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Liu Ruowang. L’importanza di un cuore puro.

21 Mar

di Ivan Quaroni

“Non c’è quindi alcun ente artificiale che abbia il suo fondamento fuori della natura.”
(Giordano Bruno)

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Non è necessario conoscere in profondità la cultura cinese per apprezzare le opere di Liu Rouwang. Benché profondamente radicate nell’immaginario tradizionale della sua terra, infatti, esse possiedono un’energia e una forza che le rende comprensibili a chiunque. In parte, anche per via di una tendenza al gigantismo che conduce l’artista a concepire opere di grandi dimensioni, capaci, cioè, di polarizzare l’ambiente e lo spazio attraverso una narrazione semplice e sublime, che adatta i toni epici del mito nel contesto dell’odierna civiltà globalizzata.

Chi ha avuto la fortuna di vedere Black Wolves, un branco di quasi cento lupi in ferro a grandezza naturale e con le fauci spalancate e sanguinanti sa che cosa intendo. Quell’installazione, esposta nel Padiglione San Marino alla Biennale di Venezia del 2015 e nello stesso anno anche all’Università di Torino (grazie alla collaborazione con l’Istituto Confucio), mostra alcuni dei caratteri tipici della scultura di Liu Ruowang: l’impatto scenico, la tensione drammatica, il dinamismo, ma anche una certa solennità. Tutte qualità che l’artista ottiene attraverso un linguaggio plastico personale, che scarta la fedeltà mimetica a favore un’espressività che fa largo uso della deformazione.

Wolves Coming , 2008-2010, Cast, cm 225x90x90..

Wolves Coming , 2008-2010, cast., cm 225x90x90..

Si tratti di branchi di lupi famelici, come quelli di Black Wolves e dell’antecedente Wolves Coming, oppure di una schiera di primati che sembrano fuoriusciti da una sequenza del Pianeta delle Scimmie, come nel caso di Original Sin, o, ancora, di combattenti placidamente assorti in meditazione (Melody) e vendicatori celesti che demoliscono le moderne armi di distruzione di massa (Heavenly Soldiers), gli ipertrofici soggetti scolpiti da Liu Ruang hanno qualcosa di fantastico e fiabesco. Forse perché, fin da bambino, nel villaggio di Jia, situato nel nord della provincia dello Shanxi, regione montuosa attraversata dal Fiume Giallo, Liu Ruowang era solito ascoltare i racconti del nonno, storie di monaci e guerrieri, maghi e briganti tratte dai classici della letteratura cinese. Come, ad esempio, Il romanzo dei Tre Regni, con le cronache storiche della fine della dinastia Han (220 d.C.); Il viaggio in Occidente, che racconta il pellegrinaggio del monaco Sanzang in compagnia del re delle scimmie Sun Wukong, del maiale Zhu Wuneng e del demone fluviale Sha Wujing; infine I Briganti, epopea sulle avventure di una banda di fuorilegge che difendono i deboli e gli oppressi dai soprusi dei potenti.

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Melody – Warriors, 2010-2011, bronzo, cm 120x95x80

Accanto ai quattro grandi romanzi della tradizione cinese (l’ultimo, ambientato nel XVIII secolo, s’intitola Il sogno della camera rossa) un’altra importante fonte d’ispirazione per Liu Ruowang sono stati i fumetti del fratello maggiore, che finalmente davano un volto ai protagonisti dei racconti del nonno. Sono stati, dunque, la storia, la mitologia e il folclore ancora vivi nella comunità rurale di Jia a plasmare l’immaginazione del giovane Liu Ruoang, incutendogli un profondo rispetto per guerrieri ed eroi leggendari.

Più tardi, con la frequentazione della Central Academy of Fine Arts di Pechino e il conseguente trasferimento nella capitale, su quell’immaginario si sarebbe innestata una coscienza artistica sensibile ai problemi della società contemporanea, dominata dal progresso scientifico e tecnologico, ma sempre più in conflitto con l’ordine naturale.

Il sentimento di una natura offesa, ferita dalle profonde alterazioni recate all’ecosistema da un incontrollabile processo di antropizzazione, si avverte in molti lavori di Ruowang dedicati al mondo animale.

Al di là d’ogni facile metafora, infatti, è evidente che i furiosi branchi di Black Wolves e Wolves Coming possono essere interpretati come la rappresentazione della dura risposta della natura alle devastazioni compiute dall’uomo. Così come i giganteschi primati di Original sin, schierati in fila e con gli occhi rivolti al cielo in una sorta di muta preghiera, sono simboli di un’umanità originaria, non ancora corrotta dalla civilizzazione. E che dire poi delle sculture dedicate al Dodo, il buffo colombiforme estintosi a causa della distruzione del suo habitat da parte dei coloni olandesi e portoghesi?

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One Leopard (blue), 2017, olio su tela, cm 200×15

Non ci sono dubbi sul fatto che tutta l’opera di Ruowang sia percorsa da una sottile linea critica nei confronti di un mondo votato all’autodistruzione. Un mondo, ora più che mai, bisognoso di esempi positivi, di eroi come i saggi e guerrieri dei cicli Heavenly Soldiers, Melody e Legacy, ma anche di creature fiere e selvagge come quelle che abitano le grandi tele dell’artista. Liu Ruowang, infatti, non è solo uno scultore, ma anche un pittore con una spiccata propensione verso le grandi dimensioni.

