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Rachel Hobkirk. The Uncanny Edgy Cuteness

20 Dic

Italian Text and English Text Below





Rachel Hobkirk | BABY TALK

September 13 – October 22, 2023

L:U:P:O: — LORENZELLI UPCOMING PROJECTS ORGANIZATION

C.So Buenos Aires 2, Milano

Eccentrici, apocalittici, pop. Inferno e delizia nell’arte contemporanea

30 Giu

di Ivan Quaroni

Invasione americana

Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider

Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive. 

Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative. 

Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson. 

Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti. 

Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010). 

Genoma italiano

La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale. 

A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].

Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo. 

Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione. 

Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC. 

Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale. 

Eccentrici, apocalittici, pop

Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani. 

La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.

Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.   

L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason. 

Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù. 

Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue opere si possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd. 

Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.

Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione. 

L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.

Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.

Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop SurrealismNicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.

Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro. 

Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.

Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore.  El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso. 

Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.

Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.

Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità. 

Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.


[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.

[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.

[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[4] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.

Crypto Series: Le rovine dell’antropocene nell’arte di Nicola Caredda

26 Giu

di Ivan Quaroni

Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)

Nonostante le origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno inizialmente favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso fa riferimento non solo alla corrente storica fondata da André Breton, ma a tutte le forme di arte fantastica. Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti provenienti dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è diffuso anche in Italia, influenzando numerosi artisti, tra i quali anche Nicola Caredda.

Nato a Cagliari (Italia) nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è prima di tutto un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi fantastici e suggestioni distopiche. Nel passaggio dalla pittura agli NFT – presenti marketplace di SuperRare -, l’artista è riuscito a trasferire l’atmosfera sospesa e rarefatta dei suoi dipinti, dominati da macerie e detriti dell’età post-moderna, in una serie di animazioni distorte e allucinate, che danno corpo e solidità alle sue creazioni. 

I suoi paesaggi, realizzati con la precisione di un miniaturista, mostrano i resti di una società trascorsa, i reperti di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo un’ipotetica quanto plausibile catastrofe nucleare oppure in seguito a un’apocalisse ecologica, è un globo disabitato e silente, una sorta di grande natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, scheletri architettonici e malinconici residui della società dei consumi. 

Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)

Influenzato tanto dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e dagli artisti del Realismo Magico italiano e tedesco tra le due guerre, quanto dal contemporaneo Pop Surrealismo americano, l’artista ha costruito un linguaggio visivo che trasferisce il gusto decadente per le rovine e la passione per il mistero nel vocabolario iconografico della Modernità Liquida raccontata da Zygmunt Bauman. 

Le sue visioni notturne, disseminate di angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati o elettrodomestici abbandonati, sommersi da una proliferante vegetazione, sembrano la perfetta rappresentazione della fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoermer, sarebbero la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.

Un altro modo di interpretare le opere di Caredda è, però, quello di considerarle come la raffigurazione dello stato di degrado delle moderne periferie urbane, che nella loro atmosfera di malinconico abbandono prefigurano la futura morfologia di un mondo post-apocalittico. È il caso di Everyone at Rolling Loud (si può vedere qui: OpenSea), in cui l’artista rappresenta ciò che resta alla fine di un rito collettivo come il Rollling Loud – il più importante festival di musica Rap e Trap -, quando, finita la musica, echi e vibrazioni sonore riverberano ancora nell’atmosfera satura di un luogo desolato e fatiscente, divenuto stranamente intimo e familiare.

Everyone at Rolling Loud, 2021, acrilico su tela, 120×100 cm

Angelo Barile. Aristocratica

26 Set

di Ivan Quaroni

 

 

Voglio le mie tasche piene
E sangue e ferro e sabbia nelle vene
L’oro e l’eresia
Profondo rosso obliqua simmetria
Ed una nave orienta la prua
In alto mare a liberare…
Aristocratica
Occidentale falsità
(Matia Bazar, 1984)

 

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Il Pop Surrealismo, un linguaggio artistico originato dalla mescolanza di cultura alta e bassa, capace, cioè, di combinare l’attitudine fantastica del surrealismo con l’immediatezza del pop, è uno stile pittorico tipicamente postmoderno. Come il Postmodern, infatti, saccheggia l’immaginario visivo della storia dell’arte per innestarlo sulla corteccia neurale della sensibilità odierna, passando in rassegna i codici della cultura di massa in tutta la loro estensione.

Non stupisce, quindi, che alla base di questo linguaggio vi sia una buona dose d’ironia, sovente controbilanciata da una volontà di recupero del lavoro artigianale e da un ricorso ad abilità e tecniche attraverso cui s’intende riaffermare il primato della pittura sul campo delle produzioni artistiche della contemporaneità (categoria, peraltro, divenuta sempre più mobile e aleatoria).

All’idea di una pittura intesa come dominio d’infinite combinazioni iconografiche, perimetro claustrale di una pratica virtualmente inesauribile, si rifà la ricerca di Angelo Barile, pittore che riassume molti dei tratti distintivi di questa nuova categoria estetica, generatrice di universi paralleli, in bilico tra storia e finzione.

Elemento tipico di questo linguaggio espressivo che negli ultimi vent’anni ha assunto diverse forme ed etichette – con definizioni che spaziano da Lowbrow Arta New Gothic, da Cartoon Realisma Big Eye Art, da  Edgy Cuteness a Pop Expressionism – è, senza dubbio, la volontà di riscrittura della realtà, ossia l’anelito a reinventare i generi tradizionali partendo dal proprio background culturale, da quel patrimonio di letture, ascolti, visioni, ma anche gusti, predilezioni e manie che formano un originale punto d’osservazione sul mondo.

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Si potrebbe obbiettare che, fin dall’alba dei tempi, gli artisti hanno filtrato l’osservazione della realtà con la lente d’ingrandimento della propria weltanschauung, che è, appunto, una personalissima forma d’intuizione e di visione del mondo. Tuttavia, a differenza degli artisti antichi e moderni, quelli della postmodernità possono accedere a un serbatoio d’immagini e suggestioni quantitativamente inimmaginabile. Possono, quindi, da perfetti bricoleur, saccheggiare ogni tipo d’iconografia per formare inedite combinazioni e creare, così, qualcosa di assolutamente nuovo.

Gli artisti come Angelo Barile, obbediscono solo alla propria volontà pulsionale, al piacere erotico di servirsi di qualsiasi fonte iconografica per stravolgerla e riformularla alla luce di una nuova necessità espressiva. È merito di Achille Bonito Oliva aver sdoganato questo tipo di pratica nel delicato passaggio tra gli anni Settanta e Ottanta, proponendo un’arte che “finalmente ritorna ai suoi motivi interni, alle ragioni costitutive del suo operare, al suo luogo per eccellenza che è il labirinto, inteso come ‘lavoro dentro’, come escavo continuo dentro la sostanza della pittura”[1].

“L’assunto iniziale”, spiega Bonito Oliva, “è quello di un’arte come produzione di catastrofe, di una discontinuità che rompe gli equilibri tettonici del linguaggio a favore di una precipitazione nella materia dell’immaginario non come ritorno nostalgico, come riflusso ma come flusso che trascina dentro di sé la sedimentazione di molte cose, che scavalcano il semplice ritorno al privato ed al simbolico”[2].

Anche per Angelo Barile non si tratta solo di un semplice ritorno al privato, ai propri gusti e alle proprie ossessioni. Certo, la volontà pulsionale è la leva che muove in profondo la sua pittura, ma il dominio operativo della sua indagine, la piattaforma su cui si svolge, è il genere, immediatamente riconoscibile, della ritrattistica nobiliare (e sacra) del post-rinascimento e dell’era barocca e rococò. L’orizzonte delle sue incursioni è, infatti, quello della quadreria aristocratica occidentale, spazio avito in cui il ritratto non è più soltanto complemento d’arredo o oggetto devozionale, ma frammento di un discorso composito, tassello di quella storia frastagliata che comunemente chiamiamo “collezione”, un mix di esibizione genealogica e di proiezione del proprio status quo.

Diversamente dalla quadreria aristocratica e borghese, quella dipinta oggi da Angelo Barile è, invece, una sorta di psicografia, la manifestazione e descrizione di fatti mentali attraverso elaborati grafici in forma di ritratto fantastico.

Da qualche tempo, ormai, Angelo Barile insiste sulla rappresentazione di volti e fisionomie dai tratti speciali che, in parte, fanno pensare agli stilemi di deformazione anatomica in uso sia nell’arte occidentale che orientale. Basti pensare ai bambini dipinti da Margaret Keane – la cui storia è superbamente raccontata nel film Big Eyes di Tim Burton – o ai personaggi Kawaii dei manga giapponesi, che con il loro aspetto infantile ispirano sentimenti di tenerezza, per capire come il corpo ipertrofico sia diventato un modello di rappresentazione diffuso, corroborato anche dall’uso massiccio di emoticoned emojinel gergo visivo di internet.

