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Jacopo Ginanneschi. La casa del vento e altre stupefazioni

25 Feb

di Ivan Quaroni

La casa del vento, 2016, olio su tavola, 47x61cm

Il pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres sosteneva che “une chose bien dessinée est toujours assez bien peinte”[1]. Lo ricorda Giorgio De Chirico in un celebre, quanto caustico, articolo intitolato Il ritorno al mestiere, pubblicato nel 1919 sulla rivista romana «Valori Plastici». In quelle stesse pagine, il padre della Metafisica esortava i pittori ritornanti – quelli, cioè, che tornavano alla rappresentazione antropomorfa dopo le deformazioni delle avanguardie – a dotarsi degli strumenti tecnici necessari al conseguimento di tale impresa, primo fra tutti il disegno: “l’arte divina, base di ogni costruzione plastica, scheletro di ogni opera buona, legge eterna che ogni artefice deve seguire”[2]. “Tornando al mestiere”, precisa De Chirico, “i nostri pittori dovranno stare oltremodo attenti al perfezionamento dei mezzi: tele, colori, pennelli, oli, vernici, dovranno essere scelti tra quelli di migliore qualità”[3].

Tra i pittori contemporanei sono rari coloro che hanno inteso la lezione del pictor classicus, che è, d’altra parte, quella degli antichi maestri. Tra costoro c’è, senza dubbio, Jacopo Ginanneschi, nato nel 1987 a Castel del Piano (un piccolo borgo sul Monte Amiata), che da qualche anno ha sviluppato una grammatica pittorica caratterizzata dalla precisione ottica e dalla strutturazione di una volumetria solida e chiara, fattori che solo un’osservazione disattenta rubricherebbe sotto l’etichetta del realismo mimetico e fotografico che, invece, poco o nulla ha a che vedere con la sostanza intima della sua pittura. 

Occasioni, 2011, tempera all’uovo e olio su tavola,110x130cm

Ciò che è accurato e rigoroso nei dipinti di Ginanneschi non deriva dalla visione monoculare e meccanica di un obiettivo fotografico, ma è, piuttosto, l’esito di un’osservazione attenta e diretta della natura, disciplinata dall’abitudine di ritrarre col disegno e con l’acquarello dettagli di una morfologia paesaggistica che in seguito l’artista traspone sulla tavola in modo piuttosto originale. Bozzetti e studi di alberi, rocce e sentieri, per quanto sorprendentemente minuziosi (quasi al limite dell’acribia), servono a fissare nella memoria una pletora di elementi che serviranno poi alla costruzione complessiva del lavoro pittorico. Costruzione alla quale concorrono, peraltro, numerosi fattori, tra cui, ad esempio, il fatto che il paesaggio vissuto e osservato dall’artista sia un territorio in qualche modo già carico di memorie iconografiche, che riverberano non solo nella tradizione pittorica del Trecento e Quattrocento toscani, ma anche in quelle del Novecento riordinato di marca magico-realista. Un deposito visivo che l’artista non può ignorare, soprattutto perché la sua eco si perpetua nelle sue osservazioni presenti, dove si ritrovano gli stessi scorci, le stesse valli e colline, gli stessi massi verticali e pietre vulcaniche che a loro tempo dipinsero i Primitivi senesi e toscani o i tardi pittori gotici della Rinascenza. Geografie, appunto, recuperate, tra gli altri, dal Carrà di Le Figlie di Loth (1919) e di Pino sul mare (1921), all’indomani della pubblicazione per le edizioni di «Valori Plastici» di alcuni scritti su Giotto, Paolo Uccello e Piero della Francesca (1916), e negli anni Ottanta anche da un singolare pittore anacronista, Lorenzo Bonechi, cui l’artista ha dedicato il lavoro di tesi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove si è diplomato nel 2011. 

La via per l’eremo, 2015, olio su tavola,78.5×78.5cm

A questa genealogia di riferimenti, che è più una “corrispondenza” che non una filiazione diretta da autori Tre e Quattrocenteschi – da Lorenzo Monaco a Duccio di Buonisegna, da Sassetta a Sano di Pietro, da Simone Martini a Giotto, dal Beato Angelico agli altri maestri in equilibrio tra fioritura gotica e impulso umanista -, e accanto alla vulgata pittorica di Bonechi, che nella rilettura dei summenzionati artisti riscopre i valori costruttivi di architettura e paesaggio, un ruolo fondante nella formazione di Ginanneschi si deve ad Adriano Bimbi, scultore e docente dell’Accademia che ha saputo infondere nei suoi allievi l’amore e la comprensione per la pittura intesa come disciplina del pensiero. Infatti, attraverso le esperienze maturate nei ritiri estivi nei dintorni di Firenze, dove con alcuni suoi compagni, e sotto la vigile egida del Bimbi, si è dedicato a tempo pieno allo sviluppo della propria ricerca nella pratica quotidiana e attraverso momenti di riflessione e confronto, Ginanneschi è riuscito a precisare la sua visione pittorica. Una visione certo radicata nei valori struttivi tradizionali ma, al contempo, proiettata verso un modo di sentire attualissimo, che accoglie e registra strategie di rappresentazione niente affatto classiche o paludate. 

Giardino, 2012, olio su tavola,100x100cm

Significativa, in questo senso, è la scelta dell’artista di adottare una prospettiva multipla, antitetica al modello rinascimentale, che organizzava lo spazio pittorico dal punto di vista di un osservatore esterno. Nei dipinti di Ginanneschi, invece, i piani sfalsati e le prospettive incongrue invitano ad assumere un punto di vista interno al quadro, ad adottare, insomma, la visione di colui che guarda l’immagine da diversi angoli visuali, come si fa nei moderni tour virtuali.Questo stratagemma, usato anche da David Hockney in alcuni dipinti e collage fotografici, produce una sorta di straniamento, di spaesamento che nella pittura di Ginanneschi risulta accentuato per effetto del contrasto tra la precisione retinica dell’immagine e la percettibile alterazione della spazialità. A questa antinomia, presente in quasi tutti i suoi lavori, ma con maggiore evidenza in opere come Al di là del ponte (2018), Il trono (2017), Giardino (2012) o il recente Dall’ultima panca (2020), si aggiungono altri espedienti formali, come il sovvertimento di alcune regole di rappresentazione che l’artista definisce “anacoluti” spaziali e temporali, il cui significato è mutuato dalla omonima figura retorica. 

