Archivio | giugno, 2023

Eccentrici, apocalittici, pop. Inferno e delizia nell’arte contemporanea

30 Giu

di Ivan Quaroni

Invasione americana

Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider

Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive. 

Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative. 

Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson. 

Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti. 

Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010). 

Genoma italiano

La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale. 

A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].

Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo. 

Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione. 

Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC. 

Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale. 

Eccentrici, apocalittici, pop

Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani. 

La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.

Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.   

L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason. 

Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù. 

Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue opere si possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd. 

Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.

Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione. 

L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.

Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.

Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop SurrealismNicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.

Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro. 

Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.

Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore.  El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso. 

Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.

Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.

Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità. 

Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.


[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.

[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.

[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[4] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.

Crypto Series: Gioia e nostalgia nell’arte bambina di FourLeafClover

27 Giu

di Ivan Quaroni

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Nella cultura pop asiatica, e soprattutto in quella giapponese dominata dalla produzione di manga e anime, si è affermato uno stile super deformed, basato sulla rappresentazione caricaturale di personaggi dalle fattezze infantili, come, ad esempio, la testa grande, gli occhi enormi, il corpo goffo e i lineamenti morbidi e tondeggianti. Artisti contemporanei come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Aya Takano, Chiho Aoshima ed altri appartenenti al movimento Superflat, hanno coscientemente ereditato lo stile ipertrofico e piatto dei mangaka. Infatti, i personaggi delle loro opere, quando non sono una citazione diretta di quelli disegnati da maestri come Hayao Miyazaki, ne ricordano comunque lo stile. 

Nelle deformazioni anatomiche e nelle ibridazioni antropo-zoomorfe usate da moltissimi artisti e illustratori asiatici, l’influsso di manga e anime si traduce essenzialmente nell’adesione alla cosiddetta estetica Kawaii, che nel Giappone contemporaneo indica un tipo di bellezza associata a sentimenti di timidezza e vulnerabilità tipicamente infantili. 

Il termine Kawaii è assimilabile al concetto anglosassone di Cuteness, che si è sviluppato in epoca vittoriana come conseguenza dell’idealizzazione del mondo infantile e che è utilizzato per indicare tutto ciò che è graziosocarinotenero

Cute può essere un bambino, un animale o anche un oggetto che possiede le caratteristiche di “piccolezza”, “incompiutezza”, ma anche “difformità”. Una cosa animata o inanimata è cute o kawaii quando possiede una natura tenera e, al contempo, mostruosa e commuovente, caratteristiche tipiche di molti personaggi manga come Doraemon, Hello Kitty e i Pokemon. 

L’estetica Kawaii fin dagli anni Ottanta non solo ha permeato profondamente la società giapponese in ogni ambito, irradiandosi dalla cultura popolare al mondo delle corporate e perfino delle istituzioni – tanto che ognuna delle 47 prefetture nipponiche possiede un proprio personaggio kawaii – ma, attraverso la diffusione di fumetti, cartoni animati e videogiochi, ha conquistato l’immaginario di massa globale. 

A World of Hope, 2022, Video (MP4)

Naturalmente, il mondo della Crypto Art non ha fatto eccezione, come dimostra la abnorme pletora di linguaggi derivati dallo stile dei manga che oggi occupano una larga fetta delle produzioni NFT. Nel composito universo di artisti che hanno fatto proprio la grammatica kawaii, magari adattandola alla sensibilità della propria cultura d’origine, c’è anche la tailandese FourLeafClover, autrice di immagini gremite di personaggi infantili che suscitano sentimenti di tenerezza. 

Appassionata disegnatrice fin dall’infanzia, FourLeafClover è un’artista autodidatta che utilizza programmi come Clip Studio e Pro-create per realizzare immagini gioiose e divertenti. L’ispirazione per le sue opere risale, come ammette lei stessa, ai tempi in cui lavorava nel campo dell’editoria: “Vedevo che i libri a cui lavoravo rendevano la gente felice e, così, ho deciso di applicare questo concetto alla mia arte: voglio che chiunque veda le mie opere sorrida e sia felice”. Non è un caso, peraltro, che abbia scelto come proprio nome quello di una pianta erbacea tradizionalmente associata alla fortuna e dunque a sentimenti di ottimismo e positività. 

FourLeafClover ha esordito nel mondo degli NFT nell’agosto 2021, con la serie di illustrazioni mintate su OpenSea intitolata Go BaBy Go !!, popolata di personaggi infantili che sarebbero diventati tipici del suo stile disegnativo. Tra le molte collezioni lanciate dall’artista, con le quali si è garantita un posto stabile nel mondo degli NFT, ci sono anche quelle derivate dalla reinterpretazione d’icone crypto come le mitiche Bored Apes di Yuga Labs (Ape BaBy Ape !!) e Pepe The Frog (Fake Rares), il personaggio nato dalla matita di Matt Furie per il fumetto Boy’s Club, poi diventato popolare attraverso la strabordante produzione di meme circolati in rete e su Twitter.

