Archivio | novembre, 2013

Victor Vasarely. La vita nello spazio.

29 Nov

di Ivan Quaroni

Marcel Duchamp, considerato all’unanimità il padre putativo dell’arte contemporanea, fu il primo a sentire la necessità di riportare la pittura nei confini della mente, tralasciando, per così dire, l’aspetto sensuale, legato all’emozione visiva e all’impressione retinica. Per lui, la pittura doveva avere a che fare con la “materia grigia” della nostra comprensione, invece di essere un’arte puramente visiva. Nel 1955, quando la galleria Denis René di Parigi inaugurò la mostra “Le Mouvement”, cui partecipa anche Duchamp, Vasarely non poteva sapere che, di lì a poco, sarebbe diventato l’artista retinico per definizione. Quello che, invece, Marcel Duchamp non immaginava, è che per Vasarely il problema ottico, retinico, non era riducibile alla mera rappresentazione di giochi visivi, ma aveva a che fare soprattutto con la comprensione dei meccanismi cognitivi dell’uomo. La stimolazione visiva diventava, così, un espediente per indurre nell’osservatore un’esperienza di ordine gnoseologico. “La posta in gioco”, scriveva Vasarely, “non è più il cuore, ma la retina”, vale a dire il processo stesso di percezione. Sarebbe quindi giusto dire che egli riuscì a essere, come nessun altro, un artista dell’occhio e del pensiero.

Le sue idee sul rapporto tra opera e osservatore, che poi sarebbero confluite nell’elaborazione dell’Unità Plastica, matrice fondamentale del suo linguaggio pittorico e plastico, maturarono in seguito a un’attenta riflessione sul pensiero di Josef Albers. Albers aveva elaborato una teoria che distingueva tra l’opera (che chiamava l’attuale) da ciò che essa era capace di comunicare (che, invece, definiva fattuale), ossia dalla reazione che il cervello dell’osservatore sviluppava in seguito all’esposizione visiva. Fin dagli anni Trenta, Vasarely aveva intuito l’importanza di un approccio all’opera, per così dire, purovisibilista, che certamente derivava dalla sua formazione al Mühely di Budapest, la scuola privata fondata da Alexander Bortnyk sul modello del Bauhaus. Il corso di studi proposto da Bortnyk proponeva una formazione in varie discipline, come pittura, architettura, arte decorativa, teoria del colore e approfondiva soprattutto il rapporto tra arte e tecnica.

Dopo il suo trasferimento a Parigi, l’artista ungherese aveva iniziato a sperimentare la possibilità di creare la vibrazione ottica sulla superficie dell’opera. Com’è noto, egli si dedicò alla grafica pubblicitaria durante tutto il primo decennio di permanenza nella capitale francese, ma ebbe comunque il tempo di continuare i suoi studi sulla percezione con una serie di carte e oli su tela in cui rappresentava motivi di zebre e tigri attraverso strisce e reticoli di linee. Si trattava di lavori grafici eseguiti durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la sua attività di pubblicitario era rallentata a causa della carenza di commissioni. Durante questo lasso di tempo – uno iato obbligato dalle difficili circostanze economiche – Vasarely ebbe l’opportunità di ripensare alla lezione della pittura astratta delle Avanguardie, dedicandosi all’esecuzione di lavori ispirati alle ricerche espressioniste, futuriste e cubiste dei primi del Novecento. Più tardi, nel 1947, avrebbe liquidato questa produzione, rubricandola sotto l’etichetta di Fausses routes (passi falsi). Tuttavia, quelle opere, ebbero il merito di avvicinare il maestro ungherese alla sua futura produzione astratto-geometrica, consentendogli di individuare nello spazio e dunque nella sua percezione, il leit motif di tutta la sua ricerca.Lo spazio, inteso non solo come sinonimo della terza dimensione, ma anche come dominio degli universi microscopici della fisica subatomica o di quelli cosmici della geografia astronomica avrebbe, infatti, costituito una fonte d’ispirazione fondamentale nelle indagini di Vasarely degli anni a venire. Alla fine degli anni Quaranta, Vasarely affrontò il problema della percezione dello spazio attraverso l’osservazione del paesaggio di Belle-Isle, che tradusse in una sintesi di forme ellittiche e ovoidali ancora leggibili in chiave naturalistica. Nei lavori, invece, del Periodo Denfert, quasi coevo, l’artista attuava un processo inverso. Guardando le piastrelle della stazione metropolitana di Denfert-Rochereau, costruìe forme astratte come fossero reali, assecondando la tendenza dell’occhio umano a scorgere figure in uno schema casuale. All’epoca, per Vasarely la natura e il paesaggio antropico erano ancora punti di partenza per lo sviluppo di un linguaggio pittorico astratto. Quando alla fine degli anni Quaranta acquistò una cascina nel borgo medievale di Gordes, rimase affascinato dalla struttura affastellata delle case e dalla loro “multiformità fluttuante”, che fissò negli Etude pour Gordes. L’opera intitolata Ironta, un olio su tela del 1950 riferibile a quel periodo, dimostra come la riflessione di Vasarely intorno al problema della percezione delle strutture spaziali coincidesse con la messa a punto di un linguaggio svincolato dalla rappresentazione naturalistica.

La svolta definitiva avvenne, tuttavia, in seguito all’introduzione dello schema del cubo assonometrico e del cubo di Keplero nelle sue opere, che producevano un effetto ottico che l’artista conosceva fin dai tempi di Mühely e che sarebbe culminato nei lavori della serie Hommage à Malevic (1952-1958), in cui reinterpretò il famoso quadrato nero, rendendolo più dinamico. Il cubo assonometrico, costruito da due superfici quadrate collegate da linee parallele, sembrava sottrarsi alla percezione univoca. Le sue forme sfuggenti e dinamiche, infatti, obbligavano l’osservatore a cambiare continuamente il proprio punto di vista. Lo stress ottico e cognitivo del riguardante diventò, così, un elemento precipuo della ricerca di Vasarely, che venne poi accentuato nei successivi Fotografismi e nei Quadri Profondi Cinetici, opere che richiedevano una partecipazione diretta dell’osservatore, il quale spostando il proprio punto di vista si trovava a osservare immagini diverse.

Nel caso dei Quadri Profondi Cinetici la variazione ottica dell’opera era prodotta distanziando delle lastre di plexiglas su cui erano riprodotte le immagini dei suoi Fotografismi.  In questi ultimi, invece, le linee tracciate su piccoli disegni in bianco e nero, venivano trasposte su lastre fotografiche mediante illuminazione diretta, producendo effetti di vibrazione ottica. Si tratta di lavori in cui la percezione dello spazio diventava instabile. La vocazione dinamica di queste pellicole fotografiche suggerì a Vasarely l’idea di una nuova serie, intitolata Noir et Blanc, in cui il positivo e il negativo di una lastra fotografica venivano a coincidere in un’unica immagine dipinta su tela. L’effetto finale è quello di piani che slittano l’uno verso l’altro, creando una spazialità instabile, che allunga i tempi di percezione, sottraendosi, ancora una volta, a una definitiva impressione.  Di questo periodo sono anche i collage in bianco e nero sul tipo di Bukk (1954), che Vasarely considerava come dei test, utili a comprendere l’origine delle immagini astratte.