Nelle sue tele i ritratti in primissimo piano di scimmie, leoni e leopardi si alternano a scene che ritraggono gli animali immersi in una natura selvaggia e insieme sublime. Come nelle sculture, anche nei dipinti l’espressività prevale sulla fedeltà mimetica e la verosimiglianza cede il passo alla potenza dell’immagine. Le colossali teste monocrome d’animali sono rese con una pittura fatta di pennellate spesse e dense, che tratteggiano le fisionomie in modo rapido, quasi per consentirne la visione a distanza. Le misure delle tele Ruowang variano, infatti, da un minimo di due metri d’altezza fino a oltre tre metri e mezzo. Le sue sono, dunque, immagini volutamente ipertrofiche, che servono come un disperato, ultimo richiamo alla salvaguardia ambientale del pianeta. Le loro dimensioni suggeriscono l’idea che il problema non è più ignorabile. Gli animali, perfino quelli più feroci, diventano, quindi, gli emblemi di un mondo puro e incontaminato che sta per scomparire, depositario di valori che, esattamente come i miti degli eroi, non appartengono più alla nostra epoca.

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La pittura di Liu Ruowang è inscindibile dalla sua scultura dal momento che sia l’una che l’altra trasmettono gli stessi messaggi con linguaggi solo apparentemente diversi. Come giustamente notava il critico d’arte Wang Chunchen, “la forma è al servizio del contenuto […], ma il contenuto deve provenire dall’interno dell’artista, invece di essere imposto all’artista dall’esterno”.[1] Cosa senz’altro vera nel caso di Liu Ruowang, dato che in tutta la sua opera non si ravvisa nessuno degli elementi di sofisticazione che abbondano invece nelle creazioni di tante superstar dell’arte contemporanea. Nonostante il regolare percorso accademico e il contatto diretto con l’artefatto mondo dell’arte contemporanea, Ruowang ha dimostrato di essere rimasto fedele all’ideale di un’arte nobile, insieme colta e popolare, capace di raggiungere il cuore di tutti gli uomini. Proprio come quei fumetti su cui l’artista ha imparato a disegnare gli eroi di un mondo che non c’è più.


NOTE

[1] Wang Chunchen, A Historical Narrative from Visual to Tactile Sensation, in Sculpture Works of Liu Ruowang, 2014, p. 82.


 

Info:

Liu Ruowang
Lorenzelli Arte
C.so Buenos Aires 2, Milano
Opening: giovedì 29 marzo 2018

 

6 Visioni / 6 Visions

30 Nov

di Ivan Quaroni

La retina rende tutto contemporaneo”
(Paul Valéry)

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Silvia Argiolas, senza titolo, 2015

Nessuno sa che cosa sia esattamente l’arte contemporanea. Convenzionalmente, si ritiene che tale definizione si riferisca alle espressioni artistiche emerse tra la nascita delle Avanguardie storiche e i nostri giorni, ma è evidente che tale periodizzazione dovrà alla fine concludersi. E allora, che cosa ci sarà dopo? Un’arte post-contemporanea? La definizione è ambigua e problematica per costituzione, innanzitutto perché comprende una pletora variegatissima di tendenze, espressioni, modi e mezzi antitetici. Ha il difetto di non designare una linea di pensiero dominante e, inoltre, non convince quell’aggettivo, “contemporanea”, che allude alla presenza simultanea di molti fattori, ma che lascia sostanzialmente irrisolto il problema di stabilire (se c’è) una qualità specifica. Tutta l’arte, in ogni epoca, è stata a un certo punto “contemporanea”, cioè coeva ai suoi primi fruitori. E, dopotutto, contemporanea è, oggi, tanto l’arte del presente quanto quella del passato, giacché possiamo ancora fruirne, anche se gli artisti che l’hanno creata sono estinti. Le opere di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, o almeno quanto ci è pervenuto della loro produzione, sono disponibili tanto quanto quelle di Jeff Koons, Maurizio Cattelan o Matthew Barney. Sono tutte presenti, qui, contemporaneamente, per essere viste (ed esperite) dalla platea dei visitatori di questa epoca. Forse ha ragione Vittorio Sgarbi, quando, fuori dai comuni schemi di lettura del sistema dell’arte, sostiene che essa è tutta contemporanea: quella antica, quella medievale, quella moderna e quella presente. È una questione delicata, che la storiografia artistica ufficiale dovrà risolvere. Ma, intanto, noi possiamo interessarci alle ricerche odierne, consapevoli che le limitazioni terminologiche ci obbligano a vagliare la qualità del lavoro sulla base della loro maggiore o minore attinenza alle condizioni storiche, economiche, sociali e politiche attuali, tenendo conto che i valori dell’artista e quelli della collettività possono coincidere oppure – come più spesso accade – confliggere.

Perroquet, tecnica mista su carta, 2015, cm 160x120

Elena Monzo, Perroquet, 2015

Nel momento in cui Leonardvs Bottega d’Arte si confronta, per la prima volta, con l’ambito delle ricerche di artisti di età inferiore ai quarant’anni, non possiamo che costatare come la giovane arte italiana non abbia un unico volto, ma piuttosto si muova lungo molteplici direttive, spostandosi in avanti, verso il futuro, e indietro, verso il passato, avendo come base di partenza soltanto il presente. Sarebbe infruttuoso stabilire una scala di valori in cui le espressioni formalmente più audaci siano collocate alla sommità e quelle nostalgiche alla base. Non è infrequente, infatti, che certe sperimentazioni formali si dimostrino sterili, laddove certe riletture del passato danno prova di una grande adesione al presente. Per usare una felice espressione di Jean Clair, la varietà linguistica della giovane arte italiana, riflette le disjecta membra[1]della realtà, denota la natura frammentaria e parcellizzata del flusso temporale entro cui siamo tutti, inevitabilmente, immersi. L’arte è un sistema di segni in continua evoluzione, che cambia al mutare dei tempi. Dedicarsi all’arte oggi significa intraprendere un viaggio d’indagine e analisi in grado di svelare nuove, e forse più adatte, scelte espressive. Ciò che conta è la capacità dell’artista di trovare soluzioni e prospettive adeguate allo spirito dei tempi. In fin dei conti, l’arte, nel suo complesso, è un patchwork di umori, atmosfere, intuizioni capaci di riflettere solo una porzione assai limitata del mondo contemporaneo.