I giganti, 2020, olio su tavola, 76x88cm

Se l’anacoluto letterario, detto anche tema sospeso, è una figura sintattica priva di coerenza logico-grammaticale – come una frase che inizia con un soggetto e termina con un altro -, l’anacoluto pittorico di Ginanneschi corrisponde a una rottura della coesione dell’immagine, che può essere originata da un’alterazione dei rapporti di scala, come nel caso del dipinto La casa nel vento (2016), dove le galline poste nell’angolo in basso a destra sono sproporzionate rispetto al resto del paesaggio, oppure dall’introduzione di visioni simultanee, come nel caso di Occasioni (2011), dove un landscape diurno (costruito per inserzione e giustapposizione di diversi brani di paesaggio) presenta, ancora in basso a destra, uno scorcio notturno con casolare e lampione. Soluzione, questa, che rimanda alle numerose varianti de L’impero delle luci di Magritte e che si ritrova, con eguale potenza straniante, nelle coeve accensioni luministiche di Franz Radzivill, pittore associato alla Nuova Oggettività tedesca. 

Al di là del ponte, 2018, olio su tavola, 92x90cm

Ginanneschi condivide con Magritte, e per estensione coi pittori metafisici e i realisti magici degli anni Venti e Trenta, soprattutto un certo approccio alla rappresentazione, tutto teso a cogliere la “cosità” dei fenomeni – la sache, direbbero i tedeschi -, cioè l’essenza delle cose fuori dal tempo e dalla storia. È, quindi, con atteggiamento sachlich, obbiettivo e scevro di ogni sentimentalismo (ma non privo di passione), che l’artista plasma i volumi e le forme della sua pittura, improntandoli a quella impressionante chiarezza ottica e a quella perfetta definizione plastica che sono il risultato di una paziente applicazione della tecnica delle velature, consistente nella stesura, dal fondo al primissimo piano, di progressivi strati di materia pigmentale.

Un elemento importante della bildung di Ginanneschi è, infatti, il recupero di nozioni tecniche spesso desunte dalla trattatistica medievale – come nel caso del Libro dell’Arte di Cennino Cennini –, e riguardanti vari aspetti della disciplina pittorica, dalla preparazione dei colori a quella dei fondi. Dall’ancoramento ai solidi valori tecnici e compositivi della tradizione scaturisce una pittura ferma, plasticamente strutturata, pienamente leggibile, che l’artista declina in un genere, quello del paesaggio, oggi ingiustamente considerato “minore”, ma che offre, virtualmente, un’infinita gamma di possibilità espressive. 

Il trono, 2017, olio su tavola, 53x80cm

Ginanneschi adotta un registro sorvegliato e misurato per indagare, attraverso il paesaggio, stati d’animo quieti e riflessivi. La sua è una pittura d’incanto e stupefazione costellata di elementi enigmatici, di dettagli misteriosi che interrompono la coerenza logica e sintattica dell’immagine per suggerire la presenza di una dimensione ulteriore. I suoi paesaggi sono, infatti, allo stesso tempo, veridici – in quanto colgono il senso profondo del territorio che l’artista vive quotidianamente – e puramente ideali – in quanto prodotti di una elaborazione interiore, di una sintesi metabolica che trasforma e, infine, trascende il dato meramente oggettivo. “Tutta la storia della pittura”, scriveva Hermann Bahr, “è sempre storia del vedere”[4], ma il vedere è una forma di cognizione che combina le informazioni derivate dalla percezione retinica con le facoltà organizzative del pensiero, come peraltro dimostrano gli studi e i bozzetti di questo giovane artista toscano, rivelatori di un’acuta capacità selettiva.

Emblematici di quello slittamento tra forma visibile e realtà ulteriore, potremmo dire “metafisica” nel senso specificato da De Chirico – quello, cioè, relativo a un mistero che sta non oltre l’apparenza sensibile, ma dentro le cose stesse, negli oggetti quotidiani e perfino banali – sono molti dipinti dell’artista. Come, ad esempio, I giganti (2020), dove la vertigine ascensionale di un complesso di rocce vulcaniche sembra invitare l’osservatore a un analogo processo di elevazione, o, infine, come La casa del vento, il cui fuoco centrale è rappresentato da una piccola capanna sulla collina, una sorta d’indecifrabile scrigno, di scatola aperta su uno spazio nebuloso e indistinto, insieme varco e frontiera dell’incognito. 

Terra promessa, 2012, olio su tavola, 120x95cm


Note:

[1] “Una cosa ben disegnata è sempre abbastanza ben dipinta”.

[2] Giorgio De Chirico, Il ritorno al mestiere, «Valori Plastici», I, 11-12, Roma, 1919, p. 18. 

[3] L’autore insiste particolarmente sul fatto che “bisogna lavorare a lungo, per mesi interi, magari anche per anni allo stesso quadro, fin di non averlo tirato a pulimento completo, e fintanto che la coscienza non sia pienamente tranquilla; quando il pittore avrà capito questo, allora sacrificherà facilmente un paio d’ore della sua giornata di lavoro a prepararsi la propria tela e macinare i suoi colori; lo farà con cura e con amore, gli costerà minore spesa e lo rifornirà di un materiale più sicuro e consistente”,  Ibidem. 

[4] Hermann Bahr, Espressionismo, Silvy Edizioni, Scurelle – Trento, 2012, p. 47.


Dall’ultima panca, 2020, olio su tavola, 65x92cm

Jacopo Ginanneschi – La casa del vento. Landscape 2.0

25 FEBBRAIO – 20 MARZO 2021

Galleria Rubin via Santa Marta 10 20123 Milano

Tel. +0289096921
info@galleriarubin.com

Pubblicità

Tragödie. Silvia Argiolas, Marica Fasoli

18 Giu

di Ivan Quaroni

“Risuona un mambo nella cavea e il mondo semplicemente gira.”
(Franco Battiato, Manlio Sgalambro, Bist du bei mir)

Invito-2

Premessa

Nella barbarie linguistica della comunicazione odierna – massmediaticadirebbe qualcuno – la filosofia è stata oggetto di numerosi processi di liofilizzazione a uso e consumo del pubblico. Tra i concetti che questo tipo di pubblicistica ha consegnato alla mediocrità del vocabolario corrente, vi sono due aggettivi sostantivati di estrema rilevanza: dionisiaco e apollineo.

Sono termini oggi grossolanamente usati per designare due aspetti o attitudini del comportamento umano. Il primo, di carattere orgiastico, attiene i sentimenti di esaltazione e furore della sfera istintiva e irrazionale; il secondo, di matrice solare, introduce le idee di ordine e armonia che sostanziano il pensiero logico e razionale. Si riferiscono a due divinità della religione dei greci antichi: Dioniso, il Dio arcaico della vegetazione, incarnazione della linfa vitale, ibrida e multiforme, che alimenta le esplosioni mistiche e sensuali, secondo un principio d’indistinzione, o di primaria comunione tra uomo e natura; Apollo, divinità dalle qualità cumulative, auriga solare, protettore di pastori e greggi, patrono della musica, della poesia, della medicina e della mantica, acuto nel giudizio, oscuro nei vaticini.