L’artista si è fatta un nome non solo grazie al costante impegno nella creazione di illustrazioni e brevi video che attingono alle memorie infantili e che spesso sono caratterizzate da ambientazioni nostalgiche, come nel caso della serie Life Baby Life, ma anche attraverso la collaborazione con le community di portali come Sappy Seals, Boki, Alien Frens, Uwu Crew e Squishverse, per i quali ha realizzato personaggi originali e adesivi animati che rappresentano il suo personale contributo all’estetica Kawaii

FourLeafClover è talmente convinta del potenziale creativo dell’immaginario infantile da aver creato insieme a @HGESOL il progetto ABC abracadabra sul marketplace di Magic Eden, che consiste in una collezione di diecimila NFT realizzati nel tipico stile dei disegni infantili per ricordare a tutti la gioia della creazione prima dell’avvento dell’età adulta.

Ironia, gioia e leggerezza caratterizzano tutte le sue creazioni, spesso influenzate non solo dall’estetica Kawaii, ma anche dalla cultura pop occidentale. Molti, infatti, sono i riferimenti alle saghe cinematografiche di Star WarsHarry Potter e Back to the Future soprattutto nella serie di lavori del ciclo Metaverse, dove i suoi personaggi infantili fuggono dalla realtà quotidiana per immergersi nell’universo virtuale dei propri eroi.

A questo ciclo appartiene in qualche modo anche l’opera intitolata A World of Hope (si può vedere qui: OpenSea. Si tratta di un’animazione da cui traspare la preoccupazione dell’artista per un mondo che si avvia verso un’inevitabile rovina. La linea narrativa rispecchia quella di altre opere analoghe, che mostrano i momenti immediatamente precedenti e successivi all’immersione nel Metaverso tramite un visore. In A World of Hope il protagonista, proveniente da una megalopoli apocalittica, devastata dalle fiamme, si rifugia virtualmente in una dimensione illusoria, in cui il mondo non è ancora stato distrutto dalle conseguenze del cambiamento climatico. Il vero tema dell’opera è, però, la speranza, qui rappresentata dal desiderio di vivere una dimensione esistenziale, dove l’uomo e la natura convivono in perfetta armonia. 

Crypto Series: Le rovine dell’antropocene nell’arte di Nicola Caredda

26 Giu

di Ivan Quaroni

Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)

Nonostante le origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno inizialmente favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso fa riferimento non solo alla corrente storica fondata da André Breton, ma a tutte le forme di arte fantastica. Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti provenienti dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è diffuso anche in Italia, influenzando numerosi artisti, tra i quali anche Nicola Caredda.

Nato a Cagliari (Italia) nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è prima di tutto un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi fantastici e suggestioni distopiche. Nel passaggio dalla pittura agli NFT – presenti marketplace di SuperRare -, l’artista è riuscito a trasferire l’atmosfera sospesa e rarefatta dei suoi dipinti, dominati da macerie e detriti dell’età post-moderna, in una serie di animazioni distorte e allucinate, che danno corpo e solidità alle sue creazioni. 

I suoi paesaggi, realizzati con la precisione di un miniaturista, mostrano i resti di una società trascorsa, i reperti di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo un’ipotetica quanto plausibile catastrofe nucleare oppure in seguito a un’apocalisse ecologica, è un globo disabitato e silente, una sorta di grande natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, scheletri architettonici e malinconici residui della società dei consumi. 

Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)

Influenzato tanto dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e dagli artisti del Realismo Magico italiano e tedesco tra le due guerre, quanto dal contemporaneo Pop Surrealismo americano, l’artista ha costruito un linguaggio visivo che trasferisce il gusto decadente per le rovine e la passione per il mistero nel vocabolario iconografico della Modernità Liquida raccontata da Zygmunt Bauman. 

Le sue visioni notturne, disseminate di angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati o elettrodomestici abbandonati, sommersi da una proliferante vegetazione, sembrano la perfetta rappresentazione della fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoermer, sarebbero la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.

Un altro modo di interpretare le opere di Caredda è, però, quello di considerarle come la raffigurazione dello stato di degrado delle moderne periferie urbane, che nella loro atmosfera di malinconico abbandono prefigurano la futura morfologia di un mondo post-apocalittico. È il caso di Everyone at Rolling Loud (si può vedere qui: OpenSea), in cui l’artista rappresenta ciò che resta alla fine di un rito collettivo come il Rollling Loud – il più importante festival di musica Rap e Trap -, quando, finita la musica, echi e vibrazioni sonore riverberano ancora nell’atmosfera satura di un luogo desolato e fatiscente, divenuto stranamente intimo e familiare.

