Archivio | Maggio, 2014

Luca Serra. Una mimesi sostanziale

29 Mag

di Ivan Quaroni

Luca Serra 4

In un saggio su Francis Bacon, Gilles Deleuze afferma che la pittura attuale offre “tre grandi direzioni […]: l’astrattismo, l’espressionismo e ciò che Lyotard chiama il Figurale, che è cosa diversa dal figurativo, esattamente una produzione di figure”. Il termine figurale appare come un escamotage del brillante filosofo francese per introdurre una tipologia pittorica che non può essere compresa entro gli ormai classici schemi dell’astrazione e della figurazione, essendo essa egualmente refrattaria ad entrambe le definizioni. Eppure il vocabolo figura, da cui deriva l’aggettivo figurativo, definisce sia la forma o apparenza di un’immagine, sia il simbolo, l’allegoria o il significato ad essa sotteso. Siamo, dunque, indotti a credere che il figurale sia una categoria che si distingue dal figurativo per un diverso grado di approssimazione alla realtà. La pittura figurativa, infatti, desume le immagini dalla realtà, con gradi di maggiore o minore fedeltà, laddove la pittura figurale le produrrebbe per mezzo di un procedimento endogeno e, quindi, non mimetico. Accettando tale distinzione terminologica, ci ritroviamo, tuttavia, ad affrontare più dubbi di quanti riusciremmo a risolverne. Dal momento che anche l’arte astratta utilizza figure non derivate dalla realtà fenomenica, che cosa, allora, distinguerebbe quest’ultima dalla pittura figurale? È evidente che il suggerimento di Lyotard, citato da Deleuze, non ci conduce da nessuna parte. Più sensata, invece, ci sembra la definizione di Achille Bonito Oliva, il quale, scartando la tradizionale antinomia tra astrazione e figurazione, scrive che “La figura è il punto focale dell’arte”, poiché “detiene la centralità del linguaggio, in quanto è portatrice dell’intenzione e del desiderio di potenza dell’immaginario”, aggiungendo, poi, che “tale desiderio si traveste mediante abbigliamenti vari, indossa i panni della circostanza legata alla necessità espressiva”. Se si accetta la definizione di Bonito Oliva, si chiarisce anche un dubbio riguardo la ricerca di Luca Serra, il quale ha più volte affermato che la sua “non è un’arte propriamente astratta”, in quanto prende le mosse da un accadimento reale e concreto, che è il risultato di una combinazione di fattori predeterminati e di accidenti guidati.

El Embrujo del Hombre del Saco 2008 Calco in gomma acrilica su tela cm 78x84

Per Serra “il lavoro pittorico non è letteralmente dipinto, ma è, piuttosto, l’esecuzione di un calco della pittura precedentemente stesa su una superficie preparata”. In pratica, l’artista si serve di pannelli ricoperti di carta catramata sui quali dispone, seguendo un personalissimo senso di ordine ed equilibrio, tempere, pigmenti, polveri, gessi e strati di colla. Su questa superficie preparata, l’artista fa aderire la tela, che successivamente rimuove. Lo strappo ha per conseguenza l’asportazione di parte della materia cromatica, delle colle e della carta catramata presenti sulla matrice e la tela risulta, così, impressa come in una sorta di calco i cui esiti sono solo parzialmente prevedibili. Osservando le opere di Luca Serra, viene spontaneo ascriverle all’ambito delle ricerche astratte. Sopra i suoi calchi in gomma su tela, infatti, non appaiono forme riconoscibili, né ombre vaghe che possano suggerire l’idea di una qualche presenza. Ci sono, piuttosto, segni e tracce, dilavature ed escoriazioni, lacerti e frammenti che compongono tra loro un’imprevista texture, una tramatura che appare coerente, bilanciata nel peso e nella massa. L’impressione che si ricava da queste marcature di colore, che pure possiedono una forma d’ordine in certe partiture orizzontali o verticali, è quella di essere alla presenza di superfici che abbiano subito l’azione abrasiva del tempo e delle intemperie.

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Quelle che affiorano sulle tele di Serra sono figure proprio nel senso espresso da Bonito Oliva, ovvero in quanto “portatrici dell’intenzione e del desiderio di potenza” di un immaginario che, nel suo caso, si traduce in un tentativo di appropriazione delle qualità estetiche della materia e in una volontà strenua di possedere, e forse di ricreare, l’incanto cromatico di certe superfici minerali, siano esse pietre o terre. È sulle note di fondo di questa fame di conoscenza, di questa curiosità insaziabile, che Serra interpreta la sua pittura. Una pittura che ha le caratteristiche di una sfida, a volte ludica e a volte drammatica, tra l’uomo e la natura, tra le qualità tecniche dell’artista e le proprietà intrinseche dei materiali. Per questo, il procedimento messo in atto da Luca Serra non somiglia in alcun modo a quello, tutto squisitamente mentale degli artisti astratti. La sua è una pittura egualmente equidistante dalla premeditazione teoretica del Minimalismo come dallo spontaneismo gestuale dell’Action Painting. Piuttosto si avverte in essa una necessità impellente di verifica empirica degli accadimenti che intercorrono nell’osmosi chimica del calco, quando la tela è impressa sulla matrice. “Sono affascinato dall’evento – scrive l’artista nei suoi appunti – da ciò che succede fuori dal mio controllo, aldilà delle mie intenzioni”. Luca Serra può solo immaginare il risultato delle metamorfosi chimiche, che si producono nell’unico momento di cecità dell’intero processo. Tuttavia, quando la matrice e il calco aderiscono, nel buio ottuso della pressione, le sostanze si mescolano e si alterano in modo pressoché incontrollabile, producendo risultati sorprendenti. Serra gioca dunque una rischiosa partita tra l’ordine e il caos, tra la causalità sequenziale del suo Opus, e la casualità (guidata) della trasmutazione alchemica.