Nel 1955, in occasione della mostra “Le Mouvement” alla galleria Denis René, uscì il Manifesto Giallo, in cui tutte le precedenti intuizioni di Vasarely si composeroo in una teoria coerente e nella formulazione di un linguaggio pittorico basato sulla composizione di elementi geometrici che egli definisce unità plastiche. L’Unité plastique era un quadrato colorato di 10 centimetri di base in cui veniva inserita una forma geometrica più piccola e di diverso colore, come un cerchio, un rettangolo o un quadrato, che costituiva l’elemento fondamentale di un abbecedario figurativo. Questo Alfabeto Plastico, giocato sulla successione di diverse combinazioni di unità plastiche, diede vita alle opere di Folklore Planétaire e Permutazioni, due serie di acrilici su tela che non solo avvaloravano le intuizioni dell’artista sulla percezione ottica, ma che dimostravano, altresì, l’efficacia di un sistema compositivo altamente riproducibile. Vasarely era, infatti, convinto che le concezioni sulla genialità dell’artista e sull’unicità dell’opera fossero un retaggio del passato. L’invenzione dell’unità plastica, componibile in un’infinita gamma di accostamenti e riproducibile attraverso i mezzi di stampa industriale, prefigurava la possibilità di aprire l’opera alla dimensione collettiva.

Negli anni Sessanta, utilizzando i prototipi di unità plastica stampati in migliaia di fogli colorati, collaborò con alcuni assistenti alla realizzazione di dipinti, sculture, grafiche, tappezzerie e altro, semplicemente scegliendo la sequenza degli accostamenti. Questo vero e proprio metodo, gli consentì di dimostrare che le sue idee in merito a un arte sociale e democratica potevano essere finalmente realizzate. La sua aspirazione era, infatti, quella di creare “un’arte per tutti”, universalmente comprensibile. L’architettura si offriva, quindi, come il luogo ideale per l’applicazione pratica di questo concetto, proprio perché non richiedeva al pubblico la frequentazione di luoghi specifici come le gallerie e i musei. Già nel 1954, Vasarely collaborò alla decorazione del campus universitario di Caracas. Nel 1965, invece, intervenne sulle strutture architettoniche della Gesamthochscule di Essen, mentre nel 1968 realizzò un intervento sulla tribuna della pista di pattinaggio veloce su ghiaccio di Grenoble. Tra il 1970 e il 1975, l’artista progetta la Cité polychrome du bonheur, visione di architettura urbanistica utopica in cui dimostra le possibili applicazioni dell’unità plastica e dei Prototypes-départ. I bellissimi studi su cartone (Études sur carton BV), realizzati con la tecnica del collage nel 1970, illustrano perfettamente quell’idea d’integrazione delle discipline (pittura, architettura, artigianato), che sarebbe poi sfociata nella costruzione della Fondation Vasarely di Aix-en-Provence, una vera e propria opera d’arte totale, interamente progettata e finanziata dall’artista.

Ma facciamo un passo indietro. Per Vasarely, l’ossessione dello spazio non si riduceva alla semplice considerazione del piano naturale e fenomenologico. Certo, egli considerava le sue unità plastiche come una sorta di “controparte delle stelle, degli atomi, delle cellule e delle molecole, ma anche dei granelli di sabbia, dei ciottoli, dei fiori e delle foglie[1], ma il suo punto di riferimento non era più l’oggetto fisico e la forma esteriore della natura, ma la percezione intuitiva degli ordinamenti dell’universo. Negli anni Sessanta, le opere di Hommage à l’Hexagone, ma anche le serie Tridim e Bidim, testimoniano una ripresa del tema della spazialità instabile attraverso paradossi ottici. Gli acrilici su tela Axo-1-4 (1968), Tridim-N (1968) e Polos (1972-88), presenti in questa mostra, trasmettono una potente illusione spaziale che l’occhio non riesce a risolvere e che l’artista paragonava a un “perpetuum mobile” in trompe l’oeil.

Il problema della rappresentazione dello spazio in Vasarely è strettamente connesso al suo interesse verso le ricerche scientifiche nei campi della teoria della relatività, della meccanica ondulatoria, dell’astrofisica e della fisica quantistica. Il suo approccio, però, rimaneva essenzialmente intuitivo, poetico e non scientifico. I lavori della serie CTA – di cui l’acrilico su tela CTA 105A del 1966 è un tipico esempio – cercavano di trasmettere, per via intuitiva, l’emozione che si sarebbe provata di fronte al cosmo infinito. Secondo Werner Spies, i CTA costituivano un modello di “poesia scientifica e gnoseologica[2], poiché derivavano il loro nome da un lontano sistema planetario scoperto negli anni Sessanta. Alcuni scienziati avevano interpretato i segnali provenienti da quelle lontananze siderali come messaggi di forme di vita extraterrestre. Probabilmente sulla scorta delle sue letture scientifiche, Vasarely si era, infatti, persuaso che esistesse una vita nello spazio cosmico, oltre i confini del mondo conosciuto.

Tuttavia, lo spazio era per lui un’ossessione risolvibile solo in termini di comprensione dei meccanismi percettivi. I lavori della serie Vega (il nome dalla stella più luminosa del cielo), mostravano come fosse possibile creare effetti di curvatura concava e convessa dello spazio, rimpicciolendo o ingrandendo le unità quadrate della griglia di fondo. Nelle opere della serie Vonal, invece, un fitto reticolato di linee rette (o curve) danno l’impressione di un vortice spaziale che risucchia lo sguardo dell’osservatore. Per la prima volta, Vasarely si allontanava dall’impiego di elementi standardizzati come le unità plastiche. Le linee e i trattini che componevano le opere di Vonal conservavano un margine d’errore che lasciava presagire un ripensamento da parte dell’artista sulla libertà del processo creativo. E proprio qui, in questa irriducibilità dell’atto creativo a una definitiva identificazione con le categorie della programmazione e della riproducibilità, risiede il valore “poetico” della ricerca di Vasarely, una pratica in perpetua oscillazione tra arte e scienza, tra teoria e pratica, tra funzionalità e fantasia.

COMUNICATO STAMPA
Mostra:                    Victor Vasarely
Titolo:                 “ La vita nello spazio”
Vernice:                    sabato7 dicembre 2013 ore 17,30
Presentazione:       Ivan Quaroni, catalogo in galleria
Luogo:                       Chiari: via XXVI Aprile, 38
Periodo:                    dal 7 dicembre 2013 al 31 gennaio 2014.
Organizzazione:    Galleria d’Arte L’Incontro, via XXVI Aprile, 38 – 25032 Chiari (BS)
                                      tel. 030712537, fax 0307001905, e-mail: info@galleriaincontro.it
                                      sito web: www.galleriaincontro.it
Orario:                      feriale dalle 15,30 alle 19; sabato e festivi: dalle 10 alle 12 e dalle 15,30 alle 19
                                      lunedì chiuso.
Informazioni:       Erminia Colossi, Eduardo Caputo
vasarely bv 35

Cité polychrome du bonheur – Études sur carton BV

La Galleria L’Incontro presenta la mostra di Victor Vasarely  “La vita nello spazio” in collaborazione con la Fondazione Vasarely di Aix-en-Provence . La mostra raccoglie una ventina di opere del maestro ungherese, fondatore, insieme a Bridget Riley, dell’Op Art. Appartenenti a diversi cicli, i lavori qui proposti coprono un periodo che va dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta e che testimoniano l’evoluzione dell’artista, prima e dopo la formulazione del “principio di unità plastica”, fondato sull’inserimento di forme geometriche una dentro l’altra con colori e sfumature diverse, per dare un’impressione di movimento alla figura.