Everyone at Rolling Loud, 2021, acrilico su tela, 120×100 cm

Crypto Series: Oggetti di lusso e forme simboliche. Iper-temporalità nelle opere di 1500Labs

25 Giu

di Ivan Quaroni

Never-ending Walk, 2023, still da video (MP4)

La rappresentazione estetica del tempo è uno dei problemi che hanno da sempre ossessionato gli artisti, che ne hanno fatto uno strumento di riflessione sulla natura caduca ed effimera dell’esistenza. Ne sono un esempio sia l’iconografia dedicata a Le tre età dell’uomo di pittori del Rinascimento italiano come Giorgione e Tiziano – reiterata nei secoli successivi anche da artisti come Anton Van Dyck, Caspar David Friedrich, Arnold Böcklin, Gustav Klimt e Pablo Picasso -, sia il genere più tardo, delle Vanitas, inaugurato all’inizio de XVII secolo con la comparsa di dipinti che ritraevano oggetti o simboli dell’inesorabile trascorrere del tempo e, quindi, della fugacità della vita terrena: fiori e frutti appassiti, candele spente, strumenti musicali, teschi e ossa umane usati come memento mori

La natura inafferrabile e intangibile del tempo, che sfugge alla percezione concreta e materiale della vita quotidiana, ha influenzato molte delle sperimentazioni dell’arte moderna, dall’interesse degli impressionisti per i mutamenti di luce durante il giorno e le diverse stagioni dell’anno, alle interrogazioni sul rapporto tra spazio e tempo nelle scomposizioni cubiste e futuriste, fino alle indagini surrealiste sulla dimensione dilatata del tempo interiore. 

Tale interesse riecheggia anche nelle ricerche concettuali contemporanee che hanno tentato compendiare il flusso temporale in sequenze di dati, come nel caso dei Date Paintings di On Kawara che riportano su un fondo monocromo una semplice data scritta con un font impersonale o dei Détails di Roman Opalka che dal 1965 dipinge su tela sequenze di numeri progressivi, associando a conclusione di ogni opera lo scatto di un autoritratto fotografico che documenta il lento processo d’invecchiamento del proprio volto. 

La temporalità è, in un certo modo, anche il tema attorno a cui ruotano le opere NFT di 1500Labs, sigla che raccoglie i lavori a quattro mani dell’artista brasiliana Debora Hirsch e dell’argentino Martin Gimenez Larralde, entrambi con alle spalle una carriera artistica che li ha portati a esporre individualmente in musei, gallerie d’arte e fiere internazionali e a collaborare, come team, alla redazione della rivista «E il topo», interamente gestita da artisti e performer. 

Back to Stones, 2023, still da video (MP4)

1500Labs – il cui nome deriva in parte dalla trasposizione in numeri arabi della cifra romana MD (millecinquecento, appunto), che coincide con le iniziali dei nomi degli artisti (Martin e Debora) – è un progetto artistico nato appositamente per operare nella sfera dell’arte digitale legata a blockchain, NFT e metaverso, attraverso una ricerca che s’interroga sul significato di oggetti e beni di consumo legati alla moda e all’industria del lusso e sulla metamorfosi del loro valore nel tempo. 

In questo senso, Milano, capitale della moda e del design e sede operativa di 1500Labs, offre un punto di vista privilegiato per osservare l’evolversi di un settore caratterizzato da una maniacale cura estetica nel modo di comunicare, esporre e vendere beni voluttuari come capi d’abbigliamento, accessori e oggetti esclusivi riservati a un mercato elitario. Il loro modo di operare prevede, in un primo momento, la raccolta di materiale documentario che viene poi radicalmente modificato digitalmente per produrre brevi animazioni sonorizzate.  

Animal Meeting, 2023, still da video (MP4)

Passeggiando nel centro di Milano e tra le vie del cosiddetto Quadrilatero della Moda (via della Spiga, via Montenapoleone, Corso Venezia e Via Manzoni), i due artisti fotografano non solo prodotti iconici come borse, scarpe, abiti, oggetti di design, gioielli, monili o pezzi d’antiquariato, ma anche vetrine, allestimenti di negozi, showroom e botteghe che espongono merci lussuose. Queste immagini sono poi rielaborate e trasformate attraverso la realizzazione di video-animazioni digitali costruite su curiose associazioni tra oggetti antichi e moderni, poi sottoposti a un processo di reciproca metamorfosi stilistica. Nelle loro opere, infatti, i prodotti dei brand di moda o design sono trasfigurati nelle forme misteriose di reperti archeologici, che forse, in passato, ricoprivano un’analoga funzione di status symbol. Il risultato è un morphing che chiarifica quella che Martin ha definito “la natura iper-temporale di questi oggetti superflui”, in cui passato, presente e futuro sono condensati nella sintesi delle immagini create da 1500Labs. Non si tratta, dunque, dell’ennesima riflessione sul carattere effimero dei prodotti di consumo – e con essi della vita stessa del consumatore -, quanto, piuttosto, di una indicazione del carattere atemporale dei meccanismi di mercificazione che, oggi come ieri, reificano le opere dell’ingegno e della creatività umani. 