Dionisiaco e apollineo prendono forma nella mente di un giovane filologo tedesco rintanato in un angolo delle Alpi, durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, “mentre i tuoni della battaglia di Wörth trascorrevano sull’Europa”[1]. Friedrich Nietzsche dà alle stampe la sua opera prima, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, nel 1872, esordendo con uno sbalorditivo incipit: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”.[2]

Sarà, infatti, la composizione dei due principi che fanno capo alle opposte origini e finalità delle due divinità, sempre in aperto contrasto e in “eccitazione reciproca”, a produrre finalmente l’opera d’arte, inizialmente nella particolare forma della tragedia attica. Tuttavia, quattordici anni dopo la pubblicazione dello scritto, nel suo Tentativo di autocritica (1886), Nietzsche applica quelle prime e visionarie intuizioni estensivamente a tutta l’arte, indicando in essa – e non nella morale – la vera attività metafisica dell’uomo.

La Nascita della tragedia s’innesta, a tratti come una sorta di sovrascrittura, sulla concezione pessimistica de Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer (1818). Il dionisiaco vi s’inserisce come una forma di totale identificazione col dolore originario, come uno stato che subentra alla rottura del principio d’individuazione e produce una mistica, erotica congiunzione con la natura, un rapimento estatico che l’autore della Tragedia paragona all’ebbrezza provocata dalle bevande narcotiche o dal “poderoso avvicinarsi della primavera”.

Laddove Schopenhauer avverte il terribile orrore che afferra l’uomo quando perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, Nietzsche intravede una possibilità di riconciliazione con la natura. Proprio qui si consuma il distacco dal pensiero di Schopenhauer. Nietzsche si domanda, infatti, se il pessimismo – ossia la coscienza che il mondo e la vita non possono dare nessuna vera soddisfazione, nessuna gioia permanente – sia necessariamente un segno di declino, di decadenza o se possa esistere un pessimismo della forza, “un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza”.[3]

6 - Salò o le 120 giornate di Sodoma, 2019, olio su tela, 40x30 cm

Silvia Argiolas, Salò o le 120 giornate di Sodoma, 2019, olio su tela, 40×30 cm. Collezione Rivabella

Fondamento tragico dell’arte

Il dionisiaco è, dunque, espressione di una vitalità del negativo, di un oblio dell’individuo che vive la contraddizione di una gioia e di una pienezza nate dal dolore che erompe dal cuore stesso della natura. Al contrario, l’apollineo è la divinizzazione del principio d’individuazione, cioè della percezione della separazione di ogni essere vivente, in particolare della separazione tra uomo e natura che conduce alla riflessione – il nosce te ipsum(conosci te stesso) iscritto sul tempio di Apollo a Delfi -, alla misura morale, al comportamento temperato, alla ricerca della bellezza e dell’armonia. In tal senso, l’apollineo è uno stato illusorio, simile al sogno, che permette all’individuo di guardare la verità raccapricciante, di osservare lo spettacolo barbarico del dolore dell’esistenza come se si trattasse di una rappresentazione. L’apollineo è la forma della conoscenza distaccata, laddove il dionisiaco è la forma della conoscenza incarnata, immedesimata e fusa con l’atrocità e l’assurdità dell’essere.

Come il dionisiaco, anche l’apollineo è uno stato necessario alla formazione dell’arte, l’uno e l’altro sono legati e intrappolati in un gioco di opposti, in un meccanismo che Eraclito chiama enantiodromia, e per il quale tutto ciò che esiste passa nel suo contrario. Per Nietzsche, apollineo e dionisiaco sono forze artistiche che sgorgano dalla natura senza mediazione dell’artista umano. “Rispetto a questi stati artistici immediati della natura”, afferma il filosofo, “ogni artista è«imitatore», cioè o artista apollineo del sogno o artista dionisiaco dell’ebbrezza o infine – come per esempio nella tragedia greca – insieme artista del sogno e dell’ebbrezza.”[4]

Phoenix 50x50, tecnica mista su carta, 2019 designed origami by Jo Nakashima

Marica fasoli, Phoenix, 2019, tecnica mista su carta, 50×50 cm. designed origami by Jo Nakashima

Due evidenze apparentemente esemplificative

Ora, la succitata premessa potrebbe fornire una chiave interpretativa delle ricerche di Silvia Argiolas e Marica Fasoli. Si potrebbero, cioè, applicare le categorie contenute nell’opera prima di Nietzsche per penetrare a fondo le loro differenti attitudini espressive.

Nella pittura di Argiolas domina lo spirito dionisiaco, l’attrazione per il titanico e il barbarico, l’interesse per il doloroso fondo esistenziale e per la sua controparte panica e sensuale. C’è, nei suoi racconti visivi, l’espressione di uno sguardo coraggioso, intento a scrutare gli accessi di follia e i deliqui erotici, le estasi e le agonie del magma esperienziale, ma anche la banale quotidianità di esistenze straordinarie o marginali.

Placido e distillato è, invece, lo sguardo di Marica Fasoli, governato dalla geometria aurea e trasognata dell’apollineo. La sua indagine pittorica decanta il mondo in forme astratte, filtrandolo attraverso una pletora di diagrammi che simbolizzano la realtà fenomenica, senza mai rappresentarla direttamente. L’impeto mimetico, che da sempre costituisce la marca stilistica del suo lavoro, è indirizzato verso la pellicola dell’immagine, insieme superficie testurale e concettuale.

Quella di Argiolas è una pittura scaturita da un abbandono vigile, che riceve e restituisce, come una sorta di documento poetico, l’urto dell’esperienza vitale. Quella di Fasoli è una pittura stillata e meditata, che osserva la vita da un punto di vista remoto per ricavarne un senso ulteriore, radiografandone la struttura per trasmetterla all’osservatore in forme platoniche e ideali, ma dotate di una potente capacità seduttiva.

Argiolas. Ut pictura poësis o viceversa.

Quello dipinto da Silvia Argiolas è un universo d’infusione e di effusione, popolato di figure ibride e oggetti ambigui avvolti in un amalgama orgiastico che confonde i contorni e i perimetri identitari dei soggetti. Lo spazio delle sue rappresentazioni è, infatti, teatro di una profusione di epifanie simultanee, di un’accumulazione narrativa che somiglia a una cosmica copula di episodi. La metafora dell’amplesso, inteso come abbraccio, effusione, ma anche accoppiamento erotico, percorre la sua pittura come una sorta di refrain iconografico, alludendo alla necessità di una coraggiosa immersione nel caos esistenziale.