Victor Vasarely (Pecs 1908-Parigi 1997) si forma a Budapest, dove frequenta l’Accademia Mühely, diretta da Sandor Bortnyik, il quale s’ispirava alle teorie del Bauhaus. Traferitosi a Parigi nel 1930, entra in contatto con il gruppo Abstraction-Creation e con il De Stijl, dedicandosi alla grafica pubblicitaria fino al 1943. In quegli anni, l’artista si interessa alle ricerche ottico-cinetiche, lavorando su fogli di cellofan sovrapposti per ottenere effetti di profondità e trasparenza. A Parigi conosce Denis Renè, che nel 1944 ospita nella sua galleria la sua prima personale parigina. Nel 1955 scrive il Manifeste Jaune e i suoi esperimenti sulle impressioni di movimento provocate dall’illusione ottica lo portano ad elaborare un nuovo linguaggio che ha come fondamento l’unità plastica di forma, luce e colore. In quello stesso anno, la mostra alla galleria di Denis Renè, insieme a Yaacov Adam, Nicolas Shoffer, Pol Bury, Rafael Soto, Jean Tinguely, Marcel Duchamp, Alexander Calder, segna la nasciat della Op Art, un nuovo movimento caratterizzato dalla tendenza verso il cinetismo, che affonda le radici nelle ricerche del Pointillisme, del de Stijl e del Bauhaus.

Alla fine degli anni Cinquanta Vasarely elabora la teoria dell’Alfabeto Plastico, applicato nelle opere delle serie Folklore Planetaire, CTA, Vonal e Vega. Gli anni Sessanta segnano la definitiva ascesa di Vasarely, che espone prima al MoMa di New York, con la mostra “ The Responsive Eye” (1965), poi al Musèe de l’Art Moderne de la ville de Paris, con la “Lumière et Mouvement”(1967) Negli anni successivi, Vasarely rafforza il suo impegno nel dialogo tra arte e architettura, con l’intento di migliorare la società dal punto di vista etico ed estetico. Significative espressioni di questo periodo sono la costruzione del museo didattico nel Castello di Gordes nel 1970 e l’edificio della Fondation Vasarely di Aix-en-Provence.

La Triennale di Milano nel 2007 gli  ha dedicato un importante antologica con opere provenienti da musei esteri e da collezioni private. Muore a Parigi nel 1977, all’età di 89 anni, Molte sue opere sono conservate in Ungheria, nei musei a lui dedicati a Pécs 1976 e Budapest 1987.


[1] Victor Vasarely, Folklore Planetaire, Monaco, 1973, p. 20, passo citato in Magdalena Holzhey, Victor Vasarely, Taschen, Colonia, 2005, p. 64.

[2] Magdalena Holzhey, Victor Vasarely, Taschen, Colonia, 2005, p. 71.

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Elisabeth Scherffig. Memorie dal sottosuolo

26 Nov

di Ivan Quaroni

Nella ricerca di Elisabeth Scherffig si avvertono i segni di una forte predisposizione verso la trasfigurazione o l’alterazione del senso ordinario dell’immagine. Partendo dalla realtà, o meglio da una porzione specifica della realtà fenomenica – quella dei cantieri in allestimento o in disfacimento – Elisabeth Scherffig ci conduce attraverso una metamorfosi semantica e segnica che assume le sembianze di una discesa labirintica nel ventre oscuro del sottosuolo, che è anche evidente metafora del buio interiore.

Leggere il suo lavoro unicamente come l’ennesima testimonianza delle trasformazioni e delle lacerazioni del paesaggio urbano post-industriale significa limitare l’indagine a un livello superficiale. Livello che è, per antonomasia, antitetico all’inclinazione sia intellettuale che figurale dell’artista. Non si possono in alcun modo equiparare i disegni dell’artista tedesca con le ricerche figurative che, specialmente nello scorso decennio, hanno caratterizzato larga parte della produzione pittorica italiana.

Dinnanzi ai suoi spaccati di discariche e accumuli di materiale edilizio, ispirati alle vedute degli squarci che ogni giorno si aprono e si chiudono nell’epidermide delle città occidentali, la vista reagisce in modo singolare, quasi fosse assorbita nelle maglie di un tracciato di segni che disorienta, provocando un leggero senso di vertigine e di smarrimento del senso dell’orientamento. Elisabeth Scherffig cattura un frammento significativo del tessuto urbano, ma lo struttura in modo personalissimo, sfigurando l’immagine di partenza con un gesto osessivamente calligrafico, tanto da rasentare l’horror vacui.

Senza titolo, 2005 Carboncino su carta, 60 x 80 cm

Senza titolo, 2005 Carboncino su carta, 60 x 80 cm

Dei cantieri, l’artista ci mostra solo porzioni circoscritte, spesso prive di orizzonte e, così, riesce nell’operazione concettuale di decontestualizzare il soggetto. Se perdiamo di vista l’ambiente, l’aria, il pulviscolo di queste zone in continua trasformazione, smarriamo il senso dinamico e vitale dei cantieri. Essi diventano immense sculture, le cui vaste superfici si offrono allo sguardo dell’osservatore solo in parte. Nello specifico, gli accumuli di ferro e legno, gli scarti cementizi, i pannelli divelti, le immense sezioni di tubi e tutti gli altri indefinibili residui, si uniscono a formare un quadro quasi astratto, che ha con la realtà un rapporto unicamente semantico. Gli oggetti, i materiali sono quelli appartenenti al mondo di superficie, ma il modo della rappresentazione ne altera sostanzialmente il senso.

L’artista disegna i suoi cantieri con pastelli monocromi, calcando i suoi segni sulla carta e modulando linee e curve con pazienza certosina, senza peraltro avere la possibilità di sbagliare e quindi di cancellare e correggere l’esito dei suoi interventi. Costruendo la figura con calligrafico puntiglio, intuendo, quasi con preveggenza, i punti d’incidenza della luce e gli addensamenti d’ombra, Elisabeth Scherffig sconfigge la prosaicità dell’immagine iperreale. La sua fedeltà al dato fenomenico e tangibile è solo apparente, poiché il gesto e il segno, ma anche il colore, quel misto di terra bruna e ruggine dalle qualità metalliche, contribuiscono ad occultare la mimesi, fornendo all’immagine una nuova dimensione percettiva. Osservando i disegni dell’artista, infatti, siamo tentati di perderci come in un labirinto. Se spostiamo il nostro punto di vista rispetto alla posizione centrale, vediamo le masse e i pesi ridefinirsi. Alcuni particolari sembrano fuoriuscire tridimensionalmente dal quadro, come in certe anamorfosi rinascimentali. Luci e ombre acquistano mobilità, per effetto di un segno che appare inafferrabile nelle sue tortuose evoluzioni. Insomma, le opere di Elisabeth Scherffig non si esauriscono al primo sguardo, ma dispensano, lentamente, molteplici possibilità interpretative, quasi a rimarcare che la pittura, oggi, necessita di un tempo ben diverso da quello richiesto dalle immagini consumabili (e consumate) dei media.

Quelle della Scherffig sono, invece, immagini che favoriscono un senso di momentaneo smarrimento, perché costringono lo sguardo ad abbandonare il senso complessivo del soggetto per addentrarsi nei meandri dei particolari, muovendo l’occhio tra le sinuose circonvoluzioni delle armature edili, nelle pieghe delle lamiere, dentro buchi bui e profondissimi. Per dirla con Aldous Huxley, le sue opere dischiudono le porte della percezione, accompagnandoci in una discesa negli inferi dell’architettura e dell’urbanistica. Tuttavia, il sottosuolo di Elisabeth Scherffig non è solo quello fisico, reale e tangibile della città, ma quello potenzialmente infinito della psiche umana o dell’anima.