Negli NFT di 1500Labs, gli oggetti del presente si intrecciano con quelli provenienti da altre linee temporali, generando un cortocircuito che rimanda al concetto del “fantasma” lacaniano. Secondo lo psicanalista Jacques Lacan, il “fantasma”, come pure l’opera d’arte, vive in una dimensione sovrastorica, che è immobile rispetto alla dimensione storica del desiderio. La sua funzione, simile al motore immobile di Aristotele, è quella di generare il desiderio a partire da una posizione extratemporale. In altre parole, come affermano i due artisti, “lo scenario in rapida evoluzione ci dà l’impressione che il tempo presente appartenga al passato già dall’inizio”. Visivamente, questa impressione si traduce in quello che Debora Hirsch definisce “un processo di rarefazione quasi istantaneo degli oggetti esclusivi in forme enigmatiche e simboliche”. Una visione che, però, non esclude la possibilità di interpretare il lavoro di 1500Labs anche come una critica al consumo di prodotti di lusso. “Vorremmo sottolineare”, spiegano Debora e Martin, “la natura predatoria dell’industria dei beni di consumo, occupandoci in futuro anche di luoghi e prodotti del mercato dell’arte”.

Back to Stones, 2023, still da video (MP4)

Ne sono un esempio le cinque video-animazioni sonorizzate – intitolate Animal MeetingBack To StonesNever-ending WalkThe Green Light e At the Speed of Nature (si possono vedere qui: https://superrare.com/spaces/poseidondao/gallery) – che portano all’interno dello spazio della Crypto Art l’universo visivo di 1500Labs, costruito su accordi e consonanze tra mondo antico e contemporaneo e sull’osservazione dei circuiti di circolazione e consumo di beni voluttuari e simbolici.

Valentina Chiappini. Costruire cattedrali con la gioia

24 Giu

di Ivan Quaroni

Apollineo vs Dionisiaco, 2022, tecnica mista, graffio, serigrafia, combustione su tela, 100x 150 cm

Nel suo Tentativo di autocritica, scritto quattordici anni dopo la pubblicazione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, Friedrich Nietzsche sente il bisogno di precisare che è nell’arte, e non nella morale, che si esprime la vera attività metafisica dell’uomo. 

Non avrebbe potuto maturare questa convinzione senza aver esplorato il ruolo di due principi contrapposti nella formazione della tragedia greca, ed estensivamente dell’arte tutta: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica”, afferma nell’incipit della sua opera prima, “quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”[1]

L’antitesi composta da questi due aggettivi si riferisce, naturalmente, ad Apollo e Dioniso, divinità dell’Olimpo greco che esemplificano, in estrema sintesi, i concetti contrapposti di ordine e caos su cui si fonda la cultura greca. È curioso, peraltro, che lo stesso termine “tragedia” (Τραγῳδία), di origine attica e traducibile come “canto del capro”, abbia origine proprio nei riti dionisiaci, in cui comparivano personaggi vestiti da capri. 

Il dionisiaco, come spirito che si esprime nei riti attraverso l’abbandono a esplosioni mistiche e sensuali che favoriscono una primaria comunione con la natura, s’inserisce nel discorso filosofico di Friedrich Nietzsche come un elemento che cambia radicalmente l’originario imprinting del pessimismo Schopenhaueriano. Infatti, laddove l’autore de Il Mondo come volontà e rappresentazione avverte l’orrore spalancato dalla perdita di fiducia nelle forme della conoscenza razionale, Nietzsche intravede un’opportunità di emancipazione e, insieme, di riconciliazione col fondo oscuro dell’esistenza e con la natura stessa. 

Attraverso l’analisi della duplice radice, apollinea e dionisiaca, della tragedia attica, Nietzsche plasma un nuovo tipo di pessimismo basato sulla forza. Sulle pagine del suo Tentativo di autocritica, egli descrive questo nuovo atteggiamento come “un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza”[2]. Nella visione di Nietzsche, abbracciare il nucleo caotico dell’esistenza è, dunque, il segno di una esuberante vitalità. Quella stessa vitalità oscura che, intrecciandosi con la solare chiarezza dello spirito apollineo, costituisce anche il fondamento dell’arte.

Valkyrie, tecnica mista Bic, acrilici, graffio su tela, 2022, 60x80cm

Nella ricerca pittorica di Valentina Chiappini, il magma dionisiaco affiora costantemente come una traccia indelebile, che innerva la trama delle sue iconografie, palesandosi in forme caotiche, indistinte, gestuali, di un’urgenza a stento trattenuta da un impaginato visivo che inquadra e trattiene le immagini nel perimetro (apollineo) della tela.

