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Hauntology. Natura spettrale della pittura

22 Mar

di Ivan Quaroni

Hauntology è un vocabolo originariamente coniato dal filosofo Jaques Derrida nel libro Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova internazionale (1993). Si tratta di un gioco di parole composto dalla crasi del verbo to haunt (infestare, ossessionare) e del sostantivo ontology, che designa la disciplina filosofica che si occupa dello studio dell’essere in quanto tale, vale a dire di tutto ciò che ha le qualità dell’esistere, i cosiddetti enti. Secondo Mark Fisher, l’hauntologia, che eredita concetti usati in precedenza da Derrida come quelli di traccia e di différance, si riferisce al fatto che nulla gode di un’esistenza puramente positiva perché “tutto ciò che esiste è possibile soltanto sulla base di una serie di assenze che lo precedono e lo circondano, permettendogli così di acquisire la coerenza e l’intellegibilità che possiede”[1]. Con l’hauntologia, Derrida si oppone al concetto tradizionale di ontologia, che definisce l’essere come una presenza sempre identica a sé stessa, introducendo la figura dello spettro.

Lo spettro è un’entità che non è mai pienamente presente, che non possiede l’essere in sé ma che, come sosteneva Martin Hägglund in Radical Atheism: Derrida and the Time of life (2008), segna una relazione con ciò che non è più e con ciò che non è ancora. Per Mark Fisher, i fantasmi esercitano sul presente una “causalità spettrale”, proprio perché non possono essere pienamente presenti, essendo residui del passato o frammenti di un futuro mai esistito. Perciò, può essere definito hauntologico quel che, non essendo pienamente presente, gode di una sorta di ubiquità ed esercita sul presente un potere infestante e spettrale. 

La pittura possiede una natura intimamente hauntologica. La sua propensione spettrale s’invera nel persistente rimando a qualcosa che non è mai del tutto presente, a un altrove verso il quale ogni significato slitta inevitabilmente. L’infestazione può provenire dal passato, dal futuro o da una dimensione temporale distorta. Si può dire che l’immagine pittorica non abita mai l’attuale, se non sotto forma di traccia o di ectoplasma di un tempo disallineato.

“Una delle espressioni che si ripetono negli Spettri di Marx”, spiega Fisher, “è una frase proveniente dall’Amleto, «il tempo è fuori di sesto»”[2]. Significa che il tempo è lussato, disarticolato e che spetta ad Amleto, per destino o fatalità, di rimetterlo sui giusti binari ripristinando la giustizia. A chiederlo è il fantasma del padre assassinato, che reclama vendetta, lamentando la crudeltà di un tempo che non lascia requie nemmeno ai morti. Tempo fuor di sesto è anche il titolo di un romanzo di Philip K. Dick, pubblicato nel 1959, in cui il personaggio di Ragle Gumm, come Amleto, è ossessionato dallo spettro paterno. In entrambi i casi, la percezione dei protagonisti di vivere in un tempo fuori di sesto implica un senso di turbamento rispetto alla natura anomala e traviata del presente. Ma tale turbamento non si traduce in una critica della realtà, ma piuttosto in un’interrogazione sulla natura stessa della realtà. “Che cosa è reale? Che cosa è vero?”, si chiedono ontologicamente i due personaggi. Ed è qui che entra in campo lo spettro, il fantasma, la sostanza ectoplasmatica, che non è tanto un’essere soprannaturale, ma un’entità virtuale che agisce senza essere presente.

L’hauntologia derridiana (e fisheriana) non è, tuttavia, un concetto sostitutivo della nostalgia. Lo spettro con cui l’hauntologia fa i conti non è solo quello del passato, avvertito come un tempo migliore rispetto al presente, ma è soprattutto quello del futuro che non si manifesta. Un “futuro forcluso”, come lo definisce Fisher, la promessa di un passato che non si realizzerà. Quindi, non solo l’hauntologia costituisce il volto fantasmatico dell’ontologia, ma ne è anche la variante temporalmente ubiqua, che marca l’esistenza delle cose con “una serie di assenze”: il non più e il non ancora che esercitano sulla realtà un’influenza spettrale, virtuale.

La pittura, ogni forma di pittura, reitera il potere infestante degli spettri attraverso persistenze, ripetizioni e prefigurazioni che impediscono ogni forma di equazione col presente. Essa, infatti, si sottrae sistematicamente al potere bloccante della realtà, così come viene intesa dall’ontologia tradizionale. Si può dire che tutta la pittura è “fuor di sesto” in quanto non corrisponde mai pienamente alla realtà di cui è, piuttosto, parvenza, rappresentazione esteriore, simulacro e fantasmagoria. Di più, la pittura, similmente a quanto scrive Baudrillard a proposito dell’arte tutta, “costringe la realtà a sparire e introduce dunque, contro il naturale corso del mondo, le condizioni del Giudizio finale”[3]. Ed è qui curioso che l’espressione “contro il naturale corso del mondo”, in cui avvertiamo l’eco dello shakespeariano “tempo fuori di sesto”, sia connessa, come nell’Amleto, all’idea di ristabilire una giustizia, quella di un apocalittico giudizio finale. 

Persistenze, ripetizioni, prefigurazioni sono rilevate anche da Baudrillard quando afferma che “Noi viviamo nella riproduzione indefinita di ideali, di fantasmi, di immagini, di segni, che sono ormai dietro di noi e che dobbiamo tuttavia riprodurre in una specie di indifferenza fatale”[4]. È il risultato di un processo dissolutivo di deterrenza del simbolico che ha sostituito il simbolo, tipico delle espressioni artistiche del passato, con l’immaginario (imagery) che caratterizza i linguaggi post-moderni. “Noi stiamo vivendo la trasformazione dei simboli in immagini”, spiega Fulvio Carmagnola, “ovvero la dissoluzione dello spazio o del dominio del simbolico, come già da tempo ha affermato Baudrillard: «non c’è più scambio simbolico a livello delle formazioni sociali moderne; non più come forma organizzatrice»”[5]. Secondo Carmagnola, “L’imagery implica […] sia la presenza di un insieme di figure che precedono l’uso individuale, che appartengono al patrimonio della cultura e del linguaggio – o secondo un’altra lettura al regno degli archetipi sovratemporali – sia l’attività individuale, poietica, di creazione e ricombinazione”[6]. In entrambe le accezioni, l’imagery si contrappone alla realtà in quanto costrutto formato da immagini mentali di cui, peraltro, la pittura fa largo uso, perfino quando impiega linguaggi iper-mimetici per ricalcare fedelmente la realtà. 

Potremmo dire, parafrasando Fisher, che in pittura l’hauntologia non rappresenta un caso raro, anzi essa è già presente in Baudrillard quando parla di “simulacri” e “immagini sintetiche” e quando introduce i concetti di “tecno-tele-discorsività” e “tecno-tele-iconicità” per rilevare la crisi di spazio e tempo prodotta dall’avvento delle nuove tecnologie, grazie alle quali “eventi spazialmente remoti divengono disponibili al pubblico nello stesso istante”[7].

Emblematici, in tal senso, sono gli Internet Paintings di Miltos Manetas, pensati inizialmente come opere work-in-progress che riproducono temporaneamente sulla tela schermate di siti web destinati a modificarsi o scomparire nel tempo. Nel suo tentativo di forzare la pittura a fondersi con la natura impalpabile ed effimera delle immagini del cyberspazio, Manetas concepisce quadri che cambiano continuamente per effetto di progressive sovrascritture pittoriche che ricalcano il perpetuo mutamento dei contenuti virtuali di internet. Internet Painting (Off) è un grande olio su tela del 2002 che testimonia l’interruzione (o la momentanea messa in pausa) di un processo virtualmente infinito. Così, le immagini impresse sulla tela diventano la traccia (ectoplasmatica) di una pletora di iconografie provvisorie, che la rete consegna all’implacabile flusso degli aggiornamenti periodici. 

In una dimensione antitetica si allignano le rovine architettoniche della civiltà industriale che ossessionano Andrea Chiesi, il quale trascrive su tela il sogno (o l’incubo) di una modernità solida che resiste alle trasformazioni della società liquida profetizzata da Zygmunt Bauman. Siamo lontani, però, dalle tassonomiche indagini dei coniugi Bernd e Hilla Becker, con le loro fotografie di edifici industriali dal taglio obbiettivo e documentaristico. Quelli di Chiesi sono, invece, paesaggi lividi, plumbei, dove sembra che gli spettri di un’epoca trascorsa si siano solidificati nelle ossature di acciaio e cemento di fabbriche e infrastrutture abbandonate. Qui, più che l’anonimia dei non-luoghi di Marc Augé, si avverte la presenza infestante delle memorie materiali, oggetti tragici, quanto inutili, che resistono all’usura del tempo. Come le lunghe file di schedari di un vecchio archivio di stato che nessuno consulta più. 

È una pittura abitata dai fantasmi dell’arte del passato quella di Pablo Candiloro, che materializza schegge di memoria visiva nelle sue pennellate di malte sintetiche, bruciate con una pistola termica. La qualità materiale dei suoi dipinti è quasi un antidoto visivo contro l’invadenza delle immagini “tele-tecnologiche” di cui parlava Baudrillard, che oggi cannibalizzano il dominio della visione. Perfino l’evocazione (quasi spiritica) dei maestri del passato, attraverso il tema del ritratto sul balcone, già trattato da una pletora di pittori – da Goya a Manet, da Caillebotte a Segantini, fino a Boccioni e Magritte -, si costituisce come una forma di resistenza contro la montante marea dell’immaginario mediatico. La riflessione di Candiloro si svolge, dunque, attorno al tema del ruolo della pittura in quello che lui stesso definisce “un tempo disarticolato e frastornato” o, per meglio dire, “fuori di sesto”. “Che cosa resta della capacità di visione della pittura oggi?”, sembra chiedersi l’artista. La risposta si trova, forse, nel piccolo, prezioso dipinto che raffigura un paio di occhiali rotti.  Come a dire che, per l’artista, le sorti della pittura si giocano più che sul piano della seduzione ottica e retinica, già presidiato dall’imagery massmediatica, sul terreno delle qualità evocative (ed elusive) delle immagini. 

Al contrario, la pittura di Maurizio Cannavacciuolo irretisce lo sguardo dell’osservatore in una griglia visiva squisitamente ottica e bidimensionale, dove vocaboli figurativi e astratti si affastellano a formare un’ipnotica tessitura iconografica. La superficie è il luogo in cui, per effetto dell’annullamento di corpo e spazio, le immagini possono assumere un valore puramente segnaletico, esornativo, ma anche indicativo. Come frammenti indiziari di un enigma irrisolvibile, i lemmi figurativi di Cannavacciuolo costituiscono gli ingranaggi di quella che è stata spesso definita una sorta di machine à penser, o meglio, un dispositivo di pattern recognition (per dirla con William Gibson), che sfida l’osservatore a pensare e riconoscere differenti modelli e codici visivi. Il dipinto intitolato Lazy Ceramist Violet Sunflower VS Green (2021) è il perfetto esempio di questa strategia fatale, una trappola che conduce, attraverso la deterrenza del simbolico, a quella che Baudrillard chiama “la vertigine tattile dell’immagine”[8].

Una vertigine spirituale è invece quella prodotta dalla pittura di Alberto Di Fabio che indaga, a cavallo tra arte e scienza, relazioni e corrispondenze tra gli universi microcosmico e macrocosmico della natura, intesi come riflessi di un ordine che opera similmente su scale di grandezza differenti. Con quella che è stata definita una grammatica “realisticamente astratta”, Di Fabio indaga, solitamente, oggetti che esuberano le possibilità percettive dell’occhio umano, come fenomeni subatomici, forme microbiologiche, eventi elettromagnetici, reti neurali o siderali geografie stellari, mostrando, così, le analogie che accomunano le diverse manifestazioni dell’esistenza. I lavori su carta degli inizi degli anni ’90 possono essere letti come un primo tentativo di ristrutturazione del tessuto simbolico della pittura. Le montagne di Di Fabio, dove si avverte la spettrale relazione con i soggetti dipinti da Mario Sironi negli anni Cinquanta, sono, infatti, morfologie naturali che rimandano ai temi “tradizionali” della montagna cosmica e dell’arboreo axis mundi, entrambi raffigurazioni delle possibilità di elevazione spirituale dell’uomo. 

Una pittura concisa, stringata, distillata è quella di Marco Neri, che trasforma memorie e impressioni del vissuto in paesaggi architettonicamente strutturati, dominati da linee e volumi geometrici. La trascrizione del tempo in spazio nei suoi dipinti corrisponde alla formulazione d’immagini essenziali, simili a segnali. “La natura del segnale”, scriveva George Kubler, “è tale che il messaggio convenuto non è «qui» né «ora», ma «là» e «allora»”[9]. Ciò significa che se c’è un segnale, il messaggio è nel passato, ma la sua percezione avviene nel presente. Dipinti come Monologo (2013) o i due acquarelli della serie Passante incrociato (2011), mostrano la distanza che intercorre tra l’impulso iniziale del messaggio, cioè impressioni ed esperienze ricavate dall’osservazione della realtà, e la sua codificazione in immagine. Questa codificazione della ridondanza esperienziale in immagini elegantemente scarne, quasi diagrammatiche, ricorda il processo di riduzione husserliana, un metodo filosofico che, attraverso lo scarto del dato empirico e psicologico, conduce all’essenza dei fenomeni. 

Curioso come la pittura di Daniele Galliano intrattenga un rapporto ambiguo con la realtà. Infatti, se da una parte l’artista ricorre a fonti fotografiche per catturare schegge di vita quotidiana, dall’altra traduce tali spunti in un linguaggio pittorico “low-fi” che Mario Perniola ha definito “iporealistico”, nel senso che opera un downgrade della definizione ottica attraverso la sfocatura delle immagini. Tra l’altro, come asserisce proprio Perniola, “nessuna operazione artistica può più battere l’effetto traumatico o immondo di un reportage fotografico”[10]. Di conseguenza, l’estetica “fuzzy” di Galliano è il risultato di una rimediazione della sorgente fotografica attraverso lo strumento caldo della pittura. Un processo che porta non solo a sostanziare il fantasma dell’immagine mediale nella materia organica e oleosa, ma che, di fatto, produce un radicale stravolgimento del senso dell’immagine stessa. Infatti, alla sottrazione di fedeltà retinica corrisponde un potenziamento del gradiente emotivo e seduttivo che ritroviamo tanto nelle scene collettive con gruppi di bagnanti, quanto nei ritratti di donne colte in momenti d’intimità erotica (o auto-erotica).