Senza titolo, 2006 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

Senza titolo, 2006 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

A tale proposito, Gillo Dorfles menziona con ragione il famoso acrostico alchemico (VITRIOL), quel Visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem, che allude alla scoperta di un universo interiore che corrisponde alla struttura di quello superiore. “Come in alto, così in basso”, identità arborea tra le radici e i rami, è anche la formula liturgica cristiana del “Come in cielo così in terra”. Lo conferma l’attenzione dell’artista verso la dimensione verticale dell’architettura, che accanto a quella ctonia delle fucine edili, ricompone la speculare identità tra l’alto e il basso. Tuttavia, mentre negli spaccati di cantieri abbandonati o dimessi il sublime post-industriale viene ricondotto a una dimensione di organicità tecnologica, dove dominano forme flessuose e irregolari, nel dialogo con l’architettura, la Scherffig ritrova la dimensione aurea della geometria, l’impianto cartesiano di ascisse e ordinate che s’incrociano nelle scansioni ritmiche delle impalcature e dei muri portanti, delle travi e delle putrelle. Un esempio significativo di questa tensione apollinea è nei disegni che fotografano diversi momenti della costruzione della Berlin Hauptbahnhof, nuova pietra miliare dell’infrastruttura ferroviaria tedesca.

Qui, nell’horror vacui, che è caratteristica costante dello stile dell’artista, appaiono spiragli di luce a rischiarare il disciplinato assetto degli spazi e dei materiali. Il chiarore solare (o crepuscolare) filtra attraverso la copertura delle volte vetrate e tra le gabbie dei ponteggi, quasi fosse un’epifania, una rivelazione spirituale. Architetture e cantieri corrispondono, metaforicamente, alla polarità tra ordine e caos, tra creazione e distruzione quali elementi della incessante, metamorfica vitalità dei manufatti umani.

Senza titolo, 2007 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

Senza titolo, 2007 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

Quando affermiamo che Elisabeth Scherffig ha una propensione verso la trasfigurazione, intendiamo anche dire che la sua arte corre sul sottile filo che separa la figurazione dall’astrazione. Nei suoi disegni la macroscopía figurativa dell’immagine si sovrappone alla microscopía astratta del segno, in un bilanciamento che schiude nuove possibilità di lettura. Basti guardare alle nuove sculture di porcellana, sulle quali la Scherffig traccia un reticolo di linee che la cottura rende quasi incomprensibili. I rilievi che percorrono le sottili superfici bianche sembrano una trascrizione o traduzione delle immagini in linguaggio braille. In realtà, vi si possono riconoscere sezioni di piante e alzati architettonici, mescolati con le caotiche linee organiche dei cantieri. Nel complesso, però, le porcellane dell’artista rappresentano un’ulteriore incursione nei territori formali dell’astrazione, laddove il segno diventa elemento autoreferenziale e tautologico, idealità apollinea, in contrapposizione al disordine dionisiaco degli edifici in demolizione. Gli accumuli caotici, infatti, sono il limine del regno delle ombre, della caverna platonica.

Ultimo ingresso all’Interiora Terrae è pure la Brocca rotta, una scultura che potrebbe essere un gigantesco rozzo calice (allo stesso tempo Graal e Occultum Lapidem) oppure una vera da pozzo. In entrambi casi una soglia, varcata la quale, inizia la discesa.

Ed Templeton. A Gentle Collision

21 Nov

Di Ivan Quaroni

Può accadere solo in California che un tizio, due volte campione di skateboard professionale, fondatore e manager di un’azienda (Toy Machine) sia anche un apprezzato fotografo e un originalissimo pittore. Può succedere solo in California perché là, su quel lembo di terra affacciata sulla costa occidentale degli States si sono incrociate e sovrapposte le più svariate subculture giovanili, dal surf allo skate, fino al punk e ai graffiti. E perché là, nessuno trova strano che uno possa fare più cose contemporaneamente, tanto più se si tratta di un ex enfant terrible, cresciuto su una tavoletta munita di quattro rotelle ascoltando, molto probabilmente, la martellante musica punk dei Black Flag. Chiunque abbia visto il documentario di Stacy Peralta sugli Z-Boys o il film Lords of Dogtown può farsi un’idea chiara di come possa accadere.

Ed Templeton, A Gentle Collision, 2013

Ed Templeton, A Gentle Collision, 2013

Ed Templeton, nato nel 1972  in Orange County, area di Los Angeles, è un artista autodidatta, fotografo, pittore e graphic designer, divenuto celebre anche grazie alla sua partecipazione al progetto Beautiful Losers,  promosso da Aaron Rose e Christian Strike (con il sostegno di Jeffrey Deitch, deus ex-machina dell’operazione) e consistente in una serie di mostre itineranti in diversi musei americani e nella realizzazione di un film documentario sugli artisti che hanno inventato un nuovo linguaggio a cavallo tra pop, punk e graffiti.

Ed Templeton, Create Your Own, 2013

Ed Templeton, Create Your Own, 2013

Può sembrare strano, eppure è all’Italia che Templeton deve il suo primo successo d’artista, con la vincita nel 2000 di un premio per il suo libro fotografico Teenage Smokers, che illustra momenti di vita della gioventù bruciata californiana, divenuta poi il soggetto prediletto di molti scatti successivi.

Ed Templeton, My Life Has Fractured, 2013

Ed Templeton, My Life Has Fractured, 2013

Dopo una mostra al Man di Nuoro nel 2010, Templeton è tornato nel Belpaese con A Gentle Collision, progetto sostenuto dalla milanese Jerome Zodo Gallery, che assembla fotografie, disegni e dipinti, offrendo una panoramica esauriente dell’attitudine “politicamente scorretta” dell’artista, un mix di crudo realismo e affascinanti, coloratissime narrazioni pop. Basta guardare l’istallazione di foto dipinte che dà il titolo alla mostra per capire che si tratta di un immaginario improntato all’efficacissima triade di Sesso, Droga e Rock & Roll.

Ed Templeton, 30 Seconds in my Shoes, 2013

Ed Templeton, 30 Seconds in my Shoes, 2013

Ma il Templeton fotografo e il Templeton pittore sembrano quasi due anime distinte. Testimone oculare dei bassifondi suburbani, abitati da giovani (ri)belli e dannati, il fotografo Templeton, quando mette mano ai pennelli, si trasforma in un ironico, commentatore della varia umanità della West Coast. Saranno i colori pastello, sarà quello stile un po’ folk, da agrodolce fiaba urbana, il fatto è che il Templeton pittore riesce a bilanciare l’atmosfera di cupa disperazione che, invece, emana dagli scatti fotografici. Ad ogni modo, paghi uno e prendi due. L’uno non esiste senza l’altro, ed è proprio questo il bello.

Ed Templeton, Huntington Beach, acrilico su pannello di legno, 122 x 244 cm, 2013

Ed Templeton, Huntington Beach, acrilico su pannello di legno, 122 x 244 cm, 2013

Le sette opere e le tre grandi istallazioni della mostra milanese mostrano un mondo di adolescenti in cerca d’identità. 30 Seconds in My Shoes, fatta di 139 fotografie, è il racconto sincopato e frammentato di una vita, ma anche di una giornata o perfino di soli trenta secondi, fatta d’impressioni indelebili, che oscillano tra momenti di allarmante frenesia e attimi di pneumatica sospensione.

Ed Templeton, Create Your Own, 2013

Ed Templeton, Create Your Own, 2013

La vita quotidiana è protagonista anche nelle dodici serigrafie di The Sleepers, ovviamente nel video The Judgement Day is Coming e perfino nelle due bellissime foto dipinte Atourina, Yellow e Lucy, Silver. Nei dipinti, invece, l’immaginazione supera la dimensione prosaica. Illustrated Day Dream e Create Your Own sono perfetti esempi di Pop Surrealismo onirico, superati solamente da Huntington Beach, una sorta di bozzettistico scorcio della piccola città costiera in cui l’artista vive, affollata di bellezze al bagno e procaci pattinatrici, musicisti di strada e onesti lavoratori, perdigiorno e ubriaconi. Insomma, tutta la bizzarra, variegata, coloratissima umanità della California del Sud.