Qualche anno fa, nella mia prima lettura del lavoro dell’artista, rilevavo la matrice visionaria di una pittura che appariva formata da una congerie di elementi inafferrabili, come memorie, emozioni e archetipi che affollavano – allora come oggi – la sua immaginazione. Tuttavia, nel regesto di figure che caratterizzano la sua recente produzione, la visione di Valentina Chiappini sembra essersi affinata, concentrandosi in un corredo iconografico coerente che può essere letto come una cartografia di riferimenti culturali precisi, cioè come una mappa in cui ricorrono non solo allusioni al pensiero di Nietzsche e Schopenhauer, e per estensione anche di Richard Wagner, ma anche cenni e richiami a simboli iniziatici ed esoterici che, in qualche modo, con la loro presenza, avvalorano l’idea nietzschiana dell’arte come campo d’attività metafisica. 

L’attitudine di Valentina Chiappini nell’affrontare la pratica pittorica riflette, infatti, la volontà di dare visivamente corpo alla sua personale interpretazione del mondo. Una visione che nasce dal coagulo di esperienze, letture e tensioni interiori che riguardano il tema delle possibilità trasformative dell’individuo attraverso un iter gnostico o spirituale. Anche se, in questo caso, non di spiritualità strettamente religiosa si tratta. L’artista traccia, piuttosto, una genealogia delle sorgenti del pensiero radicale occidentale, in antitesi alla lettura del positivismo materialista. 

Basta osservare un’opera germinale come La bellezza è una dea, tra le prime realizzate a Milano dall’artista nel lontano 2006, per comprendere come al centro dei suoi interessi ci sia sempre stata la questione del dramma esistenziale, del caos ineludibile entro il quale si compie l’esperienza fenomenica di ogni individuo. In questa tela, dallo stile evidentemente mutuato da Basquiat, fino a costituire una sorta di accorato tributo alla sua arte, le immagini si affastellano senza soluzione di continuità, giustapponendosi l’una accanto all’altra come tessere di un confuso mosaico. Questo modello costruttivo, una volta epurato dall’influsso di Basquiat, diventa parte essenziale di un linguaggio pittorico che, ancora oggi, si fonda su progressive stratificazioni iconografiche, eseguite secondo modelli associativi automatici di marca surrealista. In questo meccanismo procedurale si alligna, con tutta evidenza, il demone dionisiaco che anima le tele dell’artista, che alla costruzione lineare del racconto, preferisce la disseminazione di tropi enigmatici, di figure misteriose e sibilline apparizioni. 

Se si guarda all’impianto compositivo di un dipinto recente come Nel libro il viaggio (2022), ci si accorge che la modalità d’accumulo delle immagini è rimasta quasi invariata. Semmai la mano è diventata più sicura, lo stile più saldo, la capacità combinatoria più complessa, l’istinto nella distribuzione dei pesi sulla superficie molto più affinato. 

Il corredo visivo della pittura di Valentina Chiappini è sempre stato caratterizzato dalla presenza di numerose matrici iconografiche, dal papier collé alla serigrafia, dal disegno all’impronta gestuale, fino a quelle graffiature e combustioni che sembrano violentare l’epidermide del quadro, impedendo, così, ogni lettura lineare dell’apparato visivo. Perfino gli stilemi pittorici adottati dall’artista sono molteplici, e oscillano tra immagini grafiche di origine incisoria e campi monocromatici di marca informale, tra calligrafismi tachisti e forme scrittura. Insomma, la sua è una pittura multiforme, in cui i depositi della cultura di massa e gli emblemi esoterici, i riferimenti filosofici e le allusioni classiche s’intrecciano nell’ordito iconografico quasi senza soluzione di continuità. 

Costruire cattedrali con la gioia, 2022, tecnica mista acrilici, graffio su tela, 60×60 cm