La rappresentazione anatomica nella pittura di Nicola Verlato è una forma di possessione dello spirito “classico”, che l’artista adatta a un campionario di nuove iconografie, come uno schema flessibile, infinitamente modulabile. Come avverte Salvatore Settis, “molte apparizioni e riapparizioni del ‘classico’ hanno preso e prendono la forma non tanto della riscoperta, quanto della rinascita o del ritorno, quasi si trattasse di un fantasma dotato di propria volontà e personalità, capace di tornare allo scoperto quando meglio creda”[11]. Ma tale iterazione del classico, che nella produzione di Verlato si avvale dell’interpolazione tra vecchie tecniche artigianali e moderne tecnologie digitali di elaborazione 3D delle immagini, assume anche un valore programmatico. La costruzione anatomica diventa, infatti, il segnale di una concezione che non relega l’arte alla mera produzione di idee, ma reintegra quell’insieme di abilità, perizia professionale e padronanza delle regole del mestiere che gli antichi chiamavano techné. Singolare è, invece, il modo in cui – per esempio in opere come Mishima Seppuku 2 (2021) e Study for “The Settler 2” (2020) – la persistenza del “classico” passi attraverso un immaginario weird, come lo definirebbe Fisher, in cui elementi dell’iconografia pagana e cristiana vengono calati in circostanze e ambientazioni a loro estranee. Si tratta di una dislocazione destabilizzante, che catapulta i tropi classici all’interno di inedite congiunture spazio-temporali.

Nell’arte di Danilo Bucchi lo iato che esiste tra gesto e segno è evidente. Sulla tela, infatti, possiamo leggere solo la traccia, quasi una registrazione di un complesso di azioni. Una traccia è qualsiasi segno lasciato dal passaggio di un corpo su una superficie e un disegno è, indubbiamente una traccia. Ciò significa che l’energia meccanica che l’ha generata (la traccia) è nel passato, nel non più, mentre davanti ai nostri occhi si dipana la sua scia, la cui natura è, ancora una volta, quella di un segnale. Henri Focillon sosteneva che “Quale che sia la forza di ricezione e di invenzione della mente, senza il concorso della mano essa non darebbe vita che ad un tumulto interiore”[12]. Danilo Bucchi ha trovato il modo di trasformare il tumulto in una pittura che è soprattutto una forma di “appropriazione” del mondo. Non si tratta, naturalmente, di una conoscenza razionale, sorvegliata, ma di una esperienza in cui la mano non è la “docile serva della mente”. Un dipinto come Butterfly (2016) si mostra, allora, come il prodotto di due intelligenze, quella contemplativa e quella tattile, che operano congiuntamente. Tutto parte, rubando le parole di Focillon, con “Una linea, un segno sull’aridità del foglio bianco, divorato dalla luce [dove] senza compiacersi in artifici tecnici, senza attardarsi in alchimie complesse, si direbbe che lo spirito parli allo spirito”[13].

Lo spazio cavo del bianco è il locus su cui si dirime l’impronta pittorica di Gianluca Di Pasquale, che in molti dipinti si dà attraverso una micro-gestualità che organizza la presenza antropica sulla superficie di una tela che, stando a quel che dice Gilles Deleuze, è, fin dall’inizio, interamente ingombra di cliché. “Il lavoro del pittore”, sostiene, infatti, il filosofo francese, “consiste nel distruggerli: il pittore deve passare attraverso un momento in cui non vede più nulla, attraverso uno sprofondamento delle coordinate visuali”[14]. Questo momento è, per Gianluca Di Pasquale l’incipit di un processo simile a una disciplina meditativa. Certo, i suoi quadri mostrano letteralmente gli scorci innevati di un paesaggio alpino (L’ultima discesa, 2023), appena segnato dall’esigua presenza di alberi e sciatori, ma possono essere letti anche alla luce di una “dialettica di pieno e di vuoto”[15], dove il vuoto è inteso come uno spazio generativo di epifanie discrete e sommesse apparizioni. La sensazione di silenzio, che molti hanno notato nei candidi landscape di Di Pasquale – e che in qualche modo corrobora l’idea di una pittura misurata, discreta appunto – emana anche dai suoi ritratti, lavori come Felce e fiori (2023) e La cuffia verde (2023) dove la dialettica tra vuoti e pieni appare più bilanciata e dove la figura umana si sostituisce al paesaggio nel divenire ricettacolo di forme ritmiche, pattern che scandiscono, con minuzie esornative, il campo della visione (e del pensiero). 

Vanni Cuoghi intende la pittura come una mise-en-scène, un palcoscenico che ospita una pletora di finzioni, allestite scenograficamente per costruire un mondo che non c’è, un mondo altro, dove le abituali coordinate spazio-temporali sono sospese. In questa serie di lavori, l’atto pittorico è preceduto da un momento costruttivo, in cui l’artista edifica piccole maquette servendosi di materiali di scarto, oggetti, strumenti, periferiche che fanno da sfondo al lavoro di studio. Questi teatri miniaturizzati sono microcosmi metafisici tangibili in cui, come notavo in altre occasioni, si avverte l’irrompere di una dimensione weird, perturbante, che manifesta un’alterità irriducibile di marca quasi lovecraftiana. Proprio Mark Fisher scriveva che “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[16]. Questi surreali assemblaggi sono come cartamodelli dai quali Vanni Cuoghi muove per elaborare una pittura teatralizzata e sfacciatamente artificiale, che smaterializza la dimensione oggettuale del prototipo nella sostanza virtuale dell’immagine. Lo slittamento dall’oggetto alla tela è, però, foriero di conseguenze, perché il dipinto non è mai una mera trasposizione. Opere del ciclo “La messa in scena della pittura”, come ad esempio Night Fever (2021) e Judith (2022), mostrano il carattere pretestuoso del prototipo, rivelando, invece, la natura radicalmente trasformativa del gesto pittorico, che appare come il veicolo più adeguato all’esplorazione di una realtà “fuori di sesto”. 

La potenza metamorfica dell’immagine infesta tutta la pittura di Fulvio Di Piazza, che traduce inquiete morfologie geografiche in perturbanti fisionomie, adattando, così, la lezione di Arcimboldo all’atmosfera apocalittica della fine dell’antropocene, l’attuale era geologica caratterizzata dalle conseguenze ambientali prodotte dall’attività dell’uomo. Potrebbe essere, come già pensava Jurgis Baltrušaitis a proposito dei cicli di corruzione delle forme classiche, che anche la pittura di Di Piazza sia la conseguenza di una stabilità alterata delle grammatiche artistiche, in cui “quando le metamorfosi delle forme e dello spirito scatenano la fantasia e l’immaginazione, ecco che ritroviamo il mostro e la bestia”[17]. I dipinti King of Klan (2017) e Spettro del Reef (2023) non solo mostrano la qualità allucinata delle sue portentose personificazioni, creature mutanti formate da miriadi di concrezioni fossili e agglomerati di organismi viventi, ma offrono anche uno spaccato delle proprietà incantatorie di una pittura rigogliosa, eccedente, dove l’eredità della sensibilità barocca s’innesta sul disturbante immaginario surrealista e, insieme, sulle distopiche visioni della fantascienza popolare.

I dipinti di Elisa Filomena sembrano superfici dilavate dal tempo, abitate da personaggi spettrali, dalla consistenza incerta. Queste figure sottili, quasi di filigrana, sono forse la migliore trascrizione visiva della natura frammentaria delle memorie. Come le memorie, esse hanno, infatti, una forma incompleta, corrotta e un carattere arbitrario che deriva dal desiderio dell’artista di cogliere la qualità impalpabile, essenziale delle immagini. Lo spunto iconografico deriva talvolta da vecchie fotografie dell’Ottocento o degli inizi del Novecento, ma viene poi filtrato da un lungo processo di gestazione pittorica che libera le immagini da ogni scoria accidentale, asciugandole e assottigliandole fino a renderle quasi trasparenti come flebili ectoplasmi. Alla radice di questa prassi hauntologica, c’è l’ambizione di visualizzare la sostanza rarefatta dei ricordi, evanescente come l’eco di una voce registrata su un vecchio nastro magnetico. Figure (2019) e Le muse (2020) sono il prodotto esemplare di una pittura intesa come pratica medianica, capace di evocare in immagini lo spirito di un tempo trascorso e i fantasmi di vite mai vissute.

La pittura di Giuditta Branconi è come una tessitura iconografica organizzata intorno all’armatura della tela. Le immagini, sono, infatti, dipinte su entrambi i lati del supporto, a formare una compatta struttura di trame e orditi visuali che occupano l’intera superficie senza soluzione di continuità. Il risultato di questo procedimento è la creazione di una grammatica esuberante, eccedente, costruita anche attraverso l’affastellamento di disparati codici linguistici, dal tatuaggio alla serigrafia, dall’illustrazione all’ornamento. Si tratta di un approccio cumulativo, che scarta ogni tradizionale gerarchia stilistica per far confluire elementi antitetici in un unico continuum narrativo. In dipinti come Dillo al vento (per Vladimir) e Ancora cieca, la superficie, saturata da una pletora di tropi iconici ed esornativi, si offre allo sguardo dell’osservatore come un vertiginoso sbarramento visivo. Ma è proprio questa plenitudine retinica, questa compattezza ottica dal ritmo ossessivo e incantatorio a rendere la pittura di Giuditta Branconi una sorta di formulario di giaculatorie visive o di moderno grimorio figurato.

Per Giampiero Bodino la costruzione della pittura passa attraverso l’interpolazione e l’alterazione di immagini fotografiche, considerate come parte della moderna dotazione strumentale dell’artista. La trasformazione del lemma fotografico in sintagma pittorico è un atto di fagocitazione mediatica che denuncia la natura onnivora, ma non per questo meno selettiva, della sua prassi artistica. Per Bodino il frammento fotografico, sia esso stampato o dipinto, è parte integrante di una complessa architettura iconografica, che si propone anche come un’interrogazione sul valore delle immagini in quest’epoca di esuberanza mediatica. Per questo, un elemento decisivo della sua pittura concerne la post-produzione, attraverso cui l’artista snatura la fonte fotografica enfatizzando, quasi espressionisticamente, i contrasti luministici. L’immaginario che ne deriva non può che ruotare attorno al tema della memoria, intesa come serbatoio d’immagini alterate, fabbricate e, in un certo senso, “post-prodotte” in forma di ricordi che, come il drammatico ritratto in bianco e nero di Bob Kennedy nel piccolo dittico Presunzione d’innocenza (2023), non corrispondono mai alla realtà. 

Un ritratto pittorico non è mai una mera restituzione dei tratti somatici di un volto, ma piuttosto una sintesi degli elementi sia tangibili che aleatori di una personalità. Lo sapeva bene Fulvia Zambon, che catturava l’anima dei suoi soggetti non solo ritraendoli dal vivo, ma soprattutto costruendosi di loro una precisa immagine mentale, quasi la vista, da sola, fosse uno strumento inadeguato. “Dipingo per me stessa”, diceva, “e per coloro che sanno che la realtà che vediamo non è sufficiente”. Torinese di nascita, ma americana d’adozione, Zambon era stata allieva di Ronald Sherr, celebre ritrattista di entrambi i presidenti Bush e di altri personaggi di spicco della società americana, ma il suo stile si discosta notevolmente da quello paludato e celebrativo del maestro, per la sua capacità di cogliere, in un certo senso, il carattere sovratemporale di certe personalità. L’artista sapeva, infatti, che stare davanti a un quadro non significa solo interrogare l’oggetto dei nostri sguardi ma, come sosteneva Georges Didi-Huberman, “Vuol dire anche fermarsi di fronte al tempo”[18]. Quelli di Monica Lynch(2016) e Sara Schoofs (2017) sono ritratti “fuori flusso”, nel senso che non abitano la realtà del divenire fenomenico, ma piuttosto una dimensione contemplativa, atarassica, non turbata dalle passioni esistenziali. Ed è questa una cosa che solo una pittura autenticamente hauntologica può fare.        


[1] Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, traduzione di Vincenzo Perna, 2019, Minimum Fax, Roma, p. 32.

[2] Ibidem.

[3] Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, a cura di Elio Grazioli, 2012, Abscondita, Milano, ., p. 25.

[4] Ivi, p. 27.

[5] Fulvio Carmagnola, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, 2006, Bruno Mondadori, Milano, pp. 27-28.

[6] Ivi, p. 45.

[7] Fisher, Op. cit., p. 35.

[8] Baudrillard, Op. cit., p. 25.

[9] George Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, 2001, traduzione di Giuseppe Casatello, Einaudi, Torino, p. 25.

[10] Mario Perniola, L’arte espansa, 2019, Einaudi, Torino, p. 29.

[11] Salvatore Settis, Futuro del “classico”, 2020, Einaudi, Torino, p. 9.

[12] Henri Focillon, Elogio della mano, traduzione di Elena De Angeli, in Vita delle forme seguito da Elogio della mano, 2018, Einaudi, Torino, p. 114.

[13] Ivi, p. 121.

[14] Gilles Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, a cura di Ubaldo Fadini, 2002, Ombre corte, Verona, p. 106.

[15] Alberto Mugnaini, Gianluca Di Pasquale. Respirare la pittura, in «Flash Art», marzo/aprile 2015, p. 53.

[16] Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, traduzione di Vincenzo Perna, 2022, Minimum Fax, Roma, p. 10.

[17] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, traduzione di Fulvio Zuliani e F. Bovoli, 1997, Adelphi, Milano, p. 43. 

[18] Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, 2007, Bollati Boringhieri, Torino, p. 16.


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Massimiliano Zaffino. Eventi profondi in superficie.

27 Set

di Ivan Quaroni

Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago, 2020, olio su tela, 125×100 cm.

Commentando il Salon parigino del 1859, Charles Baudelaire affermava che «L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile è una provincia del vero»[1].  Più precisamente, secondo il poeta e critico francese, l’immaginazione «scompone tutta la creazione, e, con i materiali raccolti e disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea un mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo»[2]. In altre parole, essa sarebbe un procedimento insieme analitico e sintetico la cui descrizione coincide sorprendentemente con la metodologia della pratica pittorica, la quale ci restituisce un’immagine trasformata del mondo.

Nel caso della pittura di Massimiliano Zaffino, gli elementi analitici e sintetici della facoltà immaginativa sono all’opera già nella fase progettuale, dove l’appropriazione di differenti fonti fotografiche è sottoposta al vaglio di una lucida prassi combinatoria che mira a ridurne al minimo lo scarto estetico e formale degli accostamenti.