La sfida rappresentata da questa mostra, che speriamo costituisca il primo capitolo di una fruttuosa documentazione delle forze vitali ed emergenti dell’arte italiana, consiste nel mettere insieme un campione delle varigate e contrastanti esperienze che compongono la scena contemporanea. E, infatti, i sei artisti qui presentati non potrebbero essere più diversi tra loro. Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), Elena Monzo (Brescia, 1981), Carlo Alberto Rastelli (Parma, 1986) e Tommaso Santucci (Pisa, 1981) si muovono nell’ambito della pittura, Ester Pasqualoni (Roma, 1980) si dedica a scultura e installazione, mentre Serena Zanardi (Genova, 1978) affianca ai linguaggi tridimensionali anche il video e la fotografia.

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Silvia Argiolas, Famiglia, 2015

Nasce dalla disamina di stati emotivi e, quindi, da un’originale percezione delle esperienze individuali, la ricerca di Silvia Argiolas, caratterizzata da un’intensa espressività che sa conciliare la struttura del racconto episodico con l’impulso a liberare le energie del segno, della traccia, della materia, anche nell’uso promiscuo di diverse tecniche pittoriche. Attraverso una serie di autoritratti, sovente immersi in una natura selvaggia e umbratile, Argiolas denuncia la fragilità dell’essere umano e mette a nudo istinti e pulsioni che la società civile vorrebbe reprimere, o contenere, in atteggiamenti falsamente pudici. Invece, nei lavori dell’artista assistiamo all’emancipazione delle forze più profonde (e oscure) della natura umana, attraverso una sorta di catarsi liberatoria di emozioni ed energie primordiali. Diversa per linguaggio e stile dall’arte di Carol Rama, eppure straordinariamente affine nell’urgenza dei contenuti, la pittura di Silvia Argiolas ricopre oggi un ruolo unico e dissonante nel panorama dell’arte italiana femminile.

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Tommaso Santucci, Chi è che mi ha buttato nell’ortica?

È una forma di scrittura visiva, che contiene frasi e notazioni grafiche e pittoriche, quella di Tommaso Santucci, un’arte strettamente correlata alla vita quotidiana in ogni suo aspetto. L’artista usa penne a sfera, pennelli e pennarelli, ma anche pigmenti, per registrare il proprio vissuto sui più diversi supporti: scotch di carta, pezzi di cartone, tele e materiali di recupero. Di fatto, le sue opere sono composizioni, assemblaggi che denotano un gusto per l’accumulo e la stratificazione, ma anche per una fertile, originale combinazione di stili e linguaggi. A emergere è soprattutto l’immediatezza di una grammatica che tenta di restituire la fragranza del momento e insieme, l’irripetibilità dell’esperienza vitale attraverso lacerti di scrittura, scarabocchi, disegni, macchie di colore oppure marchi, simboli e insegne dipinte secondo una logica associativa che rimanda tanto alle sperimentazioni dadaiste e surrealiste, quanto all’istintiva spontaneità del graffitismo urbano.

Les bagnantes (deposizione) (2015), olio, acrilico, foglia d'oro e inserto in carta su tavola, 50x50 cm - mail

Carlo Alberto Rastelli, Les bagnantes (deposizione), 2015

Meditata e progettata è la pittura di Carlo Alberto Rastelli, tutta intesa a rileggere i generi del ritratto e del paesaggio con una sensibilità attenta al dettaglio realistico, ma anche alla costruzione di pattern geometrici e tessiture astratte. In particolare nei ritratti, l’attitudine mimetica, quasi iperrealistica, s’intreccia con il gusto caricaturale per l’ipertrofia e la deformazione, che traduce le fisionomie di amici e conoscenti in un’allucinata galleria di tipologie caratteriali dove è lecito scorgere l’amore dell’artista per i corpi tumefatti di Lucian Freud e per le anatomie irregolari di John Currin, ma anche per gli anti eroi dei romanzi di Irvin Welsh e Bret Easton Ellis. Un elemento che ricollega il lavoro di Rastelli con le esperienze neofigurative italiane dello scorso ventennio è, invece, rintracciabile nell’influenza che i cartoni animati e il cinema di fantascienza hanno esercitato sul suo modo di concepire la rappresentazione. Soprattutto nei paesaggi, anch’essi segnati da inquadrature grandangolari, si avverte la predilezione per una natura apocalittica (e catastrofica) che sta all’incrocio tra le visioni distopiche di Philip Dick o James Ballard e i sublimi scenari naturali di Caspar David Friedrich.

La ricerca di Elena Monzo è ancorata a una solida base disegnativa e sviluppa il gusto lineare del Secessionismo viennese e dell’Orientalismo fin de siecle in direzione di un espressionismo estremo. L’approccio sperimentale dell’artista, evidente negli innesti materici di carte metalliche, imballaggi di cartone, veline, garze, pizzi, unghie finte e fiocchi, si accompagna all’interesse, quasi esclusivo, per un’iconografia femminile perturbante composta di caratteri folli e diabolici. Le sue Dee, cortigiane, contorsioniste, prostitute, geishe – donne più fatali che letali -, sono impegnate in azioni ambigue ed equivoche e hanno spesso posture contorte, spasmodiche che alludono alle convulsioni provocate da un dolore lancinante o da un’irrefrenabile pulsione erotica. Elena Monzo è riuscita a inventare un universo sulfureo e inquietante che piacerebbe a David Lynch e a Peter Greenway, un mondo fatto di eroine psicotiche e allucinate, violente e instabili, ma anche magnificamente emancipate e perversamente moderne.

