla frammentata, e quanto mai distratta, sensibilità contemporanea.

Nell’attuale regime di sovrabbondanza iconica, di ridondanza e perfino d’invadenza delle immagini cui siamo quotidianamente sottoposti, potremmo legittimamente domandarci quale sia la funzione della pittura oggi e in che cosa le sue figure e i suoi tropi divergano dalle immagini massivamente prodotte dell’industria dell’intrattenimento, dell’editoria, della pubblicità. In poche parole, a cosa serve oggi la pittura figurativa?

Bob Nickas, uno dei critici più attenti all’analisi delle nuove forme d’ibridazione della pittura – afferma in un’intervista che “la pittura è lenta”, mentre “la vita moderna è velocissima ed è forse l’aspetto […] più radicale, quello di introdurre un rallentamento, non solo nel momento creativo, ma anche nella visione dell’arte”.[1] Sulla lentezza della pittura avevano ampiamente riflettuto gli artisti analitici degli anni Settanta, i cosiddetti “pittori pittori”, che, però, operavano nell’ambito dell’astrazione, una forma d’arte relativamente giovane, che vanta appena un secolo di vita. Il problema è più complesso nel caso della pittura figurativa e delle sue attuali varianti ibride o ambigue. Secondo Nickas, “in tutti i dipinti figurativi c’è un elemento di citazione che si riferisce proprio alla mancanza di limiti e confini[2], cioè al fatto che un artista possa guardare al passato o, viceversa, avventurarsi nel futuro per sperimentare nuove forme di rappresentazione.

Ora, la vastità di campo in cui opera il pittore figurativo è tale da rendere la pittura una pratica ancora necessaria. I modi della rappresentazione in pittura mutano, infatti, col volgere delle stagioni, traducendo, in termini visivi, la percezione che l’artista ha del proprio tempo. Un altro critico contemporaneo, Tony Godfrey, ha scritto che “la pittura non è solo un modo di vedere, ma anche di costruire il proprio universo, come per i bambini plasmare oggetti e disegnare sono strumenti per comprendere il mondo”.[3]

Per quanto parziale e personale, ogni dipinto è un tentativo di costruzione di senso e, allo stesso tempo, una forma molto lenta di trasmissione delle informazioni. La presunta obsolescenza della pittura (soprattutto figurativa), rispetto ad altre forme d’arte orientate all’oggetto, costituisce forse l’aspetto più radicale di questa pratica millenaria. La lentezza della pittura e la sua fondamentale “portabilità”, cioè il fatto che possa essere spostata con estrema facilità, quasi fosse una valuta o uno strumento finanziario, ne hanno garantito la sopravvivenza.

Il termine “Apocalisse” deriva dal greco apokalipsis, che letteralmente significa “scoperta” o “disvelamento”. La pittura figurativa è etimologicamente “apocalittica”, perché la sua funzione è di svelare le informazioni, rendendole disponibili a un tipo di fruizione antitetico a quella delle nuove tecnologie. Inoltre, le immagini sono simili a codici criptati che contengono significati multipli. Una natura morta di Morandi può essere considerata solo una sequenza di bottiglie allineate? Un dipinto di Cézanne con il Mont Sainte Victoire sullo sfondo non è forse qualcosa di più di un semplice paesaggio provenzale? Se così non fosse, le arti figurative non sarebbero sopravvissute all’usura del tempo. Se si fossero limitate a ricalcare la realtà, sarebbero state niente più che una forma di documentazione. D’altronde, come polemicamente affermava James Whistler, “dire al pittore che la natura deve esser presa com’è, è come dire al pianista di sedersi sul pianoforte”.[4] Invece, le immagini dipinte, sfuggenti ed elusive per costituzione, sovente costruiscono racconti ambigui e inafferrabili che, proprio come i simboli, si aprono a una pletora d’interpretazioni differenti.