Chi non ha visto questa mostra si è davvero perso qualcosa di speciale.

Ed Templeton, Lucy, Silver, 2013

Ed Templeton, Lucy, Silver, 2013

 
Info
Ed Templeton. A Gentle Collision
Fino al 22 novembre 2013
Jerome Zodo Gallery
Via Lambro 7, Milano
P. + 39 0220241935
F. +39 0220244861
E. info@jerome-zodo.com
Monday – Friday / 10 am – 7 pm

Clayton Brothers. From the Cadavre Exquis to Expanded Painting

19 Nov

by Ivan Quaroni

At the start there is always a game, a complicit sharing of rules that lead to a special relationship whose result is always greater than the sum of the parts. The Surrealists adopted a particular one, that of the excellent cadavers, a/k/a cadavres exquis, a creative pastime played with words or images. It works like this: one person creates the first image and passes it to the next participant, but hiding one part of it. The next makes additions, again partially concealing the results, and passes the image on to the next player. A group can play, but also just two people. At the end of the game, an unexpected, surprising image appears, the result of a process of creation and interpretation, which amplifies the contribution of the individuals, incorporating them in a collective graphic plot. It sounds interesting, but we are prone to wondering what is the purpose of such a game. For the Surrealists, with their focus on Freudian psychoanalytical research, the idea was to visually demonstrate the importance of the unconscious imaginary and the automatic processes of human thought. But there is more. Much more prosaically, the game of the cadavre exquis is – like all games – an experience of sharing applied to the field of creativity. Its legacy has been picked up by many conceptual art duos, like Gilbert & George, Ilya and Emilia Kabakov, Christo and Jeanne-Claude, Marina Abramovic and Ulay, Jake & Dinos Chapman, but much less often by duos of painters. The Claytons, then, represent a rarity on the contemporary art scene. Not just because they are two painters, but also because unlike the above-mentioned artistic couples, they are brothers who have demonstrated their ability to extend their natural link of shared parentage in the creative sphere as well.

For Rob and Christian – born respectively in Dayton, Ohio in 1963 and Denver, Colorado in 1967, both with degrees from the Art Center College of Design of Pasadena (California) – collaboration is something more than just a process. It is more like the result of a creative symbiosis that consists in constructing intuitive narratives, often without a pre-set plot. The Clayton Bros paint at the same time, in fact, taking turns intervening on the works through a method that leaves plenty of room for improvisation and the imagination of both.

The process of the making of our works is never the same,” the Claytons say, “because we let our characters construct themselves day by day, exactly as happens in relationships that are built over time.” In their works they transfer individual experiences into the collective and global dimension, thus offering a faithful image of contemporary society. “We see these images as a reflection of ourselves,” Rob and Chris explain, “but also of our neighbors, our friends and families; in short, they are a reflection of the world around us.

Cheapjack

Cheapjack

Curiously enough, the Claytons represent a missing link between the Surrealist experiments of the 20th century and the fresh, immediate approach of Pop Surrealism, one of the most interesting American movements to emerge in the delicate passage between the old and the new millennium. A movement, to be honest, that is so large, varied and in continuous evolution as to even become contradictory, in which Rob and Chris have found themselves immersed, almost against their will. The two do not like definitions, in fact, and they hate being boxed into a specific stylistic or disciplinary niche, even if it is that of Pop Surrealism, to which they owe some portion of their success.

Instead, were we to set out to map their artistic influences, we would have to operate at a hypothetical crossroads between Post-Expressionism, Folk Art and Pop Art, with input ranging from the left wing of the Neue Sachlichkeit (Otto Dix in primis) to the plastic experimentation of Ed Kienholz, passing through the simultaneous, multicentric visions of Robert Williams, the true founding father of the Pop Surrealist galaxy. Yet defining the pictorial style of the Clayton Bros in these terms would be a reductive operation, because it would not sufficiently underline the most original aspect of their research, which lies instead in the ability to integrate the experiences of everyday life, the true motor of their process of sharing, into art.

Quack,-Cackle, Squawk

Quack,-Cackle, Squawk

Of course, Rob and Christian are the first to admit the importance, for their visual culture, of punk rock, surf and skate culture, street art, tattoos and illustration, but this could be said more or less for all the artists of the Lowbrow area. The most original feature of their work, instead, is the ability to transfer into the language of art the impressions of day-to-day existence. The starting point for a work can be a word, a phrase, a circumstance or an impression gleaned during a trip abroad or a walk in their neighborhood. Life, with its infinite facets, is a much more powerful immersive reality, for them, than any environment of graphic or digital simulation. This is why the Claytons have invented such an exuberant, overwhelming chromatic and narrative language. In practice, they try to surpass or at least equal the complexity of human experience, with a kind of painting capable of stimulating the observer to reconsider doubts, to reformulate the questions to which every human being must respond.

We can safely say that the art of the Clayton Brothers – which they define with the term “Abstract Narrative” – represents a reformulation of the existentialist positions of Post-Expressionism, bent on wedding the individual and authorial viewpoint with the universal, polycentric viewpoint of collective experience. Like Robert Williams, the Claytons also raise the issue of the representation of reality as a synthesis of a multiplicity of experiences and interpretations, but they do it “intuitively,” so to speak, i.e. without calling into play subatomic physics, Einstein’s Theory of Relativity or Heisenberg’s Uncertainty Principle.

With respect to the revered founder of Lowbrow Art, the Claytons have a less theoretical, more practical approach. In the end, their very modus operandi, which consists in a progressive layering of pictorial levels, made of continuous revisions, changes of perspective and overlapping of styles, represents an empirical demonstration of that multiplicity of gazes mentioned above. Furthermore, the importance the Claytons attribute to the role of the observer demonstrates that their work is truly the offspring of its time. A time in which author and viewer increasingly interact through forms of digital co-creation, such as forums and social networks. So the work of the Clayton Brothers calls for “participation” not just because the two authors make it in the form of a “duet,” but also because they see its viewing as a sort of final “fulfillment” and “completion.”

It is no coincidence that the latest set of works, titled “I’m OK,” focuses on analysis of the work-viewer relationship. “With this new body of works,” they say, “we want to present a vast group of fragmented images, simultaneously abstract and narrative.” Their objective is to trigger reflection in the viewer on the meaning of a rather common question – “How are you?” – to which we usually respond with an automatic “I’m OK”, shifting the observer’s focus from external to internal images. The paintings, drawings and sculptures of the Claytons set out to stimulate this mechanism of identification because it represents a preliminary condition for the formulation of possible responses.If it is true that contemporary art – as we often hear it said – raises questions without offering solutions, the act of observing becomes a cognitive process in which the observer is stimulated to find his or her own answers. In fact, Rob and Chris warn us that no one certain method exists to decipher their works, no one interpretation, because each observer is expected to reconstruct a meaning, starting with their own emotional state.

I’m OK” presents an array of characters and situations that offer not only a myriad of narrative impulses, but also countless optical, retinal suggestions. They are images of pure energy, where the impressions of everyday life explode in a dizzying vortex of bright and psychedelic colors, where the space seems to splay open in all directions, breaking the rules of perspective and solid geometry, even fragmenting the psychological dimension of the individual, through the repetition of hypertrophic physiognomies with wild expressions.

Time to Come Clean

Time to Come Clean

Like the painters of the Neue Leipziger Schule, from Tilo Baumgärtel to Matthias Weischer, David Schnell to Christoph Ruckhäberle, the Clayton Brothers are the standard bearers of a neurotic, disjointed art that sacrifices the formal values of balance and harmony to become the eyewitness of a socially fragmented, culturally polycentric epoch. This is why they make use of an “expanded painting” far from traditional canons, open to contaminations with photography, sculpture and installation. Good examples include works like Over the Moon, Pull and Pick and Wallop and Clobber, where the painting flirts with the plastic dimension of the object and the fetish, or like Can you Spare a Duck? and I Understand, which constitute an interesting mixture of sculpture and photography, and finally paintings like Greeter Hello, Greeter Goodbye and Orange Crutch, which extend the boundaries of the painting with long vertical offshoots.