Rispetto ai canoni della Big Eye Art o della cosiddetta Edgy Cuteness, i personaggi di Barile non ispirano necessariamente tenerezza. L’artista, infatti, pur non rinunciando a dare enfasi espressiva agli occhi, tradizionalmente considerati “finestre dell’anima”, si concentra sulla definizione di un modello di sintesi anatomica che rimanda solo perifericamente al mondo dei cartoon charactero dei vinyl toy, e che, piuttosto, sembra alludere al processo d’infantilizzazione di una società composta in larga parte da adultescentiaffetti da sindrome di Peter Pan.

A queste generazioni il messaggio ironico, e insieme affettuoso, di Angelo Barile deve apparire piuttosto chiaro. In esso è adombrato un processo di demitizzazione tipico della cultura postmoderna. Il corpo, classicamente percepito come unità di misura armonica del cosmo, assume qui una valenza destrutturante. Esso non è più un modello di riferimento aulico, ma la testimonianza dello stato psicologico ed emozionale dominante nella società liquido-moderna teorizzata da Zygmunt Bauman.

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Angelo Barile usa questo espediente per accorciare le distanze tra sé e l’osservatore, per abbattere le barriere che separano l’arte dalla gente comune e riallacciare, così, i fili di un discorso prematuramente interrotto dall’elitarismo delle avanguardie concettuali.

Eppure, questa sua strategia, è tutt’altro che accondiscendente. Si può affermare, invece, che le infantili ipertrofie dell’artista siano il cavallo di Troia per la trasmissione di messaggi tutt’altro che popolari.

Barile ricorre a un’iconografia che non corrisponde ai dettami pop d’immediatezza e riconoscibilità, come ad esempio, nel caso di quegli artisti che usano supereroi, personaggi dei fumetti e delle favole o illustri protagonisti della cronaca odierna. Sceglie, anzi, di costruire la sua psicografia su fonti storiografiche e letterarie, spesso rimodulando i codici rappresentativi della tradizione rinascimentale e barocca.

La sua quadreria di ritratti comprende figure come Melissa, la ninfa che allevò il piccolo Zeus sul Monte Ida per sottrarlo alla furia fagocitatrice del padre Crono, o Ipazia di Alessandria d’Egitto, filosofa, matematica e astronoma greca, caduta per mano di una folla di cristiani in tumulto e perciò divenuta simbolo della libertà di pensiero.

Accanto ai personaggi dell’antichità, si stagliano i rappresentanti della nobiltà rinascimentale italiana, come le anodine figure dei De’ Roberti, duchi di Reggio Emilia, soppiantati da quelle, ben più potenti, degli Estensi (da Bianca a Ginevra d’Este, da Adalberto III a Carlo Filiberto II ed Ercole III). C’è, poi, la tragica immagine della zarina Anastasia Romanov, assassinata dai bolscevichi e ci sono quelle più ironiche di Vanessa Cattani, madre di Lucrezia Borgia e di Emilia Mariani, prima suffragetta italiana. Si tratta di personaggi sconosciuti (o quasi) al grande pubblico, con le sole eccezioni (ma ne siamo poi così sicuri?) della pulzella d’Orleans Giovanna D’Arco, eroina nazionale francese, e di Dorian Gray, popolare figura di dandy creata dalla penna di Oscar Wilde, simbolo di raffinatezza e, insieme, di decadenza morale.

Ogni dipinto, inquadrato in una cornice aurea e concepito come un ritratto commemorativo con l’epigrafe del nome e degli anni di nascita e morte, riepiloga i caratteri del personaggio con l’aggiunta di particolari apocrifi, che molto rivelano dell’immaginario pop di Barile.

Ipazia, ad esempio, è raffigurata come una ribelle col corpo tatuato, una sorta di bad girlgotica su cui volteggia la sagoma metallica di un disco volante, forse un indizio della sua personalità “aliena”, culturalmente in netto anticipo sulla sua epoca.

Più filologico è, invece, il ritratto di Melissa, la levatrice di Zeus, accompagnata da due api giganti (più quella effigiata nell’elegante fermaglio sulla veste), in osservanza all’etimologia del suo nome, che significa, appunto, “produttrice di miele”. A questa fanno da pendantgli ovali di Cronoe Rea, rispettivamente padre e madre del sommo dio olimpico.

Nella carrellata dei ritratti estensi, spiccano quelli conturbanti di Biancae di Ginevra: la prima, che alla morte del marito Galeotto I Pico divenne religiosa, è raffigurata con una ciocca di capelli scompigliata dal vento, metafora d’inevitabili cambiamenti; la seconda, moglie di Pandolfo Sigismondo Malatesta, defunta poco più che ventenne (e immortalata da un celebre dipinto di Pisanello) è, invece, l’emblema del tempus fugit.

Una sorta d’irriverente memento mori è il trittico di personaggi che compone l’opera dedicata alla dinastia dei Roberti (1115-1430), stranamente rappresentati in abiti settecenteschi e intenti a compiere – comprensibilmente! – un’elaborata coreografia di gesti scaramantici.

Angelo Barile ama confondere le acque, adattando ai personaggi di un’epoca precedente la foggia di acconciature e costumi barocchi, come si evince anche dall’opera dedicata ad Adalberto III detto il Margravio, fondatore della dinastia degli Estensi nell’alto medioevo. “La mia grande passione per la musica classica barocca”, ammette, infatti, l’artista, “mi ha avvicinato a un universo visionario fatto di messaggi confusi, di vestiti azzardati, più simili a impalcature, e di parrucche improbabili e altissime, piene di accessori assolutamente inutili”, come nel caso degli Arredi vestitivi – tanto per citare un postmoderno come Mendini – di Carlo Filiberto II ed Ercole III d’Este, tempestati di bottoni, mostrine, fermagli, nappine, pizzi, trine e merletti.

Altro esempio di reinterpretazione di una figura storica è quello di Anastasia Romanov, sul cui volto si addensa, come per effetto di una meteorologia allegorica, la nube di un futuro da tregenda. A quest’immagine malinconica, capace di raccontare con un guizzo pittorico rivelatore, la triste sorte della zarina vittima del bolscevismo e poi canonizzata dalla chiesa ortodossa, fa da contraltare quella lieve e scanzonata della socialista e femminista Emilia Mariani, prima suffragetta italiana, amante dei fiori e accanita fumatrice di sigari.

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Pescando dalla storia e dal mito, Angelo Barile costruisce una carrellata di caratteri esemplari, lontanissimi dalle luci della ribalta massmediatica, eppure capaci di riportare alla nostra attenzione, attraverso il filtro lenticolare di un remoto passato, un universo valoriale che ci appare irrimediabilmente perduto. Se, infatti, dietro ogni suo ritratto c’è una storia, e quindi un insegnamento di qualche tipo, sia esso scanzonato o edificante, dietro le icone della tecnocrazia odierna non c’è nulla, nessun racconto universale o condivisibile, solo l’involucro vuoto di un idolo senza volto. Epitome e compendio di quelle che Jean Clair definiva le disjecta membra della modernità, ovvero i frammenti sparsi di questo nostro tempo liquido, è La Madonna del nulla, una versione capovolta e distorta dell’antica devozione per tutto ciò che vi è di sacro, vitale ed evolutivo nella vita e nell’arte. I ritratti di Angelo Barile, pur risultanti dal postmoderno appianamento di ogni gerarchia culturale, stanno lì a ricordarci che la pittura serve anche a questo. Non solo a ricostruire un’identità storica, ma a ristabilire, finalmente, un rapporto di senso, vale a dire profondo ed esperienziale, tra lo spettatore e le immagini.

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NOTE:

[1]Achille Bonito Oliva, LaTrans-avanguardia italiana, Giancarlo Politi Editore, 1980, Milano, p. 44.

[2]Op. cit., pp. 45-46.


INFO

Angelo Barile. Aristocratica
a cura di Ivan Quaroni
Galleria Casati Arte Contemporanea
Via Valprato 68 Torino
Opening 26 settembre,  h.18.00 – 21.30
Tel.+39 039 9635366 – +39 329 5941841
email:art@casatiartecontemporanea.it 
torino@casatiartecontemporanea.it

Catalogo disponibile

 

BEAUTIFUL DREAMERS

22 Set

Il sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism

A cura di Ivan Quaroni e Chiara Canali

Dal 17 settembre al 15 ottobre 2016

La mostra Beautiful Dreamers – organizzata nell’ambito della quinta edizione della rassegna StreetScape, a cura di Chiara Canali e Ivan Quaroni, diffusa nelle piazze e nei cortili della città di Como – include le opere di alcuni dei più interessanti artisti della Lowbrow Art e del Pop Surrealism americani. Spesso provenienti dall’ambito dell’illustrazione e del graphic design, ma poi approdati alla pittura, questi artisti incarnano la propensione fantastica e surreale, insieme pop e folk, della pittura americana contemporanea.