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Serena Zanardi, Carezza al lago, 2013

Artista multidisciplinare, che spazia dalla fotografia al video all’installazione, Serena Zanardi si è recentemente concentrata sulla produzione di opere in terracotta e ceramica. Le sue sculture sono il prodotto di un processo di rielaborazione di ricordi personali e di fotografie tratte da album di famiglia o recuperate nei mercatini dell’antiquariato. Zanardi cerca di ridare vita a immagini anonime, la cui memoria è stata cancellata dal passaggio del tempo, fornendo loro una nuova identità plastica. La riproduzione fedele e mimetica di soggetti fotografici in forme monumentali passa attraverso un’operazione di replacement ambientale, che rivitalizza le immagini, collocandole in un nuovo contesto. Ad esempio, in Pic Nic (2013) il petit dejeuner si svolge ironicamente sullo sfondo di un cestino per vivande in scala reale, mentre le educande di Un grand sommeil noir (2012) sono sdraiate su un immaginario tappeto d’erba che, però, ogni volta assume i connotati della superficie su cui la scultura è posata. Più spesso, come si vede in Carezze al lago (2013) e in Be Forest #1 (2014), a dominare le opere di Serena Zanardi è l’atmosfera malinconica e un po’ fané dei vecchi dagherrotipi o dei ricordi in bianco e nero.

In bilico tra scultura e design, la ricerca di Ester Pasqualoni è, invece, tesa alla costruzione di volumi essenziali, geometricamente scanditi da ordinate linee e contorni nitidi. Sono oggetti di alluminio e plexiglas, per lo più quadrati o cubici, concepiti come contenitori o espositori di un campionario di frammenti oggettuali. Si tratta prevalentemente di brandelli di plastiche recuperate, usate per il packaging di prodotti di largo consumo, di cui l’artista valorizza le qualità di lucentezza, trasparenza, texture, colore e consistenza. Una volta trattati e suddivisi in diverse tonalità cromatiche, i frammenti plastici sono inseriti all’interno dei contenitori in comparti regolari, oppure sono sospesi su linee parallele di fili di nylon a formare una fitta griglia tridimensionale. L’obiettivo dell’artista è di far dialogare le sue strutture geometriche (e pensili), incarnazioni plastiche dell’immaginario della pittura astratta, con la luce e con lo spazio. A differenza, però degli artisti ottici e analitici degli anni Sessanta, Ester Pasqualoni non è interessata solo all’analisi dei meccanismi percettivi e dei fenomeni luministici, ma anche alla trasmissione di nuovi valori etici ed estetici.

[1] Jean Clear, Critica della modernità, p. 14, Umberto Allimandi & C., 1984, Turin.


Six overviews on the present

by Ivan Quaroni

“La rétine fait toutes choses contemporaines”
(Paul Valéry)

Nobody knows exactly what contemporary art is. Conventionally, it refers to artistic expressions dating from the birth of the historical Avant-garde to the present. However, such periodisation will have to come to an end. What will come next? Post-contemporary art? The definition of contemporary art itself is ambiguous and problematic. First of all it involves a highly varied plethora of antithetical trends, expressions, ways and means. Secondly, it does not denote a leading line of thought. Thirdly, the adjective “contemporary” is not convincing, for it refers to the simultaneous presence of many factors, without solving the problem of a specific quality. After all, the art of every period has been “contemporary” at a given moment, that is, coeval to its first users. Furthermore, the art of the present is as contemporary as the art of the past since we can still enjoy it even if the artists who created it are dead. The works of Leonardo, Raffaello, Michelangelo, or at least what we have of their production, are as available as the works of Jeff Koons, Maurizio Cattelan or Matthew Barney. All these works are here, contemporary, to be seen (and experienced) by the audience of the present age. Maybe Vittorio Sgarbi is right when, far from common interpretations of art, claims that all art is contemporary: ancient, medieval, modern and current art. It is indeed a difficult matter to be solved by official art historiography. Meanwhile, we can look at current works being aware of terminology restrictions which force us to consider its quality according to its relevance to current historical, economic, social and political conditions, bearing in mind that the artist’s values and the community’s values can either fit together or, as it often happens, collide.

For the first time, Leonardvs Bottega d’Arte is dealing with the research of artists under forty, showing us that young Italian artists do not have one face but many faces, moving forward, to the future, backwards, to the past, but keeping the present as their starting point. It would be useless to establish a scale of values with the most formally daring works placed at the top and the most nostalgic ones at the bottom. In fact, some formal experiments may be unfruitful, while a new interpretation of the past can be incredibly up-to-date. Borrowing the words of Jean Clair, the linguistic variety of the young Italian art reflects the disjecta membra[1] of reality, it shows the fragmentary nature of the flow of time we inevitably live in. Art is a constantly changing system of signs, which changes with the times. Being into art today means to set off a journey of reseach and analysis which may reveal new and even more suitable expressive choices. What really matters is the artist’s ability to find solutions and perspectives suitable to the spirit of the times. Ultimately, art itself is a patchwork of moods, atmospheres and intuitions which can show us just a limited part of the contemporary world.

The challenge of the present exhibition is to bring together samples of the varied and contrasting Italian contemporary scene – and we hope this is only the first step. In fact, the six artists presented here could not differ more from each other. Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), Elena Monzo (Brescia, 1981), Carlo Alberto Rastelli (Parma, 1986) and Tommaso Santucci (Pisa, 1981) work in the painting field, Ester Pasqualoni (Roma, 1980) focuses on sculpture and installation art, while Serena Zanardi (Genoa, 1978) works with three-dimensional forms, video and photography.

Silvia Argiolas’s research comes from an accurate examination of emotional states, that is, from an original perception of individual experiences. Her work has an intensive expressiveness which blends the structure of episodic narration into the impulse of freeing the energy contained in signs, hints, matter, and even in the promiscuous use of different pictorial techniques. Through a series of self-portraits, often plunged into a dark and wild nature, Argiolas denounces human frailty and takes the wraps off instincts and drives which civilized society would like to repress or restrain with falsely modest behaviours. Instead, the artist’s works free the deepest (and darkest) forces of human nature through a sort of catharsis of primitive emotions and energies. Silvia Argiolas’s painting is different from Carol Rama’s in language and style, though they share the pressing contents. Today, Argiolas’s work plays a unique and discordant role in the Italian female art scene.