Ad esempio, nel dipinto intitolato Costruire cattedrali con la gioia (2022) la popolare figura di Mickey Mouse (personaggio, peraltro, dalle qualità innegabilmente apollinee) è associata all’immagine di un muro di mattoni in costruzione, sul quale è poggiata una cazzuola da muratore, simbolo esoterico associato alle azioni edificatrici della beneficienza e della bontà attiva. Pertanto, il titolo dell’opera (Costruire cattedrali con la gioia) può essere letto come un riferimento alla virtù della carità, richiesta agli iniziati sulla via della conoscenza mistica. Questo tipo di simbologia magica, le cui fondamenta si fanno risalire alla costruzione del Primo Tempio ebraico di Re Salomone (988 a.C.) per opera di Hiram Abif, architetto che avrebbe raggiunto l’illuminazione proprio attraverso i sacri principi della costruzione, si ritrova, in verità, in molte opere della recente produzione dell’artista. In Apollineo vs. Dionisiaco (2022), una tela dal titolo chiaramente programmatico, innervati nella trama d’immagini classiche (tra cui un vaso greco a figure nere, una dionisiaca testa di satiro e varie fisionomie di Veneri) compaiono, infatti, gli emblemi del compasso e del pavimento a scacchi bianchi e neri. Il primo, col suo tracciato circolare, allude alla necessità da parte dell’iniziato di dominare e circoscrivere i desideri e le passioni; il secondo, modellato appunto sul pavimento del Tempio di re Salomone, è simbolo della natura duale e conflittuale dell’anima umana, in cui si annidano i principi contrapposti del bene e del male, della luce e delle tenebre, delle virtù e dei vizi, che insieme ad altre diadi rispecchiano i presupposti del divenire fenomenico. Il pavimento a scacchi, il cui significato è simile a quello espresso dal simbolo taoista dello Yin e dello Yang, si staglia anche nel dipinto Enfant Übermensch (2022), opera incentrata sul concetto nietzschiano di oltreuomo, metafora dell’uomo liberato dai falsi valori etici e sociali imposti dallo spirito apollineo – emblematicamente incarnato dalla filosofia socratica -, e prometeicamente proiettato verso un futuro di gioiosa accettazione del fondo tragico e caotico dell’esistenza umana. Nella tela dell’artista, la reiterazione di figure infantili, allude all’oltreuomo come progetto pedagogico di pianificazione di una personalità capace di squarciare la pellicola illusoria che avvolge la realtà, quel Velo di Maya di cui parla Schopenhauer, che nasconderebbe la natura dolorosa dell’esistenza. Nulla a che vedere, dunque, con le raccapriccianti prospettive di dominio e sopraffazione naziste. Piuttosto, Valentina Chiappini rintraccia una sorta di affinità tra la prassi gnostica di perfezionamento interiore e il progetto nietzschiano di costruzione di un uomo nuovo, così come viene descritto nelle pagine di Also sprach Zarathustra. Quel che affiora nel coerente racconto iconografico che collega tutte le sue opere è, infatti, la volontà di intendere la vita come un percorso di gnosi e trasformazione radicale dell’individuo, in vista di un comune bene futuro.  

Enfant umbermensch, 2022, Tecnica mista acrilici, graffio, combustione su tela, 2022, 70×100 cm

Per condurre a termine l’impresa, esemplificata anche nell’acrostico alchemico Vitriol (Visita interiore Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem), è necessario che il discepolo affronti il proprio lato oscuro, che compia insomma l’opera di sublimazione, discendendo prima nelle profondità abissali della propria anima, per poi affinarsi nella luce della verità. A questo sembra riferirsi il quadro Nosce Te Ipsum (2022), che riprende, in traduzione latina, la famosa iscrizione incisa sul frontone del Tempio di Apollo a Delfi che esortava gli uomini a riconoscere i propri limiti, prima di intraprendere la via della conoscenza. Nel dipinto, oltre a uno degli apoftegmi attribuiti ai Sette Sapienti (γνῶϑι σεαυτόν), compare, tra le varie figure, la testa di una tigre, simbolo orientale di forza e potenza che in un antico detto cinese, “Cavalcare la Tigre”[3], diventa espressione della capacità dell’individuo di controllare i propri istinti e le proprie pulsioni. 

In questa pittura costellata di simboli, si collocano altri due dipinti, Velo di Maya (2022) e Valkyrie (2022), che mostrano l’immagine dello scheletro di un tronco umano, insieme memento mori, ossia meditazione attorno alla natura caduca dell’esistenza, e metafora della Nigredo, in particolare della Putrefactio (Putrefazione) che caratterizza la fase al Nero della Grande Opera alchemica. Inoltre, nella wagneriana Valkyrie, l’effige mortuaria dello scheletro è abbinata alla conchiglia del mollusco Nautilus che, con la sua forma a spirale aurea, simboleggia i processi naturali di crescita e proliferazione delle forme vitali. Ancora una volta, come già nell’opera Apollineo vs. Dionisiaco, ritorna, dunque, il principio duale che regola il divenire della creazione, il medesimo occultato nel motivo magico della scacchiera. 

Le nuove opere di Valentina Chiappini marcano il passaggio a una fase di maturità, ravvisabile nella costruzione di una grammatica che innesta sui motivi individuali gli eterni interrogativi esistenziali. Il risultato è una pittura fatta di continue sovrascritture, di stratificazioni simboliche che offrono molteplici livelli di lettura e che ci permettono di rispondere all’annoso quesito sull’utilità dell’arte. D’altra parte, se ha ragione Nietzsche, dobbiamo considerare l’arte alla stregua di uno strumento filosofico, il solo capace, nel tragico conflitto tra i principi primordiali dell’apollineo e del dionisiaco, di metterci in contatto con l’essenza stessa della vita… che è anche la più alta forma di esistenza.  