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“Io voglio che la pittura – racconta l’artista – sia capace di darmi qualcosa; io sono lo spettatore, il primo spettatore della mia pittura”. In termini semplici, l’atteggiamento di Serra richiama quello di un ricercatore scientifico al quale, dopo aver predisposto tutti gli elementi, non rimane che assistere al risultato finale dell’esperimento. La sua è, dunque, un’immersione nel farsi stesso della pittura, intesa non tanto come lo svolgersi di un esercizio fine a se stesso, ma come possibilità di un’epifania, di una rivelazione dell’ordine estetico del cosmo, che trascende il mero atto volontario e allinea l’intenzione dell’artista con le segrete leggi che regolano la natura. Ecco perché, nel suo caso più che in quello di altri artisti, è lecito parlare di procedimento alchemico. I grandi alchimisti del passato sapevano che i loro sforzi erano tesi non tanto al raggiungimento di un risultato tangibile, come, ad esempio, la trasformazione del metallo vile in oro, ma alla comprensione del funzionamento della natura intima di tutte le cose. La Grande Opera corrispondeva a un cammino iniziatico e spirituale di imitazione del creato. Ora, l’arte di Luca Serra somiglia in tutto a un’indagine, tanto pittorica quanto ontologica, sulla genesi di effetti cromatici e visivi che ci sembra appartengano al mondo fenomenico molto più delle algide geometrie o delle forme pseudo-organiche che ricorrono in tanta arte astratta. Ed è per questo motivo che il termine “astratto”, riferito al suo lavoro, ci pare inadeguato, quasi restrittivo. Quando pensiamo ad un’opera astratta la interpretiamo innanzitutto come la formulazione estetica di un pensiero progettuale o di un modus operandi, che trasla le idee formali sul piano più fattuale dell’arte. Serra, invece, aggiunge un passaggio sostanziale, quello dell’evento inaspettato, dell’accadimento inafferrabile in cui l’intuizione estetica può manifestarsi sotto forma di disvelamento. Una rivelazione che giunge dalla materia stessa, dalla natura – saremmo tentati di affermare – assumendo, quindi, un valore di oggettività che l’artista non può dominare o controllare completamente. Ogni volta che la sua tecnica diventa troppo raffinata e il risultato di essa troppo prevedibile, Serra cambia metodo, introduce nuovi passaggi per “salvaguardare” quel fondamentale gradiente di sorpresa, preservando, con esso, il piacere stesso della scoperta e dell’apprendimento.

Luca Serra 12

“Se la pittura è esattamente ciò che sono in grado di fare o di dare – dice Serra – per quale motivo dovrei dipingere?”. Si palesa, in questa dichiarazione, il senso iniziatico del suo fare artistico, che intende la pittura come rapporto tra l’intenzione e il risultato e, dunque come lo scarto che s’insinua tra l’idea e la forma compiuta, che qui passa attraverso l’esperienza della materia, una materia, a suo dire “ostica al cambiamento”. Proprio come accade nel percorso alchemico, che impone al discepolo di confrontarsi prima di tutto con la sostanza bruta e informe, in quella lunga, preliminare fase conosciuta come Opera al nero. Le opere della serie Irreversibile, che rappresentano i più recenti esiti della ricerca dell’artista, sono l’ulteriore dimostrazione di come la pittura possa scavare negli intimi recessi della natura senza ricalcarla nella forme. Serra non imita il mondo fenomenico, ma tenta di catturarne i segreti, di ghermirne l’essenza.  Ed è per questo che le figure della sua pittura non assumono mai la foggia delle cose reali, ma si limitano a suggerire l’idea di consistenze informi e inafferrabili, che ricordano gli effetti cromatici delle infiorescenze rugginose delle terre, delle scrostature degli intonachi, delle emulsioni d’umidità, ma anche degli aloni bituminosi, delle corone di vapore acqueo, delle scalfitture dei gessi, delle abrasioni dei solventi, dei residui delle colle, delle tracce degli ossidi, insomma di tutto l’irresistibile e brutale affresco della chimica terrestre.

El hombre del saco, 2009  Abdruck von Kautschuk und Acrylgummi auf Leinwand  150 x 125 cm

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Giuliano Barbanti. Anni Ottanta: verso il colore

28 Mag

di Ivan Quaroni

Una sala della mostra

Una sala della mostra da Lorenzelli Arte

Gli anni Ottanta sono stati un decennio controverso, ma indubbiamente segnato da una grande apertura ed espansione sul fronte culturale. Già al volgere della precedente decade, sorgono i primi segni di una rinnovata sensibilità che, nelle arti visive, si esprime attraverso il recupero della figura, spesso distorta e deformata, ma anche tramite un nuovo atteggiamento nei confronti del passato, considerato come un immenso serbatoio di suggestioni pronte all’uso che gli artisti possono deliberatamente, e spesso acriticamente, saccheggiare. Negli Stati Uniti, in Germania e in Italia, quest’attitudine si declina in forme diverse in artisti come Julian Schnabel, David Salle, Jean-Michel Basquiat e in formazioni come i Neuen Wilden e la Transavanguardia, che dalla fine degli anni Settanta ricorrono a un linguaggio caratterizzato da una forte espressività e da un cromatismo deciso. Parallelamente, sempre in Italia, nascono le esperienze dei Nuovi Nuovi di Renato Barilli e Francesca Alinovi e degli Anacronisti di Maurizio Calvesi, accomunate da un deciso ritorno alle pratiche pittoriche in chiave anti-minimalista e anti-concettuale. Nel 1979, Achille Bonito Oliva parla di un superamento del materialismo, legato all’impiego di tecniche e materiali nuovi, a favore di una pittura inattuale, capace di recuperare il carattere erotico, di puro piacere, della rappresentazione. Perfino gli americani di area Neo-Geo (Neo Geometric Conceptualism), da Peter Halley ad Ashley Bickerton e Jeff Koons, pur collocandosi sulla scia del Colorfield Painting, del Minimalismo, del Concettuale e della Op Art, approdano a soluzioni non del tutto scevre da una certa piacevolezza ottica e retinica.