Il suo linguaggio si forma per via adesiva e identificativa con le pulsioni che muovono ogni individuo verso la sua definitiva affermazione o dissoluzione. Per questo, il suo non è un dipingere progettato, elucubrato a freddo, ma costruito per accumulazione di gesti, segni, immagini che affiorano, quasi medianicamente, dalle profondità della coscienza per imprimersi sulla superficie della carta e della tela. Argiolas si abbandona a quanto vi è di sottilmente vigile in un processo d’improvvisazione. Arte, esperienza e intelligenza manuale guidano questo metodo erratico di elaborazione pittorica senza mai cristallizzarsi in codici normativi, ma lasciando aperto il campo a errori, ripensamenti, rivelazioni. Il suo procedimento è “erratico” in un duplice senso: primo, perché l’artista si muove sulla superficie senza uno scopo premeditato, dunque errando e vagabondando tra infinite possibilità espressive; secondo, perché confida nella propria capacità di trasformare ogni errore e ogni imprevisto in una formulazione grafica originale, che ha il valore di una scoperta. Spontaneità, imperfezione e coraggio sono valori imprescindibili della sua pittura, che legge il mondo come esperienza tragica e come coacervo di ossessioni e possessioni, di estasi e afflizioni insieme carnali e spirituali. La poesia si offre all’artista come fonte d’ispirazione più prossima alla pittura proprio per la sua qualità immersiva, cioè per la sua capacità di verificare il vissuto esistenziale dall’interno, dal ventre passionale e doloroso delle emozioni. Argiolas, infatti, rileva nei versi di Juan Rodolfo Wilcock, Michel Houellebecq, Dario Bellezza, Sandro Penna e Pier Paolo Pasolini un grumo d’immagini capaci di ispirare la rappresentazione grafica di quel sentimento tragico, lo stesso che animava Giovanni Testori, pendolarmente sospeso tra estasi e tormenti, tra deliqui carnali e sublimi ascensioni.

In Snack bar (2019), una grande tecnica mista su carta, riecheggiano quasi in sordina i versi di Wilcock: Ma io mi sciolgo davanti a uno snack bar/se solo so che ci sei dentro tu[5]. Eppure, l’immagine è tutt’altro che descrittiva. L’artista, piuttosto, trasferisce in quella teoria di corpi nudi, fradici di umori, i sentimenti dell’amante arrendevole, annichilito, come un lirico greco, dalla furia distruttiva dell’amore.

Un groviglio di corpi madidi – ennesimo amplesso di figure fluttuanti nel turgore virescente di un paesaggio boschivo -, campeggia al centro di Il senso della lotta (2019), una grande tela ispirata all’omonima lirica di Michel Houellebecq, dove si legge: La parabola del desiderio/Riempiva le nostre mani di silenzio/E ognuno si sentiva morire,/I nostri corpi vibravano della tua assenza[6]. L’immaginario panico e orgiastico dell’artista si configura, qui, come una sorta di anatomia tantrica del desiderio, come una bukowskiana musica per organi caldi, partitura di orifizi umidi, membri sprizzanti, mammelle stillanti e lingue avvolgenti. Tutta l’arte di Argiolas aspira alla condizione coitale, all’annichilamento orgiastico che prefigura la fusione dell’individuo col tutto e la sua momentanea eclissi identitaria. Per questo i suoi personaggi sono spesso sessualmente ibridi, incarnazioni di quella bisessualità innata che secondo Sigmund Freud è presente in ogni individuo sotto forma di predisposizione psicologica[7].

A Pier Paolo Pasolini è dedicato un gruppo assortito di lavori. L’opera principale, Pasolini (2019), è il frutto di un’immaginifica crasi tra due autoritratti dello scrittore dei primi anni Quaranta, già esposti nella mostra Pasolini a Casa Testori (20 aprile – 1 luglio 2012). Si tratta di due fisionomie sovrapposte, due diversi aspetti della personalità di Pasolini che la pittrice innesta su un’anatomia fluida, elastica e tentacolare quanto l’attività dell’autore, che spaziava dalla poesia alla narrativa, dalla sceneggiatura alla regia, dal giornalismo alla drammaturgia senza soluzione di continuità.

Al ritratto bifronte dello scrittore friulano si affiancano, poi, quelli di Maria Callas, che fu sua musa per il film Medea (1969), interpretando la protagonista dell’omonima tragedia di Euripide, moglie abbandonata, maga e assassina. Anche in queste tre piccole effigi, dove il linguaggio espressionista è venato d’allusioni bizantine, i ritratti sono costruiti come prodotto di una moltiplicazione fisionomica: una solida e più leggibile, l’altra lineare e quasi aerea. Chiudono la serie dedicata a Pasolini, due piccoli dipinti (Gli sposi e  Salò o le 120 giornate di Sodoma), ispirati all’opera conclusiva della sua cinematografia che individuava nella feroce opera del Marchese De Sade i segni manifesti della tirannia della Ragione e della conseguente assenza d’ogni umana empatia e compassione. Un tema, questo, che attraversa in filigrana tutta l’opera pittorica di Silvia Argiolas, orientata alla comprensione e alla rappresentazione di tutta la gamma delle vicende umane, perfino quelle più marginali o socialmente inaccettabili.

Dario Bellezza con i suoi gatti (2019) è, invece, un ritratto zoomorfico dello scrittore romano che proprio ai felini dedicò un’intera sezione della raccolta di liriche Io: 1975-1982 (Mondadori, 1982). “Di Bellezza, poeta legato a Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori”, racconta Silvia Argiolas, “mi ha colpito il rapporto con la vita e con la morte, il suo essere un gatto selvatico, incapace di dominare i suoi istinti animali e sessuali”.

A Sandro Penna, infine, sono dedicate due tele: La stanza del poeta (2019), un ritratto caratterizzato da un rigoroso equilibrio formale e da una gamma cromatica di sapore quasi mesoamericano; e Il mare tutto azzurro/il mare tutto calmo (2019), lavoro ispirato ai versi di una breve poesia in cui lo scrittore contrappone il placido silenzio del paesaggio marittimo all’urlo muto del suo cuore esultante. In questo piccolissimo dipinto, affiora forse più chiaramente il lato apollineo che innerva tutta pittura di Argiolas. Una pittura che, nella sua empatica adesione alle gioie e alle sofferenze estreme dell’uomo, è però pur sempre testimonianza di una forma d’osservazione, capace di filtrare il tragico fondo esistenziale attraverso le visioni lenticolari del sogno e dell’allucinazione. È, infatti, tramite il sogno che l’artista si fa spettatrice del caos, scrutatrice del dolente abisso della coscienza e, allo stesso tempo, dell’inumano spettacolo della natura.

Marica Fasoli. Mimesi platonica o iperrealismo di secondo grado.

Analisi e contemplazione sono i presupposti dell’indagine di Marica Fasoli, artista che studia la morfologia dei fenomeni e il modo in cui le forme delle cose si presentano ai nostri occhi, per snidare e stanare in esse un significato ulteriore, un ordine o una matrice.