[1] Friedrich Nietzsche, Nascita della Tragedia, 1977, Adelphi, Milano, p. 21.

[2] Friedrich Nietzsche, Tentativo di autocritica, 1977, in Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, p. 4.

[3] Usato in tale accezione anche in Julius Evola, Cavalcare la tigre. Orientamenti esistenziali per un’epoca della dissoluzione, a cura di Gianfranco De Turris, 2009, Edizioni Mediterranee, Roma.

Sandro Bracchita. Unda Mater

23 Giu

di Ivan Quaroni

“Che nel mistero delle proprie onde
Ogni terrena voce fa naufragio”
(Giuseppe Ungaretti)

Ci sono due tipi di artisti, quelli che sono allineati al proprio tempo e quelli che non lo sono. La schiera dei primi è attenta alle vicende della cronaca, della politica, insomma alle urgenze della società. Di questa falange fanno parte gli artivisti di cui scrive Vincenzo Trione[1], quelli che trascinano l’arte nel piano dell’azione, trasformando l’impulso creativo in una forma di civismo estetico, di politica dell’immagine che, nel peggiore dei casi, sconfina nella propaganda o nella contro-propaganda. La seconda torma cerca un senso fuori dalla congiuntura storica, dalla pressione del presente, dalla dimensione prosaica del quotidiano, finendo, così, per trasmigrare nella sfera di una ciclicità senza fine, di un’eternità che assume una delle multiformi, e talvolta indistinte, fisionomie dell’Iperuranio platonico. 

Entrambi gli schieramenti sono inevitabilmente immersi nello zeitgeist, avvinti nella contingenza, nella trama computazionale di Chronos. Perfino un artista come Sandro Bracchitta, che intuitivamente ascriveremmo al campo sovrastorico, finisce per fare i conti col presente, con le forze centrifughe del sociale, con le emergenze ineludibili che lacerano la pellicola simbolica che l’artista ha costruito come una sorta di recinto operativo, in cui meditare sulle istanze ricorsive dell’esistenza, al riparo dall’aggressiva agentività del mondo reale.

Il suo linguaggio visivo si forma tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, stimolato (e quasi illuminato) dall’Arte Povera, di cui Bracchitta ammira la sensibilità materica e la vocazione alla forma oggettuale, nonché dalle grammatiche della Transavanguardia e della coeva pittura neoespressionista tedesca, da cui deriva il gusto per la sintesi grafica, liberata dalla mimesi. L’educazione negli anni dell’Accademia si compie a Firenze, capitale, insieme a Bologna, delle tendenze postmoderniste e delle sperimentazioni della musica New Wave, le cui sonorità contribuiscono alla costruzione della sua bildung, saldandosi alle sollecitazioni visive ricevute in quel periodo. 

A questo coagulo di esperienze si aggiungono altri due fattori. Prima di tutto l’origine territoriale dell’artista, il suo essere siciliano, dunque intrinsecamente permeato dalla presenza del mare e dell’Etna, con le conseguenze che questo comporta nell’elaborazione del suo immaginario cromatico e figurativo. Poi la passione per le tecniche incisorie, che investe sia la sua produzione artistica, sia la sua attività di docente di Incisione e Grafica d’arte presso diverse Accademie italiane. 

Il risultato di questa pluralità di suggestioni è la costruzione, nel tempo, di un alfabeto visivo di segni e simboli che rappresentano la fragilità umana in un mondo abitato da forze portentose e, insieme, stupefacenti. 

Fluido Cuore, Pigmenti, acrilico e acquerello su carta, cm 62×50

I segni di Bracchitta assumono le forme stringate ed essenziali di ciotole, case o barche, contenitori che riassumono bisogni primari dell’uomo, come il cibo, il riparo, il movimento (o la migrazione) e che raccontano la condizione di precarietà della vicenda esistenziale. Nell’immaginario pittorico dell’artista, le figure si stagliano su uno spazio cromatico astratto, ma di consistenza tattile. La superficie delle tele è infatti animata da una vibrazione materica, che agisce come una sorta di perturbazione ritmica del fondo. Su questa morfologia increspata, ottenuta dall’impasto di sabbia e pigmenti a cementare la massa magmatica del colore, si stagliano i contorni corruschi dei suoi pittogrammi aurei. Il racconto di Bracchitta riguarda l’eterna collisione dell’uomo con le forze elementali: l’acqua, l’aria, il fuoco. O meglio, il mare, il cielo, il plasma lavico su cui fluttuano le figure baluginanti dei natanti e delle sfere celesti. Barche, piroghe, lune, soli e stelle abitano dimensioni che suggeriscono, di volta in volta, le sembianze di un firmamento notturno, di una buia distesa di acque, di un cielo vespertino incendiato dai bagliori del magma etneo. 