Tutto il variegato e roboante movimento di idee che va sotto il nome di Post-Modernismo (si pensi anche all’architettura e al design, ma anche alla musica New Wave britannica e americana) ruota attorno ad un’idea di riappropiazione della joie de vivre, dopo il rigorismo intellettuale che aveva caratterizzato le ricerche artistiche del decennio precedente. In Italia, Milano è, senza dubbio, l’epicentro di questa tendenza gioiosa, a tratti perfino troppo spensierata. Eppure nasce tardi, solo nel 1987, l’espressione “Milano da bere”, che subito diventa sintomatica dello stile di vita meneghino nell’era del cosiddetto “edonismo reganiano”, come lo aveva ribattezzato, con una fortunatissima definizione, il giornalista Roberto D’Agostino.

Erano quelli, gli anni in cui la città, governata dai socialisti, si era lasciata definitivamente alle spalle le tensioni degli anni di piombo e del conflitto ideologico. Galeotto fu uno spot ideato dal pubblicitario Marco Mignani per l’amaro Ramazzotti, che ne fotografava la ritrovata vitalità. In quella pubblicità, la città, colta, sulle note di Birdland dei Weather Report, in una veloce carrellata dalle prime luci dell’alba fino al tramonto, appariva come un luogo piacevole, dove la proverbiale operosità e sobrietà dei suoi cittadini sembrava ora stemperarsi in uno stile di vita nuovo, insieme più rilassato e seducente. Tuttavia, all’inizio di quel decennio, nella vicina Sesto San Giovanni, roccaforte della cultura operaia, l’aria di cambiamento doveva giungere ad un ritmo meno serrato. Nella Stalingrado d’Italia, sede d’imponenti industrie come Falck, Breda, Magneti-Marelli – ma, paradossalmente, anche Campari – operava Giuliano Barbanti, dividendo il proprio tempo tra la ricerca artistica, l’insegnamento e le numerose attività culturali e sociali di cui era promotore.

Giuliano Barbanti, SS:azzurro-2gc, 50x50 cm., 1982.

Giuliano Barbanti, SS:azzurro-2gc, 50×50 cm., 1982.

In un’intervista del 1979, con un folgorante senso di sintesi, Barbanti riassume così la sua ricerca: “Sono partito da una serie di esclusioni – il colore, la forma – puntando su una spazialità che si affidasse alle sue leggi interne. Si è trattato di un’opera di riduzione progressiva che ha trovato il suo punto d’equilibrio nelle mie superfici segnate unicamente dal non colore: un grigio che definiva lo spazio con l’alternanza tra densità e rarefazione.” [1] Dentro quelle superfici, l’artista introduceva elementi di rottura, come certe asimmetrie derivate dall’uso di scansioni oblique e dal superamento dello spazio regolare del dipinto per mezzo d’interruzioni delle linee del telaio. Tutto il suo lavoro, dominato dall’esclusione di fattori arbitrari ed emotivi, in sintonia con certi esiti hard hedged dell’astrazione pura, esprimeva, però, una tensione destrutturante degli equilibri e delle simmetrie interne alla superficie.

L’esigenza di un rigido controllo formale sulla pittura, aveva portato Barbanti a privilegiare l’uso dell’aerografo, uno strumento meccanico che gli permetteva di creare sfumature acriliche uniformi, modulando e, quasi, increspando lo spazio dell’immagine. Allo stesso tempo, sensibile alle ricerche di Frank Stella – e dell’amico Rodolfo Aricò – nell’ambito della shaped canvas, l’artista aveva alterato i confini del quadro introducendo sottili modificazioni nel telaio, come piccoli sbalzi e gradini, che avevano lo scopo di accentuare l’incongruenza delle linee e delle scansioni e di squilibrare la visione dell’opera stessa. Barbanti era, dunque, partito dal grado zero della pittura, che aveva ridotto ad una gamma di soli grigi, per poter meglio indagare il campo della percezione, e mettere a nudo certe forme di pigrizia ottica, ma inevitabilmente anche cognitiva, che corrono lungo binari prestabiliti.

Giuliano Barbanti,SS giallo:gc, acrilico su tela, 50x50 cm., 1986.

Giuliano Barbanti,SS giallo:gc, acrilico su tela, 50×50 cm., 1986.

L’asimmetria, l’incongruenza, insomma la non coincidenza a livello ottico, erano gli strumenti messi in atto da un’intelligenza che aveva trasformato il dubbio, l’ambiguità, l’incertezza in forme di analisi critica. Come nota acutamente Gillo Dorfles nel 1986, “Barbanti aveva cercato di rompere con la monotonia di una pittura basata sulla simmetria, sulla razionalità, sul costruttivismo geometrico derivante dai grandi movimenti costruttivisti tra le due guerre” e, in seguito, “questa rottura era diventata qualche cosa di più consaguineo, cioè qualcosa di legato al carattere dell’artista, un carattere in continua ricerca di modulazioni sottili, di vanificazioni del colore, d’una vanificazione di quella staticità del dipinto geometrico, limitato al quadrato e al rettangolo della tela”[2]A ben vedere, il carattere dubitativo di Barbanti si rifletteva non solo nel distacco dalla rigidità formale dei costruttivismi, ma perfino dalla rigidità del pensiero ideologico di una certa sinistra. Barbanti era, infatti, iscritto al PCI, ma la sua posizione nei confronti della politica culturale del partito, in particolar modo nell’ambito delle arti visive, era certamente critica, anche se moderata nei toni. Ora, quella “consanguineità” di cui parla Dorfles, segnalando una corrispondenza tra il sentimento di rottura e il carattere dell’artista, non si esprimeva mai attraverso gesti plateali, né fuori, né dentro la pittura. Si può dire, piuttosto, che la pittura di Barbanti fosse pervasa da un silenzio pudico e da una grammatica pacatamente, ma ostinatamente assertiva.

Giuliano Barbanti, Gra-mar, 35x35 cm., 1982.

Giuliano Barbanti, Gra-mar, 35×35 cm., 1982.