Lowbrow Art e Pop Surrealism sono definizioni, spesso contestate, con cui si designa un vasto e variegato movimento artistico americano formatosi nei primi anni Novanta nell’alveo della cultura underground di Los Angeles. La sua formazione è, però, il risultato di una lunga catena d’influssi, incroci e ibridazioni di differenti subculture, sviluppatesi in California tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio degli anni Ottanta. Contaminazioni che poi sono confluite in una forma compiuta solo nell’ultimo decennio del Novecento.

Composta principalmente di pittori, scultori, illustratori, toy designer, la Lowbrow Art affonda le radici nella cosiddetta Custom Culture e nelle Hot Rod, due fenomeni tipici dell’America del Secondo dopoguerra, che trasformarono il mondo delle automobili e delle corse su strada in un emblema di libertà, creatività e ribellione giovanile. Da quei primi, seminali fermenti, la Lowbrow Art è cresciuta e si è trasformata accogliendo via via gli influssi dell’Arte Psichedelica e del fumetto underground della vicina San Francisco, dell’estetica punk maturata a Los Angeles negli anni Ottanta, spesso attingendo agli stilemi di pratiche limitrofe come il tatuaggio, l’illustrazione, il design di giocattoli e traendo numerosi spunti tanto dall’immaginario pop della Street Art, quanto dalla tradizione dall’Arte Folk.

Gli artisti qui proposti rappresentano l’evoluzione attuale di quel movimento, la cui data di nascita si può far risalire alla fondazione della rivista Juxtapoz nel 1994, ma che in verità si è sviluppato lungo un cinquantennio nella costa ovest degli Stati Uniti, fino a diventare una oggi tendenza globale, con presenze in Europa, Asia e Sud America.

Gli artisti

 ANTHONY AUSGANG (Nato nel 1959 a Trinidad e Tobago. Vive e lavora a Los Angeles). Ha esposto in diverse gallerie internazionali: Zero Art Gallery di Houston (Texas) con cui ha esordito; Luz de Jesus, Kantor Gallery e Merry Karnowsky Gallery di Los Angeles. Tra le più importanti pubblicazioni, “Pop Surrealism: The Rise of Underground Art”, Ignition Publishing/Last Gasp, 2004. Tra i suoi principali collezionisti: David Arquette, Nicolas Cage, Perry Farrell.

GARY BASEMAN (USA, Los Angeles, 1960) dove vive e lavora. Artista poliedrico, illustratore, designer e autore del famoso cartone animato Disney Teacher’s Pet, vincitore di tre Emmy Awards, Gary Baseman è considerato una delle figure di spicco della scena Pop Surrealista californiana, caratterizzata dalla contaminazione tra arte e cultura pop. Baseman ha iniziato la sua carriera a New York tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, collaborando come illustratore con The New Yorker, The New York Times, Rolling Stone, Time, Atlantic Monthly e The Los Angeles Times. Ritornato in California, Baseman si è dedicato all’esplorazione di diverse forme di ibridazione tra arte, moda, pubblicità, design, musica e cinema e ha coniato il termine “Pervasive Art” per definire la sua estetica, capace di “offuscare la linea di confine tra Fine Art e Commercial Art”. Inserito dall’Entertainment Weekly magazine tra le 100 persone più influenti del mondo dell’intrattenimento, Gary Baseman ha esposto i suoi dipinti in musei e gallerie in tutto il mondo ed ha conquistato una vasta schiera di appassionati grazie alla creazione di vinyl toys, borse, stampe e altri prodotti per il mercato di massa.

TIM BISKUP (USA, Santa Monica, California, 1967) vive e lavora a Los Angeles. I suoi lavori sono stati esposti in importanti musei e gallerie tra cui a Los Angeles, New York, San Francisco, Tokyo, Kyoto, Barcellona, Berlino, San Paolo, Buenos Aires e Melbourne. Tra le numerose mostre ricordiamo le più importanti: nel 2011 Former State, This Gallery, Los Angeles, nel 2010 Fantasilandia, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano, Awesome Paintings, All Tomorrow’s Parties Gallery, New York, nel 2009 The Mystic Chords of Memory, Iguapop Gallery, Barcellona, nel 2008 O/S Operating System, Addict Galerie, Parigi, The Artist in You, Jonathan Levine Gallery, New York, nel 2007 Ether, Billy Shire Gallery, Culver City, California, nel 2006 Vapor, Galerie Engler, Berlino, Pervasion, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California.

CLAYTON BROTHERS Rob (1963, Dayton, Ohio) e Christian (1967, Denver, Colorado) Clayton hanno frequentato l’Art Center College of Design di Pasadena (California), laureandosi a pieni voti. Hanno tenuto importanti mostre personali al Musee de la Halle Saint Pierre di Parigi (2013), al Pasadena Museum of Art (2011) e al Madison Museum of Contemporary Art (2010) e in diverse gallerie a Los Angeles, New York, Houston, Santa Monica e Pechino (Cina). Hanno, inoltre, partecipato a mostre collettive presso il Santa Monica Museum of Art (Incognito, 2010), il Laguna Art Museum di Laguna Beach (In the Land of Retinal Delights, 2008) e il Marianna Kistler Beach Museum of Art di Manhattan in Kansas (BLAB! A Retrospective, 2008) oltre che ad alcune delle maggiori fiere d’arte internazionali, come Art Basel, in Svizzera, nel 2009 e nel 2010 e Armory Show a New York, nel 2006 e nel 2007.

RYAN HESHKA (Canada, Manitoba, 1970) vive e lavora a Vancouver, Canada. Ha conseguito una laurea in interior design e ha lavorato per molti anni in questo settore, oltre che nell’animazione, prima di fare dell’arte e dell’illustrazione la sua principale attività. Heshka appare nei maggiori annuali d’illustrazione, tra cui American Illustration, Society of Illustrators, Communication Arts, 3 x 3, e Applied Arts. Tra i suoi clienti ci sono Vanity Fair, Wall Street Journal, The New York Times, Playboy, Esquire, Forbes,Topps e Dreamworks SKG. Ha esposto in gallerie nel Nord America ( tra cui Roq La Rue, Seattle, WA; Copro Nason, LA; Orbit Gallery, New Jersey; Rotofugi, Chicago) e in Europa (Feinkust Kruger, Germania; Antonio Colombo Arte Contemporanea, Italia), ed è stato pubblicato numerose volte sulla rivista BLAB! e su alcuni libri dedicati al movimento della New Underground, tra cui THE UPSET (Gestalten Publishing).Ha pubblicato i libri per bambini Welcome to Monster Town (Simply Read Books, 2007) e Welcome to Robot Town (Henry Holt & Co., 2013), tradotti in diverse lingue.

RUSS POPE (USA, 1970) vive e lavora in Massachusetts. L’arte di Russ Pope attinge al contesto sociale e politico che lo circonda nella sua quotidianità. Le ispirazioni di Pope sono lo skateboard, la musica e le persone creative e interessanti che incontra ogni giorno. Le sue pennellate audaci, gli scarabocchi finiti e i quadri accattivanti sono caratterizzati da volti, nature morte e situazioni divertenti. Dai primi tempi in California centrale a fare skateboard, disegnare e partecipare a concerti punk, fino alla sua vita attuale nel New England, Russ Pope ha elaborato la vita e le sue interazioni con il mondo attraverso il prisma di una penna e di un pennello.

ANDY REMENTER (USA, 1981. Vive e lavora a Philadelphia) è un artista grafico americano vincitore di numerosi premi. È cresciuto in una cittadina costiera vittoriana, dove una precoce esposizione alle insegne sbiadite dal sole ha dato origine al suo amore per la tipografia e per i caratteri eseguiti a mano. Un senso di atemporalità e nostalgia permea il suo mondo visivo. Un altro tema ricorrente nell’opera di Rementer è l’isolamento, che egli cita come effetto del suo improvviso trasferimento in un ambiente urbano durante gli anni della formazione ed è spesso rappresentato nei suoi lavori attraverso il disagio di fondo dei suoi personaggi. Si è laureato presso The University Of The Arts nel 2004. Dopo aver lavorato a Fabrica, nel nord Italia, si è trasferito nell’East Coast, dove divide il suo tempo fra il disegno, la pittura, e la narrazione. Il suo lavoro colorato e vivace è stato presentato da una varietà di fonti, che includono una collaborazione in corso con Apartamento Magazine, The New York Times, MTV, The New Yorker, Le Monde, New York Magazine e Creative Review. Ha esposto la sua arte in mostre personali e collettive in Europa, Stati Uniti e Asia.