Con le loro opere, gli artisti che di volta in volta hanno preso parte alla variata compagine di Italian Newbrow, non si sono sottratti al compito di ridare alla pittura una funzione narrativa, per quanto elusiva e ambigua essa sia. In un’epoca, come abbiamo detto, di comunicazioni rapide, quasi istantanee, essi si sono fatti carico di ricostruire una struttura narrativa, ipertestuale, che contrasta con la teoria secondo cui l’arte non parlerebbe d’altro che di se stessa. La persistenza di allusioni e citazioni, spesso iconoclaste e pretestuose, all’arte del passato, è la misura di quanto il campo della pittura sia un dominio operativo complesso e denso di stratificazioni. Rinunciare a confrontarsi con tale complessità, come fanno, ad esempio, i campioni della cosiddetta Provisional Painting, ossia di quel genere di pittura che si accontenta di ridurre il campo a una congerie di segni fragili e provvisori, d’interventi casuali e fortuiti, significa abdicare al ruolo eroico della pittura, in nome di una pretesa bellezza delle cose umili e spesso prive di significato. A tal riguardo, il critico Raphael Rubinstein, argomenta che il lavoro dei provisional painter sarebbe, almeno in parte, “il risultato di una lotta con un medium che può apparire sovraccarico di attese riguardo a durata nel tempo, virtuosismo, composizione, stratificazione di significati, autorità artistica ed energia creativa – tutte qualità che rendono le arti appunto delle belle arti”.[5] Ma proprio qui sta il punto: per poter sopravvivere, la pittura figurativa deve ritrovare la dimensione eroica e ambiziosa del racconto, accettare la sfida della creazione di valori durevoli, che sappiano raccordare la spinta creativa dell’individuo con gli stimoli che provengono dal mondo esterno, dalla dimensione sociale e culturale della società cui gli artisti appartengono.

Nei dipinti di Silvia Argiolas, ad esempio, la descrizione di un’umanità marginale, posta alla periferia fisica e morale della società, si salda alle distorsioni di un inconscio ipertrofico, che trova fuori da sé la conferma di dubbi ossessivi e febbrili inquietudini. I suoi personaggi borderline – prostitute, emarginati e derelitti – abitano una dimensione di decentramento sociale ed etico che li pone fuori dai confini morali della società. Una dimensione psicologica ed esistenziale che la geografia, con i suoi parchi suburbani innestati nel tessuto sconnesso delle periferie, sembra validare anche da un punto di vista morfologico. Quello che si svolge nell’immaginario pittorico di Silvia Argiolas è il racconto di una condizione di minorità sociale ed estraneità ai valori dominanti e, al tempo stesso, la disamina di un vissuto che, contro la falsità e virtualità del mondo digitale, elegge finalmente, a salvaguardia dell’individuo, la verità del corpo e della psiche, con le sue sofferenze e i suoi appetiti primordiali.

I lavori di Vanni Cuoghi, in special modo quelli della serie Monolocali, si configurano come perfette scatole narrative, contenitori di storie che l’artista ambienta liberamente nel passato o nel presente, entro una cornice spaziale rigidamente codificata, che somiglia al palcoscenico di un teatro miniaturizzato, luogo proiettivo per eccellenza. In questa pittura che si fa oggetto, box tridimensionale costruito con carta intagliata e acquarelli, disseminato di dettagli descrittivi, l’artista cristallizza gli episodi apicali di una narrazione aperta e, dunque, suscettibile a molteplici interpretazioni. Lo stesso si può dire dei dipinti in cui Cuoghi adotta una scala monumentale, come la grande tela intitolata Le due verità (2017), dove sono le figure stesse a diventare scatole narrative, accogliendo al loro interno, nelle trame tessili dei loro abiti ipertrofici, l’inserzione di storie che rimandano ai modi rappresentativi dei bassorilievi tardo-antichi e dei codici miniati medievali.

Gli interni neo-metafisici di Paolo De Biasi sono organizzati come dei set di posa che rivelano immediatamente il carattere fittizio della pittura. Sono luoghi mentali, in cui l’artista dispone oggetti e figure dalla forte carica evocativa. Teste, busti, statue acefale, oggetti comuni, ritagli fotografici, solidi geometrici, piante e drappi di tessuto sono collocati su palchi, pedane o scaffali, quasi fossero i prodotti di un campionario iconografico, che serve all’artista per indagare la relazione tra i meccanismi di percezione e di cognizione dell’immagine. Proprio nello iato che separa il pensiero dalla visione, s’incunea la ricerca di De Biasi. La sua è, infatti, una pittura ipertestuale, più che narrativa. Nel senso che le sue figure si sottraggono alla logica del racconto, pur essendo strenuamente correlate a una cornice spaziale, a un’ambientazione che ne attesta il valore puramente semantico e lessicale, peraltro amplificato dall’uso di locuzioni avverbiali per i titoli delle opere.