Già dalla metà degli anni Settanta, Barbanti aveva iniziato a rompere la castità delle superfici grigie con il colore, ancora timidamente, quasi a consentire un’intromissione disturbante, ma necessaria all’avanzamento della sua indagine sul campo della visione. In quelle prime tele, il colore, spruzzato ad aerografo, intrattiene una relazione morbida con lo spazio, basata sulle sfumature. La contrapposizione dei campi grigi con i disturbi cromatici è ancora tutta a favore dei primi. Barbanti procede cauto, con piccole e successive acquisizioni: “Prendiamo per esempio l’innesto del colore in alcune delle mie ultime opere. Il ruolo che esso gioca per il momento è unicamente trasgressivo. Per me il colore è ancora, in questi quadri, un’aberrazione rispetto all’idea di totalità dello spazio. Eppure proprio in questo suo porsi come negazione assoluta intravedo un elemento affermativo che mi incuriosisce, mi stimola.”[3]

 Mentre il colore premeva ai margini del campo pittorico, nel 1981 l’artista era ancora concentrato sull’idea di rendere esplicita la struttura mentale dell’immagine. La sua principale preoccupazione, che riguardava lo spazio, come si poteva desumere dal lavoro sulle convessità e concavità del telaio, veniva sottoposta a costante verifica attraverso le alterazioni d’intensità dei grigi e l’annullamento delle geometrie rettilinee. Il colore, pur presente, rientrava in quella concezione di analisi delle strutture mentali, ma il cambiamento era già alle porte e nell’anno successivo sarebbe entrato in scena in modo inedito. In alcuni lavori del 1982 il colore è steso sulla superficie in zone piatte (azzurre e rosa) che dividono le aree grigie e modulate, in alcuni casi spingendole fino ai margini del quadro. Sono opere importanti per le future evoluzioni del suo linguaggio, che schiuderanno nuove prospettive analitiche e concettuali.

Giuliano Barbanti, SS rosso: GC, 80x80 cm., 1988.

Giuliano Barbanti, SS rosso: GC, 80×80 cm., 1988.

Spazio e colore, ora, interagiscono apertamente, talora in modo perfino conflittuale, come forze equipollenti, ma è ovvio, col senno di poi, che una stagione ideologica e progettuale stava volgendo al termine. Difficile dire se, nel percorso solitario dell’artista, abbia giocato l’influenza di fattori esterni. Possiamo supporre che, da persona sensibile e attenta alle dinamiche evolutive dell’arte, egli fosse consapevole che il clima era radicalmente mutato e che una nuova barbarie, quella neoespressionista della Transavanguardia (ma anche dei Nuovi Selvaggi tedeschi) stava attaccando frontalmente le ricerche analitiche, minimaliste e concettuali del decennio precedente, proponendo una pittura emotiva e pulsionale, in cui colore e narrazione prendevano il sopravvento. Niente di più lontano, dunque, dalla sensibilità di Barbanti, che aveva affrontato la sfida della pittura come un lungo processo di scavo analitico, le cui conquiste erano da intendersi non solo come raggiungimenti personali, ma come tappe di un cammino evolutivo condiviso e aperto alla dimensione sociale. Proprio l’eliminazione dei fattori soggettivi, psicologici ed emotivi costituiva, infatti, la premessa del suo operare artistico, tutto incentrato sulla necessità di sgombrare il campo da interferenze che non fossero rigorosamente analitiche e formali.

Quando nella sopraccitata intervista del 1986, Gillo Dorfles chiede a Barbanti se abbia mai pensato ad un ritorno, sia pure transitorio, alla figurazione, la sua risposta è netta: “No, direi che, almeno fino ad oggi, questo pensiero non mi ha affatto toccato. No assolutamente. Guardo con attenzione tutte le esperienze in atto, ma non mi sento per nulla coinvolto da questioni di figurazione.”[4] Barbanti è senza dubbio disinteressato alle mode, eppure il mutamento della sua indagine indica che un certo grado di permeabilità verso i turbamenti climatici dell’arte coeva è presente, sebbene venga gestito in modo molto autonomo, come conseguenza di uno sviluppo personale già avviato nella seconda metà degli anni Settanta. Se ne accorge anche Flaminio Gualdoni che, in quella stessa intervista, nota che “mentre prima c’era un atteggiamento non emotivo molto marcato, e l’uso dell’aerografo come mezzo di mediazione meccanica lo dichiarava molto evidentemente, in questi ultimi lavori cambia proprio il rapporto di Barbanti con il colore”[5].È un cambiamento che, a detta del critico, riguarda tutti gli artisti che hanno avuto esperienze nell’ambito dell’astrazione e che, mutatis mutandis, si ritrovano a recuperare valori prima penalizzati. Però, di fatto, in Barbanti c’è, almeno fino al 1985, una resistenza ad abbandonare completamente l’impostazione precedente. Il colore non è ancora diventato puro spazio cromatico, ma continua a dialogare e ad alternarsi con le sfumature di non colore. Se un cambiamento c’è, deve passare al vaglio di un’attenta verifica e prodursi per necessità, ma dolcemente, come in dissolvenza. Mentre continua a tormentare i margini perimetrali dell’opera, Barbanti traduce alcune scansioni in elementi ritmici. Il ritmo non è già quello battente e regolare delle opere degli anni Novanta, dominate da successioni orizzontali e verticali di sapore quasi romanico, ma è sincopato, irregolare e incongruente come le sagome dei suoi telai. Un’opera sintomatica in tal senso è 726, SS Verdone e agre/ gc (1989), con la sua progressione di verdi piatti e digradanti fino alla sfumatura laterale sinistra, dove il grigio si congiunge con la smussatura del telaio. 748, Ritmo verdeluce SS/gc (1990) è, invece, già pienamente nel mood della nuova decade, con quella escalation obliqua di bianchi e verdi, che ormai non possono più essere considerati colori interferenti. Infatti, sono semmai le sfumature grigie a retrocedere, disturbando il fondo con le loro modulazioni d’intensità.

Giuliano Barbanti, Ritmo verdeluce SS:gc, 35x35 cm., 1990.

Giuliano Barbanti, Ritmo verdeluce SS:gc, 35×35 cm., 1990.