Tommaso Santucci’s art is a form of visual writing, containing sentences, graphic and pictorial signs, with a close link to everyday life. The artist uses ballpoint pens, brushes and felt-tip pens, but also pigments, to convey his life experiences, on different surfaces: paper tape, pieces of carton, recycled cloth and other recycled materials. His works are compositions and assemblages which show, on the one hand, his predilection for piling up and layering and, on the other, a productive and original combination of styles and languages. A structural order comes out, trying to return the freshness of the moment, the uniqueness of vital experience, through chunks of writing, scribbles, drawings, stains of colour, or brands, symbols and signboards painted with an associative logic which recalls both dadaistic and surrealistic experiments and instinctive urban graffiti.

Carlo Alberto Rastelli presents a pondered and planned painting, aiming at revisiting portrayal and landscape genres, with a sensitivity to realistic details and also to the construction of geometric patterns and abstract weavings. In his portraits, in particular, his mimetic aptitude, almost hyperrealistic, meets a caricatural predilection for hypertrophy and deformation, which transforms his friends’ and acquaintances’ physiognomy into a crazed gallery of personality types where we can notice the artist’s love for Lucian Freud’s tumefied bodies and John Currin’s deformed bodies, but also for the anti-heroes of Irvin Welsh’s and Bret Easton Ellis’s novels. Furthermore, one element which links Rastelli’s work to the Italian Neo-figurative experience of the past twenty years can be found in the influence cartoons and science-fiction cinema have on his concept of representation. Particularly in lanscapes, characterised by wide-angle framings, we can see his apocalyptic (and catastrophic) vision of nature, which stands between Philip Dick’s or James Ballard’s dystopic visions and Caspar David Friedrich’s sublime natural settings.

Elena Monzo’s research is grounded to a solid drawing base and develops the linear taste of Vienna Secessionist movement and fin-de-siecle Orientalism, towards an extreme expressionism. The artist’s experimental approach, clearly visible in the combination of materials (metallic cards, carton packaging, tissue paper, gauze, lace, artificial fingernails and bows) goes along with her almost exclusive interest for an upsetting female iconography made of crazed and devilish features. Her goddesses, courtesans, contortionists, prostitutes and geishas – femmes fatales more than femmes letáles -, are engaged in ambiguous and equivocal actions and often have twisted, spasmodic postures, which recall the convulsions caused by a piercing pain or an irrepressible erotic impulse. Elena Monzo has been able to create a sulphurous and worrying universe, in line with David Lynch’s and Peter Greenway’s vision, a world of psychotic, crazed, violent, unstable heroines, who are also wonderfully emancipated and perversely modern.

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Serena Zanardi, Be Forest # 1, 2014

Serena Zanardi is a multidisciplinary artist, who works with photography, video and installation. She has recently focused on terracotta and pottery. Her sculptures come from the processing of personal memories and photos taken from family albums or antiques markets. Zanardi tries to revitalise anonymous images, whose memory has been erased by time, giving them a new plastic identity. Faithful and mimetic reproduction of subjects appearing in photographs implies the replacement of their environment, a process which revitalises the images in a new context. For example, in Pic Nic (2013) the petit dejeuner takes place with a real scale picnic basket in the background, while the pupils of Un grand sommeil noir (2012) are lying on an imaginary grass carpet which assumes the characteristics of the surface on which the sculpture is placed. Often, a melancholic, a bit fané, atmosphere dominates Zanardi’s work, as in Carezze al lago (2013) and Be Forest #1 (2014), an atmosphere which belongs to old daguerreotypes or black and white memories.

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Ester Pasqualoni, Studio Blu, 2014

Ester Pasqualoni’s research is in the balance between sculpture and design, aiming at the creation of essential volumes, which are geometrically divided by tidy lines and clear borders. They are objects made of aluminium and plexiglass, mainly squares or cubes, created as containers or displays for a collection of pieces of objects. There are chunks of recycled plastic packaging from convenience goods, whose brightness, transparency, texture, colour and consistency are valorised. Once treated and divided according to colour, these chunks are placed in containers, inside regular spaces, or hanging on parallel nylon threads, forming a dense three-dimensional web. The aim of the artist is to create a dialogue between her geometric (and hanging) structures, plastic embodiment of abstract painting, with light and space. Unlike 60s Optical and Analytical Artists, Ester Pasqualoni is not only interested in the analysis of perceptive mechanisms and optical phenomena, but also in promoting new ethical and aesthetical values.

[1] Jean Clear, Critica della modernità, pag. 14, Umberto Allimandi & C., 1984, Torino.


Info:

6 Visioni
a cura di Ivan Quaroni
Leonardvs Bottega d’Arte
Via Marina di Ponente 1, Sestri Levante (GE)
Opening: Domenica 6 dicembre, ore 17.00
Dal 6 dicembre 2015 al 10 gennaio 2016

Matteo Negri. Multiplicity

23 Nov

di Ivan Quaroni

“Può essere artista solo colui che
ha una intuizione dell’infinito.”
(Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel)

“L’architettura della matematica è come quella di una città, i cui sobborghi non cessano di crescere…”
(Nicholas Bourbaki)

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Kamigami Box (green), 2015, ferrocromato, legno, specchio, 67x67x60 cm.

La ricerca plastica e pittorica di Matteo Negri non è mai stata connotata da una scelta linguistica definita, né dall’intenzione di operare entro i confini dell’astrazione, escludendo definitivamente ogni approccio figurativo. L’artista, infatti, appartiene a una generazione esteticamente post-ideologica, cui queste categorie devono apparire vecchie e fruste. E, in effetti, nel suo lavoro, suggestioni iconiche e aniconiche s’intrecciano e si alternano senza soluzione di continuità.