Lo slancio platonico – o se preferite kantiano – dell’artista si fonda sulla necessità teleologica di formulare ipotesi credibili sul fondamento dell’esistenza. Il prerequisito di tale atteggiamento è il principio di individuazione, la percezione di sé come entità separata da tutte le altre entità del mondo, le quali, possono quindi diventare oggetto di osservazione ed analisi. Si tratta di una condizione ascetica, contemplativa, antitetica alla furia orgiastica e all’estasi mistica che annullano l’individuo ricongiungendolo col tutto. Per osservare il mondo, per non lasciarsi prendere nella sua morsa è necessario svolgere uno sforzo interiore, fabbricarsi l’illusione di diventarne il testimone.

Tutta l’arte è, in qualche modo, mimetica (nella forma o nella sostanza) perché si fonda sulla capacità di esaminare e vagliare il senso del mondo per riformularlo sotto forma d’immagini. È quello che Nietzsche definisce sogno, dominio apollineo che permette di guardare l’esistenza come se si trattasse di una sorta di spettacolo.

Marica Fasoli è un’artista mimetica, che ha sviluppato uno stile iperrealistico basato sul virtuosismo tecnico e descrittivo. Tale abilità, derivata dalla sua specializzazione in Anatomia Artistica e approfondita nell’esperienza di restauro di opere antiche, ha contribuito non poco alla definizione del suo linguaggio pittorico. Per anni, ha ritratto la realtà con l’acribia di un miniaturista, ricalcando la superficie degli oggetti, le venature lignee, le pieghe della carta, le fisionomie e gli incarnati, alla ricerca di un segno, di un indizio che potesse rivelare l’anima o la sostanza che sta dietro la pellicola delle cose. La tensione retinica, una sorta di muscolare atletica visiva, serviva a penetrare il significato di quelle forme. Ma il ricalco mimetico, la ricostruzione, quasi fotografica, delle qualità epidermiche e testurali degli oggetti non era sufficiente a produrre una formulazione di senso. Il noumeno si sottraeva all’indagine ottica, un breve, elusivo lampo di consapevolezza a fronte di uno sforzo titanico. Bisognava cambiare strategia, fare un passo indietro (o in avanti), per formulare nuove ipotesi. La natura e il mondo andavano osservati da un altro punto di vista, più discosto, più indiretto: non la forma delle cose, ma quella delle idee, non i fenomeni, ma i costrutti.

Riorientando lo sguardo dall’esterno all’interno, l’osservazione si trasmuta in contemplazione. Il lavoro odierno di Marica Fasoli nasce per effetto di questo scarto, di questo slittamento concettuale, grazie alla scoperta di una pratica lontana nel tempo e nello spazio, quella dell’origami, una tecnica orientale di piegatura della carta finalizzata alla costruzione di modelli e oggetti tridimensionali. Non un’attività di svago, ma un’arte che insegna la disciplina interiore e sviluppa doti di precisone e pazienza che attengono anche alla pratica della pittura iperrealista. Marica Fasoli ne impara i rudimenti e inizia a fabbricare le forme più semplici: un orso, un pavone, una rana, una conchiglia, un riccio, un unicorno. Montando e rimontando quelle forme si accorge che il foglio dispiegato è un diagramma di linee complesse che somiglia a una struttura ordinata, è la rappresentazione visiva di un design, lo schema di un progetto. Non l’effetto, ma l’idea, il noumeno, forse. Comincia a pensare di aver trovato un nuovo oggetto da osservare, qualcosa da dipingere: un simbolo astratto, non più un oggetto concreto.

Gli origami sono oggetti simbolici, che alludono al ciclo vitale di nascita, morte e rigenerazione. Fragili e deperibili come gli organismi naturali, gli origami possono essere fatti e disfatti, costruiti e distrutti. Per Marica Fasoli il foglio di carta dispiegato, segnato da un reticolo di linee e ombre, è una sorta matrice, un’allegoria generativa che può essere tradotta nel linguaggio della pittura. Ma come? Gli vengono in soccorso due modelli procedurali: quello di Corrado Cagli, che nel 1957 dipinge Enigma del gallo, un olio su carta intelata dove le partiture astratte dell’immagine sono ricavate dalla mimesi delle stropicciature di un foglio di carta; e quello, più recente, di Tauba Auerbach, artista californiana autrice dei cosiddetti Crumple Painting, “una serie di grandi rendering di carta accartocciata dipinti in semitono”[8]. Partendo da quei modelli, Marica Fasoli elabora una pittura di mimesi strutturale, che usa la matrice degli origami come linea guida o, addirittura come supporto per la realizzazione di opere astratte.

Ogni origami è il prodotto di una creazione artistica originale, tanto che l’artista ne cita sempre l’autore, ma la sua comprensione passa attraverso un complesso lavoro di costruzione. Prima di dipingere un origami Marica Fasoli deve necessariamente imparare a costruirlo, assimilando una coreografa di gesti ordinati in una precisa successione. Una volta costruito, l’origami può essere finalmente smontato. Il foglio dispiegato rivela, infatti, la fitta trama di piegature che costituisce l’ossatura progettuale dell’oggetto. Su questa griglia di linee l’artista lavora con una tecnica chiaroscurale che marca luci e ombre in tonalità metalliche e iridescenti. Nascono così dipinti come Lemur (2017), Scrat (2017), Tarantula (2017) Hawk (2018) e Featerehd Crane (2018), stilisticamente all’incrocio tra astrazione e iperrealismo, tra arte analitica e concettuale.

I lavori di Marica Fasoli sono ipertesti visivi che rimandano a contenuti iconografici assenti, nel senso che le figure non compaiono nell’immagine dipinta, se non in forma ideale, progettuale appunto. Tutto il campionario fenomenologico delle forme zoomorfiche evocate dai titoli precipita, di fatto, in un unico oggetto, il foglio di carta pieghettato, un codice riepilogativo in grado di sintetizzare un’enorme massa informazionale. Nell’osservazione della natura, l’artista attua un doppio processo astrattivo: sceglie un soggetto come l’origami, un artefatto già astratto e stilizzato, per decostruirlo e ridurlo a diagramma riassuntivo delle proprietà geometriche e matematiche che governano tutti gli organismi, dalla proporzione aurea alla sequenza di Fibonacci. Sembrerebbe un sogno apollineo al quadrato. Eppure, il carattere dionisiaco, anche se recessivo, costituisce il fondamento emozionale di questa operazione di rimozione. La ricerca di bellezza e armonia nella pittura di Marica Fasoli e il suo strenuo ancorarsi all’ipotesi di un cosmo strutturalmente ordinato e perfetto rispondono a un’intima, forse inconfessabile, necessità di arginare il caos. Un caos che l’artista presagisce già agli esordi della sua indagine sugli origami, quando legge della tragica vicenda di Sadako Sasaki. La storia racconta di una bambina giapponese esposta alle radiazioni nucleari di Hiroshima che all’età di undici anni si ammalò di leucemia. Per sconfiggere la morte, con atto scaramantico, Sadako decise di piegare mille origami in forma di gru. Nella cultura giapponese la gru è un animale simbolo d’immortalità. Purtroppo, la bambina riuscì a realizzarne solo una parte, prima che la malattia la consumasse del tutto. A finire il lavoro furono i suoi amici, che raccolsero i fondi per erigere una statua in suo onore nel Parco della Pace di Hiroshima, un monumento visitato ogni anno da migliaia di persone.