Barbanti ci mette più di dieci anni per conferire al colore un ruolo di primo piano, dieci anni di analisi e conflitti interni, che vorremmo poter descrivere come un processo di emersione alla gioia e al piacere ottico, ma che, invece, è piuttosto la conseguenza di un lento passaggio climatico da un rigore di tipo ideologico a un rigore post-ideologico, ma non necessariamente post-moderno. La produzione artistica di Barbanti degli anni Ottanta ha, dunque, un valore apicale perché disegna perfettamente il senso di una transizione culturale consapevole, compiuta senza mai rinnegare i valori maturati in precedenza, ma ampliandoli e adattandoli a un mutato contesto storico e sociale. Gli anni Ottanta di Barbanti si chiudono, in verità, nel 1992, con l’abbandono definitivo della sfumatura e la conseguente sparizione dei grigi. Di qui in avanti, il colore ricoprirà un ruolo di primissimo piano, insieme alle scansioni ritmiche e alle sagomature, ma l’indagine continuerà a vertere sui temi dell’asimmetria e dell’incongruenza, segni indelebili di una ricerca genuina e autentica, che non ha ancora smesso di stupirci e che è tuttora di un’attualità disarmante.

Giuliano Barbanti fra le sue asimmetriche armonie

Giuliano Barbanti fra le sue asimmetriche armonie

Dal 22 Maggio 2014 al 11 Luglio 2014

MILANO
LUOGO: Lorenzelli Arte
CURATORE: Matteo Lorenzelli
TESTI IN CATALOGO: Roberto Borghi, Elena Forin, Ivan Quaroni
TELEFONO: +39 02 201914
E-MAIL INFO: info@lorenzelliarte.com
SITO UFFICIALE: http://www.lorenzelliarte.com
[1] Intervista a Giuliano Barbanti, in “Notiziario 11”, Galleria Lorenzelli, marzo 1979, Milano, p. 2.
[2] Gillo Dorfles, Flaminio Gualdoni, Marco Meneguzzo, Un Astrattismo diverso. Colloquio con Giuliano Barbanti, in Giuliano Barbanti, Electa, 1986, Milano, p. 5.
[3] Intervista a Giuliano Barbanti, in “Notiziario 11”, Galleria Lorenzelli, marzo 1979, Milano, p. 2.
[4] Gillo Dorfles, Flaminio Gualdoni, Marco Meneguzzo, Un Astrattismo diverso. Colloquio con Giuliano Barbanti, in Giuliano Barbanti, Electa, 1986, Milano, pp. 10 – 11.
[5] Ivi, p. 9.

Vanni Cuoghi – De Gustibus: la Cucina diventa Arte

12 Mag

 

di Ivan Quaroni

 

"A tavola perdonerei chiunque. Anche i miei parenti."
(Oscar Wilde)

 

Ammettiamolo! Questo è un buon momento per l’arte culinaria. I palinsesti televisivi sono pieni di programmi di cucina e reality a tema, dagli internazionali format di Master Chef e Hell’s Kitchen, fino alle trasmissioni nazional-popolari di Mamma Rai. Nelle classifiche dei libri più venduti, quelli scritti (si fa per dire) da chef e cuochi stellati rubano le posizioni più alte ai bestseller di Ken Follet e Stephen King. Gli scaffali delle librerie traboccano di ricettari, vademecum e guide per buongustai, scalzando, da qualche anno a questa parte, i feuilleton horror-adolescenziali su vampiri e licantropi. Le scuole alberghiere dello Stivale registrano un eccesso d’iscrizioni e i corsi di cucina e sommelier sono di rigore nell’educazione di ogni gentiluomo di città. Insomma, la gastronomia è diventata la nuova religione, la cucina un tempio e la Guida Michelin una sorta di Nuovo Testamento. O tempora, o mores!, commenterebbe, scettico, il Cicerone di turno, scrutando con cipiglio il copioso fiorire di estimatori dell’ultima ora. Mangiare e bere va di moda e il popolo italiano riscopre, persino in tempi di vacche magre, il piacere del convivio. Eppure, c’è chi, come Vanni Cuoghi, non ha seguito l’onda e, ancora in tempi non sospetti, da buon epicureo, ha coltivato il gusto della buona tavola, accompagnandolo a quello per la buona arte.

Vanni Cuoghi, La felicità è al piano di sopra, acquerello e china su carta, 70x100 cm., 2014

Vanni Cuoghi, La felicità è al piano di sopra, acquerello e china su carta, 70×100 cm., 2014

Appassionato intenditore in entrambi i campi, ha, infatti, curato per diversi anni una rubrica sul web-magazine “Lobodilattice”, intitolata Al di là del bere e del mare, in cui proponeva escursioni artistico/culinarie in diverse regioni italiane. Nel 2011 ha addirittura esposto i suoi lavori in una doppia mostra personale con lo chef Davide Oldani, profeta della cucina Pop, per il quale ha creato dieci piatti in ceramica sul tema della “vendetta”, che – come recita il proverbio – è “un piatto da gustare freddo”. Chi lo conosce sa che è un collezionista compulsivo di biglietti da visita di ristoranti, trattorie e bistrot sparsi in ogni angolo della penisola e, soprattutto, che il cibo è uno dei temi ricorrenti della sua pittura fin dagli esordi.

Vanni Cuoghi, Un allegro concertino, acrilico, olio e collage su tela, 45x45 cm., 2014

Vanni Cuoghi, Un allegro concertino, acrilico, olio e collage su tela, 45×45 cm., 2014

De Gustibus – progetto che mutua il titolo non dalla celebre locuzione latina (De Gustibus non disputandum est), ma dall’uso del complemento di argomento che introduce il tema di una dissertazione – è una mostra in cui l’artista interpreta, per la prima volta, l’immaginario della tradizione culinaria campana, filtrandola attraverso la creatività e l’inventiva di Francesco Sposito. Pluripremiato chef della Taverna Estia di Brusciano (Na), Sposito ha già guadagnato importanti riconoscimenti, come giovane Stella Michelin d’Europa, Jeunes Restaurateurs d’Europe e miglior cuoco emergente Gambero Rosso. La sua concezione della gastronomia, fondata su un equilibrato mix di tradizione e modernità, interpreta la cucina come un laboratorio d’idee, in cui gli ingredienti tipici del territorio sono riletti e trasformati alla luce di una sensibilità attenta alla qualità e alla sperimentazione. Elementi che, per traslato, si ritrovano anche nell’arte di Vanni Cuoghi, pittore capace di vivificare la lezione della Storia dell’arte italiana con uno stile ironico e fiabesco, sempre in bilico tra suggestioni folk e citazioni pop.