Alla base del suo lavoro c’è il rapporto tra la fotografia e il dipinto, tra la tecnica del fotomontaggio e la pratica pittorica. Le opere di Zaffino nascono, infatti, dall’esplorazione delle potenzialità delle immagini nel fotomontaggio. All’origine, il suo progetto iconografico è ricavato da una crasi di fotografie diverse che, in un secondo momento, la pittura convalida nella forma di immagini uniformemente coerenti. Lui stesso afferma in una recente intervista di aver archiviato un buon quantitativo d’immagini: «mi ri-approprio della realtà altrui (le foto possono essere anche miei scatti) combinando più immagini; il paesaggio che ne risulta modifica la funzione scenica e il valore dello stesso»[3]. Dunque, ciò che al principio è il prodotto di una fusione di punti di vista, prospettive e geografie differenti – vale a dire l’esecuzione di collage come forme progettuali o come opere compiute – raggiunge, con la pittura, una dimensione di ulteriore credibilità proprio in virtù dell’amalgama atmosferico tra i differenti elementi che compongono l’immagine. 

Fiammata insolita non disturba il piacere di una giornata al mare, 2020, olio su tela, 105×120 cm.

Tuttavia, l’attenuazione delle zone di giunzione o di attrito tra i frammenti iconografici non annulla l’effetto collage della sua pittura, ma rende le sue rappresentazioni surreali decisamente più intellegibili. Si tratti di dipinti o di collage, al centro della ricerca visiva di Massimiliano Zaffino c’è sempre il paesaggio. Il paesaggio inteso come possibilità costruttiva, non come documentazione di luoghi reali. 

Pur adottando un linguaggio pittorico apparentemente realistico, l’artista scarta con decisione ogni opzione mimetica per concentrarsi sulla definizione di mondi plausibili. I suoi sono, infatti, luoghi immaginari, ma esplorabili e percorribili con lo sguardo proprio in ragione della loro plausibilità. Non sono geografie totalmente assurde, ma spazi che aprono a una più profonda comprensione delle forme visibili attraverso una fitta rete di corrispondenze tra morfologie differenti.

Quel che in queste immagini appare “fuori posto” – per usare la definizione del termine weird usata da Mark Fisher[4] -, è qui ricondotto alla naturalità dal processo pittorico stesso. Non mi riferisco soltanto alle curiose morfologie che compaiono in molti suoi landscape, come, ad esempio, Tratti irregolari di paesaggio salgono e si uniscono, lontano una strada d’asfalto (2019), Parco costituito da zone alberate, attrezzatura giochi e arco a levitazione laser (2019), Piccola caverna conduce due amanti ad ammirare l’insolito lago (2020) o Forme geometriche rivelano paesaggi a incastro (2018), che sono evidentemente il risultato della combinatoria di luoghi diversi. Alludo, soprattutto, ai magmatici fluidi che attraversano le opere più recenti, da Azione di contenimento di lama fuoco e pratica chiarificazione prerogativa di un mondo dissonante (2021) a Forme di magnetismo cosmico attraversano parco alberato (2021), e alle anomalie atmosferiche che caratterizzano lavori come Meccanismo simultaneo di oggetti luminescenti precipitano da est a ovest (2021), Fiammata insolita non disturba il procedere di una giornata al mare (2020) e, infine, Intrattenimento campestre fatto di ricordi con il ponte luminoso spaziale (2020). 

Nei paesaggi feriali di Zaffino, dove l’umanità è impegnata in attività di svago e di relax, l’irrompere di inaspettati effetti climatici e atmosferici – eruzioni vulcaniche, distorsioni magnetiche, bizzarri fenomeni di rifrazione della luce, vortici fluidi e prodigiose levitazioni – non ha nulla di apocalittico. La destabilizzazione della realtà sembra, infatti, abituale, quasi consuetudinaria. Caos e disequilibrio fanno parte della quotidianità, sono, cioè, fenomeni naturali come gli Iperoggetti teorizzati dal filosofo ecologista Timothy Morton: cose viscose, di singolare grandezza, che esistono su scale temporali che l’uomo non può comprendere, ma di cui subisce comunque gli effetti. Oggetti, insomma, come il riscaldamento globale o le scorie nucleari, il petrolio o la biosfera, le radiazioni solari o i buchi neri, i quali inaugurano una sorta di nuova dimensione masochistica dell’esperienza estetica. 

«Svegliarsi all’ombra degli iperoggetti», scrive Morton, «è come trovarsi in un film di David Lynch in cui diventa sempre più difficile distinguere il sonno dalla veglia»[5]. Qualcosa di simile avviene nella pittura di Zaffino, dove si avverte l’erompere di un’alterità irriducibile, di una esternalità, cioè di qualcosa che proviene da una dimensione altra, estranea, di cui quei bizzarri fenomeni fisici e climatici sono prefigurazione e annuncio. 

Secondo Morton, «l’arte e l’architettura nell’epoca degli iperoggetti devono (automaticamente) includere nel loro regno gli iperoggetti, anche quando questi si dimostrano recalcitranti»[6]. Perciò, il quieto stravolgimento della realtà nella pittura di Zaffino, conseguenza diretta di un’indagine estetica e formale sulle potenzialità combinatorie del collage fotografico, può anche essere interpretato come la visione premonitoria di un futuro più che prossimo in cui ci sembrerà normale ciò che oggi ci appare straordinario.

Questa capacità fittizia di dare corpo con la pittura a una realtà potenziale, ossia la «simulazione trionfante che progettava Baudelaire» [7], è in fin dei conti il nocciolo della questione. L’arte, ammette Baudrillard, «è sempre stata simulacro, ma un simulacro che aveva la potenza dell’illusione»[8]

Massimiliano Zaffino riesce a trasformare la potenza illusoria, che sta alle radici della mimesis pittorica, in qualcosa di sottilmente destabilizzante. I suoi landscape portano il concetto di perturbante nella sfera dell’ordinario e del plausibile e, così, amplificano la nostra percezione e orientano il nostro sguardo verso la comprensione di possibilità inedite. Alcune di queste possibilità hanno l’aspetto di morfologie fantastiche, luoghi che vorremmo aver visitato, altre prefigurano, forse inavvertitamente, la fine di un’era e l’inizio di una serie di accelerazioni catastrofiche. 


[1] Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino, 1992, p. 223.

[2] Ivi, p. 224.

[3] Francesco Mancini, Gli incredibili specchi d’acqua di Massimiliano Zaffino, http://www.artwave.it, 2 marzo 2020.

[4] «È l’irruzione in questo mondo di qualcosa che proviene dall’esterno a fare da marcatore del weird», in Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018, p. 23.

[5] Timothy Morton, Iperoggetti, Nero edizioni, Roma, 2018, p. 197.

[6] Ivi, p. 143.

[7] Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, Abscondita, Milano, 2012, p. 29.

[8] Ibidem.



INFO:

Massimiliano Zaffino. Eventi profondi in superficie

a cura di Ivan Quaroni

Dal 25 settembre al 9 novembre 2021

Area\B, Via Passo Vuole 3, Milano

T. 02 58316316, 3346847606

Manuel Felisi. …e respirare

23 Set

di Ivan Quaroni

La pittura è il fuoco centrale della pratica di Manuel Felisi, la disciplina di costruzione delle immagini da cui in seguito si è sviluppata una ricerca plastica e oggettuale legata, come sappiamo, alla memoria, luogo di convergenza dei processi di conservazione e cancellazione dei ricordi. Infatti, ben prima delle installazioni in cui l’acqua, sotto forma di pioggia o di ghiaccio, assume il ruolo di ricettore mnestico e di sismografo organico di ogni accadimento, la pittura ha fornito all’artista l’opportunità di maturare un proprio linguaggio lirico. 

Tuttavia, parlare di pittura, nel caso di Felisi, significa indicare una somma di procedure ibride e di tecniche spurie che includono, accanto all’atto gestuale del dipingere, l’uso di strumenti reiterativi per produrre pattern ornamentali (come i vecchi rulli per la decorazione d’interni), la scelta di supporti e materiali di origine industriale (come la resina o il feltro) e la stampa d’immagini fotografiche digitalizzate che si imprimono, come sigilli definitivi, sulla massa stratificata dei depositi pigmentali. Il risultato finale è un quadro, e più spesso un polittico, costruito, come i file digitali, per sovrapposizione di più livelli pittorici, ognuno dei quali è l’inconcluso e indefinitivo tassello di un percorso progettuale che si palesa solo alla fine della lavorazione dell’opera. Ciò significa che la pittura di Felisi è anche una forma di design, cioè di progettazione dell’immagine, che non esclude, però, la possibilità di deviare dall’intento originario e di includere la componente erratica della pittura tradizionale. Vale a dire che, in questa versione attualizzata della pittura, in parte figlia della rivoluzione digitale, la componente gestuale, lirica e profondamente umana del dipingere sopravvive nella massa cromatica indifferenziata che costituisce la base su cui si staglia prepotentemente l‘immagine fotografica, quasi scheletrizzata nella forma essenziale della silhouette. 

Sintetizzando, forse un po’ brutalmente, il pensiero di Arthur Schopenhauer, Franco “Bifo” Berardi ha scritto che “il mondo è rappresentazione, in quanto è proiezione di una volontà di rappresentare”[1], e che, in definitiva – sulla scorta di Edmund Husserl, padre della Fenomenologia – “possiamo dire che il mondo è la proiezione di un’intenzionalità che è al tempo stesso trasformazione e rappresentazione”[2]. Ora, che cosa rappresenta (e trasforma) la pittura di Manuel Felisi? 

L’immagine più frequente è la forma arborea, reiterata in una serie di dipinti curiosamente intitolati “Vertigini”. Un albero è un simbolo potente, che dischiude una pletora di significati. Lo ritroviamo, ça va sans dire, in tutte le tradizioni millenarie dei popoli della terra. Ha suggestionato, nei secoli, mistici e sciamani, filosofi, e alchimisti nelle più diverse varianti semantiche, dall’Albero Cosmico all’Asse del Mondo, dall’Albero Rovesciato a quello della Vita, dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male a quello Alchemico, dall’Albero Mistico a quello, più laico, della Libertà. In tutte le sue accezioni l’albero è un pittogramma che allude alla vita (fisica, morale, spirituale) e, dunque, per estensione, alla natura stessa. 

Nei quadri di Felisi, nulla ci vieta di interpretare questa iconografia in tal senso. Ogni immagine è un dispositivo per pensare, che dischiude in ognuno di noi significati che non possono prescindere dal nostro vissuto e dalla nostra esperienza. Personalmente, preferisco non ricorrere alla simbologia e provare a dare una lettura diversa degli alberi di Felisi. Prima di tutto, perché non sono iconografie frontali come nei suoi primi dipinti, ma scorci vertiginosi di rami e fusti. Si chiamano “Vertigini” perché riproducono quel tipico effetto di distorsione rotatoria della percezione visiva che si può avere osservando da sdraiati la fuga prospettica degli alberi. Non è la vertigine che provoca il timore panico di chi guardi verso il basso dal parapetto di un grattacielo o dal bordo di un dirupo. Tecnicamente, è una vertigine anche quella descritta dai dipinti di Felisi, anche se la prospettiva conica, convergente verso il centro perfetto dell’immagine, produce, piuttosto, una sensazione di un moto ascensionale. 

Sarà capitato a tutti, credo, di distendersi su un prato e rivolgere gli occhi al cielo per guardare il firmamento in una notte stellata o per osservare la curiosa forma delle nuvole o per lasciarsi irretire dalla trama capillare delle piante, magari immaginando di riconoscere i lineamenti di un volto o la forma di un oggetto. La chiamano paraeidolia, questa tendenza inconscia e automatica a trovare strutture ordinate e riconoscibili in forme apparentemente caotiche. Ma non è questo il punto. Il punto, semmai, è capire perché l’artista abbia scelto proprio questo scorcio, questo modo di vedere dal basso verso l’alto. Un modo che, se ci pensate, è il contrario della vertigine generata dall’altitudine, ma è anche, in senso lato, opposto rispetto a un certo modo altero di guardare la vita, le situazioni, le persone (cioè, dall’alto in basso, con sussiego, boria, sufficienza). Guardare dal basso in alto, significa relativizzarsi, ricondursi alla giusta misura e, insieme, accorgersi della vastità che ci circonda, della plenitudine che ci comprende. Insomma, quel che si prova nelle “Vertigini” è una sorta di rovesciamento del sublime kantiano, categoria estetica simbolizzata dal celebre dipinto di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (1818), con cui solitamente si spiega, forse un po’ didascalicamente, il contrasto tra l’individuo e le imponenti forze della natura e la conseguente scoperta della superiore dimensione morale dell’uomo. Ecco, in tal senso, queste immagini potrebbero essere considerate come un antidoto alla vecchia etica illuminista, con la sua esasperata visione antropocentrica del cosmo. Qui, infatti, non troviamo l’immagine di un uomo sulla vetta di un’altura, intento a contemplare (e dominare!) lo spettacolo della natura, ma un punto di vista zenitale, che inquadra, perpendicolarmente, la porzione di universo sovrastante. È una differenza che produce un significativo slittamento di senso, uno scarto ontologico che piacerebbe ai seguaci della OOO (Object-Oriented Ontology), “un movimento filosofico che”, come afferma Timothy Morton, “sposa una particolare forma di realismo e assieme a questo un pensiero non antropocentrico”[3] che affonda le radici nella certezza della futura estinzione dell’uomo e che, di conseguenza, si propone di indagare le relazioni tra tutti gli oggetti, siano essi naturali, artificiali, umani o non-umani. 

Accanto a questa lettura delle “Vertigini” vorrei suggerirne un’altra, forse meno peregrina della precedente, ma nondimeno suggestiva. L’atto preliminare che ci porta a adottare lo sguardo zenitale delle “Vertigini” è radicale, rivoluzionario come la pratica del vagabondaggio o le tecniche comportamentali del Situazionismo. Si può considerare un gesto politico, di critica alla società. Sdraiarsi su un prato a guardare le cime degli alberi è come girovagare per la città senza una meta precisa. È una “situazione” che fuoriesce dallo schema vizioso del capitalismo avanzato, oscillante tra produzione e consumo, esattamente come il concetto di deriva situazionista, che si presentava come una tecnica di veloce passaggio attraverso gli ambienti urbani. “Nostra idea centrale”, scriveva Guy Debord, teorico dell’Internazionale Situazionista, “è quella della costruzione di situazioni: vale a dire la costruzione concreta di scenari momentanei di vita e la loro trasformazione in una qualità passionale superiore”[4].  Esattamente come l’azione deliberata e gratuita cui ci rimandano le “Vertigini” di Manuel Felisi, le quali, peraltro, dimostrano che l’arte è un potentissimo strumento di emancipazione personale. Se io avessi in casa uno dei suoi quadri lo considererei non solo un dispositivo per la contemplazione, ma un promemoria per l’azione. Mi ricorderei, per esempio, come fosse una norma d’igiene spirituale, di trovare il modo di sottrarmi di tanto in tanto al mondo, di fare una passeggiata solitaria nella natura, distendermi su un prato, osservare l’ipnotico ordito dei rami … e respirare.