Congedo

L’analisi delle ricerche diametralmente opposte di Silvia Argiolas e Marica Fasoli dimostra che apollineo e dionisiaco, le due categorie introdotte da Nietzsche per spiegare la nascita della tragedia attica, attraversano, come una sottile filigrana, tutte le forme d’arte. Tutta l’arte, infatti, è infusa di questi elementi differentemente miscelati in un’infinita gamma di combinazioni. Per il grande filosofo tedesco l’arte è un’attività metafisica perché la natura umana può liberarsi solo attraverso questi due strumenti, queste due divinità, Dioniso e Apollo, il cui accoppiamento fa esplodere un’intuizione e scatenare perfino la fantasia più mediocre. Laddove c’è l’arte e la comprensione di questi due doni che erompono dal cuore stesso della natura, “Allora c’è una salvezza”, afferma Giorgio Colli, “allora il mondo che ci circonda, con il suo cielo plumbeo e le sue ore digrignanti, è soltanto un incubo, e la vita vera è il sogno, è l’ebrezza!”[9]


Note

[1]Friedrich Nietzsche, Tentativo di autocritica, in Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, 1977, p.3.
[2]Friedrich Nietzsche, Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, 1977, p.21.
[3]Tentativo di autocritica, p.4.
[4]Nascita della Tragedia, p.27.
[5]Juan Rodolfo Wilcock, Poesia, Adelphi, Milano, 1996.
[6]Michel Houellebecq, Il senso della lotta, Bompiani, Milano, 2000.
[7]Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
[8]Margherita Artoni, Tauba Auerbach. Oltre la terza dimensione, in “Flash Art”, dicembre 2011- gennaio 2012, Giancarlo Politi Editore, Milano, p. 60.
[9]Giorgio Colli, Nota introduttiva, in Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano, 1977, p. XII.


Info:

Tragödie. Silvia Argiolas / Marica Fasoli
a cura di Ivan Quaroni
Casa Testori
Largo Angelo Testori, 13, 20026 Novate Milanese MI
tel. 02.36586877 | info@casatestori.it

Ufficio Stampa
MGV Communication
Maria Grazia Vernuccio
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Giacomo Piussi. Camere con vista

25 Giu

di Ivan Quaroni

 

«Un’immagine vuole spezzare i confini che il concetto
aveva tracciato per restringerla e definirla»
(Ernst Jünger)

Donna su divano

Donna su divano

 

“Comunque, è sempre infinitamente più difficile essere semplici che essere complicati”, sosteneva Giovannino Guareschi. Un concetto che appare oltremodo vero quando si osservano i dipinti e i disegni di Giacomo Piussi, così lievi, misurati, composti e insieme così leggibili e godibili da richiamare gli stilemi del fumetto e dell’illustrazione.

Non si può ignorare, infatti, che il disegno abbia un ruolo rilevante in tutta la produzione di Piussi e che il modo in cui l’artista pratica tale esercizio sia sempre stato improntato a una sorprendente chiarezza d’intenzioni.

Se è vero che il disegno è considerato come la prima e veridica proiezione delle idee di un pittore su un foglio di carta (o su un muro), lo strumento rivelatore della sua personalità e della sua capacità di organizzare la linea in forma, e quindi in significato, allora non si può che rilevare la limpida qualità del disegno di Piussi e il suo speciale modo di rendere semplice ciò che è complesso.

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Charles Baudelaire, in occasione della sua visita al Salon parigino del 1846, scriveva che “il disegno è un conflitto tra la natura e l’artista, in cui l’artista può trionfare tanto più agevolmente quanto sa intendere meglio le intenzioni della natura.” Per il poeta dei Fiori del Male“il problema non era quello di copiare, ma di interpretare in una lingua più semplice e luminosa.”[1]

Piussi sembra aver inteso perfettamente il senso di questo conflitto – che è poi lo stesso intuito da Guareschi – ed essere così pervenuto alla formulazione di un linguaggio aureo. Un linguaggio che, nella sua apparente semplicità, non solo riassume e filtra tanti episodi della storia dell’arte, ma aggiunge qualcosa di personale e unico.

Invece di concentrarsi sulla resa ottica, mimetica, Piussi ha sviluppato una grammatica pittorica che coglie sinteticamente la realtà e la rapprende, geometrizzandola in linee essenziali e concise, quasi minimali, che imbrigliano il colore, recingendolo in contorni schietti.

Donna bordo vasca e 2 nuotatori

Donna bordo vasca e 2 nuotatori

Dentro questo suo modo ci sono non solo la lezione dei primitivi italiani e il modello giottesco ripreso dal Carrà di Valori Plastici, ma anche il Novecento di Balthus e Fortunato Depero e molto altro ancora. Tutto, però, è filtrato e opportunamente conformato alle più attuali esigenze espressive. Non c’è alcuna tentazione nostalgica nella pittura di Piussi, nessun cedimento malinconico verso il passato. Semmai c’è la consapevolezza di muovere da una tradizione antica che, come notava Luigi Di Corato[2], va da Wiligelmo a Benedetto Antelami, da Sassetta a Paolo Uccello, passando per Ghiberti e Giovanni Pisano, secondo un itinerario stilistico, insieme aristocratico e austero, che potrebbe virtualmente arrivare fino ad Alex Katz.

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La pittura di Piussi ruota attorno a due ossessioni iconografiche, l’immagine femminile, sublimata e raffinata da ogni accidente fenomenologico, raffreddata in stilemi sobriamente eleganti, e le forme del regno animale, per lo più volatili e quadrupedi le cui anatomie rastremate fanno pensare ai bassorilievi romanici e gotici o alle pagine dei bestiari medievali. Entrambi i soggetti sono calati in uno spazio sommario, quasi astratto, più simile a una proiezione mentale che a un effettivo luogo fisico. Prova ne sono certi ritratti su fondi monocromi, privi di caratterizzazione ambientale, e certe “giungle” che paiono la trascrizione grafica (quasi segnaletica) dei paradeisosdella miniatura persiana.

Eppure, per quanto astratto e stilizzato, lo spazio non è un fattore secondario nella pittura di Piussi. Interni domestici e paesaggi contribuiscono non poco alla formazione del suo immaginario, suggestionato tanto dalla reiterazione di algidi modelli femminili, quanto dalla descrizione di luoghi architettonici e naturali. S’intuisce, infatti, che l’artista concepisce l’arte come una sorta di portale che apre allo spazio illimitato dell’immaginazione.