Over the Moon

Over the Moon

The quality not found in many recent entries to the Pop Surrealist sphere, but which is clearly visible in the research of Rob and Chris, is a vivid interest in formal and linguistic issues, leading to experimentation with new solutions in a multidisciplinary outlook, making them an exception in a movement that seems to be increasingly losing its grip on its own cultural specificity, retreating into the solutions of a “school” it would be euphemistic to define as “academic.” Unlike many purveyors of fantastic and surreal imagery, the Claytons never lose touch with reality. Their art is firmly rooted in the present, springing from the apparently conventional folds of everyday life, and striving for the universal dimension of art thanks to the alchemical collaboration of two special individuals capable of shifting experiences lived in a familiar and relational microcosm into a wider context that coincides with a clear and at the same time dynamic fresco of contemporary America.

Clayton Brothers – I’m OK
curated by Ivan Quaroni
WHEN: 21 November 2013 -1st February 2014;
OPENING: 21 November 2013h. 18:30 – 21:30
WHERE: Antonio Colombo Arte Contemporanea, Via Solferino 44, 20121 Milan (Italy)
CONTACTS:
http://www.colomboarte.com; E-mail: info@colomboarte.com; Phone: +39 0229060171
 
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ITALIAN TEXT
 

Clayton Bros. Dai Cadavre exquis all’Expanded Painting.

di Ivan Quaroni

All’inizio c’è sempre un gioco, una complice condivisione di regole che conducono a una relazione speciale, il cui risultato è sempre superiore alla somma delle parti. I Surrealisti ne avevano adottato uno particolare, quello dei cadaveri eccellenti, detto anche cadavre exquis, un passatempo creativo che si può giocare con parole o immagini. Funziona così: uno crea la prima immagine e la passa al partecipante successivo, celandone, però, una parte. Quest’ultimo la arricchisce con nuove aggiunte, a sua volta celandola parzialmente, prima di passarla al giocatore seguente. Si può giocare in gruppo, ma bastano anche solo due persone.

Alla fine del gioco, si ottiene un’immagine inaspettata, sorprendente, frutto di un processo insieme creativo e interpretativo, che amplifica l’apporto dei singoli, inglobandoli in una trama grafica collettiva.Sembra interessante, ma viene da chiedersi quale sia lo scopo del gioco.Per i Surrealisti, interessati alle ricerche psicanalitiche freudiane, si trattava di dimostrare visivamente l’importanza dell’immaginario inconscio e dei processi automatici del pensiero umano. Ma c’è dell’altro. Molto più prosaicamente, il gioco del cadavre exquis è – come tutti i giochi – un’esperienza di condivisione applicata al campo della creatività.

Gleaming Crystal Gazer

Gleaming Crystal Gazer

La sua eredità è stata raccolta da molte coppie dell’arte concettuale, come Gilbert & George, Ylia ed Emilia Kabakov, Christo e Jeanne Claude, Marina Abramovic e Ulay, Jake & Dinos Chapman, ma assai più raramente da coppie di pittori. I Clayton, quindi, rappresentano una rarità nel panorama artistico contemporaneo. Non solo perché sono due pittori, ma anche perché, a differenza delle succitate coppie artistiche, sono fratelli, che hanno dimostrato di saper estendere il loro naturale legame di condivisione parentale anche all’ambito creativo.Per Rob e Christian – nati rispettivamente a Dayton, Ohio nel 1963 e a Denver, Colorado, nel 1967 -, entrambi laureatosi a pieni voti all’Art Center College of Design di Pasadena (California), collaborare è qualcosa di più di un semplice processo. È, piuttosto, il risultato di una simbiosi creativa, che consiste nel costruire narrazioni intuitive, spesso prive di un canovaccio precostituito. I Clayton Brothers dipingono, infatti, contemporaneamente, intervenendo a turno sulle opere attraverso un metodo che lascia ampio spazio all’improvvisazione e all’immaginazione di entrambi.“Il processo di realizzazione dei nostri lavori non è mai lo stesso”, affermano i Clayton, “perché permettiamo ai nostri personaggi di costruirsi giorno per giorno, esattamente come accade nelle relazioni che si costruiscono nel tempo”. Nelle loro opere, trasferiscono le esperienze individuali nella dimensione collettiva e globale, offrendo così un’immagine fedele della società contemporanea. “Vediamo queste immagini come un riflesso di noi stessi”, dicono Rob e Chris, “ma anche dei nostri vicini, dei nostri amici e delle nostre famiglie, insomma sono un riflesso del mondo intorno a noi”.

Hello Jack

Hello Jack

È curioso come i Clayton rappresentino un anello di congiunzione tra gli esperimenti Surrealisti del Novecento e l’approccio fresco e immediato del Pop Surrealismo, uno dei movimenti americani più interessanti emersi nel delicato passaggio tra il vecchio e il nuovo millennio. Un movimento, per la verità, talmente ampio, variegato e in continua evoluzione da essere perfino contraddittorio, in cui i due Rob e Cris si sono ritrovati immersi quasi loro malgrado. Rob e Christian, infatti, non amano le definizioni e detestano essere confinati in uno specifico recinto stilistico e disciplinare, sia pure quello del movimento pop surrealista, cui devono parte del loro successo. Piuttosto, se volessimo tentare una mappatura delle loro influenze artistiche, saremmo costretti a ubicarla in un ipotetico crocevia tra il Post-Espressionismo, l’arte Folk e la Pop Art, con influenze che spaziano dall’ala sinistra della Neue Sachlickeit (Otto Dix in primis) alle sperimentazioni plastiche di Ed Kienholz, passando per le visioni simultanee e multicentriche di Robert Williams, vero padre fondatore della galassia Pop Surrealista.

Pull and Pick

Pull and Pick

Eppure, definire lo stile pittorico dei Clayton Bros in questi termini sarebbe un’operazione riduttiva, perché non sottolineerebbe abbastanza l’aspetto più originale della loro ricerca, che risiede, invece, nella capacità di integrare nell’arte le esperienze della vita quotidiana, vero motore del loro processo di condivisione.Certo, Rob e Christian sono i primi ad ammettere quanta importanza hanno avuto su di loro le culture visive del punk rock, del surf, dello skate, della Street Art, del tatuaggio e dell’illustrazione, ma questo vale, più o meno, per tutti gli artisti di area Lowbrow. L’aspetto più originale del loro lavoro consiste, invece, nella capacità di trasferire nel linguaggio dell’arte le impressioni della vita di tutti i giorni. Il punto di partenza di una loro opera può essere una parola, una frase, una circostanza o un’impressione ricevuta durante un viaggio all’estero o una passeggiata nel loro quartiere. La vita con le sue infinite sfaccettature è per loro una realtà immersiva molto più potente di qualsiasi ambiente di simulazione grafica o digitale. Per questo i Clayton hanno inventato un linguaggio così esuberante e travolgente dal punto di vista cromatico e narrativo. In pratica, cercano di superare o almeno eguagliare la complessità dell’esperienza umana, con una pittura capace di stimolare l’osservatore a prendere in considerazione i dubbi e a riformulare quelle domande a cui ogni essere umano è chiamato a rispondere. Si può tranquillamente affermare che l’arte dei Clayton Bros – da loro definita col termine di “Abstract Narrative” – rappresenta una riformulazione delle istanze esistenzialiste del post-espressionismo, intesa a coniugare il punto di vista individuale e autoriale con quello universale e policentrico della collettività.