[1] Franco “Bifo” Berardi, Futurabilità, 2019, Nero edizioni, Roma, p. 87.

[2] Ibidem.

[3] Timothy Morton, Iperoggetti, 2018, Nero edizioni, Roma, p. 12.

[4] Guy Debord, Rapporto sulla costruzione delle situazioni, citato in Edmund Berger, Accelerazione. Correnti utopiche da Dada alla CCRU, 2021, Nero edizioni, Roma, p. 36. 


INFO:

Manuel Felisi. … e respirare

a cura di Ivan Quaroni

Fabbrica Eos Gallery, viale Pasubio, angolo via Bonnet 
Milano – Tel. 02 6596532

Giovedi 23 settembre – Sabato 23 ottobre 2021

Lo strano e l’inquietante. La demondificazione nell’arte di Vanni Cuoghi

20 Lug

di Ivan Quaroni

 

Spesso le sue opere assumono (letteralmente) l’aspetto di vere e proprie scatole narrative in cui stranianti paesaggi sono compressi dentro una cornice spaziale rigidamente codificata che somiglia al palcoscenico di un teatro miniaturizzato. In questa pittura oggettuale, fatta non solo di elementi grafici, ma di collage e carta intagliata, l’artista cristallizza gli episodi apicali di un racconto aperto, suscettibile di molteplici interpretazioni. Un uguale procedura compare anche nei dipinti di scala monumentale, come ad esempio la grande tela intitolata Le due verità (2017), dove sono le figure stesse a diventare ricettacoli di storie, accogliendo nel proprio corpo, o meglio nelle pieghe dei loro sontuosi e ipertrofici abiti, episodi narrativi che rimandano agli stilemi rappresentativi dei bassorilievi tardo-antichi o, addirittura, dei codici miniati medievali.  

Questi oggetti sono, in effetti, dei bozzetti progettuali, allestimenti scenici che rivelano i meccanismi associativi dell’artista. Non sono ancora opere, ma studi tridimensionali che, solo successivamente, si trasformano in dipinti su tela o in opere che combinano la pittura con la tecnica del paper cutting, l’antica arte psaligrafica d’intagliare la carta per ottenere forme e figure leggibili.

Si può dire, con un certo grado di approssimazione, che l’arte contemporanea sia caratterizzata dal ricorso sistematico a tecniche di appropriazione di materiali estranei alla tradizione artistica. Nello specifico caso di Vanni Cuoghi, l’appropriazione assume la forma del bricolage. Il bricoleur, secondo Claude Lévi-Strauss, “è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto; il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè ad un insieme via via «finito» di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto in particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti”[1].

Se questo è il meccanismo procedurale usato dall’artista, il risultato che ne sortisce è qualcosa di sottilmente perturbante. In passato, nelle mie numerose letture critiche del lavoro di Cuoghi, ho utilizzato l’aggettivo “bizzarro”. C’è, però, un termine inglese che è forse più appropriato: weird. Le traduzioni di weird proposte dai dizionari includono i significati di “bizzarro”, “strano”, “strambo”, “assurdo”, “misterioso”, mentre lo scrittore e critico culturale inglese Mark Fisher ne ha fornito una descrizione più accurata secondo la quale weird indicherebbe ciò che è fuori posto, ciò che non torna. 

Nei dipinti del ciclo “La messa in scena della pittura” il paesaggio ricavato dal montaggio di frammenti di realtà è evidentemente una congerie di oggetti fuori posto, come pezzi di legno schermi di PC portatili o archi a tutto sesto spuntati dal nulla. Tuttavia, tale paesaggio è anche una morfologia dissestata, in cui gli elementi naturali non obbediscono più né alle leggi gravitazionali né a quelle climatiche e dove, ad esempio, deserti e montagne innevate coesistono con alberi mostruosamente fioriti. “La forma artistica che è forse più appropriata al weird”, scrive Fisher, “è quella del montaggio – la combinazione di due o più elementi che non appartengono allo stesso luogo[2]. Da qui deriverebbe, secondo il critico inglese, la fascinazione per il weird da parte del Surrealismo “che interpretava l’inconscio come una macchina per il montaggio cinematografico, un generatore di accostamenti bizzarri”[3] 

Nella serie dei “Fondali oceanici”, caratterizzata dalla combinazione di pittura e paper cutting, il montaggio di cose fuori postoè più chiaramente leggibile. Le creature marine sorvolano paesaggi terrestri che sorgono, letteralmente, da una sorta di sottomondo su cui lasciano impressa la propria traccia negativa, l’inquietante evidenza di un’assenza, l’ombra, insomma, di una sparizione che secondo la grammatica di Fisher dovremmo definire con un altro termine intraducibile: eerie

Eerie indicherebbe un fallimento di assenza o un fallimento di presenza, vale a dire una sensazione che si verifica “quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente quando dovrebbe esserci qualcosa”[4]. Come avviene, ad esempio, con le creature marine fluttuanti nel cielo o con il vulnus prodotto dalla sollevazione del paesaggio.  

Nella pittura di Vanni Cuoghi l’immagine è costruita come una finzione, una costruzione apparentemente confortevole in cui s’insinuano gli spettri del weird e dell’eerie. Non è tanto la loro smaccata natura di “artefatti” a produrre la strisciante sensazione che qualcosa non torni, ma la loro pretesa simulazione del “mondo”. Laddove “mondo” significa, secondo l’accezione latina locus mundus, un luogo pulito, chiaro, visibile (e intellegibile) per l’uomo. Il mondo non coincide con un habitat, come la Terra con le sue variegate specie di organismi viventi, ma è piuttosto un ordine, un kósmos a misura d’uomo. Le opere di Cuoghi scardinano questa concezione attribuendo all’uomo un posto tra le cose, trasformandolo in un ente tra altri enti che, dunque, non ha più alcuna preminenza. Qual è, infatti, il ruolo degli uomini nelle sue opere? Sono spettatori? Sono testimoni? Non sono certamente i protagonisti di queste mise en scene. Sembrano piuttosto presenze aliene in un universo alieno. Sono, in effetti, sagome ritagliate come ogni altro elemento oggettuale, una morfologia tra altre morfologie. 

Quel che Mark Fisher scrive a proposito della sensazione di weird generata dal romanzo Tempo fuor di sesto di Philp K. Dick, pubblicato nel 1959, vale anche per il meccanismo di bricolage con cui Cuoghi trasforma il mondo realistico in un “non mondo”: “Una volta declassato a simulazione, il mondo realistico non appare soltanto infranto, quanto piuttosto cancellato”[5]. Quel che Cuoghi mette in atto è un processo di demondificazione, cioè la decostruzione dell’idea di “mondo” come insieme di semantiche fondative e come base di autenticazione del reale. Tanto i paesaggi “messi in scena” quanto i “Fondali oceanici” annullano il concetto di “mondo” come costrutto ontologico stabile, spalancando la visione sull’abisso di un universo alienonon familiare, del tutto indifferente alla nostra esistenza e al nostro sistema valoriale. Qui non si tratta più di affermare, come facevano i surrealisti, l’erompere dell’unheimlich, del Perturbante freudiano, che starebbe ancora nei confini del “mondo”, ma di avvertire la possibilità di una realtà altra, estranea, che invera non solo la fine dell’antropocentrismo, come si augurano gli esponenti del cosiddetto Realismo speculativo, ma che prefigura addirittura quel “mondo senza l’uomo” che oggi appare a molti pensatori contemporanei come una possibilità più che concreta. 

Se il proposito dichiarato di Cuoghi era di svelare con queste opere i dispositivi associativi che presiedono alla costruzione della sua pittura, mostrandone peraltro il carattere metalinguistico, l’effetto inatteso è stato, invece, di aprire una crepa nel suo linguaggio figurativo. Da quella fenditura sono emersi i contorni di una autentica esternalità, di un mondo strano e sconosciuto che esercita una potente forza attrattiva proprio nel momento in cui promette di rendere antiquato ogni appagamento derivante dalla visione di ciò che è normale e convenzionale. Non è ancora l’Esterno infestato dall’ombra di cui scrive Lovecraft in una lettera del 1927 al direttore di Weird Tales, “in cui dobbiamo ricordarci di lasciare sulla soglia la nostra umanità e il nostro essere terrestri”[6], ma è il limbo che ci prepara a entrare in quell’irriducibile alterità.  


[1] Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il saggiatore, Milano 1964, pp. 30-31.

[2] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[3] Ibidem

[4] Ivi, p. 72.

[5] Ivi, p. 57.

[6] Mark Fisher, Op. cit., pp. 23-24.


INFO:

Titolo SUBMARINER

Artista VANNI CUOGHI

a cura di Nicoletta Castellaneta e Ivan Quaroni

Sede Acquario Civico di Milano – Viale G. Gadio 2, Milano – M2 Lanza

Tel. 02 88 46 57 50 

Apertura dal 14 luglio al 12 settembre 2021

Orari martedì – domenica ore 10 – 17.30 (ultimo ingresso ore 17, con biglietto). Chiusura biglietteria ore 16:30. Lunedì chiuso

Biglietti d’ingresso 5.00 euro intero, 3.00 euro ridotto, la visita alla mostra è compresa nel biglietto d’ingresso all’Acquario. 

Informazioni Acquario giorni e orari di apertura, modalità d’accesso 

http://www.acquariodimilano.it

Prenotazione gratuita e biglietti acquistabili su:

http://www.museicivicimilano.vivaticket.it

Informazioni mostra OPERA d’ARTE 

Tel. 02.45487400

Italian Newbrow. Genealogia culturale di un’esperienza

11 Giu

di Ivan Quaroni

Vanni Cuoghi, Under blood red sky, (La messa in scena della Pittura 02), 2019, acrilico e olio su tela, cm45x45

Italian Newbrow è un termine piuttosto curioso. Sono stato più volte rimproverato, perfino dagli artisti che hanno aderito a questo progetto, di aver scelto un nome che sarebbe risultato incomprensibile al pubblico italiano. Avevano naturalmente ragione! E la prova evidente sta nelle molteplici deformazioni che del nome sono state fatte dai giornalisti più disattenti, per non dire dislessici: Nebrown (nuovi marroni?), Newborn (neonati?), Newboh (bho!, appunto). In effetti, Newbrow è una parola inglese difficilmente traducibile nella nostra lingua, che è intimamente legata agli sviluppi di un fermento artistico di matrice americana, quella che viene chiamata Lowbrow Art, ma che è conosciuta anche con il più fortunato nome di Pop Surrealism. Il significato letterale della parola Brow è “ciglio” o “fronte”, cioè due elementi anatomici, ma il suo senso cambia notevolmente se associato ad altre parole. Lowbrow, ad esempio, si riferisce, nella cultura pop, a qualcosa che è privo di gusto, di intelligenza, di raffinatezza. Insomma, a qualcosa che è considerato intellettualmente inferiore come, talvolta, sono state considerate le produzioni plastiche e pittoriche degli artisti pop surrealisti americani che si sono ispirati a fonti triviali e corrive della cultura di massa quali il fumetto, l’illustrazione, i cartoni animati, le vecchie serie televisive, i B-movie di genere horror e fantascientifico. Il termine Pop Surrealism è stato introdotto proprio perché molti degli artisti che appartenevano a quella compagine non si riconoscevano nell’accezione negativa del termine Lowbrow, che invece era orgogliosamente rivendicato da coloro che provenivano dalle esperienze della Custom Culture, del tatuaggio o dei comic book. 

Il motivo per cui, a un certo punto, decisi di adottare questa terminologia per definire quanto stava facendo in pittura un gruppo di artisti che operava soprattutto a Milano, è molto semplice: tra il 2005 e il 2007 eravamo tutti interessati al Pop Surrealism. Anche se alcune gallerie, come la bolognese Mondo Bizzarro, avevano già fatto da apripista, era solo da qualche anno che iniziavano a filtrare attraverso la stampa notizie relative a questa nuova tendenza pop che aveva caratteristiche del tutto diverse rispetto alla Pop Art di Warhol e Lichtenstein, come pure al New Pop di Jean-Michel Basquat, Keith Haring, Ronnie Cutrone o Kenny Scharf. 

Giuliano Sale, Private Rave in my Living Room, 2021, olio su tela, cm. 130×110

L’influsso del Pop Surrealism si mescolava e si confondeva, peraltro, con quello proveniente dalle similari, ma non identiche, esperienze degli artisti giapponesi Superflat, da Takeshi Murakami a Yoshitomo Nara, da Aya Takano a Chiho Aoshima, che avevano traslato il linguaggio dei manga e degli anime nell’arte contemporanea. 

Questo riversamento magmatico d’immagini semplici e immediate, ma anche seducenti e affascinanti, aveva irretito non solo la mia attenzione, ma anche quella di amici artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Michael Rotondi, Michela Muserra, Massimo Gurnari, Giuliano Sale e Silvia Argiolas, con i quali avevo già avuto modo di collaborare in differenti occasioni espositive. Tuttavia – ne sono certo -, questa nuova sottocultura pop cominciava a fare breccia nelle menti e nei cuori di molti altri artisti sparsi nella penisola. All’interno del nucleo di artisti che in seguito avrebbero preso parte alle iniziative di Italian Newbrow, non tutti, per la verità, condividevano questa entusiastica curiosità verso le nuove tendenze Pop, che contrastavano la convenzionale coolness intellettualistica dell’arte concettuale per aprire il campo a un pubblico più vasto e variegato. Artisti come Paolo De Biasi, Eloisa Gobbo e Fulvia Mendini rimasero sempre sostanzialmente estranei a tale influsso, sebbene usassero un linguaggio pittorico che presentava molte analogie con quel tipo di influenze. Inoltre, noi tutti eravamo cresciuti nei primi anni Duemila in un clima artistico dominato dalla cosiddetta Nuova Figurazione, un raggruppamento davvero composito di esperienze artistiche che era stato alacremente sostenuto e propagandato dai critici Alessandro Riva e Maurizio Sciaccaluga sulle pagine della rivista “Arte” e in numerose mostre in spazi pubblici e in gallerie private. Il tratto comune degli artisti neofigurativi era il ricorso a linguaggi narrativi, le cui grammatiche spaziavano dalle forme più realistiche a quelle più fantastiche e che prevedevano, talvolta, il saccheggio d’immagini d’origine mediatica (cinema e televisione) o di derivazione letteraria, fumettistica e illustrativa. 

La mostra cardine di quella frastagliata compagine fu Sui Generis, curata nel 2001 da Alessandro Riva al PAC di Milano con la precisa volontà di mostrare come la cultura di massa avesse plasmato l’immaginario di molti artisti (soprattutto pittori) nati tra gli anni Sessanta e Settanta. Posso affermare che il mio gusto si formò tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio sulla visione, talvolta anche scettica, di quel genere di arte. 