Piussi cita spesso un racconto di Borges, l’Aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico (e fenicio) che lo scrittore assimila appunto a un’enigmatica soglia. “Un Aleph”, scrive, “è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti […] il luogo dove si trovano senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli.”[3]

Vasca da bagno

Vasca da bagno

Nelle intenzioni dell’artista, la pittura dovrebbe avere le stesse qualità di un Aleph. Dovrebbe, cioè, essere un’immagine in grado dischiudersi sull’universo abissale del pensiero, moltiplicandosi in una sconfinata varietà di possibilità.

Per Piussi la soglia, il punto d’accesso è, in questo caso, affidato a una suggestione occasionale, se non addirittura incidentale. La visita a una tipica casa versiliese immersa in una pineta a pochi passi dal mare fornisce, infatti, all’artista lo spunto per una meditazione visiva che incarna perfettamente i modi della sua pittura.

Come il giardino dei Finzi-Contini del romanzo di Giorgio Bassani, isola felice che accoglie gli svaghi di una gioventù dorata, mentre nel mondo esterno si promulgano le leggi razziali e ci si accinge a entrare nell’incubo della guerra, la casa versiliese di Piussi è un luogo di sospensione pneumatica, un hortus conclususche non viene lambito dal clamore del mondo.

Partita di tennis

Partita di tennis

L’artista registra mentalmente l’atmosfera placida e meridiana di questa dimora ideale, ricostruendone le stanze con le finestre aperte sul giardino da cui paiono giungere, come un’eco lontana, il frinire intermittente delle cicale e il ritmico palleggio di una partita di tennis. Piussi disegna sui muri della galleria un’ipotetica sequenza d’interni, composta di una teoria di soggiorni, studi, cucine, stanze da letto e sale da bagno che forniscono l’ambientazione più appropriata alle sue visioni pittoriche.

La sua ricostruzione, o forse dovremmo dire la sua pretestuosa “reinvenzione” della dimora estiva borghese, impaginata lungo le pareti dello spazio espositivo in un elegante disegno monocromo blu, quasi alla maniera di una moderna sinopia, diventa lo scenario sul quale si aprono numerosi “affacci”, tanto quelli raffigurati in forma di finestra in ogni stanza, quanto quelli rappresentati dai dipinti che l’artista sovrappone al tracciato grafico, creando così un reticolo d’illusioni e proiezioni molteplici. Ma questa tendenza alla reiterazione si ritrova anche all’interno dei dipinti, non solo nelle figure gemellari di Donna con occhiali da soleo nella carrellata suprematista dei Ritratti Russi(tributo al genio di Malevic), ma anche nelle sequenze dei movimenti delle tenniste o nelle ripetute immagini di uccelli appollaiati sui rami di un albero.

Quelle di Giacomo Piussi – mi è concesso storpiare il titolo di un celebre romanzo di E. M. Forster – sono camere con vista, luoghi che permettono all’osservatore di accedere a una realtà multidimensionale dove lo spazio visivo si moltiplica e colma la distanza che divide la realtà dall’immaginazione, divenendo, come nel racconto di Borges, il multum in parvo, quel punto nascosto nella cantina di Carlos Argentino Daneri che è l’Aleph, squarcio sulle meraviglie del possibile e cornucopia d’infiniti universi.


Note

[1]Charles Baudelaire, Salon del 1846, in Opere, a cura di G. Raboni e G. Montesano, Mondadori, Milano, 2001, p. 205.
[2]Luigi Di Corato, Piussi. L’educazione sentimentale, Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, 2002.
[3]Jorge Luis Borges, L’Aleph, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 161.


Info

Giacomo Piussi | Camere con vista
a cura di Ivan Quaroni
OPENING  sabato 7 luglio 2018, dalle ore 18.00
Dall’8 luglio al 2 settembre 2018
Orario dal lunedì alla domenica 11-14 / 17-24

Galleria Susanna Orlando
Via Garibaldi, 30 e via Stagio Stagi,12 – Pietrasanta (LU)
T +39 0584 70214
info@galleriasusannaorlando.it
http://www.galleriasusannaorlando.it

PRESS OFFICE Studio Ester Di Leo
Tel. +39 055 223907 M. +39 348 3366205
ufficiostampa@studioesterdileo.it http://www.studioesterdileo.it

Carlo Cofano. Pensieri di luce

16 Giu

Di Ivan Quaroni

 

“Chi impara realmente a vedere, si avvicina all’invisibile.”
(Paul Celan, Microliti)
 
Si può dipingere ogni cosa, basta soltanto vederla.
(Giorgio Morandi)
 
 

Carlo Cofano, Pensieri di Luce, olio e acrilico su tela, 120x120 cm., 2014

Carlo Cofano, Pensieri di Luce, olio e acrilico su tela, 120×120 cm., 2014

Dopo tanti secoli, non è ancora chiaro quale sia il vero scopo della pittura. Forse perché uno scopo preciso, tantomeno utilitaristico, non c’è. Quel che, invece, è certo è che la pittura non può ridursi a mera rappresentazione della realtà. Essa deve contenere qualcosa in più… e qualcosa in meno. Un quid che la renda affascinante e, allo stesso tempo, necessaria. Secondo Alberto Sughi, compito della pittura è mostrare, non argomentare. Ma mostrare che cosa? Il poeta Paul Valery sosteneva che “il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà”, dando a questa millenaria pratica un ruolo quasi profetico che forse non gli si addice. Se, infatti, dipingere la realtà è un atto di pura cronaca, del tutto gratuito, dipingere il futuro, anticiparlo, potrebbe apparire addirittura un gesto folle. Eppure, proprio l’ipotetico, il possibile, l’opinabile, sono i domini prediletti dell’arte, i campi in cui essa dimostra la sua capacità non di prevedere il mondo che verrà, ma di cogliere l’invisibile oltre la sfera della percezione ordinaria e rendere, così, palese ciò che è nascosto in piena luce.

Carlo Cofano, Atmosfere, olio su tela, 90x 110 cm., 2014

Carlo Cofano, Atmosfere, olio su tela, 90x 110 cm., 2014

Carlo Cofano è uno di quegli artisti per cui la luce – come affermava André Derain – “è sostanza della pittura”. Un’affermazione che va intesa sia in senso fisico, perché attraverso le sue modulazioni d’intensità essa genera le forme e i colori, sia in senso lato, perché, come qualità spirituale, è in grado di svelare quel che non si può cogliere a occhio nudo, con un approccio esclusivamente retinico. La sua ricerca pittorica si configura come una sorta viaggio all’interno del sé, una ricognizione non tanto psicologica o psicanalitica, ma piuttosto medianica e archetipica, che lo conduce a indagare la struttura della realtà ultrasensibile. Obiettivo dell’artista è squarciare il proverbiale velo di Maya di shopenhaueriana memoria, per dare corpo (e anima) a un universo solo apparentemente fantastico. Cofano dipinge, infatti, mondi paralleli e sovrapposti, intersezioni di piani spazio-temporali, dove una luce limpida, cristallina, irradia le superfici svelando l’esistenza di luoghi misteriosi, abitati da rare, enigmatiche presenze.