FRED STONEHOUSE (USA, Milwaukee, 1960) vive e lavora a Milwaukee, in Wisconsin. Diplomato in pittura all’UW-Milwaukee, attualmente Fred insegna disegno e pittura all’UW-Madison (Wisconsin). I suoi lavori fanno parte di numerose collezioni private, come quella di Madonna, e pubbliche: Mary And Leigh Block Museum Of Art, Evanston (Illinois); Milwaukee Art Museum, Milwaukee; San Jose Art Museum, San Jose (California), per citarne solo alcune. Tra le principali mostre personali: nel 2013, The Deacon’s Seat, St. Ambrose College, Davenport (Iowa); nel 2012, Blood Relatives, Taylor Bercier Fine Art, New Orleans; nel 2011, Marsh Night, Koplin Del Rio Gallery, Los Angeles; nel 2010, Marshland, Howard Scott Gallery, New York; nel 2007, Selections From The Natural History Portfolio Of Marshall Deerfiled, Tory Folliard Gallery, Milwaukee. Tra le principali mostre collettive: nel 2014, Don’t Wake Daddy IX, Feinkunst Kruger, Amburgo; nel 2013, Vice And Virtue, Northern Illinois University Art Museum, DeKalb (Illinois); nel 2007, BLAB!, Copro Nason Gallery, Santa Monica (California).

ERIC WHITE (USA, Ann Arbor, Michigan, 1968) vive e lavora a Los Angeles. Il pittore, che negli ultimi anni ha ottenuto un conclamato successo a livello internazionale, ha esposto in rinomate gallerie e musei in tutto il mondo tra cui Jeffrey Deitch Project e Gladstone Gallery a New York, Laguna Art Museum a Los Angeles e MACRO a Roma. Nel 2010 gli è stata assegnata una borsa di studio per la pittura dalla New York Foundation for the Arts. La sua iconografia è apprezzata e seguita da una folta schiera di collezionisti, tra i quali alcune star del cinema oltre che numerosi esponenti dal mondo musicale.

ZIO ZIEGLER (USA, Mill Valley, California,1988) ive e lavora a San Francisco. Ha studiato filosofia alla Brown University e pittura alla Rhode Island School of Design. Le sue opere si possono trovare in diversi luoghi, come wall painting, e gallerie in giro per il mondo, i suoi murales sono a San Francisco, Los Angeles, Puerto Rico. Tra le sue mostre personali ricordiamo nel 2014: Chasing Singularity, Artists Republic 4 tomorrow, Laguna Beach, CA; nel 2013: The Infinite, Gallery 81435, Telluride CO, Chaos/ Clarity, Ian Ross Gallery, San Francisco, CA; nel 2012 Lost Illusions, Project Gallery, Hollywood, CA.Tra le mostre collettive: nel 2013 Winter Group Show, Stolen Space Gallery, London UK, Rise Above, Las Vegas NV, Neu-Folk, Lequivive Gallery, Oakland CA; Confluence, 5024SF Gallery, San Francisco CA, Complex Gallery, Portland, OR, Santurce es Ley, Museum of Contemporary Art Puerto Rico, San Juan Puerto Rico, Young Americans, Singapore Indonesia; nel 2012 FlashBang, Project One Gallery, San Francisco, CA; Primeval, Carmichael Gallery, Culver City, CA; and Chromatic: An Undeniable Experience, Roll-Up Gallery, San Francisco, CA. Il suo lavoro è apparso su importanti riviste come The San Francisco Chronicle, Vice Magazine, Seven by Seven Magazine, Four Magazine, The Las Vegas Sun, Juxtapoz Magazine, Hi-Fructose, Vans, Argot & Ochre, Unruth, Complex, Booooooom, Arrested Motion, RVCA and Marin IJ.


Info:

Beautiful Dreamers.
Il sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism

Mostra realizzata in occasione di StreetScape5
a cura di Ivan Quaroni e Chiara Canali

Evento organizzato in occasione della 12° Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI

SPAZIO PARINI
Via Parini 6, Como

Orari:
lun-ven: 15.00 – 19.30
sab –dom: 10.30 – 12.30 /14.30 – 19.30

Info:
http://www.artcompanyitalia.com
info@artcompanyitalia.com
info@accademiagalli.com
www.accademiagalli.it

In collaborazione con:
Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano

Ufficio Stampa Milano:
Sonia Dametto: soniapress@teletu.it cell. 392 7182787

Ufficio Stampa Como:
Silvia Introzzi mail: silvia.introzzi@manzoni22.it cell. 335 5780314

 

Andy Rementer e Fulvia Mendini. The Age of Innocence

1 Feb

di Ivan Quaroni

La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere,
ma quando non c’è più niente da togliere.”
(Antoine de Saint-Exupéry)

La semplicità nell’arte è, in generale, una complessità risolta.
(Constantin Brâncuşi)

 

Siamo in un’epoca di conclamata sublimazione della tridimensionalità, effetto evidente di una fase ultra-mimetica delle tecnologie digitali. Il 3D ormai non imita più la realtà, ma la supera in nome di una super definizione dell’esperienza ottica che, però, finisce per appiattire il contributo immaginativo dello spettatore. Credo sia successo a ognuno di noi di sperimentare il fastidio generato dalla visione di un film (oppure di un videogioco) in 3D, in cui l’applicazione forzosa di tale tecnica ha provocato un impoverimento, anziché un arricchimento del godimento estetico o ludico. Quello che i geek degli effetti speciali e gli smanettoni dell’industria videoludica non riescono a capire è che la mente umana contribuisce attivamente alla visione, alterando e ristrutturando le percezioni visive in base ai concetti già immagazzinati. Fenomeni come lo scotoma, l’effetto priming, la misdirection passiva, la cecità selettiva e altri curiosi trucchi mentali sono, infatti, ben noti agli scienziati e agli illusionisti. René Magritte sosteneva che “la mente ama le immagini il cui significato è ignoto, poiché il significato della mente stessa è sconosciuto”. Guardare un’immagine, quindi, è come ingaggiare una sfida con il mistero che essa sottende. Quando, invece, l’immagine contiene troppe informazioni, quando è denotativa, eccessivamente didascalica rispetto al proprio contenuto, il mistero si dissolve.

I lavori pittorici di Andy Rementer e Fulvia Mendini non corrono questo rischio. Nonostante l’apparente semplicità dei loro dipinti, peraltro non privi di dettagli preziosi e riferimenti colti, Rementer e Mendini dimostrano di aver ben compreso il potenziale comunicativo, ma soprattutto seduttivo, del linguaggio bidimensionale, il quale sopperisce alla sottrazione degli elementi prospettici e chiaroscurali con l’aumentata capacità allusiva di linea e colore. Tipica di molte forme di arte antica, così come di quella bizantina e medievale fino al Trecento, la bidimensionalità è stata una caratteristica che ha attraversato molte correnti dell’arte del Novecento. Essa consiste in una rappresentazione concentrata nei soli parametri di altezza e larghezza, in cui la rinuncia a ogni effetto di profondità spaziale finisce per alterare anche la dimensione temporale e narrativa.

Un esempio di questo meccanismo è Guernica di Picasso, forse il più celebre capolavoro di arte bidimensionale di tutti i tempi, dove la sintesi pittorica e l’allineamento anti-prospettico di tutte le figure sullo stesso piano producono il più alto modello di narrazione simultanea, sulla scia di quanto già avveniva nella struttura paratattica dei rilievi paleocristiani e degli affreschi altomedievali, in cui si affastellavano i diversi episodi di una storia.

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Fulvia Mendini, Belide, 2015, acrilico su tavola, 23×17 cm

Né l’artista americano, né quella italiana si servono, però, di questo espediente. Più che nell’impianto narrativo – stringatissimo nel caso di Andy Rementer e totalmente abolito nei dipinti di Fulvia Mendini – gli effetti dell’adozione di un linguaggio sintetico si avvertono soprattutto nell’impatto iconico delle figure, in parte ereditato dalla Pop Art e in parte dall’economia progettuale e comunicativa del design, cui entrambi devono la propria formazione.

Originario del New Jersey, Andy Rementer ha, infatti, studiato Graphic Design alla University of the Arts di Philadelphia ed ha poi lavorato come illustratore e fumettista per testate come il New York Times, il New Yorker, Apartamento Magazine e Creative Review e, come animatore, con l’emittente MTV e la casa di produzione cinematografica Warner Bros. Per due anni è stato a Treviso alla Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group, in compagnia di un manipolo di ricercatori internazionali specializzati in grafica, design, fotografia, video, musica e giornalismo. Durante la sua permanenza in Italia, l’artista ha sviluppato un linguaggio visivo ispirato oltre che al design, al fumetto e ai cartoni animati, anche all’arte europea e, in particolare a quella medievale, bizantina e rinascimentale conosciuta nelle sue frequenti incursioni a Venezia.