Tony Godfrey, autore del fortunato volume Painting Today (Phaidon Press), forse includerebbe il suo lavoro nella definizione di “Astrazione ambigua”. Eppure, si potrebbe, altrettanto legittimamente, parlare di una “Figurazione ambigua”, in cui suggestioni iconografiche, tensioni analitiche e ambizioni concettuali ricoprono un ruolo egualmente fondante.

Quello che intendo dire è che non è possibile dare una lettura esclusivamente formale e linguistica del lavoro di Negri, perché la sua indagine è piuttosto radicata in un modello operativo che assume, di volta in volta, connotati specifici e che si sviluppa in maniera autonoma e adeguata alle esigenze programmatiche e ideative del momento. Questo non significa, ovviamente, che la ricerca di Negri non abbia nel tempo sviluppato una propria grammatica formale, una logica linguistica, per lo più basata su una solida esperienza artigianale, tecnica e progettuale. Basti considerare che gran parte della sua produzione recente, caratterizzata dall’approfondimento di un’intuizione che risale almeno al 2008, include la reinterpretazione del Lego brick, il mattoncino inventato da Ole Kirk Christiansen e divenuto l’emblema dei kit di montaggio per bambini. Con spirito di détournement, insieme ludico e analitico, Negri ha trasformato il celebre lingotto danese in un lemma plastico funzionale, un modulo che gli consente di articolare un’ampia gamma di applicazioni, in una varietà di materiali che vanno dalla plastica al metallo, dalla resina alla ceramica.

I Kamigami box rappresentano l’ultima evoluzione in chiave sperimentale di questo concetto e introducono, rispetto alle formulazioni precedenti, un nuovo schema percettivo, dove il modello compositivo ispirato alle strutture ortogonali di Piet Mondrian è replicato all’infinito attraverso l’inserzione di pareti specchianti. Il lavoro scultoreo è concentrato principalmente sulla pianta quadrata e si sviluppa plasticamente nell’alzato. Lungo i lati della base sono erette quattro pareti lignee di diverse altezze e dalle superfici interne riflettenti. Il Kamigami box diventa quindi un recipiente d’illusioni prospettiche che reiterano il pattern plastico collocato sul fondo del contenitore. L’immagine virtuale, generata dalla riflessione multipla e ridondante degli specchi, suggerisce l’idea di un reticolo urbano colto a volo d’uccello, lo stradario sconfinato di una metropoli costruita da bambini e pensata come una sequenza illimitata di blocchi colorati. La città infinita, smisurata e tentacolare è una delle invenzioni tipiche della fantascienza distopica, ma in questo caso, essa rappresenta più che altro l’epitome visiva dei concetti di “ripetizione” e “differenza”.

Secondo Gilles Deleuze, il modo in cui noi occidentali intendiamo i concetti di ripetizione e differenza, ha finito per cristallizzare la visione dell’essere come rappresentazione. Cioè siamo capaci di cogliere un fenomeno solo attraverso la sua ripetizione in modi e circostanze differenti. Nel concetto di ripetizione differente i due termini sono strettamente correlati e l’uno è assoggettato all’altro. Invece, nelle filosofie orientali, come il Taoismo, il Buddismo o il Confucianesimo, esiste una forza immanente che unifica tutte le manifestazioni del molteplice. Non c’è alcuna antitesi tra il principio unificate e le sue espressioni differenziate. Il Tao, ad esempio, è un principio che unifica il Molteplice. Il problema dell’antitesi, tutta occidentale, tra Uno e Molteplice ha, naturalmente, una ricaduta nell’ambito delle espressioni artistiche. Recuperando, concettualmente, un termine della lingua giapponese (Kamigami) che indica la divinità (o lo spirito) nelle sue accezioni di pluralità, ripetizione, infinitezza, Matteo Negri perviene a un modello di rappresentazione iterativa che ricorda i diagrammi mantraici e mandalici o le geometrie replicative dei frattali. I Kamigami box sono, dunque, un tentativo di sintesi e composizione di un problema percettivo complesso, che sta alla base delle sostanziali difformità tra l’arte orientale e quella occidentale. Essi segnano anche un rinnovato interesse per le sperimentazioni ottiche condotte in Europa negli anni Sessanta e per l’analisi delle dinamiche di fruizione estetica. Oltre a essere oggetti tridimensionali, questi poliedri irregolari, dalle superfici dipinte in colori pastello, sono dispositivi di rifrazione ottica che richiedono la partecipazione attiva e motoria dell’osservatore. La visione delle strutture interne, reiterate ad libitum, infatti, varia secondo la posizione del punto d’osservazione. Una casistica parziale di tali immagini si ritrova nei lavori bidimensionali: stampe di foto scattate con una macchina Polaroid all’interno dei Kamigami box, che poi vengono digitalmente rielaborate attraverso la reduplicazione simmetrica dei soggetti.

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Greenlight, 2015, stampa flatbed su alluminio e tecnica mista, 100x80x6 cm.

Tutte le fotografie sono stampate su supporti di alluminio per riprodurre la qualità luministica delle superfici specchianti dei cubi. Negri, tuttavia, adopera un processo di stampa che esclude il bianco e che, quindi, radicalizza i contrasti cromatici, così da intervenire pittoricamente su ogni foto con colori solitamente usati per dipingere lastre e oggetti di vetro. I colori per vetro, posti a contatto con la lastra metallica, esasperano gli effetti di luce, senza peraltro alterare la struttura dell’immagine, che continua a dare l’impressione di un paesaggio urbano caleidoscopico e moltiplicato che, tuttavia, non ha più nulla dell’atmosfera ludica e infantile riflessa all’interno delle sue scatole.