Carlo Cofano, Ri-Creazione, olio su tela-50x60 cm., 2013

Carlo Cofano, Ri-Creazione, olio su tela-50×60 cm., 2013

I suoi universi iperurani, sospesi in una placida atmosfera mediterranea, eppure tanto simili ai paesaggi ibridi di Moebius o alle fantasie solari di Hayao Myazaki sono, tuttavia, solo in parte il frutto di una ricerca estetica e artistica. Come gli iniziati della Grande Opera, Cofano intraprende un viaggio nelle profondità dell’anima, un tragitto – lo stesso così abilmente criptato nel celebre acronimo alchemico[1] – che lo conduce a battere i sentieri della coscienza, districandosi tra perigliosi abissi e vette impervie. Come gli alchimisti, egli trasferisce le fasi dell’Opera alchemica nella pittura, passando attraverso un processo di raffinamento della materia cromatica dalla sostanza sorda e densa dei fondi neri (nigredo) a quella eterea e purificata dei fondi bianchi (albedo).

Carlo Cofano, Appartenenze, acrilico su legno, 59x63 cm., 2014

Carlo Cofano, Appartenenze, acrilico su legno, 59×63 cm., 2014

Le opere in mostra sono, infatti, suddivise in due differenti tronconi d’indagine. Le prime sono realizzate preparando le tele con acrilici neri, che fanno risaltare la lucentezza, ma anche la consistenza fisica e prosaica dei colori, dando corpo a soggetti solidi, plasticamente definiti. Quelle, invece, eseguite su tele preparate con un fondo bianco, sono più trasparenti, eteree, come per effetto di una sublimazione delle sostanze. Sembra quasi che la pittura sia ora percorsa da una più alta vibrazione energetica, che rende impalpabile ciò che prima appariva compatto. I mondi descritti da Carlo Cofano appartengono a diversi gradi di realtà, come fossero disposti lungo una scala ascendente che scandisce il grado di maggiore o minore prossimità con il mondo sensibile. Più vicini all’ordine della realtà materiale sono i paesaggi solidi che affiorano dalla tela nera, quelli, per intenderci, che appaiono tanto simili a certe ricerche di matrice pop surrealista e che, per comodità, ascriviamo agli stilemi dell’immaginario magico-realista sudamericano. Più lontani – come le intelligenze angeliche del Paradiso dantesco – sono i mondi che traspaiono dal fondo bianco, dove un’intensa luce attenua le forme, sottraendo gravità ai corpi e annullando le ombre.

Carlo Cofano, L'Attesa, olio e acrilico su tela, 70x110 cm., 2013

Carlo Cofano, L’Attesa, olio e acrilico su tela, 70×110 cm., 2013

Intendiamoci, i paesaggi di Cofano sono tutti, senza eccezione, fuori dalla limitata portata della comune percezione, cioè oltre quella cortina illusoria che ci ostiniamo a definire “realtà”. La sua pittura è, infatti, letteralmente un medium, un tramite tra il visibile e l’invisibile, dove Cofano, come artista, diventa pontifex, ossia costruttore di ponti tra l’alto e il basso, tra il materiale e l’immateriale. Un ruolo, per la verità, che gli artisti hanno ricoperto anche in passato. Penso soprattutto alla pittura iconica bizantina, dove l’artista si faceva strumento, appunto, della rivelazione divina o ai pittori tibetani di tangka, rettangoli verticali di tessuto dipinti con motivi geometrici, che consideravano la bellezza, una manifestazione del sacro. Già nelle “opere al nero”, da Pensieri di luce (2014) a Pianeta Armonia, passando per Settimo cielo (2013) e Ri-creazione (2013), assistiamo alla palingenesi di un universo epifanico, dove s’intrecciano paesaggi sublimi e architetture impossibili, sotto il segno di una natura edenica, insieme metamorfica e rigogliosa. Sotto ampissime volte celesti, tra nubi incendiate da vespertine radiazioni, oppure dentro una natura lussureggiante, costellata di strani fiori tropicali, compaiono creature d’ombra e titani fluttuanti, silenti testimoni del viaggio cosmico di Carlo Cofano. Un viaggio come dicevo, compiuto senza vettori spaziali o satelliti orbitanti, ma sperimentando un diverso modo di osservare la realtà. Quelli dipinti dall’artista sono sogni lucidi o visioni scaturite da uno stato di presenza vigile, in cui l’ego diventa una parte remota dell’individuo, sempre più relegato a un ruolo marginale.

Carlo Cofano, Convergenze di Luce, olio e acrilico su tela, 130x205 cm., 2014

Carlo Cofano, Convergenze di Luce, olio e acrilico su tela, 130×205 cm., 2014

Nelle “opere al bianco”, come ad esempio Apparenze (2014) e Convergenze di luce (2014), la contemplazione si sofferma sulla struttura platonica delle forme, la natura organica si trasforma in geometria piana e l’architettura in sintesi volumetrica. La sublimazione raffredda anche i colori, che si organizzano in partiture di turchini, armonie di cobalti, sinfonie cilestrine. Appartenenze (2014) e Frequenze (2014) delineano paesaggi aerei e costruzioni pensili oltre le nubi, a un passo dalla stratosfera. Qui è il dominio dell’acqua, dell’aria e della luce, come pure nel grande trittico su tavola, dove la volta celeste, con i suoi nembi cumuliformi, s’increspa tra cascate di acquedotti celesti, mentre in basso, lontanissimo, il mondo si flette in una curva impossibile. La pittura di Carlo Cofano descrive una realtà liminare in cui Spazio e Tempo collidono, frantumando i parametri della fisica classica. Una dimensione tanto prossima alle leggi della teoria quantistica da lasciarci supporre che niente è, in realtà, come sembra. E che la verità è, come sempre, nascosta in piena luce.

Carlo Cofano, Madre, olio su tela, 50x80 cm., 2014

Carlo Cofano, Madre, olio su tela, 50×80 cm., 2014

INFO
Titolo : Pensieri di Luce
Artista : Carlo Cofano
Curatela : Ivan Quaroni
Luogo : E-lite studiogallery Corte San Blasio 1c Lecce
Periodo:21 giugno-13 agosto
Vernissage 21 giugno ore 20.00
Catalogo: Editrice Salentina
Fotografia: Aesse fotografia
Info e contatti :
www.elitestudiogallery.eu
mail:infoelitestudiogallery@gmail.com
carlocofanoartist@gmail.com
mobile: Claudia Pellegrino 338-1674879

[1] VITRIOL, le cui iniziali stanno per: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem (Veram Medicinam), che significa “Visita l’interno della terra, e rettificando (con successive purificazioni) troverai la pietra nascosta (che è la vera medicina)”.