Your OK

Your OK

Come Robert Williams, anche i Clayton si pongono il problema della rappresentazione della realtà come sintesi di una pluralità di esperienze e interpretazioni, ma lo fanno, per così dire “intuitivamente”, cioè senza scomodare la fisica sub-atomica, la Teoria della Relatività di Einstein o il Principio di Indeterminazione di Heisenberg.Diversamente dal venerando fondatore della Lowbrow Art, i Clayton hanno un approccio meno teorico e più pratico. In fondo, il loro stesso modus operandi, che consiste in una progressiva stratificazione di livelli pittorici, fatta di continui ripensamenti, cambiamenti di prospettiva e sovrapposizioni di stili, rappresenta una dimostrazione empirica di quella pluralità di sguardi cui accennavo. Inoltre, il rilievo che i Clayton danno al ruolo dell’osservatore, dimostra come davvero la loro opera sia figlia del nostro tempo. Un tempo, appunto, in cui l’autore e il fruitore interagiscono sempre di più attraverso forme di co-creazione digitale come i forum e i social network. Quella dei Clayton Brothers è quindi un’opera “partecipata” non solo perché i due autori la eseguono “a quattro mani”, ma anche perché ne considerano la fruizione come una sorta di “compimento” e “completamento” finali.Non è un caso che l’ultima serie di opere, intitolata “I’m Ok”, sia tutta incentrata sull’analisi del rapporto tra opera e osservatore. “Con questo nuovo corpus di opere”, affermano, “vogliamo presentare un vasto gruppo d’immagini frammentate, insieme astratte e narrative”. Il loro scopo è innescare nello spettatore una riflessione sul significato di una domanda piuttosto comune, “How are you?” (Come stai?), cui, di solito, rispondiamo in modo automatico “I’m Ok” (Sto bene), così da spostare la sua attenzione dalle immagini esterne a quelle interne.

Waxing Crescent Mood

Waxing Crescent Mood

I dipinti, i disegni e le sculture dei Clayton intendono stimolare questo meccanismo identificativo perché esso rappresenta una condizione preliminare per l’elaborazione di eventuali risposte.Se è vero che – come spesso si sente dire – l’arte contemporanea pone questioni, senza offrire soluzioni, allora l’atto di osservare diventa un processo cognitivo in cui l’osservatore è stimolato a trovare le proprie risposte. Infatti, Rob e Chris ci avvertono che non esiste alcun metodo certo per decifrare i loro lavori, né un’unica interpretazione, poiché ogni osservatore è chiamato a ricostruire un significato a partire dal proprio stato emotivo.“I’m Ok” presenta una carrellata di personaggi e situazioni che offrono non solo una miriade di spunti narrativi, ma anche innumerevoli suggestioni ottiche, retiniche. Sono immagini di pura energia, dove le impressioni della vita quotidiana esplodono in un turbinoso vortice di colori brillanti e psichedelici e dove lo spazio sembra squadernarsi e divaricarsi in ogni direzione, infrangendo le regole della prospettiva e della geometria solida e frammentando perfino la dimensione psicologica dell’individuo, attraverso la reiterazione di fisionomie ipertrofiche dalle espressioni allucinate.

Come i pittori della Neue Leipziger Schule, da Tilo Baumgärtel a Matthias Weischer, da David Schnell a Christoph Ruckhäberle, i Clayton Brothers sono i portabandiera di un’arte nevrotica e disarticolata, che ha rinunciato ai valori formali dell’equilibrio e dell’armonia, per farsi testimone oculare di un’epoca socialmente frammentata e culturalmente policentrica. Per questo ricorrono a una “pittura espansa” (expanded painting), lontana dai canoni tradizionali e aperta alle contaminazioni con la fotografia, la scultura e l’installazione. Ne sono un esempio opere come Over the Moon, Pull and Pick e Wallop and Clobber, dove la pittura flirta con la dimensione plastica dell’oggetto e del feticcio, oppure lavori come Can you Spare a Duck? e I Understand, che costituiscono un interessante mix di scultura e fotografia e, infine, dipinti come Greeter Hello, Greeter Goodbay e Orange Crutch, che estendono i confini del quadro con lunghe propaggini verticali.

La qualità che non si trova in molti artisti Pop Surrealisti dell’ultima ora e che invece caratterizza la ricerca di Rob e Chris è lo spiccato interesse per la questione formale e linguistica, che li porta a sperimentare nuove soluzioni in un’ottica multidisciplinare e che fa di loro un’eccezione nell’ambito di un movimento che pare sempre di più smarrire la propria specificità culturale e appiattirsi su soluzioni di “scuola” che sarebbe un eufemismo definire “accademiche”. Al contrario di molti latori di un immaginario fantastico e surreale, i Clayton non perdono mai il contatto con la realtà. La loro, è un’arte saldamente radicata nel presente, che nasce tra le pieghe apparentemente convenzionali del quotidiano e assurge alla dimensione universale dell’arte grazie alla collaborazione alchemica di due individui speciali, capaci di traslare le esperienze vissute nel microcosmo familiare e relazionale in un contesto più ampio, che coincide con l’affresco, insieme nitido e dinamico, dell’America contemporanea.

Mending Cooing Clusters

Mending Cooing Clusters

Clayton Brothers – I’m OK

a cura di Ivan Quaroni
QUANDO: 21 Novembre 2013 – 1 Febbraio 2014

INAUGURAZIONE: 21 Novembre 2013; h. 18:30 – 21:30

DOVE: Antonio Colombo Arte Contemporanea, Via Solferino 44, 20121 Milan (Italy)
CONTATTI: www.colomboarte.com; E-mail: info@colomboarte.com; Phone: +39 0229060171

Fulvia Mendini. Orange blossom, or what you will

14 Nov

L'infinito

 Indubbiamente, sono due gli elementi fondanti della ricerca di Fulvia Mendini. Il primo, ed anche il più importante, riguarda la costruzione di un linguaggio formale semplice, ma allo stesso tempo sofisticato, costituito dall’uso di una pittura piatta, priva di sbavature e imperfezioni. L’altro aspetto dell’indagine dell’artista, forse più velato, ma non meno incisivo, concerne la creazione di un fitto reticolo di rimandi culturali ed estetici, che agisce sullo spettatore come un intrigante sottotesto visivo.

Sul primo aspetto mi sono più volte soffermato[1], sottolineando che la grammatica stilistica di Fulvia Mendini, in particolare quella applicata alle composizioni più astratte, come ad esempio i mandala, funziona esattamente come un alfabeto di segni, suscettibili di molteplici variazioni e combinazioni. In questo linguaggio, insieme sintetico e ornamentale, lineare e ipercromatico, si avverte il lascito di numerosi influssi, dalle Arts and Crafts vittoriane agli alfabeti astratti di Kandinsky, dalla miniatura tradizionale indiana alla pittura di genere del Settecento, su fino a Victor Vasarely e al lessico “familiare” dell’Atelier Mendini. E poi, ancora, il preziosismo tardo gotico di Carlo Crivelli, lo stile acuminato e minerale di Cosmé Tura, le figurine di Pietro Longhi, le tavole naturalistiche di Ulisse Aldrovandi, le stampe di Hokusai, ma anche i pattern prestampati sui tessuti e le texture dei capi d’abbigliamento griffati, le illustrazione per l’infanzia e la più moderna computer grafica, il tutto masticato, digerito e riproposto dall’artista sotto forma di raffinate citazioni e di sottili allusioni. Ed è proprio questa restituzione velata di rimandi e di richiami ad un patrimonio estetico “colto”, l’altro fattore decisivo della ricerca di Fulvia Mendini, che introduce, accanto alla seduzione delle forme e dei colori, un elemento di attrattiva intellettuale.