Nelle opere di Andy Rementer, la flatness si esprime attraverso una teoria di personaggi dalle sagome compatte e dai contorni definiti, spesso stagliati sullo sfondo di un paesaggio urbano. La metropoli è, infatti, protagonista di una serie di episodi fulminei, di storie semplicissime che, però, rivelano il carattere straordinario dell’esperienza quotidiana. L’artista annulla i dettagli di spazio e tempo e cala i suoi personaggi in una dimensione silente e sospesa di sapore quasi Novecentista. Non a caso, annovera Ferdinand Léger tra le sue principali influenze, anche se la propensione per la stringatezza e la sintesi gli deriva dalla lettura dei racconti di Raymond Carver, dove l’economia narrativa si combina con un linguaggio conciso e minimale.

DIVA

Andy Rementer, Divano Diva, 2015, oil on canvas, 76×122 cm

Se le forme piene delle sue figure ricordano a tratti quelle dipinte dagli europei nel clima di Ritorno all’ordine degli anni Venti e Trenta, gli oggetti e i complementi d’arredo che compaiono negli interni domestici denotano, invece, il suo duplice interesse per il design e per la Metafisica italiana. Da buon cosmopolita, e con la spavalderia di chi è abituato a trasgredire ogni confine disciplinare, Rementer condensa nel lessico pop una varietà d’interessi, che stanno all’incrocio tra passato e presente, ma anche tra arte, grafica e illustrazione. E, così, reinventa una mitologia urbana allegramente nevrotica, vivacemente malinconica, che ben si adatta alle contraddizioni della società moderna.

Dopo gli studi di grafica e illustrazione all’Istituto Europeo del Design di Milano, Fulvia Mendini ha lavorato all’Atelier Mendini e, parallelamente, ha sviluppato la propria ricerca pittorica e decorativa concentrandosi in particolare sul ritratto e sul mondo delle forme naturali. Artista versatile, Mendini ha collaborato con artigiani e aziende, realizzando ceramiche, sculture, tappeti, murales, gioielli e borse. La sua pittura, caratterizzata (soprattutto nei ritratti) da un’impostazione frontale e ieratica, ricca di citazioni colte, è il risultato di una raffinata mescolanza di stili artistici e grafici. Se nelle sue moderne Madonne è lecito rintracciare l’influenza di molta pittura rinascimentale – da Giovanni Bellini a Piero della Francesca, fino a Pisanello – nei ritratti più recenti affiora, per la prima volta un vivo interesse per la pittura simbolista, filtrata però dalla sua tipica sensibilità lineare.

La reinventata tipologia mariana della Mendini sfocia, così, in una carrellata di fisionomie che alludono all’eterno femminino decadente, epurato, però, di ogni connotato drammatico. Fate e ninfe rubate al catalogo dei Fairy Tales Painting vittoriani si accompagnano, infatti, ai classici modelli di veneri preraffaellite e alle fatali dame secessioniste interpretate alla luce di una grammatica ultrapiatta che fa pensare alla pittura segnaletica di Julian Opie. Venus Verticordia, a cominciare dal titolo, è una rilettura del celebre dipinto di Dante Gabriel Rossetti corredato da floreali allusioni all’immaginario ornamentale di William Morris, mentre la più moderna Belide, sovrappone al nitore fotografico di Loretta Lux il ricordo di un ritratto di Helene Klimt, figlia del famoso maestro viennese.

Madonna della conchiglia

Fulvia Mendini, Madonna della conchiglia, 2014, acrilico su tela, 69×60 cm

Inedita, invece, è l’attrazione di Fulvia Mendini verso il paesaggio, anche questa volta derivato da suggestioni simboliste. La natura, finora confinata al mondo di piante e fiori, assume finalmente una dimensione ambientale e si distende, dietro i ritratti in primo piano, in orizzonti montani che molto devono ai paesaggi alpini di Giovanni Segantini e degli svizzeri Ferdinand Hodler, Cuno Amiet e Alexandre Perrier.

L’artista costruisce un universo bidimensionale apparentemente semplice, dove ogni figura assume una fisionomia aliena e ogni landscape sembra il fondale di un videogame, ma dentro i suoi paradisi terrestri, aristocraticamente elementari e improntati al più puro godimento ottico, si nascondono riferimenti a raffinati, preziosi episodi della storia dell’arte. Ciò che sembra una pittura facile, immediatamente fruibile, è invece un ipertesto visivo, che nasconde in superficie un numero impressionante d’informazioni. La forza dei linguaggi di Fulvia Mendini e Andy Rementer sta tutta qui. Ossia nell’aver compreso che – come diceva Bruno Munari, facendo eco a Leo Longanesi – “complicare è facile, semplificare è difficile”.

Info:
Fulvia Mendini | Andy Rementer - The age of innocence
a cura di Ivan Quaroni
11.02 - 2.04.2016
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milano
Tel/Fax 02.29060171 - info@colomboarte.com

The age of innocence

 

by Ivan Quaroni

 

Perfection is achieved not when there is nothing more to add, but when there is nothing left to take away.”
(Antoine de Saint-Exupéry)

Simplicity in art is generally complexity resolved.
(Constantin Brâncuşi)

 

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Fulvia Mendini, Lollipop

We are in an era of clear sublimation of three-dimensionality, an evident effect of an ultra-mimetic phase of digital technologies. 3D no longer imitates reality, but surpasses it in the name of a super-definition of the optical experience that, however, winds up flattening the imaginative contribution of the spectator. I think everyone has experience the irritation generated by watching a film (or a video game) in 3D, in which the enforced application of the technique leads to an impoverishment, rather than an enhancement, of aesthetic or recreational pleasure. What the special effects geeks and the tweakers of the video game industry cannot manage to understand is that the human mind takes an active part in viewing, altering and restructuring visual perceptions based on already absorbed concepts. Phenomena like the scotoma, the priming effect, passive misdirection, selective blindness and other curious mental tricks, have been known for a long time to both scientists and stage magicians.

René Magritte believed that “the mind loves images whose meaning is unknown, since the meaning of the mind itself is unknown.” To look at an image, then, means engaging in the challenge of a mystery the lies behind it. When the image instead contains too much information, when it is denotative, excessively caption-like with respect to its content, the mystery dissolves.

The painted works of Andy Rementer and Fulvia Mendini do not run this risk. In spite of the apparent simplicity of their paintings, which are not however lacking in precious details and erudite references, Rementer and Mendini demonstrate that they are understood the communicative but above all seductive potential of the two-dimensional language, which makes up for the subtraction of elements of perspective and chiaroscuro with an augmented allusive capacity of line and color. Typical of many forms of antique art, like Byzantine and medieval art until the 1300s, two-dimensionality has been a characteristic that crosses many 20th-century currents. It consists of a representation that concentrates only on parameters of height and width, in which the sacrifice of any effect of spatial depth also winds up altering the temporal and narrative dimension.

One typical example of this mechanism is Picasso’s Guernica, perhaps the most famous work of two-dimensional art of all time, where the pictorial synthesis and anti-perspective alignment of all the figures on the same plane produce the loftiest model of simultaneous narration, in the wake of what had already happened in the paratactic structure of Paleo-Christian reliefs and the frescoes of the Early Middle Ages, clustering the various episodes of a story. Neither of the two artists makes use of this expedient, however. More than in the narrative plot – very pithy, in the case of Andy Rementer, totally abolished in the paintings of Fulvia Mendini – the effects of the use of a synthetic language can be seen in the iconic impact of the figures, partially inherited from Pop Art and partially from the communicative economy of design, in which both have a background.

LA_GAZZA_LADRA

Andy Rementer, La Gazza ladra, 2015, oil on canvas, 122×76 cm

Hailing from New Jersey, Andy Rementer studied Graphic Design at the University of the Arts in Philadelphia and then worked as an illustrator and cartoonist for periodicals like the New York Times, the New Yorker, Apartamento and the Creative Review, and as an animator for MTV and Warner Bros. He spent two years in Treviso at Fabrica, the communications research center of Benetton Group, in the company of a handful of international researchers specializing in graphics, design, photography, video, music and journalism. During his time in Italy the artist developed a visual language driven not only by design, comics and cartoons, but also by European art and, in particular, medieval, Byzantine and Renaissance art, encountered in his frequent trips to Venice.