Memore di quel capolavoro della letteratura gastronomica che fu Il Cuoco Galante di Vincenzo Corrado, pubblicato a Napoli nel 1773, Vanni Cuoghi traduce le invenzioni di Sposito in una carrellata d’immagini gaudenti, ambientate in ipotetiche, quanto visionarie, feste di fidanzamento e di matrimonio, in spumeggianti cene galanti, dove il gusto ricco e sontuoso dell’immaginario gastronomico napoletano si abbina a uno stile liberamente ispirato ai costumi del Settecento. L’artista immagina, infatti, le ricette di Sposito come una festosa narrazione per immagini, una sorta di teatrale mise en scène che si snoda attraverso una teoria di gioiosi e surreali tableau vivant. Così, i piatti creati dal giovane chef – dal Risotto al limone con crudo di gamberi e vongole veraci al Tonno rosso con peperoncini verdi e pomodori alla vaniglia – si trasformano negli episodi di una fiaba allegorica, dove gli ingredienti diventano personificazioni degli elementi che rendono unica la cucina italiana. Per Cuoghi si tratta di un ritorno alle origini del suo linguaggio, dominato dall’ironia e dall’affabulazione e caratterizzato da un cromatismo vivace, di marca squisitamente mediterranea.

Vanni Cuoghi, Girotonno, acquerello e china su carta, 50x50 cm., 2014

Vanni Cuoghi, Girotonno, acquerello e china su carta, 50×50 cm., 2014

Eppure, ad accomunare il lavoro di Cuoghi e Sposito non è solo la singolare propensione a miscelare innovazione e tradizione, ma anche l’adozione di un particolare modus operandi, che evoca lo spirito di ricerca degli antichi alchimisti. Entrambi, come gli apprendisti dell’Opus Magnum, sono mossi da un intenso desiderio di trasformazione e nobilitazione delle sostanze primarie. Insomma, ciò che Heinz Beck, ne L’ingrediente segreto, definisce “l’elaborazione di materie prime secondo tecniche sviluppate nei secoli”. Per Sposito sono gli ingredienti base della cucina mediterranea, mentre per Cuoghi le strutture e i topos dell’arte classica, passati attraverso il setaccio della lezione rinascimentale e di quella barocca.Su queste basi, già qualitativamente alte, l’artista e lo chef innestano analoghi processi di affinamento, introducendo procedure e invenzioni che riformano il linguaggio, generando, così, nuove strutture estetiche.

E proprio l’estetica, intesa come dottrina della conoscenza sensibile e filosofia del bello, è, dunque, un nodo centrale nelle discipline praticate da Vanni Cuoghi e Francesco Sposito. Per lo chef, “impiattare” una pietanza significa, infatti, presentare gli alimenti tenendo conto della forma, della consistenza, della disposizione e del colore. La qualità degli ingredienti è importante, ma la loro presentazione è rivelatrice della personalità del cuoco. Allo stesso modo, per un pittore, saper dipingere è una condizione necessaria, ma non sufficiente per qualificarsi come artista. Egli deve sapere, innanzitutto, essere originale e riconoscibile. Ed è proprio qui che entra in gioco l’innovazione, cioè la capacità di interpretare e riformare un’arte millenaria, senza intaccarne le fondamenta.

Vanni Cuoghi, Una dolce danza, acquerello e china su carta, 60x95 cm., 2014

Vanni Cuoghi, Una dolce danza, acquerello e china su carta, 60×95 cm., 2014

Vanni Cuoghi, ad esempio, accosta pittura e paper cutting per creare scatole narrative, in cui le evidenti reminiscenze arcadiche e barocche si uniscono all’odierna predilezione per l’iperplasia e il parossismo. Anatomie allungate, abiti sontuosi, copricapi ipertrofici e atmosfere oniriche sono i vocaboli di una grammatica che omaggia, e insieme destruttura, la tradizione artistica italiana, garantendone la sopravvivenza nei codici visivi contemporanei. L’opera intitolata La felicità è al piano di sopra, ispirata al Naturalismo di parmigiana di Sposito, mostra una tavola imbandita, disposta frontalmente come nel modello leonardesco, in cui gli ingredienti della ricetta assumono le forme di elaborati cappelli vestiti dai convitati. È un espediente che l’artista utilizza anche in altre opere, come Fidanzamento ufficiale, Tarantella di maggio, Il principe ha riso e Girotonno, trasposizioni immaginifiche delle creazioni dello chef, tutte giocate sul meccanismo della prosopopea.

Vanni Cuoghi, Lo stesso pensiero, acrilico e olio su tela, 80x80 cm., 2014

Vanni Cuoghi, Lo stesso pensiero, acrilico e olio su tela, 80×80 cm., 2014

Protagoniste delle sue opere sono, appunto, le personificazioni degli ingredienti delle ricette di Sposito, figure degne di un bestiario medievale, popolato di grilli zoocefali, metamorfosi ovidiane e capricciose allegorie. L’atmosfera è, però, quella sontuosa dei Trionfi rinascimentali e delle feste principesche, che Cuoghi evoca con una profusione di raffinati intagli ed eleganti punzonature, quasi a formare un complesso, immateriale allestimento scenico, fatto d’arabeschi d’ombra e luce. Un allestimento arricchito da un tale profluvio di frutti e verdure, che farebbero invidia perfino all’Arcibaldo. Qui, l’artista usa per la prima volta una tecnica d’assemblaggio e composizione che ricorda il modo in cui gli chef presentano i piatti in tavola. Prima dipinge e ritaglia gli ingredienti, poi li dispone sulla carta, bilanciando forme e colori fino a ottenere una struttura efficace ed equilibrata.