Paradossalmente, proprio in questo ciclo di opere emerge l’indole occidentale del lavoro di Negri, artista costantemente in dialogo con l’immaginario pop della cultura di massa. Le città immense, debordanti verso un orizzonte irraggiungibile, così simili, nella struttura, agli schemi dei circuiti elettronici, rimandano inevitabilmente alle utopie negative del cinema e della letteratura cyberpunk. I conglomerati metropolitani di Negri, infatti, racchiudono l’infinito in una trama dispotica di linee cartesiane, di geometrie innumeri, eternamente replicanti, che avvolgono, innervandola, la struttura stessa della realtà. La ripetizione infinita e lo spirito plurale possono, allora, assumere due aspetti antitetici, uno positivo, l’altro rovesciato. Il primo, benevolo, si chiama Kamigami, il secondo, senza nome, somiglia terribilmente alla Matrix immaginata dai fratelli Wachowski.

Matteo Negri – Multiplicity
a cura di Ivan Quaroni
ABC-ARTE for Maryling 
piazza Gae Aulenti 1, Milano
Dal 27 Novembre 2015 al 29 Dicembre 2015
Vernissage, mercoledi 2 Dicembre 2015 ore 19.00-23.00
ABC-ARTE
Via XX Settembre 11A,
16121 Genova – Italia
e-mail: info@abc-arte.com
T. +39 010 86.83.884
F. +39 010 86.31.680

by Ivan Quaroni

“Only he who possesses an original view of infinity

can be an artist”
(Karl Wilhelm Fredrich von Schlegel)

“Mathematics is like a big city, whose outlying districts encroach incessantly…”
(Nicholas Bourbaki)

Matteo Negri’s sculptural and pictorial research has never been underlined by a specific choice of language or the intention to work into abstraction, with the consequent exclusion of any figurative approach. This artist belongs to a aesthetically post-ideological generation. These categories appear old and thrashed to him. Indeed, he interchanges and mixes iconic and aniconic sources of inspiration. Tony Godfrey, author of the well-received Painting Today (Phaidon Press), perhaps would include Negri’s work under the “Ambiguous abstraction” definition. On the other hand, I would mention an “Ambiguous Representation”, where iconic references, analytical tensions and conceptual ambitions share the same basic importance.  It is impossible to look at Negri’s work exclusively through formal and linguistic tools. His research is based on an operation model which changes its characteristics every time. It grows and develops independently and easily adapts to the present needings and ideas. This does not mean Negri hasn’t developed his formal artistic language and logic during his career. These are based on solid artisan, practical and planning experience. Most of his recent production, based on his 2008 intuition, includes the re-interpretation of the Lego brick, invented by Ole Kirk Christiansen and symbol of the assembly-kit for kids. Animated by detournement spirit and supported by an analytical vision, Negri transformed the famous Danish brick into a functional plastic lemma. This module allows him to build a wide selection of combinations, using many different textures such as plastic, metal, resin and ceramic.

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Kamigami Box (Yellow), 2015, ferrocromato, legno, specchio, 88x88x115 cm.

The Kamigami box represent the newest experimental evolution of this concept. Differently from the past, a new perceptive scheme is introduced here. The model, inspired by Piet Mondran’s orthogonal structures, is repeated an infinity of times, thanks to the use of mirroring walls. The sculptural work is focused on the squared structure and is mainly developed through elevation. Along the sides at the base, there are four wooden walls of different heights which reflect the internal surfaces. The Kamigami box becomes the container of perspective illusions replayed by the plastic pattern on its bottom. This virtual image, created by the multiple and overloaded reflection, suggests the idea of an urban street-web seen as from a bird’s point-of-view, endless streets cross over the metropolis built by kids and conceived as an infinite sequence of coloured blocks. This limitless, vast and tentacular city is a typical invention from dystopic science fiction. It symbolizes here the visual paradigm of the concept of “repetition” and “difference”.

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Kamigami Box (Rose), 2014, ferrocromato, legno, specchio, 96x96x86 cm.

By Gilles Deleuze, the way Western people used to think of the concepts of repetition and difference has cristallized the vision of existence as representation. We are able to catch a phenomenon only through its repetition in different ways and contexts. In the concept of different repetition , these two words are strictly connected and depend on each other. Instead, Eastern philosophies like Taoism, Buddhism, Confucianism include an immanent force which unites every manifestation of the multiplicity. There is no antithesis between the unifying principle and its different expressions. Tao, for instance, is a principle unifying the Multiplicity. The Western problem of anthitesis between One and Multiplicity shows its repercussions on artistic expressions. Using the Japanese word (Kamigami) for divinity or spirit in its own meaning as plurality, repetition, infinity, Matteo Negri builds a model of iterative representation, similar to Mantra, Mandalic diagrams or the Frattal geometries. Kamigami box are the attempt to synthesize and settle a complex perceptive problem at the base of the difference between Estern and Western art. It is also evident the artist’s renewed interest for the dynamics of aesthetic fruition and the European optical experimentations of the Sixties. These irregular polyhedra, with surfaces painted in bright colours, are three dimensional objects and devices of optical refraction, which need the active and dynamic participation of the observer. The internal structures are repeated ad libitum, while their vision depends on the observer’s position. Some of these images can be found in the bidimensional pictures: Polaroid photo prints inside the Kamigami box are then re-worked in a digital way through the symmetrical reproduction of the images.

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Matogrosso, 2015, stampa flatbed su alluminio e tecnica mista, 100x80x6 cm.

All photographs are printed on aluminium supports to enhance the brighting quality of the cubes’ mirroring surfaces. Though, Negri excludes the white colour from the printing process to polarize the chromatic contrasts. He paints on the photos with colours used for objects and surfaces made by glass. These colours are applied on metal sheets and intensify the light effects, without modifying the image’s structure. It does still give the impression of a kaleidoscopic and multplied urban landscape, but it’s got nothing to share with the playful and childish atmosphere inside the boxes. Ironically, Negri’s Western attitude emerges as an artist in constant connection with the pop imaginary of mass culture through this series of work.