In the works of Andy Rementer flatness is expressed through a series of characters with compact silhouettes and sharp edges, often standing out against the backdrop of a cityscape. The metropolis is the protagonist of a series of quick episodes, very simple stories that nevertheless reveal the extraordinary character of everyday experience. The artist annuls the details of space and time and sets his characters in a silent, suspended dimension with almost 20th-century overtones. It is no coincidence that he cites Ferdinand Léger as one of his main influences, though the tendency to be concise comes from the reading of stories by Raymond Carver, where narrative economy is combined with terse, minimal language.

TOGETHER

Andy Rementer, Together

While the full forms of his figures remind us at times of those painted by the Europeans in the context of the “return to order” of the 1920s and 1930s, the objects and furnishings that appear in the domestic interiors point to his dual interest in design and Italian Metaphysical Art. As a proper cosmopolitan, and with the brashness of one accustomed to crossing all disciplinary boundaries, Rementer condenses a variety of interests in the pop lexicon, at the intersection between past and present, but also between art, graphics and illustration. Doing so, he reinvents a cheerfully neurotic, vivaciously melancholy urban mythology, well-suited to the contradictions of modern society.

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Andy Rementer, La pausa

After studying Graphic Design and Illustration at the European Design Institute in Milan, Fulvia Mendini worked at Atelier Mendini and, at the same time, developed her own research on painting and decoration, concentrating in particular on portraiture and the world of natural forms. A versatile artist, Mendini has worked with artisans and companies, making ceramics, sculptures, carpets, murals, jewelry and handbags. Her painting, characterized (especially in the portraits) by a frontal, hieratic arrangement, full of erudite citations, is the result of a refined mixture of artistic and graphic styles. While in her modern Madonnas we can see the influence of Renaissance painting – from Giovanni Bellini to Piero della Francesca, all the way to Pisanello – in the more recent portraits a lively interest surfaces for the first time in Symbolist painting, but filtered by her typical linear sensibility.

Madonnina dell' umiltà

Fulvia Mendini, Madonnina dell’umiltà, 2015, acrilico su legno, 23×1\7 cm

The reinvented Marian typology of Mendini converges in a medley of physiognomies that allude to a decadent eternal femininity, but purged of any dramatic connotations. Fairies and nymphs stole from the catalogue of Victorian “fairy painting” are accompanied, in fact, by classic models of Pre-Raphaelite Venuses and Secessionist femmes fatales interpreted with an ultraflat grammar that brings to mind the signage-like painting of Julian Opie. Venus Verticordia, starting with its title, is a re-reading of the famous painting by Dante Gabriel Rossetti, provided with floral allusions to the ornamental imaginary of William Morris, while the more modern Belide overlaps the photographic clarity of Loretta Lux with the memory of a portrait of Helene Klimt, daughter of the famous Viennese master.

Proserpina

Fulvia Mendini, Proserpina, 2009, acrilico su tela, 69×60

Fulvia Mendini’s attraction to the landscape, on the other hand, is unprecedented, and again comes from Symbolist suggestions. Nature, previously confined to the world of plants and flowers, finally takes on an environmental dimension and spreads, behind the portraits in the foreground, into mountainous horizons that owe a lot to the Alpine paintings of Giovanni Segantini and the Swiss painters Ferdinand Hodler, Cuno Amiet and Alexandre Perrier.

The artist constructs an apparently simple two-dimensional universe where each figure takes on an alien physiognomy and every landscape seems like the background of a video game. But inside her earthly paradises, aristocratically elementary and bent on pure optical enjoyment, references are lurking to refined, precious episodes in the history of art. What looks like easy, immediately enjoyable painting is instead a visual hypertext that conceals an impressive amount of information. The force of the languages of Fulvia Mendini and Andy Rementer lies here: in having understood that – as Bruno Munari said, echoing Leo Longanesi – “complicating things is easy, simplifying them is hard.

Info:
Fulvia Mendini | Andy Rementer - The age of innocence
curated by Ivan Quaroni
11.02 - 2.04.2016
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milano (Italy)
Tel/Fax 02.29060171 - info@colomboarte.com

 

 

 

 

 

 

 

From Cali, with Love. Jeremy Fish, Russ Pope, Zio Ziegler

28 Ott

di Ivan Quaroni

The flashing and golden pageant of California!

(Walt Whitman, Song of the Redwood-Tree, 1874)

ITA

Gli artisti californiani hanno qualcosa che li distingue da tutti gli altri artisti americani. Sarà l’aria mite e solare della West Coast, sarà, forse, la particolare influenza di esperienze come la kustom kulture, il punk e la psichedelia o dell’estetica e gli stili di vita legati al surf e allo skateboarding, sta di fatto che gli artisti del Golden State non hanno la pretenziosità un po’ snob dei newyorkesi e quasi mai si avventurano in articolate spiegazioni filosofiche delle proprie opere, convinti, come sono, che un buon lavoro si spiega da solo, senza bisogno di voluminosi e tediosi apparati critici. L’immediatezza e la riconoscibilità sono caratteristiche tipiche dell’arte californiana emersa dagli anni Ottanta in poi, insieme a una certa vena fantastica e surreale che ha generato numerose sigle e denominazioni per movimenti dai confini quanto mai labili come il Pop Surrealism o la Lowbrow Art. Etichette a parte, il denominatore comune delle molteplici frange dell’arte prodotta nell’area di Los Angeles e San Francisco è una spiccata propensione per la trasfigurazione e la metafora, insomma per quel particolare modo di raccontare la realtà “sopra righe” che mescola l’osservazione della vita quotidiana con elementi d’invenzione e riferimenti alla cultura popolare.

Jeremy Fish, ROLLING RIPPER, 2015, ink on paper, hand carved wood frame, 40,6x50,8 cm

Jeremy Fish, ROLLING RIPPER, 2015, ink on paper, hand carved wood frame, 40,6×50,8 cm

Con Hollywood, Disneyland e la Silicon Valley, la California è, infatti, l’odierno paradigma della civiltà fantastica e virtuale, il luogo, come sostiene lo storico americano Kevin Star, in cui è più ambiguo il rapporto tra realtà e finzione, tra verità e suggestione. Oltre all’approccio fantastico, un altro aspetto interessante dell’arte underground, ammesso che si possa ancora chiamare così, è l’attitudine degli artisti a saltare gli steccati, a violare i confini disciplinari, quelli tutelati dai sacerdoti dell’arte ufficiale, con l’applicazione della propria visione artistica a ogni sorta di oggetto attraverso collaborazioni con aziende produttrici di abbigliamento, di articoli sportivi e di giocattoli, oppure con etichette discografiche, case editrici e riviste specializzate.

Jeremy Fish, Russ Pope e Zio Ziegler, tre artisti di diversa generazione, ma tutti operanti nell’area della baia di San Francisco, condividono la medesima passione verso un’arte senza frontiere, capace di spaziare dalla pittura all’illustrazione, dal murale alla customizzazione di prodotti per brand di culto come Vans, RVCA e Santa Cruz. Insomma, questi moschettieri della West Coast sanno bene che per comunicare con un pubblico più vasto la galleria d’arte e il museo non bastano. Per conquistare le persone, le immagini devono diventare popolari e riconoscibili, magari finendo su T-shirt e cappellini, scarpe e tavole da skate, manifesti e copertine dei dischi.

Russ Pope, flyer for

Russ Pope, flyer for “From Cali with Love

Gli artisti di From Cali with Love, titolo che occhieggia agli slogan delle coloratissime cartoline del Golden State, non potrebbero essere più diversi tra loro. Tracce di punk, di urban art, di psichedelia, di fumetto underground e di un po’ tutte le matrici culturali e visive del California Dreaming, affiorano in miscele diverse e originali tanto nelle opere grafiche e pulitissime di Jeremy Fish, quanto in quelle gestuali ed espressionistiche di Russ Pope e di Zio Ziegler. Eppure, ciò che li accomuna davvero è appunto il desiderio di raccontare la realtà per similitudini e allegorie, di catturare tutto il quotidiano e il fantastico della società contemporanea, così come viene percepito e vissuto nella costa sud-occidentale degli Stati Uniti d’America. Per lo scrittore Wallace Stegner, la California è come l’America, “soltanto un po’ di più”, un concentrato del sogno statunitense, l’epitome di uno stile di vita unico e riconoscibile che si esprime anche attraverso una grande varietà di linguaggi visivi.