Fulvia Mendini, Madonnina della pera, 2016, acrilico su carta, cm 38 x 28

Per chi, come me, scriveva recensioni di anemiche mostre concettuali sulle pagine di “Flash Art”, la Nuova Figurazione rappresentava non solo una specie di guilty pleasure, ma una risposta diretta, per quanto scomposta e disordinata, all’atteggiamento snob di molta arte contemporanea, percepita come un’esoterica conventicola di affiliati che dialogavano tra loro e con i collezionisti in un linguaggio criptato, volutamente oscuro ed enigmatico. Si può dire che la Nuova Figurazione sia stata la prima forma di Lowbrow Art italiana, anzi, la prima effettivamente Newbrow, capace di contaminare l’alto col basso, il popolare con il colto, l’accademico con l’antiaccademico. 

Prima che nascesse la definizione Italian Newbrow, il gruppo di artisti con i quali ero entrato in contatto a Milano, aveva, dunque, un retroterra culturale che rispondeva favorevolmente ai segnali delle nuove sensibilità pop provenienti dagli Stati Uniti e dal Giappone. Tra il 2004 e il 2007, grazie all’intensificarsi delle opportunità espositive e delle occasioni di frequentazione, si crearono tra noi legami sempre più stretti, basati non tanto su un programma artistico condiviso, ma su una comune attitudine a privilegiare un’idea di arte immediata e comprensibile, contaminata dalla cultura di massa e dunque accessibile a un pubblico più ampio di quello tradizionalmente elitario del modo dell’arte. Non eravamo i primi a porci il problema dell’accessibilità dei linguaggi artistici, ma appartenevamo, forse, a una generazione che avvertiva con più ansia e trepidazione l’urgenza dei cambiamenti della società del tardo capitalismo, in particolare dopo lo shock dell’11 settembre e l’accelerazione dei fenomeni di globalizzazione economica. 

Personalmente, la lettura di Zygmunt Bauman, con la sua apocalittica, ma profetica, descrizione del Mondo liquido – una società moderna in cui i cambiamenti tecnologici e sociali sono più rapidi della nostra capacità di sopportarli -, mi aveva convinto che le uniche forme d’arte che avrebbero potuto interpretare la cataclismatica velocità di tali mutamenti, sarebbero state quelle che avessero saputo mutuare la semplicità e l’immediatezza comunicativa da altre forme espressive come il fumetto, l’illustrazione, il videogame, il cinema, la televisione e soprattutto il web. 

La riflessione sulla Google Generation, derivata forse dalla lettura di un articolo di Luca Beatrice, mi aveva definitivamente persuaso che il vecchio atteggiamento elitario, inaccessibile e astruso dell’arte contemporanea sarebbe presto caduto sotto i colpi della rivoluzione digitale. Per me e per gli artisti con i quali collaboravo la semplicità e la comprensibilità erano valori che la pittura doveva combinare con un intenso, gioioso, sfrontato e qualche volta drammatico vitalismo. 

Silvia Argiolas, La rossa, 2021, tecnica mista su tela, 80×60 cm

Nella formazione della mia sensibilità critica era anche l’unico modo per combinare il pessimismo di Bauman con la filosofia espansiva e appunto vitalistica di un nietzschiano eretico come Franco Bolelli, alla cui lettura ero stato introdotto da Paolo De Biasi, artista che ha avuto un ruolo importante nell’elaborazione teorica di Italian Newbrow. 

La necessità di dare un nome a questa nuova attitudine pittorica si scontrava, però, con la mia ritrosia a etichettare quella che ritenevo essere più una sensibilità che un linguaggio coerente e a presentarmi come guida teorica di un gruppo di artisti stilisticamente troppo variegato. D’altra parte, pur convinto che il tempo dei gruppi e dei manifesti fosse finito da un pezzo, prendevo atto del fatto che le novità più interessanti in pittura provenivano proprio da quegli artisti americani e giapponesi che erano stati capaci di “fare squadra”, proponendosi come un fronte compatto, tenuto insieme da una comune volontà nell’affrontare i problemi della rappresentazione pittorica nella società liquido-moderna.

Furono le pressioni di alcuni artisti e una circostanza fortuita a obbligarmi a decidere. L’occasione si presentò quando Giancarlo Politi visitò la mia mostra milanese Beautiful Dreamers[1], una collettiva che includeva una serie di opere di surrealisti pop americani, artisti giapponesi superflat e pittori neopop italiani. Fu allora, infatti, che il direttore e fondatore di «Flash Art» mi invitò – per la verità un po’ titubante – a curare una parte della sezione italiana della IV Biennale di Praga nel 2009, dandomi così modo di presentare le ricerche di alcuni degli artisti con cui lavoravo da tempo. 

Il nome Italian Newbrow saltò fuori, nella fretta di dover decidere un titolo per la mostra di Praga, durante una discussione con Giuseppe Veneziano e Vanni Cuoghi nello studio di quest’ultimo in via Rucellai. Mi sembrò adatto soprattutto perché univa il background italiano neofigurativo con l’eccitazione generata dal fermento Lowbrow americano. Conteneva un richiamo a quell’esperienza della West Coast americana e, allo stesso tempo, rivendicava anche il genoma fondamentalmente italiano del gruppo

Oltre alla Nuova Figurazione italiana, al Pop Surrealismo californiano e al Superflat giapponese, altri stimoli e sollecitazioni plasmarono la variegata identità artistica di Italian Newbrow: il cosiddetto New Folk newyorkese e la pittura della Nuova Scuola di Lipsia, che declinavano l’immediatezza e la forza comunicativa del Post-Pop in forme e direzioni meno convenzionali.

Laurina Paperina, Atomic Bomb, acrilico su tela, cm 120×170

Nel 2006 ricordo di aver letto un interessante articolo di Luca Vona[2] che raccontava l’emergere a New York – dopo lo shock dell’undici settembre -, di un’arte che tornava alla dimensione lirica del quotidiano, ad atmosfere più quiete e feriali ispirate all’arte folk, ai pittori autodidatti, agli artisti della domenica. Artisti come Marcel Dzama, Amy Cutler, Jules De Balincourt, Jockum Nordström, tutti di stanza a New York, dipingevano, infatti, con un linguaggio fiabesco vicino alle illustrazioni dei libri per bambini scene apparentemente rassicuranti che adombravano contenuti perturbanti. 

Questo nuovo Folk rappresentava la dimensione umbratile, lirica, intimistica, ma anche più drammatica, del Pop. Pop e Folk coglievano due aspetti dell’arte popolare, la matrice urbana e quella pastorale, quella mediatica e quella ancestrale, quella estroversa e quella intimista. Il New Folk era, insomma, la versione timida, diaristica, sognante, ma anche destabilizzante, del Pop e, perciò, all’indomani della nascita del progetto Italian Newbrow, mi era sembrato necessario aprire le fila del gruppo ad artisti come Silvia Argiolas, Elena Rapa, Marco Demis, Alice Colombo, Cristina Pancini, Diego Cinquegrana, Daniele Giunta e Mirka Pretelli che ampliavano notevolmente quella iniziale indicazione di semplicità e immediatezza della pittura dell’era liquido-moderna. 

La conoscenza diretta dell’arte folk fu un’esperienza collettiva e rivelatoria che si consumò negli anni tra il 2009 e il 2011 durante le nostre annuali visite all’Armory Show di New York. La scoperta dell’American Folk Art Museum, che allora si trovava proprio accanto al MoMA, ci rivelò le fonti d’ispirazione di quella nuova sensibilità artistica promossa, appena l’anno prima del nostro arrivo nella Grande Mela, dalla mostra Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger[3]

Henry Darger era una figura di artista outsider nato a Chicago nel 1892, che era stato l’autore di un voluminoso manoscritto di oltre quindicimila pagine e trecento illustrazioni intitolato The Realms of Unreal, scoperto solo dopo la sua morte avvenuta nel 1973. The Realms of Unreal è una storia folle che racconta le avventure delle figlie di Robert Vivian, sette sorelle principesse della nazione cristiana di Abbiennia, che partecipano a una eroica ribellione contro un regime di sfruttamento schiavistico dei bambini imposto dai generali “Glandeliniani”, una versione fascista dei soldati Confederati della Guerra Civile Americana. L’ immaginario di Darger, fiabesco e insieme disturbante, ha affascinato non solo artisti, ma anche scrittori, poeti e registi contemporanei. 

Nel 2006, due anni prima di imbattermi nella figura di Henry Darger, avevo curato una mostra intitolata Back to Folk[4], in cui erano esposte opere di Marcel Dzama, Raymond Pettibon, Vanni Cuoghi, Enrico Vezzi e Matteo Fato, che, pur con le dovute differenze, mi sembravano condividere una comune temperatura emotiva, una specie di fondo oscuro e passionale che trapelava, attraverso una delicata trama disegnativa, in immagini ambigue o sconcertanti. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, cm. 100×70

L’ultimo tassello di questa genealogia culturale di Italian Newbrow è, come ho accennato, costituito dalla curiosità verso le espressioni pittoriche provenienti dall’est Europa, o meglio, dall’area della ex DDR, cioè quella che era, prima della caduta del muro di Berlino, la Repubblica Democratico Tedesca. La cosiddetta Neue Leipziger Schule, che comprendeva una pletora di artisti che avevano studiato nell’Accademia di Belle Arti della città sassone e che emersero, come gruppo, attraverso una serie di mostre in Europa e negli Stati Uniti nei primi anni Duemila. Pittori come Neo Rauch, Matthias Weischer, Tim Eitel, David Schnell, Tilo Baumgartel e Christoph Ruckhäberle ci avevano stregato per quella combinazione di abilità tecniche e figurazione fantastica in cui sopravvivenze dell’arte del Novecento, tra Realismo Magico, Metafisica e Nuova Oggettività, si fondevano con una nuova sensibilità figurativa, capace di condensare la narrazione in una rappresentazione simultanea e sintetica di episodi visivi, spesso straniante e destabilizzante. Ad eccezione di Paolo De Biasi, il più continentale e mitteleuropeo, dunque più sensibile e attento alle evoluzioni della pittura d’oltralpe, per gli artisti Newbrow la Scuola di Lipsia fu una passione intellettuale, un esempio di come un gruppo compatto, appoggiato dai media e da una rete di gallerie, musei e istituzioni, potesse affermarsi sulla scena internazionale dell’arte. Ancora adesso, la nostra ammirazione per i colleghi tedeschi è incondizionata, ma la verità è che lo specifico genoma italiano del Newbrow ha sempre avuto la meglio sulle nostre passioni e curiosità. Nonostante le evidenti aperture globaliste, Italian Newbrow è stata un’esperienza maturata sul suolo italico, nel contesto di una cultura che guardava fuori dai propri confini geografici per ridefinire le proprie fondamenta in un complesso, spesso difficile, rapporto tra attualità e tradizione, tra identità ed extraterritorialità, tra retrospezione e visionarietà. 

L’arte di Italian Newbrow è infestata dagli spettri del passato, dai fantasmi della tradizione, ma è anche percorsa da una vena di traiettorie iperstizionali, di futuribili precognizioni[5] e di immersioni nella realtà ambigua e inafferrabile del presente. L’elemento citazionistico nei lavori di Giuseppe Veneziano, Paolo De Biasi, Vanni Cuoghi e Giuliano Sale, non assume mai il carattere sfacciato di un anacronismo necrofilo e mortuario che è, sorprendentemente, quello che un pubblico pigro e indolente, sovente straniero, associa alla nostra tradizione artistica. I riferimenti, le allusioni, i rifacimenti alla storia aurea della pittura italiana o europea sono sempre filtrati dall’ironia, alterati da una memoria labile, scomposti tra le pieghe di un linguaggio mutante, ibrido, in costante oscillazione non solo tra passato e presente, ma anche tra realtà e fiction. 

Le polarità espressive all’interno del gruppo sono, inoltre, esasperate dalla coesistenza di linguaggi chiari, intellegibili, narrativi, come quelli di Laurina Paperina, Fulvia Mendini, Vanni Cuoghi e Giuseppe Veneziano, e di grammatiche più ambigue ed elusive, come quelle di Giuliano Sale, Silvia Argiolas e Paolo De Biasi, che resistono a ogni fascinazione mediatica e sostituiscono la linearità del racconto con libere associazioni di tropi e figure. E tuttavia i confini tra i vari stilemi all’interno della compagine non sono mai definitivi. Non esiste nell’Italian Newbrow qualcosa di simile all’ala destrae all’ala sinistra della Neue Schlichkeit. Ci sono influssi pop e impulsi folk, tentazioni metafisiche e umori espressionistici, richiami alla cronaca ed evasioni fantastiche, allusioni alla musica rock e alla mass culture e richiami all’arte, alla poesia o al cinema d’autore. Per questo risulta impossibile “compartimentare” ogni singola tendenza. Se al criterio di intellegibilità pop sostituiamo, per esempio, il gradiente d’intensità espressiva gli schieramenti cambiano. Una ipotetica linea freddapotrebbe comprendere i lavori di Mendini e Veneziano, ironici, ma privi di gestualità e grumi emotivi, mentre una linea calda includerebbe le opere pur diversissime tra loro di Argiolas, Sale e Laurina Paperina, in cui l’elemento ironico s’innesta su una matrice più gestuale, magmatica, libera. Tra queste due linee, a giudicare dai recenti esiti delle loro ricerche, dovrebbe frapporsi una linea mediana, in cui rientrerebbero le sospensioni metafisiche di Cuoghi e De Biasi dai modi espressivi più temperati. Insomma, nel tentativo di definire i diversi orientamenti all’interno di Italian Newbrow, ci si trova costretti ad ammettere che è sufficiente variare il criterio per ottenere linee e tendenze ogni volta diverse. Questa varietà formale, di per sé in continuo mutamento, si è accentuata nel corso del tempo. Come è ovvio che sia, ciascun artista ha proseguito la propria ricerca, talvolta ampliando il proprio campo d’azione dalla pittura alla scultura fino all’installazione, talaltra maturando, anche in modo radicale, il proprio linguaggio visivo. Italian Newbrow non è mai stata un’entità stabile, né nella componente puramente numerica dei suoi membri, né, appunto, nelle grammatiche espressive. D’altra parte, è un’entità figlia della società preconizzata da Bauman. Come scrivevo nel 2012, Italian Newbrow “è uno scenario artistico in continua evoluzione, che incarna il mutato clima della società liquido-moderna e, allo stesso tempo, sanziona la nascita di una nuova attitudine, […] una condizione mentale, un mood emotivo e spirituale, generato dai recenti mutamenti tecnologici e culturali”[6].

A distanza di dodici anni dalla nascita del progetto, si può dire che le cose stiano ancora così, sebbene l’accelerazione dei mutamenti tecnologici sia stata più rapida del previsto. Spero che gli artisti Newbrow continuino a evolversi per comprendere il senso di questa condizione di perpetua transizione. Una condizione che, dopotutto, appartiene alla dimensione biologica della vita stessa, con le sue costanti mutazioni e trasformazioni.