Ascot

Con le dodici tele di Orange Blossom, Fulvia Mendini torna al ritratto, un genere che aveva accantonato dopo il 2005 per sviluppare altri filoni di ricerca, legati alla sperimentazione di nuove tecniche e all’applicazione di materiali inediti, dagli arazzi realizzati con tessuti tagliati al laser e termosaldati su tele di cotone a quelli ricamati artigianalmente, dalle stampe lambda su alluminio al grande tappeto intrecciato a mano in una bottega di Katmandu (Wedding,  2007), fino alla video animazione computerizzata intitolata Mandala wedding (2007).

I nuovi ritratti della serie Orange Blossom sono un’evoluzione di quelli eseguiti nel 2005. Mentre quelli di Wonderland, infatti, rappresentavano personaggi singoli, dipinti su spesse tavolette di legno alla maniera delle icone bizantine, le opere di Orange Blossom, realizzate su tela, introducono eloquentemente il tema dei legami sentimentali e amorosi, anticipato, a suo tempo, nell’opera intitolata Les Fiancés, che “chiudeva” emblematicamente la mostra del 2005. In verità, il tema nuziale costituisce per l’artista una sorta di fil rouge, che ha attraversato la sua produzione recente, senza peraltro essere mai debitamente approfondito. Orange Blossom è il fiore d’arancio che tradizionalmente la sposa porta nel giorno delle nozze come simbolo di purezza. L’artista lo usa, dunque, come un riferimento diretto al tema degli sponsali, metafora inclusiva di tutti i tipi di unione. Al centro di tutto c’è la coppia, nucleo primordiale e insieme struttura archetipica delle relazioni umane. Con l’assoluta infedeltà mimetica e anatomica che contraddistingue il suo stile, Fulvia Mendini ci offre dodici variazioni sul tema, dodici coppie di giovani allampanati, caratterizzati da un espressività allucinata davvero sopra le righe. Sguardi spiritati e anatomie ipertrofiche, a cominciare da quei colli indecentemente oblunghi, figli degeneri delle estensioni di Parmigianino, ma soprattutto di Modigliani, i personaggi della Mendini sembrano imprigionati nella gabbia dei ruoli, vittime inconsapevoli delle convenzioni sociali. Tra i componenti di ogni diade si erge un’impenetrabile muro invisibile, che isola le figure in uno spazio virtualmente chiuso al dialogo. La prossimità fisica degli individui non si traduce, quindi, in contiguità emotiva, dandoci piuttosto l’impressione di una convivenza forzata. Sembra quasi che l’artista voglia celare dietro l’apparente leggerezza di quei volti candidi, una critica al modello sociale rappresentato dalla coppia. Il matrimonio è il tema dominante della mostra, ma a giudicare dalle espressioni dei fidanzati, congelati in un attimo di eterno sbigottimento, sembra piuttosto la paura il sentimento dominante. In verità, le espressioni sono ambigue, impenetrabili, sempre in bilico tra un sentimento e il suo opposto. Tra la meraviglia e l’orrore, tra il panico e l’estasi lo slittamento è minimo. Lo stesso dicasi per i generi maschile e femminile, che in questi ritratti, sospesi tra la levità dei personaggi di Alex Katz e il fascino nevrotico di quelli di Martin Maloney, si confondono in un’unica fisionomia efebica, caratterizzata da una tipizzazione anatomica più prossima ai modelli dei cartoni animati che a quelli della vita reale. Colli oblunghi, occhi grandi, bocche innaturalmente regolari, i volti dipinti dall’artista soccombono al dominio della geometria, ma per non della simmetria. Se non fosse per l’abbondanza di accessori, che distingue un personaggio dall’altro, faremmo fatica a distinguerli. “In questi visi”, racconta l’artista, “mi interessa sintetizzare i tratti al massimo e disegnare un personaggio icona, un prototipo estatico”.

Verdeliò

Sono, infatti, i vestiti, i cappelli, i gioielli, le acconciature a fare la differenza, tanto da indurci a credere che i ritratti non siano altro che un pretesto per inscenare, ancora una volta, lo spettacolo di un arte che riporta in primo piano il piacere dell’ornamento, della decorazione, del dettaglio prezioso. Un arte femminile, che funziona come un ipertesto visivo, un condensato di allusioni colte e di accenni a particolari radicati nella memoria biografica dell’artista. Il dubbio, insomma, è che protagonisti di queste opere siano soprattutto i disegni delle trame e degli orditi sugli abiti, i raffinatissimi accostamenti cromatici e poi le numerose citazioni, disseminate qua e là come una spezia aromatica. Cosi, se ne Le mille e una notte la cravatta dell’uomo è un omaggio allo stile optical di Victor Vasarely, nell’opera intitolata L’infinito, il vestito della ragazza richiama l’ossessione per i pois dell’artista giapponese Yayoi Kusama. William Morris è, invece, l’autore del decoro sull’abito smanicato di Ti penso sempre, dove gli orecchini della donna sono, appunto, viole del pensiero. Il gioco dei rimandi, però, non si limita ai richiami storico-artistici, ma investe, come già nei ritratti precedenti, anche l’alta moda. La ragazza di Verdeliò, di fatto, veste un abito di Antonio Marras, mentre i motivi dei vestiti femminili in Ascot e Anacapri, ma anche nel già citato Le mille e una notte, riprendono disegni realizzati negli anni Sessanta dalla madre dell’artista. L’eleganza maschile, più sobria, passa attraverso riferimenti meno eclatanti per quanto riguarda le griffe, ma i dettagli dei colletti delle camicie ricordano, in più di un’occasione, le opere di Domenico Gnoli. Non mancano, invece, le autocitazioni, le riprese di alcuni ingredienti tipici del suo alfabeto iconografico, come gli uccelli, gli insetti, la stella e il ramo di ciliegio, usati istintivamente come elementi di raccordo tra le figure.

Tokio-Ga

Le suggestioni, tuttavia, non finiscono qui, riverberando anche nei titoli dei dipinti, che spaziano dalla citazione cinematografica di Mullholland Drive e Tokyo Ga, due pellicole di registi di culto come David Lynch e Wim Wenders, a calembour e rimandi di matrice letteraria, come in William e Juliet, che mescola il nome del grande Bardo inglese con quello di uno dei suoi più noti personaggi drammatici, o come L’infinito, che rimanda ai versi leopardiani, amplificando l’atmosfera cosmologica del quadro, l’unico nel quale lo sfondo uniforme è sostituito con l’ambientazione di un notturno cielo stellato. Per finire c’è Orange Blossom, uno dei quadri più emblematici della mostra, dove l’autocitazione è duplice. Il medaglione appeso al collo eburneo della ragazza riprende un motivo disegnato da Fulvia Mendini, il fiore d’arancio, appunto. Lo stesso che compare sull’anello aureo disegnato dall’artista e prodotto, per l’occasione, in un unico esemplare con pietre del laboratorio di oreficeria “Le Sibille” di Roma. Il gioiello, realizzato con la tecnica del micromosaico di tradizione antico-romana, oltre ad essere un oggetto di squisita fattura artigianale, è soprattutto un simbolo, ad un tempo sigillo e vincolo della utopica unione di uomini e donne.

Orange Blossom


[1] Si vedano i testi Wonderland e In-A-Gadda-Da-Vida, pubblicati rispettivamente nei cataloghi delle mostre “Wonderland”, presso la Galleria delle Battaglie (Brescia, dicembre 2005) e “Viridarium”, presso Byblos Art Gallery (Verona, gennaio 2007).