Prendiamo, ad esempio, Jeremy Fish, street artist, illustratore e skater, considerato uno degli artisti che più ha segnato l’estetica urbana di San Francisco. Uno così non puoi rinchiuderlo in nessuna etichetta, perché nella sua arte confluiscono esperienze molto diverse tra loro, dalla formazione accademica al lavoro artistico in strada, dalla decorazione di tavole da skate alle collaborazioni con artisti della scena hip hop come Aesop Rock, fino alla definizione di un linguaggio unico e riconoscibile. Newyorchese di nascita ma californiano d’adozione, Jeremy Fish è un artista versatile, che ha saputo creare un universo alternativo all’incrocio tra biografia e immaginazione, caratterizzato da un impianto grafico netto e inconfondibile. Dentro i suoi dipinti, che spesso sembrano manifesti di una nuova araldica pop, puoi trovarci di tutto: totem fantastici e animali stilizzati, simboli e loghi, teschi e vascelli, lampade e giocattoli, ma anche ritratti di persone vere. Sembrano tavole illustrate di una fiaba urbana, ma più li guardi e più ti rendi conto che i suoi lavori sono disseminati di una fitta trama di allegorie e di indizi, una specie di sotto testo, di contro-storia che si svolge anche in secondo piano, tra le ombre proiettate dalle figure e perfino tra gli elaboratissimi intagli delle cornici.

Due esempi su tutti, Love and Companionship e Truth and Friendship, sono opere che ritraggono persone care all’artista, come la moglie Jayde e l’amico e fotografo Rick Marr, associate all’immagine degli animali che meglio ne rispecchiano il carattere, rispettivamente un gatto e un bradipo. Sono in sostanza ritratti totemici, che danno un volto e una forma comprensibili a sentimenti e relazioni della vita di tutti i giorni. Gli elementi fantastici, intendiamoci, sono sempre presenti, ma si ha l’impressione che essi rappresentino una maniera, forse la più efficace e meno retorica, per celebrare l’amore, l’amicizia e gli affetti e, in fin dei conti, per interpretare la realtà. Una spiccata vena narrativa, infatti, attraversa tutta la produzione di Jeremy Fish. Uno dei suoi temi iconografici preferiti è quello degli animali, spesso concepiti come contenitori dotati di una cerniera longitudinale che si apre a svelare la presenza di mondi alternativi, di storie che scorrono, come fiumi sotterranei, nella dimensione sommersa della memoria e in quella galleggiante della coscienza. Basta un’occhiata a The Bear’s Beehive, The Catfish Cottage o The Igloo Island, per capire che la pittura di Fish è più complessa e stratificata di quanto appaia in superficie. Le sue composizioni ricordano gli stemmi e i blasoni gentilizi del medioevo oppure le figure dei tarocchi e delle carte da gioco, per via della natura intimamente simmetrica e speculare delle immagini, dove alto e basso, esterno e interno, visibile e invisibile s’intrecciano in un rapporto di mutuo scambio simbolico. Insomma, a Jeremy Fish piace dipingere storie travestite da favole. O, se preferite, favole che sembrano la trascrizione visiva (e traslata) delle sue esperienze personali.

Russ Pope, Saturday Night Live, 2015, acrylic on sheet canvas, 46x61 cm

Russ Pope, Saturday Night Live, 2015, acrylic on sheet canvas, 46×61 cmAntoni

Anche Russ Pope ha un approccio pittorico narrativo, ma il suo punto di vista è quello dell’osservatore esterno, che scruta la realtà e la riassume in una carrellata di personaggi tipizzati, una specie di Commedia umana della West Coast. Fin da ragazzo la passione di Pope per il disegno e per i fumetti si è fusa con quella per lo skate. Per un certo periodo è stato anche uno skater professionista, poi si è dedicato agli aspetti commerciali dell’industria, lanciando i marchi Scarecrow e Creature Skatebords e collaborando con importanti aziende come Vans, Black Label e RVCA. Artista e imprenditore, Russ Pope è una figura interessante del panorama artistico californiano, soprattutto perché il suo stile esula dai soliti modelli grafici ed estetici dello skateboarding.

Le sue tele e le sue carte sono, infatti, segnate da un linguaggio espressionista e gestuale, che rimanda, piuttosto, a certi modelli novecenteschi europei. Il suo modo di lavorare, però, mostra una forte capacità organizzativa e una visione in cui si fondono l’aspetto poetico e quello pragmatico. Pope dipinge più tele contemporaneamente, sovrapponendo diverse campiture monocromatiche sulle quali, in ultimo, si stagliano i soggetti, per lo più ritratti e scene di gruppo, tratteggiati con un segno spesso e marcato. È curioso, però, come lo stile gestuale di Pope, mai drammatico ma anzi felicemente ironico, sia il prodotto di un’innata propensione al disegno. L’artista ha l’abitudine di annotare momenti e situazioni del quotidiano su uno sketchbook, un diario per immagini da cui poi trae spunto per realizzare le tele, dove domina il gusto per il bozzetto (Things Aren’t Always What They Seem) e per certi effetti grafici tipici dell’incisione e della serigrafia (The Apartment e The Complex). Soprattutto, però, le opere di Pope sono costruite alternando sugli sfondi colorati grandi colpi di pennello e linee sottili, che danno a ogni scena quel dinamismo guizzante, energico, vitale che è, poi, la vera cifra del suo linguaggio espressivo.

Zio Ziegler, Membrane Theory, 2015, oil, acrylic and mixed media on canvas, 182x182 cm

Zio Ziegler, Membrane Theory, 2015, oil, acrylic and mixed media on canvas, 182×182 cm

Ugualmente dinamica, vitale, energetica è l’arte di Zio Ziegler, che somiglia a un corpo organico e pulsante in continua evoluzione formale, dove si coagulano diversi e contrastanti stili espressivi, dalla street art al pattern painting, fino alla rilettura di tutti i rivoli avanguardistici del Novecento. Nei dipinti, nei disegni nei murales di Ziegler, infatti, si trova di tutto, il brutalismo espressivo e primitivista, ma anche la civetteria ornamentale, i cangianti cromatismi psichedelici e le citazioni indirette all’arte negra e aborigena, le riesumazioni di stilemi del secolo scorso e gli slanci sperimentali, il Surrealismo e l’Action Painting, mescolati in un magmatico flusso d’immagini. Un flusso che avvince gli occhi e la mente dell’osservatore, obbligandolo a seguire tortuosi percorsi lineari, suadenti innesti di figure, rapidi cambi di prospettiva e d’impaginazione e misteriose associazioni d’idee. Il punto di vista di Zio Ziegler è quello dell’artista che ha già intuito i limiti della cultura digitale, riflettendo a lungo sull’impatto generato dai social media sulla pittura contemporanea. “Sono le creazioni non lineari che ci fanno pensare e sentire nuovamente, a prescindere da quale realtà sperimentiamo”, dice l’artista, “perché c’è una magia nell’arte, che possiamo scegliere di abbracciare oppure no, ma che alla fine prevarrà”.

Zio Ziegler, The Withheld Work or Art, 2015, oil, acrylic and mixed media on canvas, 121x121 cm

Zio Ziegler, The Withheld Work or Art, 2015, oil, acrylic and mixed media on canvas, 121×121 cm

Secondo Ziegler, infatti, le forme d’arte che s’irrigidiscono in una formula o in una struttura narrativa non solo producono risultati prevedibili, ma non hanno alcun impatto sulla mente umana. Opere come The Association Matrix, Membrane Theory e The Withheld Work or Art sono, invece, racconti scomposti e disarticolati, che scardinano la sequenza lineare della narrazione, facendo appello, piuttosto, alla capacità dello spettatore d’intuire o di preavvertire l’aspetto prodigioso ed epifanico dell’arte. Per Ziegler, in un momento di saturazione dell’immaginario visivo, in cui gli strumenti digitali consentono a chiunque di produrre immagini, l’arte deve necessariamente riconquistare la propria dimensione aurorale, deve tornare alle radici della propria potenza creativa ed essere, finalmente, in grado di rimodellare la cultura del nostro tempo.

Zio Ziegler, The Rear Window, 2015, acrylic and mixed media on canvas, 182x182 cm

Zio Ziegler, The Rear Window, 2015, acrylic and mixed media on canvas, 182×182 cm

FROM CALI WITH LOVE – JEREMY FISH, RUSS POPE, ZIO ZIEGLER
a cura di Ivan Quaroni
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milano
La mostra inaugura giovedì 24 settembre alle ore 18.30
E resterà aperta fino al 6 novembre 2015
Da martedì a venerdì, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00 – sabato dalle 15.00 alle 19.00

ENG

The flashing and golden pageant of California!

(Walt Whitman, Song of the Redwood-Tree, 1874)

Californian artists have something that set them apart from all the other American artists. Be it because of the mild and sunny West Coast air, be it, perhaps, because of the peculiar influence of experiences such as custom culture, punk and psychedelia, or the aesthetics and the lifestyles related to surfing and skateboarding, the fact remains that the artists of the Golden State don’t have the snobbish pretentiousness of the New Yorkers, and hardly ever venture into articulate philosophical explanations of their works, convinced as they are that a good work is self-explanatory, without the need for a voluminous and tedious critical apparatus. Immediacy and recognizability are typical characteristics of the Californian art emerged from the eighties onwards, together with a certain fantastic and surreal mood that generated numerous acronyms and names for movements with boundaries as blurred as ever, such as Pop Surrealism or Lowbrow Art. Labels aside, the common denominator of the various fringes of the art created in the Los Angeles and San Francisco area is is a strong propensity for the transfiguration and the metaphor, in other words for that particular “over the top” way of narrating reality, that mixes the observation of everyday life with fictional events and references to popular culture.