La costruzione delle opere di Cuoghi passa, dunque, attraverso tre distinte fasi creative, in cui pittura, paper cutting e collage disegnano un percorso progettuale (ed erratico) che lascia ampio spazio all’intuizione. Anche Sposito adotta un metodo che combina analisi e intuizione, ma con un approccio più scientifico, dominato da un gusto concettuale elegantemente minimalista. D’altra parte, come sostiene Gualtiero Marchesi, “la cucina è di per sé una scienza, sta al cuoco farla diventare arte”.

Vanni Cuoghi, Il principe ha riso, acquerello e china su carta, 70x70 cm., 2014

Vanni Cuoghi, Il principe ha riso, acquerello e china su carta, 70×70 cm., 2014

Ora, a proposito dell’eventuale assimilazione delle “arti della cucina” alle arti tout court, credo che il dibattito sia ancora aperto. Certo è che mentre alcuni chef si sono ispirati agli artisti – basti pensare proprio a Gualtiero Marchesi, con le sue citazioni di Pollock, Burri e Manzoni –, quasi mai gli artisti hanno preso spunto dagli chef. Vanni Cuoghi ha invertito questa tendenza e accettato la sfida, consapevole che nell’arte, come in cucina, il segreto sta nel saper evocare sensazioni che ci riportano indietro nel tempo, magari all’epoca della nostra infanzia. Un po’ come accade al severo critico di Ratatouille.

Vanni Cuoghi, Fidanzamento ufficiale, acquerello e china su carta, 45x45 cm., 2014

Vanni Cuoghi, Fidanzamento ufficiale, acquerello e china su carta, 45×45 cm., 2014

 
Titolo della mostra:             Vanni Cuoghi. De Gustibus
Sede:                                        Nicola Pedana Arte Contemporanea – via Don Bosco 7 – Caserta
Vernissage:                            Sabato  10 maggio alle ore 19.00
Durata:                                   10 maggio – 30 giugno 2014
Curatore:                                Ivan Quaroni
Autore:                                    Vanni Cuoghi
 
Email:                                     gallerianicolapedana@gmail.com
Sito web:                                www.nicolapedana.com
Info:                                        Tel. 3926793401
 

Zio Ziegler. L’enfant prodige della street art californiana

2 Mag

 

di Ivan Quaroni

 

Zio Ziegler, The Venus of Milan, wall painting, Milano

Zio Ziegler, The Venus of Milan, wall painting, Milano

 

Vederlo dipingere un muro con le bombolette spray è come assistere a una fulminea epifania. Parte da un punto qualsiasi della superficie e riempie con le sue intricate figure tutto lo spazio disponibile, senza seguire un progetto o uno schizzo preparatorio. Zio Ziegler, classe 1988, è il nuovo enfant prodige della street art californiana, capace di eseguire graffiti di grandi dimensioni in tempi da record, come ha fatto in tutta l’area della Baia di San Francisco, dal Mission District a Sycamore street, fino al quartier generale di Facebook a Menlo Park, ma anche a Los Angeles, Puerto Rico, Cuba, New York e Tokyo. A Milano, in una manciata di giorni, è riuscito a realizzare tre grandi murali: uno alla sede della Cinelli, storico marchio di biciclette; uno, lungo ben cinque metri, nel passante ferroviario di Repubblica (una gigantesca Venere tribale); l’ultimo in galleria, a introdurre i lavori della sua prima mostra personale europea. Già, perché Zio Ziegler non è solo un graffitista, ma anche un artista tout court, di quelli che passano intere giornate a dipingere meditando sulle sorti magnifiche e progressive della pittura.

Zio Ziegler, CENA Cypriani ZZ, 2014, mixed media on panel, 61x45,7 cm

Zio Ziegler, CENA Cypriani ZZ, 2014, mixed media on panel, 61×45,7 cm

Il suo studio di Mill Valley, situato in una villa in cima a una collina nei dintorni di Sausalito, è una specie di Buen Retiro dove passa intere giornate a lavorare senza sosta, lontano dalle distrazioni della città. Lui si definisce un orso, ma gira il mondo come un grafomane globetrotter, sempre pronto a marcare il territorio con le sue immaginifiche visioni, un suggestivo mix di arte tribale e avanguardia cubista, stile pop e primitivismo, prepotentemente dominati dall’horror vacui. I suoi wall painting, eseguiti rigorosamente in bianco e nero, rappresentano bizzarre figure ispirate alla mitologia e alla natura, creature ibride disegnate con un tratto incisivo, quasi brutale, ma modellate tramite un’intricata giustapposizione di motivi grafici e ornamentali.

Zio Ziegler, Wall Painting, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano

Zio Ziegler, Wall Painting, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano

L’uso dei pattern è, infatti, un elemento tipico del suo stile pittorico, teso a creare un effetto di straniamento nell’osservatore e un conseguente slittamento dell’attenzione dalla realtà esteriore a quella interiore. Anche se, proprio il gigantismo e l’impatto ottico sono i punti di forza dei suoi graffiti, popolati da impressionanti animali totemici e ieratiche veneri zoomorfe, in cui sembrano convivere i feticci apotropaici delle società primitive e le muse inquiete dell’immaginario simbolista. Il suo scopo è, infatti, rompere il muro d’indifferenza dei passanti e distoglierne i pensieri dalle preoccupazioni quotidiane, riportandoli alla bellezza del presente. Come succede, ad esempio, con l’oblungo murale intitolato The Venus of Milan, che campeggia nel cuore della metropolitana meneghina, come una sorta di selvaggio carpe diem suburbano.