È una pittura iconoclasta e irreverente quella di Giuliano Sale, in cui l’uso pretestuoso e intercambiabile d’immagini sacre e profane, talvolta perfino pornografiche, è posto al servizio di una grammatica schizofrenica, che nella somma di apporti grafici e gestuali e nella fluida commistione di asserzioni e ripensamenti, costruisce un linguaggio crudamente destrutturato. Nei ritratti come nelle scene corali (si veda ad esempio Wrong Deposition) si avverte come l’artista si sottragga all’idea della pittura intesa come iter programmatico, razionalmente proteso alla generazione d’immagini predefinite. Nei suoi lavori prevale, piuttosto, una logica di affastellamento che si declina, momento per momento, per accumulazione d’intuizioni successive. La natura fondamentalmente abduttiva del suo modo di procedere è quella di chi costruisce una verità che ancor non conosce. Una formulazione visiva che può prodursi solo come conseguenza di un’esperienza, di un processo non interamente replicabile, proprio perché fondato sulla vigile attenzione a cogliere dentro e fuori di sé i segnali di una realtà profondamente frantumata.

Nei dipinti, nei disegni e nelle video-animazioni di Laurina Paperina, assistiamo all’adattamento di tutto l’armamentario dell’iconografia pop a uno stile lineare e sintetico, che permette all’artista di trattare i temi più cruenti con un atteggiamento di cinico candore. Il tratto volutamente infantile, quasi indolente, la cultura da geek che cinema, televisione e fumetto, e un sarcasmo feroce sono gli ingredienti basilari del suo linguaggio, sempre in bilico tra visioni scatologiche ed escatologiche. Se le carte di piccolo formato, si leggono come una carrellata di fulminei episodi splatter, dove gli eroi dell’immaginario massmediatico sono sottoposti alle più cruente leggi del contrappasso, le grandi tele assumono le proporzioni di affollatissimi scenari apocalittici, di rutilanti carneficine da b-movie. Skull Valley (2017) è il tipico esempio di ecatombe iconografica concepita dalla mente di un nerd, un paesaggio catastrofico popolato dai peggiori incubi della cattiva coscienza collettiva, dove le infernali visioni di Hieronymus Bosch s’innestano sulla feroce satira sociale di South Park.

All’incrocio tra realtà e finzione, mito e storia, fantasia e cronaca, la pittura di Giuseppe Veneziano è segnata da uno stile sintetico e da una palette cromatica virata su tonalità zuccherine e caramellose. L’artista adotta la tecnica del mesh-up, la stessa usata da molti dee-jay, per miscelare elementi contrastanti e antitetici, come quando mette in relazione personaggi reali e fantastici per creare sorprendenti cortocircuiti narrativi che ci inducono a riconsiderare il labile confine tra il vero e il verosimile. O come quando recupera un’iconografia artistica del passato, trasformandola in un commentario sui vizi e le virtù del mondo contemporaneo. Le opere dedicate a Salvador Dalì, da Jesus Christ Superstar (2017) a Petrifying Glance (2017), fino al Principe pittore (2017), sono esempi di come certe icone iconografie artistiche continuino a esercitare un influsso sull’immaginario collettivo, prestandosi, con opportuni adattamenti, alla trasmissione di nuovi contenuti. In particolare, Jesus Christ Superstar (2017), una sorta di crasi tra il Cristo di san Giovanni della croce di Dalì e il manifesto del film Blow Up di Michelangelo Antonioni, può essere interpretata come un semplice gioco combinatorio, oppure come una riflessione critica sugli eccessi della sovraesposizione mediatica nella società odierna.


Note

[1] Mario Diacono e Bob Nickas, Pittura radicale, in “Flash Art” n. 308, febbraio 2013, Politi Editore, Milano.
[2] Ivi.
[3] Tony Godfrey, Painting Today 2010, Phaidon Press, Londra.
[4] James McNeill Whistler, The Gentle Art of Making Enemies, 1968, Dover Pubsn, Londra.
[5] Raphael Rubinstein, Pittura provvisoria. Il fascino discreto del non finito, in “Flash Art” n. 291, marzo 2011, Politi Editore, Milano.


INFO

SCHEDA TECNICA
Italian Newbrow. Apocalittica
A cura di Ivan Quaroni
LABS Gallery
Via Santo Stefano 38, 42125 Bologna
30 settembre – 11 novembre 2017
Inaugurazione: sabato 30 settembre, ore 18.00
Orari: da martedì a sabato ore 16.00-20.00, oppure su appuntamento
Catalogo disponibile in sede con testi di Ivan Quaroni
Ingresso libero

PER INFORMAZIONI
LABS Gallery
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