With Hollywood, Disneyland and Silicon Valley, California is, in fact, the paradigm of a fantastic and virtual civilization, the place, as the American historian Kevin Starr wrote, where the relationship between reality and fiction, between truth and suggestion, is more ambiguous. Besides the fantastic approach, another interesting aspect of underground art, if we can still call it that, is the attitude of the artists to jump the fences, to violate the disciplinary boundaries, those protected by the high priests of official art, with the application of their artistic vision to every sort of object through collaborations with companies producing clothing, sporting goods and toys, or with record labels, publishing houses and magazines.

Jeremy Fish, Russ Pope and Zio Ziegler, three artists of different generations, all working in the San Francisco bay area, share the same passion for an art without borders that ranges from painting to illustration, from walls to the customization of products for cult brands such as Vans, RVCA and Santa Cruz. In short, these musketeers from the West Coast are well aware that in order to communicate with a larger public, the art gallery and the museum aren’t enough. To win people over, the images have to be popular and recognizable, perhaps ending up on t-shirts and caps, shoes and skateboards, posters and record covers. The artists of From Cali With Love, a title that winks at the slogans of the colorful postcards of the Golden State, couldn’t be more different from each other. Traces of punk, of urban art, of psychedelia, of underground comics and of a bit of all the cultural and visual matrices of the California Dreaming, emerge in different and original blends both in the clean graphics of Jeremy Fish and in the gestural and Expressionist works of Russ Pope and Zio Ziegler. Still, what really joins them is exactly the desire to tell the reality through similes and allegories, to capture the usual and the fantastic of contemporary society, as is it’s perceived and lived in the south-west coast of the United States of America. According to writer Wallace Stegner, California is like the rest of America, “only more so”, a concentrate of the American dream, the epitome of an unique and recognizable lifestyle, also expressed through a variety of visual languages.

Let’s take as an example Jeremy Fish, street artist, illustrator and skater, considered one of the artists that most marked the urban aesthetic of San Francisco. You can’t put a label on him, because very different experiences all come together in his art, from the academic education to the artistic work in the street, from the decoration of skateboards to the collaborations with hip-hop artists such as Aesop Rock, up to the definition of an unique and recognizable language. New York-born but Californian by adoption, Jeremy Fish is a versatile artist, who managed to create an alternate universe at the intersection between biography and imagination, characterized by a clean and unmistakable graphic structure. In his paintings, that often look like posters of a new pop heraldry, you can find anything: fantastic totems and stylized animals, symbols and logos, skulls and vessels, lamps and toys, but also portraits of real people. They look like illustrated tables of an urban fairy tale, but the more you look at them the more you realize that his works are a littered with a dense twist of allegories and clues, a kind of subtext, of a counter-history that takes place in the background, between the shadows cast by the figures and even among the elaborate carvings of the frames.

Two examples are Love And Companionship and Truth And Friendship, works depicting people dear to the artist, such as his wife Jayde and his friend and photographer Rick Marr, associated to the image of the animals that best reflect their nature, respectively a cat and a sloth. They are essentially totemic portraits that embody the feelings and the relationships of everyday life. The fantastic elements, mind you, are always present, but we have the impression that they represent a way, perhaps the most effective and less rhetoric, to celebrate love, friendship and affection and, ultimately, to interpret reality. A strong narrative vein, in fact, goes through Jeremy Fish’s whole production. One of his favorite iconographic themes is that of animals, often depicted as containers with a longitudinal hinge that opens to reveal the existence of alternative worlds, of stories that flow, like underground rivers, in the submerged dimension of memory and in the floating one of consciousness. A quick glance at The Bear’s Beehive, The Catfish Cottage or The Igloo Island is enough to understand that Fish’s painting is more complex and layered than it appears on the surface. His compositions remind of the emblems and coats of arms of the Middle Ages, or of the figures of tarots and playing cards, because of the intimately symmetrical and specular nature of the images, where high and low, outside and inside, visible and invisible, are intertwined in a relationship of a mutual symbolic exchange. In short, Jeremy Fish likes to paint stories disguised as fairy tales. Or, if you prefer, fairy tales that feel like the visual (and metaphorical) transcription of his personal experiences.

Russ Pope, too, has a narrative pictorial approach, but his point of view is that of the external observer, that investigates the reality and summarizes it in a cast of stereotypical characters, a sort of human comedy of the West Coast. Since he was a kid, Pope’s passion for drawing and comics merged with that for skateboarding. For a time he was also a professional skater, then devoted himself to the commercial aspects of the industry, launching brands such as Scarecrow and Creature Skateboards and collaborating with major companies such as Vans, Black Label and RVCA. Artist and entrepreneur, Russ Pope is an interesting figure of the Californian art scene, especially because his style falls outside the usual graphic and aesthetic models of skateboarding. His paintings and his drawings are, in fact, marked by an Expressionist and gestural language, that refers, instead, to certain certain twentieth-century European models. His way of working, however, shows strong organizational skills and a vision in which the poetic and the pragmatic aspects blend together.

Russ Pope, Aloha Friday, 2015, acrylic on sheet canvas, 46x61 cm

Russ Pope, Aloha Friday, 2015, acrylic on sheet canvas, 46×61 cm

Pope simultaneously paints several canvases, overlapping different monochrome-filled backgrounds over which, eventually, the subjects stand, mostly portraits and group scenes, sketched out with a thick and marked line. It’s curious, though, how Pope’s gestural style, never dramatic but, on the contrary, happily ironic, is the product of an innate talent for drawing. The artist has the habit to record moments and everyday situations in a sketchbook, a diary of images from which he draws inspiration for his paintings, dominated by the taste for the sketch (Things Are Not Always What They Seem) and by certain graphic effects typical of engraving and silkscreen (The Apartment and The Complex). Above all, however, Pope’s works are built alternating, on colored backgrounds, thick brush strokes and fine lines, giving each scene a darting, energetic, vital dynamism, that finally is the true code of his expressive language.

Equally dynamic, vital, energetic is the art of Zio Ziegler, that looks like an organic and pulsating body in a continuous formal evolution, where different and contrasting expressive styles coagulate, from street art to pattern painting, up to the re-reading of all the avant-garde flows of the twentieth century. In the paintings, in the drawings, in the walls of Ziegler, in fact, you can find anything, expressive and primitive brutalism, but also ornamental coquetry, the iridescent psychedelic chromatisms and the indirect references to black and Aboriginal art, the exhumations of the styles of the past century and the experimental outbursts, Surrealism and Action Painting, mixed in a magmatic flow of images. A flow that captivates the eyes and the mind of the observer, forcing him to follow tortuous linear paths, persuasive grafts of figures, sudden changes of perspective and layout, mysterious associations of ideas. Zio Ziegler’s point of view is that of the artist who already has sensed the limits of digital culture, reflecting at length on the impact generated by social media on contemporary painting. “It’s the non-linear creations that make us think and feel again, because there is a magic in art we can embrace or not, but which will prevail regardless”, says the artist.

Zio Ziegler, The Aggregation God II, 2015, mixed media on canvas, 60x45 cm

Zio Ziegler, The Aggregation God II, 2015, mixed media on canvas, 60×45 cm

According to Ziegler, in fact, the art forms that harden in a formula or in a narrative structure not only produce predictable results, but also have no impact on the human mind. Works such as The Matrix Association, Membrane Theory and The Withheld Work Of Art are disordered and disjointed stories, that unhinge the linear sequence of the narrative, appealing, instead, to the ability of the viewer to sense or to foresee the miraculous and epiphanic aspect of art. For Ziegler, in a time of saturation of the visual unconscious, in which digital tools allow anyone to produce images, art must necessarily regain its aura, it must return to the roots of its creative power and, finally, it must be able to reshape the culture of our time.

FROM CALI WITH LOVE – JEREMY FISH, RUSS POPE, ZIO ZIEGLER
a cura di Ivan Quaroni
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milan (Italy)
From September 24th to November 6th 2015
From Tuesday to Fryday, h. 10.00-13.00; h. 15.00 – 19.00 – Saturday h. 15.00 – 19.00

Jeremy Fish, THE MUSHROOM MANSIONS, 2015, acrylic on canvas, 81,3x160 cm

Jeremy Fish, THE MUSHROOM MANSIONS, 2015, acrylic on canvas, 81,3×160 cm