These immense cities trespass any unreachable horizon. Their structure, so similar to electronic circuits, reminds us of the negative utopia in cinema and cyberpunk literature. Negri’s metropolitan conglomerations hold the infinite in an authoritarian web of Cartesian lines and innumerable geometries, they forever replay and envelop the structure of reality. The endless repetition and the plural spirit may assume two antithetical aspects: positive and reversed. The first is good and is called Kamigami; the second, nameless, evokes the Matrix imagined by the Wachowski brothers.

Matteo Negri – Multiplicity
curated by Ivan Quaroni
ABC-ARTE for Maryling 
piazza Gae Aulenti 1, Milan (Italy)
From 27 November to 29 December 2015
Opening, Wednsday 2 December 2015; h 7.00-11.00 p.m.
ABC-ARTE
Via XX Settembre 11A,
16121 Genua – Italy
e-mail: info@abc-arte.com
T. +39 010 86.83.884
F. +39 010 86.31.680

 

Anna Turina – Casa dolce casa. Strategie di fuga.

13 Ott

Di Ivan Quaroni

 

 

Di tutte le trentasei alternative, scappare è la migliore.

(Proverbio cinese)

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Anna Turina è un’artista versatile, non solo perché sa spaziare tra varie discipline (come il disegno e la pittura, la scultura e l’installazione), ma soprattutto perché sa trasferire le sue esperienze, i suoi stati d’animo, insomma le urgenze del suo vissuto, in immagini efficaci, che sono, allo stesso tempo, narrative e concettuali.

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Diversamente da altri artisti, preoccupati di formalizzare uno stile, una sigla, un marchio di riconoscimento distintivo e coerente, Anna Turina adatta le sue capacità tecniche (e finanche artigianali) alla costruzione di opere che rispondono esclusivamente al suo interesse (per non dire alla sua ossessione) del momento. Il suo marchio, se di marchio si può parlare, consiste nella reinvenzione, ciclo dopo ciclo, progetto dopo progetto, dello sguardo attraverso cui osserva il mondo. Intendo dire che l’artista è di quelle che sanno calibrare, ogni volta, la propria capacità inventiva, conformandola a un tema. La sua abilità consiste nel volgere le idee in forme e in manufatti, i pensieri in progetti.

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In questo caso, la sua indagine riguarda la casa, che Le Corbusier definiva come una “macchina per abitare” e che è soprattutto un luogo transazionale, in cui si condensano relazioni e sentimenti ambivalenti, spesso di segno opposto. Spazio ospitale, ma anche prigione affettiva, la casa è un topos classico della letteratura e, ovviamente dell’architettura. L’una ne ha, infatti, raccontato gioie e inquietudini, l’altra ne ha reinventato l’organizzazione spaziale e le regole di funzionalità. A dispetto di quanto affermava il drammaturgo francese Henry Becque, per il quale “Non troviamo che due piaceri nella nostra casa, quello di uscire e quello di rincasare”, l’artista immagina la casa come una sorta di luogo detentivo, una prigione dolce, in qualche modo rassicurante, ma allo stesso tempo esasperante, da cui, qualche volta, vien voglia di fuggire.

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La sua mostra, pensata appositamente per lo spazio rettangolare di Circoloquadro, versione architettonica di una scatola da scarpe, di quelle che da bambini si adattavano a simulare un ambiente domestico, è un’unica grande installazione, composta di sculture, ready made e disegni. Anna Turina articola la sua narrazione attraverso un’iconografia semplice, fatta di scale, finestre e simulacri di case. Ci sono sottili scale a pioli, che corrono lungo le pareti bianche, tracciando le possibili vie di fuga, ma anche piccole case con tetti spioventi, che formano un campionario abitativo, che è anche, forse, un cumulo di memorie e di detriti emotivi.

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C’è una finestra, un telaio evidentemente recuperato in qualche scantinato o magazzino, che è l’emblema dell’evasione, simbolo di un altrove tanto temuto, quanto agognato. E ci sono, poi, quei disegni, quasi infantili, fiabeschi, in cui il sé bambino dell’artista elenca tutti i possibili fallimenti di un tentativo di fuga, le cadute rocambolesche, gli sbalzi improvvisi, i capitomboli, gli inevitabili urti cui si va incontro, quando l’impresa è maldestra o mal progettata. E sono questi disegni niente più che la raffigurazione d’immagini mille volte proiettate nello schermo del subconscio, a formare una trama impenetrabile di paure, di timori che preludono al grande salto. Perché, si sa, ogni grande fuga è una scommessa dall’esito incerto e ogni via d’uscita stretta e impervia, come la piccola finestrella di Circoloquadro.

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Quel che Anna Turina non dice è che la casa è un’espressione figurata dell’amore, in particolare di quello coniugale e familiare, così distante dai canoni del sentimento romantico e sovente caratterizzato da risvolti non sempre edificanti. La sua è, infatti, una narrazione sentimentale, una specie di love story dal finale aperto e tremendamente dubbio, in cui l’amore, così come lo conosciamo, diventa il campo di un conflitto esistenziale, diciamo pure di una quotidiana battaglia. D’altronde, perfino Napoleone, uno stratega in fatto di guerra, affermava che “la sola vittoria contro l’amore è la fuga”.

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Anna Turina | Home, sweet home. Così ospitale, quando decido che sono solo in visita
a cura di Ivan Quaroni
Circoloquadro, Via Thaon di Revel 21, Milano
Inaugurazione: martedì 14 ottobre 2014, dalle 18.30
In mostra dal 14 ottobre al 7 novembre 2014
Orari: da martedì a venerdì dalle 15 alle 19, o su appuntamento
Informazioni: info@circoloquadro.com, Tel. 339 3521391 – 02 6884442