Le cromie che caratterizzano queste geografie interiori sono sempre le stesse: il blu oltremare che allude alle profondità abissali o alle lontananze cosmiche; il rosso cadmio o cardinale che simboleggia la materia vivente del flusso sanguigno, del versamento eruttivo, del fuoco; infine, l’oro che esemplifica la luce, radiazione elettromagnetica percepibile dall’occhio umano, presupposto di visibilità e condizione di discernimento. Non l’oro metafisico delle icone bizantine, incorruttibile rimando alla dimensione eterna e sovrasensibile del divino, ma quello smaccatamente falso dell’orone, dell’ottonella e della metallina, sostanze assai più pedestri e, dunque, adatte a raffigurare il topos della fragilità esistenziale su cui l’artista da sempre insiste. 

Ma proprio qui, nell’introdurre il tema del “corruttibile” con il ricorso a un materiale nuovo, l’armamentario iconografico di Bracchitta trova un punto di contatto con le urgenze del presente, avvicinando, per così dire, il suo alfabeto di forme simboliche al piano della contingenza. 

Semi e Mare, 2021, Acrilico, floccaggio e pigmenti su tela, cm 30×30

Con Unda Mater, nuovo capitolo della sua ricerca, l’artista appare più sensibile alla sostanza prosaica del mondo odierno. La sostituzione dell’orone, il simil-oro comunemente usato per la doratura dei mobili, con la metallina, fatta di polietilene tereftalato metallizzato, impiegata sia nelle sue opere pittoriche che nella grande installazione plastica che domina lo spazio centrale della galleria, non risponde a una scelta meramente formale. Infatti, questo materiale, progettato nel 1969 dalla NASA per i veicoli spaziali, è oggi comunemente usato per la produzione di coperte isotermiche, usate in campo medicale per prevenire i casi di ipotermia. Le vediamo spesso addosso alle vittime di incidenti stradali e, più spesso, sulle spalle dei migranti che approdano esausti sulle nostre coste. Sono chiamate internazionalmente emergency blanket (coperte d’emergenza) e sono diventate un materiale ricorrente nelle attuali produzioni artistiche. Basti dare uno sguardo all’installazione Heaven and Hell Simultaneously (2016) di Mircea Cantor, alle Welsh Emergency Blankets (2018) di Daniel Trivedy, alla serie di fotografie intitolate Wind Sculptures (2015) di Giuseppe Lo Schiavo, alla scultura Bow Human (2010) di Pamela Rosenkrantz o alla gigantesca installazione The Blanket (2018) di Alexander Shtanuk, composta da tremila moduli di polietilene tereftalato e presentata al “Burning Man”, il celebre festival dedicato alle creazioni effimere che si tiene ogni anno nel deserto del Nevada, per capire che le coperte isotermiche sono entrate ormai di diritto nell’immaginario contemporaneo. 

Sandro Bracchitta usa questo materiale tecnico come sostituto della foglia d’oro, in forma di ritagli quadrati che applica pazientemente sulle tele, per disegnare gli stringati profili delle sue barche, o per rivestire l’interno della scultura in foggia di piroga di Unda Mater (2022), l’installazione che dà il titolo alla mostra. 

La metallina (altro nome della coperta isotermica), usata dall’artista per plasmare le forme primarie delle sue imbarcazioni – che poi sono le stesse delle ciotole, dei primitivi gusci rovesciati o delle elementari case che costellano, fin dagli esordi, la sua polisemica ricerca pittorica – collega il tema della sopravvivenza a quello delle migrazioni che hanno segnato, fin dall’antichità, la storia dell’uomo. Eppure, questo suo nuovo prelevamento oggettuale non è inquadrabile nel segno di quelle pratiche visive che guardano alla cronaca e all’attualità per documentare le derive politiche e sociali del nostro tempo. Piuttosto, quello di Bracchitta è un gesto di appropriazione che eradica un frammento materiale dal contesto storico per costringerlo nei termini del proprio lessico. L’artista non si adatta, ma adatta, potremmo dire, la materia tecnologica odierna, fagocitandola nel proprio vocabolario, senza, peraltro, alterare il fulcro della propria indagine. Un’indagine che non riguarda l’attualità, cioè il carattere transeunte di ciò che è vivo e presente e, tantomeno la dimensione imperscrutabile dell’eterno, ma, piuttosto, il costitutivo stato di precarietà dell’uomo, la sua fragilità e mortalità. Tutti elementi ineluttabili che, però, sono anche all’origine di ogni energia vivificante, d’ogni passione ed entusiasmo. 

Questo è il punctum della pittura di Bracchitta, il codice cifrato nel concetto di Unda Mater, che è immagine del ritmo, dell’alternanza… di quell’altalena di stati contrari che chiamiamo vita.


[1] Vincenzo Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, 2022, Giulio Einaudi editore, Torino.