NOTE

[1] Ivan Quaroni (a cura di), Beautiful Dreamers, 1° dicembre 2008 – 13 febbraio 2009, Angel Art Gallery, Milano. 

[2] “Fortemente radicato nella cultura popolare, a tal punto da evocare gli stilemi dei “pittori della domenica”, è il New Folk, tendenza di punta della nuova figurazione americana. Mescolando sapientemente cultura “alta” con elementi vicini alla sensibilità popolare, il New Folk riesce a parlare a tutti in un linguaggio di facile comprensione. Differentemente dalla Pop Art, vengono richiamate non tanto le icone della cultura di massa, quanto piuttosto la sua stessa capacità di esprimersi attraverso codici semplici, a volte banali, e di rappresentare un mondo altrettanto semplice e -apparentemente- “banale”: quello delle persone a cui si rivolge. La naiveté dei dipinti folk è un mezzo per veicolare contenuti morali (non più solo di critica verso la società dei consumi, come accadeva nella Pop Art) che celebrano l’eroismo e la bellezza della dimensione feriale dell’esistenza, delle piccole azioni di ogni giorno, contrariamente a quell’estetica dello shock che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’arte e non solo”. Luca Vona, New York, New Folk, «Exibart», 19 settembre 2006.

[3] Brook Davis Anderson (a cura di), Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger, 15 aprile – 21 settembre 2008, American Folk Art Museum, New York. 

[4] Ivan Quaroni (a cura di), Back to Folk, 1° dicembre 2006 – 3 marzo 2007, Daniele Ugolini Contemporary, Firenze.

[5] Si vedano, ad esempio, le creature post-organiche fabbricate da Diego Dutto pubblicate in: Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow. Cattive compagnie, 8 agosto – 2 settembre 2012, Fortino, Forte dei Marmi (MC).

[6] Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow, 11 febbraio – 25 marzo 2012, Pinacoteca civica Palazzo Volpi, Como.


INFO:

Italian Newbrow

a cura di Valerio Dehò e Ivan Quaroni

Sabato 19 giugno 2021

Ex Chiesa e Chiostri di Sant’Agostino, Pietrasanta (LU)

Mario Nigro. Il dramma del tempo, dello spazio… dell’amore

12 Mag

di Ivan Quaroni

Nel 1945, dopo la Liberazione, alcuni artisti di Corrente confluiscono nel Fronte nuovo delle arti, un raggruppamento piuttosto variegato, attivo tra Milano, Roma e Venezia, che intendeva superare e archiviare le espressioni novecentiste muovendo dall’esemplarità del linguaggio picassiano di Guernica. La lezione postcubista era, però, diversamente intesa dai vari membri del gruppo formato, tra gli altri, da Guttuso, Birolli, Morlotti, Santomaso, Vedova, Corpora e Turcato. 

Quando, alla Biennale di Venezia del 1948 – la prima del secondo dopoguerra -, il Fronte nuovo delle arti si presenta al pubblico, sono già evidenti le fratture interne che nel 1950 porteranno allo scioglimento del gruppo e alla polarizzazione tra astrattisti e realisti. Non a caso, Giulio Turcato, iscritto al PCI, già nel 1947 aderisce, con Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Sanfilippo, Guerrini, e Perilli, al gruppo romano Forma 1, che si dichiara “formalista e marxista”, in antitesi alla politica culturale del partito, che invece s’identificava con la scelta realista di Guttuso. 

Del gruppo romano, Achille Perilli fa da tramite con il MAC (Movimento arte concreta), fondato alla Libreria Salto di Milano nel 1948 da Bruno Munari, Gillo Dorfles, Atanasio Soldati e Gianni Monnet, che promuove un’arte astratta priva di ogni riferimento al mondo delle forme sensibili e con Lucio Fontana che a Milano, dopo il suo ritorno dall’Argentina, cerca di elaborare un linguaggio che superi i limiti della pittura e della scultura tradizionali. 

Proprio nello scorcio finale degli anni Quaranta, quando il dibattito artistico italiano è animato dalla querelle tra i movimenti formalisti astratti e le tendenze del realismo socialista, s’inserisce l’avventura pittorica non-oggettuale di Mario Nigro. 

Mario Nigro, 14.A4, 1975-79, acrilico su masonite, cm 60×60

“Le esperienze neo-cubiste”, ricorda l’artista, “mi portarono istintivamente, tra il 1946 e il ’47 ai primi elementi, come fondali senza riferimenti figurativi e le stesse figure divenivano forme geometrizzanti autonome, si può dire che rifeci, istintivamente, da Kandinskij a Klee a Mondrian a Malevic”[1]. L’avverbio istintivamente, ripetuto per ben due volte in questa affermazione, si può forse spiegare con la formazione scientifica di Nigro, laureato nel ’41 in Chimica Pura e nel ’47 in Farmacia all’Università di Pisa, cioè con quel retroterra culturale razionale e rigoroso che lo porta, inevitabilmente, a prediligere la dimensione programmatica e progettuale dell’arte astratta. Tuttavia, questo approccio metodologico di marca scientifica, più volte ribadito[2], si salda, fin dal principio, con l’influsso esercitato dai precedenti studi musicali in pianoforte e violino. Molti anni dopo, all’amica scrittrice e critica Carla Lonzi confesserà, infatti, di aver capito la struttura della musica e di aver cercato, sull’esempio di questa, d’individuare una struttura per la pittura: “Quindi mi sono venuti spontaneamente i ritmi, le ripetizioni, quelle che oggi chiamo iterazioni […]”.[3] Nascono, così, i primi lavori, come Ritmo verticale (1946), Ritmi obliqui (1949) e Ritmi orizzontali simultanei continui (1949), in cui l’artista traduce in diagrammi di modulazioni lineari il simultaneismo dei futuristi. 

Dopo la mostra d’esordio nel 1949 alla Libreria Salto e la sua adesione al Movimento Arte Concreta, il tema lineare e quello iterativo vengono deliberatamente inseriti in una configurazione a scacchiera che ricalca l’archetipo della griglia astrattista, una struttura cartesiana, logica e programmabile entro cui Nigro inserisce l’elemento ritmico e dirompente delle linee intrecciate ai colori. Nel ciclo dei Pannelli a scacchi, iniziato nel 1950, le grate sono riempite di tasselli bianchi e neri e, più sporadicamente, da tasselli rossi, blu e gialli di ascendenza De Stijl. Tuttavia, la vibrazione generata dalla diversa distribuzione di moduli rettangolari e quadrati sulla superficie finisce per generare un effetto dinamico che altera sottilmente la percezione ottica. L’evidente riferimento a Mondrian sembra, dunque, inteso in una prospettiva di superamento dell’idealismo dell’artista olandese. Le variazioni ritmiche di Nigro – come già le linee oblique di Theo Van Doesburg – sconvolgono, infatti, la stabilità della griglia, contravvenendo alle intenzioni spiritualistiche del Neoplasticismo (e del Suprematismo) di costruire uno spazio puro, inalterabile, antitetico al mondo corruttibile delle forme fenomeniche. “L’ordinato incrocio perpendicolare di linee ortogonali del 1950 si frastaglia”, scrive Luca Massimo Barbero, “si moltiplica e viene traslato seguendo molteplici direzioni; ora sono gli andamenti obliqui, che definiscono forme triangolari in cui i diversi piani si allineano seguendo le diagonali prospettiche, a condurre il gioco delle sovrapposizioni e delle inclinazioni”[4]. Tutto il successivo percorso di Nigro muove, dunque, da questa precisa rottura con la tradizione Neoplastica, Suprematista e Costruttivista. Una rottura che si fa più evidente nelle strutture reticolari che precedono le opere dello Spazio totale, dove la griglia, cioè lo spazio ostruttivo e claustrofobico del primo piano lascia filtrare la dimensione tonale ed espressiva dello sfondo monocromo. La dicotomia tra griglia e fondo è indicazione di un conflitto che si consuma all’interno del linguaggio razionale dell’astrazione geometrica, la segnalazione di un cedimento delle forze ordinatrici e logiche sotto la spinta dei fatti emozionali che riguardano la sfera esistenziale, quella che Heidegger chiama In-der-Welt-Sein, la condizione dell’individuo nel mondo. 

Riferendosi ai lavori del periodo 1953-1954, Nigro dirà, infatti, che “Il reticolo, a parte la necessità ritmica, e perciò metodologica, di identificazione poetica in un linguaggio plastico, crea proprio questa sensazione dell’uomo che ha dinnanzi a sé una rete come se fosse prigioniero: al di là c’è la libertà, il colore puro [del fondo], il colore più vivo, più violento che si possa immaginare”[5].

Quando nel 1953 Nigro giunge alla definizione concettuale dello Spazio totale intende, di fatto, superare il campo d’indagine della prima generazione di artisti astratti, cioè quella bidimensionalità che “non trova rispondenza con la situazione dell’individuo immerso nella molteplicità degli eventi”[6]. Come scrive il filosofo Franco “Bifo” Berardi “L’astrazione è stata la tendenza generale dell’ultimo secolo, tanto nella sfera dell’arte quanto in quella del linguaggio e dell’economia”[7]. Secondo lui “Si può definire l’astrazione come l’estrazione mentale di un concetto da una serie di esperienze reali; ma si può definire anche come la separazione della dinamica concettuale dal processo corporeo”[8]. Soprattutto con le opere del ciclo Spazio totale, cui si dedica per oltre un decennio, Nigro sembra ristabilire un rapporto tra il linguaggio dell’astrazione e la dimensione del vissuto storico e individuale. L’analisi dello spazio, a cui si dedica anche Lucio Fontana che nel 1949 espone alla Libreria Il Salto, i primi Concetti spaziali, muove, per Nigro, dalle sperimentazioni futuriste di Balla sul movimento e dal suo utilizzo della linea. Tuttavia, rispetto a Fontana, Nigro usa un approccio differente. “In particolare”, scrive Giovanni Maria Accame, “non vi è nessuna volontà di risolvere dall’esterno della superficie, con il gesto e la conseguente fisicità che comporta l’azione, il problema di un diverso spazio”[9]. Usa, invece, la pittura con approccio analitico e costruttivo per fare emergere una conflittualità interna al linguaggio e ricollegarsi, così, alle teorie della scienza relativistica. Lo Spazio totale introduce, infatti, scrive Accame, “l’idea di una compresenza di più realtà” che lascia spazio alla fantasia e alla sensibilità dello spettatore e, al contempo, introduce l’elemento tragico dell’esistenza che era stato espunto dal Neoplasticismo di Mondrian. “Durante il periodo dello ‘Spazio totale’ il dramma”, scrive l’artista, “si esplicava dalla simultaneità di questi ritmi progressivi seriali, i quali però, ripetendosi progressivamente definivano un aspetto di tragedia fatalistico”.[10] Lo spazio nella pittura di Nigro diventa, in sostanza, il teatro di uno scontro di elementi simultanei e di tensioni tra sfondo e reticolo che rimandano alle quelle che si consumano nella dimensione politica e sociale della Storia. Il coinvolgimento e l’attivismo dell’artista in qualche modo si riflettono, nel dominio linguistico della pittura, in una sorta di diagrammatica visualizzazione del dramma esistenziale. Un dramma che si acuisce nel 1956 con l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa, un episodio che l’artista vive come un tradimento degli ideali socialisti. 

“Quando faccio le intersezioni è un atto tragico”[11], dirà anni dopo a Carla Lonzi. Un atto che, sul piano visivo, porta all’appesantimento della griglia reticolare e a una progressione caotica dell’elemento dinamico che culminerà nella transizione dai lavori dello Spazio totale a quelli del nuovo ciclo del Tempo totale. Un passaggio quasi didascalicamente evidenziato nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1968, quella della contestazione, dove sono esposte opere che dialogano con l’ambiente in una dimensione liminare tra pittura e scultura. 

Lavori come Dal ‘Tempo totale’: passeggiata progressiva con variazione cromatica (le stagioni) del 1967-68, Dallo ‘Spazio totale’: serie di 12 rombi continui a progressioni ritmiche simultanee alternate opposte (1965), ‘Tempo totale’: traliccio a rombi progressivi (1967) e ‘Tempo totale’: traliccio a rombi progressivi simultanei (1967) tradiscono lo slittamento dal dominio contemplativo del quadro a quello concreto e materiale dell’oggetto, che invita lo spettatore a immergersi in un’esperienza totale. Infatti, con i rombi progressivie la passeggiata progressiva della Biennale e poi con la successiva serie delle Strutture fisse con licenza cromatica, “la fantasia dello spettatore è sacrificata” afferma Nigro, perché “[…] psicologicamente, interviene il fattore della sensazione del tempo che passa e che pone lo spettatore, non in una condizione di formulazione di immagini, ma, fermando la sua attenzione su una serie progressiva limitata di una medesima immagine, lo obbliga a un pensiero fisso… forse, alla constatazione del tempo che passa”[12]. Soprattutto nelle Strutture fisse con licenza cromatica Nigro perviene a un’assoluta “rarefazione e minimalità del sistema segnico, inequivocabilmente non narrativo, per introdurre quella dimensione psicologica e qui ampiamente autobiografica, che sta attorno e dentro i quadri”[13] e che, di fatto, costituisce il punto di partenza di un linguaggio che si svilupperà negli anni seguenti, fino alle opere che sono oggetto di questa mostra, il cui nucleo centrale è costituito dagli acrilici su superfici quadrate di masonite (1975-79). 

Proprio a partire dal ciclo Dal ‘Tempo totale’: le strutture fisse con licenza cromatica, l’iterazione ritmica, modulare e seriale dei segni, ormai liberata dall’inquadramento della griglia reticolare, assume un’organizzazione insolita che lascia affiorare, o meglio indica, anche attraverso i titoli posti tra parentesi come L’armata rossa vincerà (1969), L’incontro 1-5 (1972), Lettera di un raro amore (in dodici pagine) del 1972, Trilogia dell’amore (1973) e Sogno di un vero amore (1973), l’elemento intimo ed emotivo nel suo stato di raffreddamento oggettivo. Qui il sentimento tragico dello Spazio totale è sostituito da uno sguardo distaccato, che osserva il dramma del tempo – e quindi della morte – come un fatto da accertare: “nel ‘tempo totale’ è come se fossi gelato, ma gelato nel senso di constatare una situazione e di constatarla a mente rigida, di non credere, di non farmi coinvolgere da un dramma, di poter porre rimedio e, secondo me, un rimedio a un dramma non si pone quando ne siamo coinvolti, ma si può porre quando lo vediamo un po’ dl di sopra”[14].