Zio Ziegler, Untitled, 2014, mixed media on canvas, 152x91 cm

Zio Ziegler, Untitled, 2014, mixed media on canvas, 152×91 cm

Quella di Ziegler è una ricerca gioiosa e vitale, ma anche molto concreta. Lui la definisce “un’arte fisica per un mondo digitale”, anche se, paradossalmente, i suoi lavori hanno conquistato i tycoon della Silicon Valley, personaggi come Sean Parker, fondatore di Napster e primo presidente di Facebook, che gli ha commissionato il murale per la sede di Menlo Park, oppure Shervin Pishevar, direttore di Sherpa Ventures, che da lui si è fatto dipingere la sua lussuosa McLaren. Quello che attrae delle opere di Ziegler è l’incontenibile energia, una specie di furia atletica e agonistica, che esplode in mille colori nei dipinti su tela e nei disegni, simili a grandi patchwork postmoderni, in cui confluiscono tutte le sue passioni artistiche e letterarie.

Zio Ziegler, The Chains of Not Choosing, 2014, mixed media on canvas, 152,4x213,4 cm

Zio Ziegler, The Chains of Not Choosing, 2014, mixed media on canvas, 152,4×213,4 cm

Le sue fonti d’ispirazione sono, infatti, variegate ed eclettiche quanto il suo stile e spaziano dal teatro all’arte, passando per il fumetto, l’illustrazione e la cultura folk. Legge David Foster Wallace, Somerset Maugham e Dostoevskij come i fumetti di Robert Crumb e studia l’arte di Rousseau, Picasso e Leger allo stesso modo di quella dei contemporanei Cy Twombly e Thomas Houseago. Insomma, è informato, veloce, onnivoro e, per di più, maledettamente giovane. Tutte qualità che si traducono in uno spregiudicato uso della pittura, in barba alle tradizioni e alle gerarchie stilistiche che invece appesantiscono i suoi colleghi europei. Per Ziegler, che ha studiato filosofia alla Brown University e poi pittura alla Rhode Island School of Design, l’arte non è una faccenda per pochi eletti, ma un linguaggio universale, fruibile da tutti. Forse per questo in passato ha applicato il suo stile su qualunque tipo di oggetto e superficie, dalle carrozzerie di auto di lusso alle rape per skateboard, alle scarpe da ginnastica. Convinto che l’arte debba essere accessibile a persone appartenenti a tutti i ceti sociali, ha fondato Arte Sempre ™, una società con sede in un’ex-serra di Mill Valley, ribattezzata The Greenhouse, che si occupa di commercializzare immagini originali dei suoi lavori, stampati su capi d’abbigliamento, cappelli, felpe e t-shirt.

Zio Ziegler, Abstracted Sensation, 2014, mixed media on canvas, 101,6x76,2 cm

Zio Ziegler, Abstracted Sensation, 2014, mixed media on canvas, 101,6×76,2 cm

Ora, però, giura di aver accantonato i side-project per dedicarsi esclusivamente alla pittura. I nuovi dipinti mostrano, infatti, una maggiore concentrazione e complessità. Prolifico e velocissimo quando si tratta di eseguire wall painting, Ziegler rivela un carattere più meditativo quando dipinge su tela. Per lui la pratica della pittura è una forma d’indagine personale e, insieme, una disciplina spirituale che si esprime nella forma di un percorso erratico nei meandri dell’inconscio individuale e collettivo. La tensione tra natura e artificio, tra istinto e civiltà, è uno dei suoi temi prediletti. Le sue opere non alludono mai a significati precisi, ma sono piuttosto traduzioni visive di suggestioni e stati d’animo spesso derivati dall’osservazione della realtà.

Et in Arte Ego, progetto realizzato appositamente per la galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea, prende spunto dal motto Et in Arcadia Ego, che appare nei titoli di alcuni dipinti di Nicolas Poussin. La frase, idealmente pronunciata dalla Morte sopra un’iscrizione tombale significa “E anche io (sono) in Arcadia”. È un Memento Mori, un ammonimento sul carattere effimero del piacere, che Ziegler trasforma in una nuova sentenza sul ruolo dell’ego nell’arte. Et In Arte Ego è una riflessione sulla morte creativa, ossia su quel coacervo di dubbi e contraddizioni che spesso impediscono agli artisti di realizzare opere oneste, che non obbediscono al gusto e alle mode del tempo. Secondo Ziegler, “i più grandi dipinti non sono stati realizzati sotto la pressione dello zeitgeist, ma provengono dal vuoto della mente”, cioè da una dimensione creativa che trascende le limitazioni dell’ego. Forse è per questo, che la sua opera appare così eclettica e multiforme, quasi fosse il prodotto di una moltitudine di stili e linguaggi diversi, di una memoria collettiva che l’artista recupera e adatta alle esigenze di un Mondo Liquido – come ama definirlo Zygmunt Bauman – sempre più soggetto a processi di smaterializzazione.

Zio Ziegler, Et in Arcadia Ego, 2014, mixed media on canvas, 182,9x243,8 cm

Zio Ziegler, Et in Arcadia Ego, 2014, mixed media on canvas, 182,9×243,8 cm

Nell’arte di Zio Ziegler convivono, infatti, diverse anime. Se in opere come Figure without Expectations, Her Mystery, The Spring Time e Fate’s Intuition prevale un gusto arcaico memore della lezione del Modernismo europeo, in lavori come Et in Arcadia Ego, The Chains of Not Choosing e Portrait of Her si avvertono addirittura echi d’arte bizantina e preziosismi di marca Seccessionista viennese.

Come un surfista del web, abituato a saccheggiare l’immenso serbatoio iconografico di Google, il giovane artista californiano percorre in lungo e in largo tutta la Storia dell’arte in cerca d’ispirazione. Non è un caso che la sua tendenza ad accostare immagini diverse, richiami proprio la logica del cut & paste digitale, tanto evidente nei dipinti Pattern and Movement, When no Man is King Every Men is King, Wood Zigzag Black with Yellow e Portrait Consumed by Pattern. In fin dei conti, malgrado la sua avversione per le mode e la sua sincera ammirazione per i grandi maestri del passato, Ziegler è, più che mai, figlio del suo tempo. Uno dei pochi ad aver capito che combinare il presente col passato è l’unico modo di approdare a un’arte veramente autentica.