Questo atteggiamento constatativo si ritrova anche nei più tardi dipinti Rosso inorganico (1972), Amore mio (1974), Meditazione (1974), Nel Bosco (1975), Prato (1975) ed in altri senza titolo, dove il vissuto emotivo, psicologico ed esperienziale è lucidamente tradotto in iterazioni lineari turbate da alterazioni, aritmie e licenze cromatiche che formano il codice descrittivo del suo linguaggio analitico. 

Si tratta di una sequenza di opere in cui la grammatica di linea e colore raggiunge una stringata essenzialità proprio nel rapporto tra la segmentazione ritmica del segno e l’uniformità dello sfondo. Un’essenzialità che assimila questi diagrammi visivi alle partiture musicali. 

Soprattutto nei dipinti del cosiddetto Periodo della “linea”, databile al biennio 1976-77 – alcuni dei quali sono stati esposti alla Galleria Lorenzelli di Milano (1977) – l’elemento cromatico, e dunque pittorico, diventa prioritario. In questi lavori un’unica linea colorata attraversa obliquamente l’intera superficie, facendo da contrappunto alla monocromia del fondo, ma senza mai coincidere con una diagonale perfetta. I segmenti di Nigro – derivati dal Tempo totale – non attraversano mai i punti d’intersezione angolare del supporto, per non cristallizzarsi in geometrie rigide e per non circoscrivere uno spazio e un tempo precisi. “Retta da costruzioni ideali fondate sulla sezione aurea”[15], la linea di Nigro è senza soluzione di continuità, un’espressione cromatica e ritmica che egli stesso definisce “metafisica del colore”[16] per identificare la centralità dell’elemento cromatico in pittura e la sua capacità di aderire alla dimensione psichica dell’uomo, salvandolo dall’atrofia e dall’alienazione. 

Se è vero, come scrive lui stesso, che “L’essenzialità dell’arte risiede nell’essenzialità della vita, cioè dell’amore”[17] e che “L’arte può ancora salvare l’amore, sempre che non diventi essa stessa alienazione dell’edonismo [cioè una forma deviata dell’amore]”[18], allora queste opere rappresentano il culmine di un processo artistico che, con intelligenza e con obiettività, cioè senza mai scadere nell’identificazione emotiva, irrazionale e incontrollata, ha finalmente collegato la sfera del pensiero a quella, altrettanto essenziale, dei sentimenti. Nigro ha strappato l’espressione aniconica geometrica all’iperuranio delle tradizioni suprematiste e neoplastiche e l’ha restituita alla dimensione temporale della storia e al fatale dramma individuale dell’In-der-Welt-Sein.   


[1] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Mario Nigro. Catalogo ragionato 1947-1992, Skira, Milano, 2009, p. 54.

[2] “La tecnica del dipingere l’adopero in quanto ho sempre considerato i miei lavori come progettazioni che dovrebbero essere realizzati in grandi dimensioni. Quindi, do valore massimo alla ricerca metodologica che, come primo atto, è progettazione. Per me, la realizzazione ha un’importanza marginale, non essenziale […]. Però, come punto di partenza, c’è sempre il fatto progettativo, ossia metodologico”, in Carla Lonzi, Autoritratto. Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly, Abscondita, Milano, 2017, p. 76.

[3] Ivi, p. 42.

[4] Luca Massimo Barbero, Mario Nigro. Dal ‘Ritmo verticale’ al ‘Tempo totale’, A Arte Invernizzi, catalogo della mostra, 23 febbraio – 21 aprile 2017, Milano, p. 11. 

[5] Carla Lonzi, Op cit., p. 132.

[6] Carla Lonzi, in Paolo Fossati, Carla Lonzi, Mario Nigro. All’insegna del pesce d’oro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1968, p. 7.

[7] Franco “Bifo” Berardi, Futurabilità, Nero, Roma, 2012, p. 166.

[8] Ivi, p. 7

[9] Giovanni Maria Accame, Mario Nigro: tempo totale 1965 – 1975 (Palazzo Municipale Morterone), catalogo della mostra, Amici di Morterone – Comune di Morterone, 1989, p. 13.

[10] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Op. cit, p. 185.

[11] Carla Lonzi, Op cit., p. 109.

[12] Ivi, p. 235-236.

[13] Giovanni Maria Accame, Op cit., p. 17.

[14] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Op. cit, p. 190

[15] Ivi, p. 226.

[16] Ivi, p. 223.

[17] Ivi, p. 226.

[18] Ibid.


Mario Nigro. La metafisica del colore

a cura di Roberto Borghi, Matteo Lorenzelli, Ivan Quaroni

Lorenzelli Arte, Milano

18 marzo – 19 giugno

T. +39 92291814 – info@lorenzelliarte.com

Gli anticorpi della pittura di Veneziano

8 Ott

di Ivan Quaroni

In molti sostengono che d’ora in avanti cambierà tutto, che la relazione tra esseri viventi, come pure il rapporto con i luoghi (abitativi, scolastici, didattici, amministrativi, commerciali e d’intrattenimento) subiranno profonde modifiche. È vero, infatti, che a causa della pandemia del Covid-19 stiamo sperimentando una radicale alterazione delle nostre abitudini. In particolare, il lockdown, cioè la forzata (e dovuta) reclusione domestica dei primi mesi del 2020, ci ha obbligato a riconsiderare la natura progettuale del nostro rapporto col mondo. O meglio, ci ha costretto a riprogrammare e rinegoziare il nostro posto nello spazio naturale e urbano. Città e borghi improvvisamente silenti – incredibilmente simili alle Piazze d’Italia di De Chirico – ci hanno mostrato una realtà davvero inedita, una visione di come potrebbe essere la Terra alla fine dell’antropocene. A mutare, però, non è stato solo il panorama esteriore, restituito, obtorto collo, alle forze della natura, ma anche il landscape interiore ed emotivo di tutti noi. Ogni individuo, adattandosi all’emergenza del momento, è stato condotto a ridurre il proprio raggio d’azione, tracciando nuovi tragitti e perimetri nello spazio quotidiano e adattandosi alle regole di una socialità sempre più virtuale, ma non per questo meno necessaria. I cambiamenti più profondi, però, sono quelli intervenuti sul piano dell’immaginario sia personale che collettivo, di cui sono stati straordinari interpreti soprattutto gli artisti visivi che, con l’immediatezza delle loro immagini, hanno saputo trasmettere quel che non si poteva con la ragione e con la logica stringente delle parole. I migliori sono stati coloro che, come Giuseppe Veneziano, hanno testimoniato questo momento apicale della storia attraverso la potenza della trasfigurazione, non limitandosi, cioè, a riprodurre in figura i fatti di cronaca, ma spalancando le emozioni del momento sugli abissi della fantasia e dell’immaginazione. 

Si è detto e scritto molte volte che Veneziano è artista attento ai fatti di cronaca, talora capace persino di anticipare l’attualità con una qualità di visione quasi profetica. Ciò non significa, però, che la sua pittura sia il prodotto di una semplice osservazione dei fatti. Al contrario, credo che la sua arte germini e fiorisca nel territorio del possibile, dell’ipotetico e, in definitiva, del plausibile proprio perché l’oggetto delle sue fantasie e dei suoi mash-up iconografici è il frutto di un’acuta sensibilità contemporanea. E siccome Mala tempora currunt sed peiora parantur, come ritenevano i latini, non deve stupire se le sue opere contengono talvolta, oltre a una buona dose di ironia, un fondo di amara verità.  La profonda differenza tra la pittura di Veneziano e quella di artisti che, almeno apparentemente, sembrano usare analoghe grammatiche pop, sta proprio in questa capacità di filtrare il sentimento del proprio tempo, lo zeitgeist, con quel mix di fantasia, cultura e sensibilità trasformati in linguaggio che purtroppo manca a molti suoi colleghi. Non mi stancherò mai di ripetere, infatti, che l’originalità della sua opera non può essere attribuita alle sole invenzioni iconografiche, cioè ai pur sorprendenti accostamenti visivi coi quali mescola realtà e finzione, cronaca e storia, sesso e politica, sacro e profano, e che piacciono tanto al pubblico generalista quanto a quello di appassionati e connoisseur del mondo dell’arte. A dare sostanza e originalità al suo fulminante armamentario inventivo è soprattutto il suo lessico visivo, pazientemente affinato in una sintesi lineare che crea i volumi per netti accostamenti di tono e maturato nella distillazione di una personalissima gamma cromatica. 

Come spiego spesso a fan e detrattori della sua opera, nel suo caso la semplicità e l’accessibilità sono il frutto di una riduzione della complessità (di riferimenti, citazioni e possibilità interpretative). Come diceva Charles Bukowski, “il segreto, la verità profonda, per far qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta [appunto] nella semplicità”. Una verità che riecheggia anche nel Calvino delle Lezioni Americane, quando afferma – con una sentenza che sembra descrivere perfettamente il metodo creativo di Veneziano – che la fantasia “è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono a un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli e divertenti”. Quanto allo stile, per usare un concetto desueto, ormai sparito dalla sintassi della critica contemporanea, non c’è dubbio che quello di Veneziano sia inconfondibile e che non ci sia possibilità di scambiarlo con quello di altri artisti. Il suo modo di disegnare le figure e i suoi colori – i viola e gli azzurri inimitabili e i gialli e i rossi accesi che rimandano alla sua amata Sicilia -, non lasciano spazio a equivoci o incertezze. Personalmente, se non fosse paradossale affermarlo, saprei riconoscere un Veneziano a occhi chiusi. Ed è qualcosa che inconsciamente avverte anche chi non è un esperto di cose d’arte. 

Con questi strumenti, che sono poi quelli di sempre, è riuscito a sviluppare gli anticorpi creativi alla reclusione collettiva e al distanziamento sociale, ispirandosi, ancora una volta, al mondo dei supereroi e alla Storia dell’arte, per capire a fondo il senso di un cambiamento epocale che ci obbliga a rileggere non solo il passato e il presente, ma anche a interpretare il futuro. Con spirito satirico e sognante, infatti, l’artista ha immaginato come avrebbero affrontato questo delicato momento personaggi come Spiderman e Wonder Woman, Superman e Jocker, ma anche come sarebbe mutata, retroattivamente, l’iconografia del Rinascimento se i grandi pittori del Quattrocento e Cinquecento avessero vissuto l’esperienza del Covid-19. Attraverso gli eroi in calzamaglia e i santi e martiri della tradizione cristiana, Veneziano ha impaginato il racconto di una parabola collettiva in cui trovano posto non solo la paura e la sofferenza che hanno segnato i giorni più bui della pandemia, ma anche le speranze e i sogni per il mondo che verrà. Lo ha fatto, peraltro, collegandosi ogni giorno sui socialper mostrare in diretta come nasce il suo lavoro e in che modo, nel passaggio dal disegno all’acquarello fino alla tela finita, si dispiegano le varie tappe di un processo creativo a lenta decantazione.

Frutto dell’esperienza di una quotidianità claustrale che ha acutizzato la capacità di concentrazione e contemplazione sono molte delle opere di questa mostra: dal San Sebastiano a La Venere della mascherina (entrambi ispirati da Tiziano), dal leonardesco Corona mundi ai raffaelleschi La Madonna della sanificazione San Donald e il Virus, fino a La nascita della mascherina, ironica reinterpretazione della Creazione di Adamo della volta Sistina. Sono dipinti che connettono la percezione drammatica (e mediatica) dei giorni del lockdown con una comprensibile e necessaria voglia d’evasione e leggerezza, e coi quali Veneziano perpetua il suo programma di riconnessione con le radici auliche dell’arte rinascimentale. Un patrimonio, da troppi ignorato, sui quali fondare il senso di una moderna sensibilità pittorica, intimamente latina e mediterranea ma, allo stesso tempo, aperta al lessico globalista delle immagini pop. In tal senso, i supereroi possono essere considerati la naturale evoluzione degli eroi del mito classico o dei paladini dei romanzi cavallereschi. L’unica differenza, come scriveva Ardengo Soffici nel suo Giornale di bordo pubblicato sulla rivista Lacerba, è che “L’eroe antico era quello che affrontava la morte: l’eroe moderno è colui che accetta la vita”.

E, infatti, i supereroi di Veneziano si trovano alle prese con problemi reali, talvolta persino prosaici. Non sono gloriosamente martirizzati come San Sebastiano, né combattono valorosamente contro “il male” come il Trump di San Donald e il Virus e nemmeno rifulgono della sacra aura del Cristo di Corona mundi, della materna grazia della Madonna della Mascherina o della sensuale bellezza della Venere della mascherina. Piuttosto, sono la variante kitsch e camp delle persone comuni, di cui condividono uguali passioni e sentimenti. Ecco allora che la solitudine del supereroe moderno nell’era della reclusione forzata si traduce, nelle tele e nelle carte di Veneziano, in un catalogo di emozioni talvolta pedestri, che spaziano dall’estasi autoerotica dell’amazzone di Themyscira (Wonder Woman’s Intimacy) al desolato avvilimento precoitale di Spiderman (Default), dalla rabbiosa goffaggine di Superman (Collateral Effects) alla malinconia esistenziale della nemesi del Cavaliere oscuro (Jocker’s Lockdown). Eppure, l’intento dell’artista non è di smitizzare santi, martiri e supereroi per puro gusto dello sberleffo, ma umanizzarli per rendere più efficace e accessibile il loro valore simbolico. Un valore che non riguarda la forza o l’invulnerabilità, ma semmai il coraggio. Una qualità che è servita a tutti noi per superare i momenti di crisi e che Veneziano ha saputo raccontare con quello spirito ironico e lieve e quella disarmante empatia che fanno di lui il più umano degli artisti.

INFO:

Giuseppe Veneziano. Mr. Quarantine

a cura di Ivan Quaroni

Fabbrica Eos Arte Contemporanea

Viale Pasubio (angolo Via Bonnet), Milano

Opening: 8 ottobre 2020 ore 18.00

Neue Stimmung

3 Set

Sopravvivenze metafisiche nella pittura italiana contemporanea.

di Ivan Quaroni

“Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante, non solo d’Italia ma di tutto il mondo.”
(Giorgio De Chirico)

 

Stimmung del pomeriggio d’autunno

Il breve soggiorno torinese del maestro della Metafisica rimanda, idealmente, a quello dell’ultimo Friedrich Nietzsche, che nel capoluogo sabaudo, prima di impazzire, scrive il suo celebre Ecce Homo. In de Chirico le impressioni generate dalla permanenza torinese si sovrappongono, infatti, a quelle del filosofo tedesco, che di Torino notava la “meravigliosa limpidezza”, i “colori d’autunno” e che, con viva sensibilità, avvertiva “uno squisito senso di benessere diffuso su tutte le cose”. Parole simili echeggiano nella prosa di de Chirico, quando afferma che “La vera stagione di Torino, il cui fascino metafisico appare al meglio, è l’autunno”.[1]

L’autunno che Torino mi ha rivelato è felice, certo non di una felicità squillante e variopinta. È qualcosa di vasto, allo stesso tempo vicino e lontano, una grande serenità, una grande purezza prossima alla gioia che prova il convalescente alla fine di una lunga e penosa malattia. […] Per conto mio sono portato a credere che questa armonia, così squisita da diventare quasi insostenibile, non sia stata estranea alla follia di Nietzsche”.[2]

Torino ispira i quadri di de Chirico nel periodo tra il 1912 e il 1915. In particolare, l’artista rimane affascinato dalle grandi piazze, dalle simmetrie dei portici, dai colonnati e dalle statue, elementi che confluiranno nel suo vocabolario pittorico, insieme a quella particolare atmosfera, a “quella Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso”[3]

Nei dipinti di de Chirico non troviamo solo la trascrizione di quel sentimento, di quell’impressione, ma qualcosa di più profondo. La Stimmung – termine tedesco che si può tradurre con la parola “atmosfera” – non è uno stato d’animo umorale, come ad esempio il mood anglosassone, ma è una disposizione d’animo che si estende allo spazio, quasi una tonalità affettiva che coinvolge il luogo e il paesaggio, tracciando una sorta di linea d’ombra tra il visibile e l’invisibile. 

A Parigi, dove giunge da Torino nel 1912, de Chirico espone al Salon d’Automne alcuni di quei quadri in cui insegue quel misterioso sentimento che aveva scoperto nei libri di Nietzsche, quella malinconia dei pomeriggi autunnali delle città italiane, da cui maturerà l’idea di una pittura capace di vedere “oltre i muri”. 

“La rivelazione, il principio nuovo [dell’arte di de Chirico]”, scrive Riccardo Dottori, “riguarda una realtà che non è il semplice esistente, quella del Verismo, la realtà immediata ‘così come ci appare’ e che dobbiamo riprodurre, ma una realtà altra da ciò che vediamo e che dobbiamo rappresentare […]”[4].  “Un quadro”, afferma de Chirico, “ci si rivela senza che noi vediamo nulla e addirittura senza che pensiamo a nulla e può anche essere che la vista di qualcosa ci riveli un quadro ma in questo caso il quadro non sarà una riproduzione fedele di ciò che ha determinato la sua rivelazione ma gli rassomiglierà vagamente come il viso di una persona che vediamo in sogno […]”[5].

La rivelazione è dunque un atto divinatorio, oracolare, basato sull’intuizione di nuovi modi di vedere la realtà in cui le sensazioni visive sollecitano non solo l’occhio, ma anche la mente. Sono idee che de Chirico ricava dall’estetica e dalla metafisica di Schopenhauer – nella traduzione francese di August Dietrich (Métaphysique et Esthétique, Parigi, 1909) – e da La nascita della tragedia greca di Nietzsche. Nell’esperienza della rivelazione, che l’artista definisce come “metodo nietzschiano”, non è l’occhio a vedere, ma lo spirito attivo. La pittura metafisica diventa, così, un’attività simile alla mantica e al vaticinio.

Nelle “Piazze d’Italia”, il carattere enigmatico della rivelazione è reso, pittoricamente, creando uno stato di sospensione e di serena malinconia. Gli scorci prospettici dei portici che inquadrano l’immagine dirigono l’occhio verso una linea d’orizzonte su cui si stagliano gli sbuffi di vapore delle locomotive, segnali di una ricercata crasi tra il tempo eterno e circolare della classicità e il tempo presente e progressivo della modernità, rappresentato anche dalle ciminiere. “La città dechirichiana”, conferma Gioia Mori, “è disegnata con piazze ampie e portici, con scorci prospettici nitidi, e si arricchisce di edifici italiani, reali o dipinti, che vengono trasformati in moderne icone dello spaesamento”[6].

Neue Stimmung

Quale sia stata la portata della Metafisica nell’arte del secolo scorso è ben visibile non solo nella frangia belga del Surrealismo (René Magritte e Paul Delvaux), ma in molta pittura figurativa tra le due Guerre, dagli artisti che parteciparono all’esperienza di Valori Plastici al Novecento di Margherita Sarfatti, dalla Neue Sachlickeit al Realismo Magico italo-tedesco propugnato da Franz Roh e Massimo Bontempelli, fino alla remota esperienza del Precisionismo americano. 

Quanto al valore iconico della Metafisica, basterà ricordare le opere di Andy Warhol che replicano le Muse Inquietanti e le Piazze d’Italia, considerate come parte del mito contemporaneo, alla stregua delle zuppe Campbell e dei ritratti di Marilyn Monroe. Addirittura, come rileva Gioia Mori, “la Metafisica è considerata da Warhol come matrice linguistica della Pop Art: la tecnica di agnizione e prelievo dal quotidiano e il nuovo statuto di elemento oracolare che de Chirico attribuiva a cose, spazi, ricordi, con il conseguente spostamento dal quotidiano alla sfera alta dell’arte, corrisponde al processo subito dagli oggetti raffigurati da Warhol, che dal consumo di massa vengono trasferiti in ambito colto”[7].

Oggi, a oltre un secolo dalla creazione dei primi dipinti metafisici, è lecito domandarsi in quali forme e sotto quali mascheramenti si nasconda l’eredità della Stimmung e come questo particolare stato d’animo filosofico sia potuto sopravvivere all’avvento della postmodernità, alle teorie di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e a quelle di Jean Baudrillaud sulla sparizione dell’arte. 

La Stimmung dechirichiana s’inquadrava all’interno di un discorso sul valore metafisico delle immagini. Per il Pictor Optimusil termine Metafisica (derivante dal greco “ta meta ta physika”, che significa “ciò che segue dopo la fisica.”) non designava ciò che esiste oltre l’apparenza sensibile della realtà empirica, in un ipotetico universo invisibile, ma l’enigma e il mistero delle cose stesse, degli oggetti comuni e perfino banali. 

“Ora io nella parola ‘metafisica’ non ci vedo nulla di tenebroso:”, scriveva de Chirico nel 1919, “è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare ‘metafisica’ e tanto più metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità”[8].

Una Stimmung odierna, un’eventuale Neue Stimmung, difficilmente avrà le caratteristiche di quella originale. Per usare un’espressione popolare, “troppa acqua è passata sotto i ponti” e noi viviamo oggi in un mondo diverso, radicalmente distante da quello del primo anteguerra.

Tuttavia, tracce spurie o degradate di Stimmung sembrano sopravvivere nel frasario pittorico di alcuni artisti italiani, talora assumendo significati nuovi, in un ventaglio di accezioni che spaziano dal concettuale all’ironico, dal nostalgico al citazionista, dal magico al surreale. 

Lichtung

Ilaria Del Monte imprime caratteri di precisione e vividezza plastica a un universo mentale che fonde l’ordinario con il fantastico, traducendolo, così, in un racconto d’impressionante coerenza visiva. Elemento centrale della sua costruzione è il concetto heideggeriano di Lichtung, traducibile con la parola “chiaroscuro”, ma in un’accezione che designa l’apparizione di un’entità, il suo venire alla luce da un’oscurità irriducibile. I dipinti di Del Monte sono, infatti, pervasi da atmosfere vespertine e autunnali, che avvolgono le sue misteriose rappresentazioni nella calda e malinconica luce crepuscolare della Stimmung dechirichiana. 

Ilaria Del Monte, Still Life, 2020, olio su tela 80×55 cm

Luogo prediletto delle sue visioni, popolate di figure femminili, testimoni di bizzarre e magiche apparizioni, è la casa, che l’artista trasforma in uno spazio di transizione delle forme naturali, metaforico teatro di conflitti interiori. Nelle sue opere, l’interno borghese accoglie l’irruzione delle forze primigenie, come nel caso di Sopra il giardino (2020), dove il pavimento ligneo è sfondato da un’improvvisa fioritura di rose, o come nell’enigmatica epifania di un cervide in Still life (2020) o dei due giganteschi lepidotteri di Falene (2020). Altrove, la natura si fonde letteralmente con lo spazio claustrale della stanza, infrangendo i confini che separano l’ambiente domestico dal paesaggio circostante. Pesci rossi (2020), ad esempio, è una miniatura fantastica che mostra una fanciulla nuda su un divano, mentre immerge i piedi in uno stagno di ninfee in cui guizzano grandi carpe rosse. 

Ciò che vi è di metafisico nei lavori di Ilaria Del Monte è la qualità arcana e misteriosa delle sue immagini, permeate di allusioni magiche e umori psicanalitici che l’artista condensa in forme cristalline, dalle volumetrie nitide e perfettamente leggibili.

Regesto

La pittura di Paolo De Biasi si configura come una forma di scrittura che indaga le possibilità espressive di una pratica millenaria, potenzialmente capace di produrre significati diversi rispetto a quelli di qualsiasi altra forma di narrazione lineare. Per lui “il quadro è uno spazio finito nel reale ma infinito nel possibile”[9], cioè un luogo di rivelazioni che la pittura può plasmare in immagini intellegibili. Un linguaggio che, nel suo caso, tradisce una formazione da architetto, sensibile alla costruzione dello spazio e della forma di oggetti con cui costruisce un personalissimo catalogo di memorie e visioni. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, 100×70 cm

La ricerca di De Biasi – che egli intende come disciplina di verifica delle relazioni tra il “vedere” e il “pensare” – consiste nella creazione di uno spazio pittorico ideale, ma costellato di oggetti e forme riconoscibili e perfino di frammenti di opere del passato. L’elemento citazionistico della sua pittura, che include riferimenti alle antichità greche ed egizie (Daccapo, 2017) e schegge iconografiche di Giotto (Allorquando, 2018), Lorenzo Monaco e Leonardo (Sebbene lo fosse, 2019), è subordinato alla ripresa dei paradigmi fondanti dell’arte occidentale. Per De Biasi sono elementi di un alfabeto ricostruttivo che recupera i lemmi classici e moderni. In Dimora (2019) e in Padiglione (2020), ad esempio, la rappresentazione di strutture architettoniche di valore puramente segnaletico in un clima di metafisica sospensione, e peraltro simili a volti umani, è arricchita dall’inserzione di citazioni specifiche. Nel primo dipinto, all’interno dell’arco a tutto sesto compare la figura di Victorine Meurent, la celebre modella di Le Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet; mentre nel secondo, l’iscrizione dell’anno 1925 allude all’allestimento del Padiglione dell’Espirit Nouveau di Le Corbusier durante l’Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi. De Biasi dimostra che la pratica pittorica è un regesto di forme ricorsive, eternamente ritornanti, che contribuiscono alla periodica rifondazione delle grammatiche visive.

Metapsycologie

Paolo Pibi usa il paesaggio come pretesto iconografico per una pittura che indaga i confini percettivi della realtà in termini di visone. Attraverso una grammatica retinica, ad alta definizione ottica, l’artista dipinge immagini ambigue, che suggeriscono l’idea di un landscape modificato, artefatto e, per certi versi, simile a un costrutto mentale. La sua riflessione sull’origine della visione è ispirata alla teoria della Metapsicologia di Freud. Per il padre della psicanalisi se esiste una Metafisica, cioè una dottrina filosofica che studia le cause prime della realtà, deve esistere una Metapsicologia che descriva le modalità di costruzione e funzionamento dei processi psichici. Pibi affronta il problema della formazione delle immagini e del loro delinearsi nel campo concreto della pratica pittorica attraverso un metodo erratico, esplorativo.

Paolo Pibi, Metapsychologie 2, 2020, acrilico su tela – 50×50 cm

L’artista, infatti, non progetta le immagini in anticipo, ma le trova, per così dire, “in corso d’opera”, usando il linguaggio come una disciplina cognitiva che gli consente di imparare qualcosa su se stesso e sul mondo. Ciò che scopre è che il mondo reale e quello virtuale della pittura sono entrambi il frutto di una proiezione mentale e psicologica. I dipinti dell’artista mostrano, infatti, una realtà che sottende, e insieme prescinde, la morfologia paesaggistica, rivelando la natura geometrica e dunque schematica e costruttiva dell’esperienza ottica. Ne sono un perfetto esempio Metapsycologie 1 (2020) e Metapsycologie 2, paesaggi classici, quasi arcadici, che rivelano la presenza di un’altra dimensione, una sorta di meta-realtà formativa che è poi il luogo stesso di elaborazione delle immagini. Ed è proprio attraverso questo vulnus interpretativo, questo trauma rivelatorio, che si dispiega la Stimming di Paolo Pibi, uno stato d’animo perturbante che ci obbliga a riconsiderare gli angusti limiti della nostra percezione sensibile.

Finis mundi

Nicola Caredda trasferisce l’atmosfera sospesa e rarefatta degli Enigmi di de Chirico in un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi, dipinti con la puntigliosa acribia di un miniaturista, mostrano gli amabili resti di una società trascorsa, di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo la catastrofe nucleare e l’ecatombe ecologica, è un globo disabitato e silente, una natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Guardando alla Metafisica e al Realismo Magico, al Pop Surrealismo americano e al fumetto fantascientifico, l’artista costruisce un linguaggio che traghetta il gusto romantico per le rovine gotiche e la propensione per il mistero di tanta pittura simbolista nel vocabolario iconografico della modernità liquida. Le sue visioni notturne, con angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati ed elettrodomestici abbandonati, sommersi da una vegetazione proliferante, testimoniano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.

Nicola Caredda, Untitlhell with icemed, 2020, acrilico su tela , 30x40cm

Nella Wasteland post-apocalittica di Caredda – un mondo disseminato di graffiti e codici linguistici e pubblicitari di una società estinta, dove la natura sommerge i ruderi del paesaggio antropico – i simulacri e le vestigia della civiltà occidentale assumono il valore di feticci neometafisici. Il racconto iconografico di Caredda illustra il disastro attraverso le immagini dell’archeologia ludica dei parchi di divertimento, archetipo allegorico (e ironico) di una civiltà irresponsabile, ma anche tramite la riduzione del paesaggio a un immenso drive-in desertificato, con le carcasse delle auto abbandonate e le cadenti strutture dei chioschi e delle biglietterie. Quella dipinta da Caredda, è la Stimmung di una tregenda, ultima e catartica proiezione oleografica della finis mundi.

Melancholia

Che la pittura di Ciro Palumbo sia stata influenzata dai giacimenti nostalgici e immaginifici di certo Novecento, attraverso i filtri del simbolismo svizzero di Böcklin e Klinger, è evidente soprattutto nella scelta di recuperare frammenti dell’armamentario iconografico metafisico. Infatti, nelle tele dell’artista torinese le tracce mnestiche di Savino e de Chirico entrano a far parte di un alfabeto pittorico in bilico tra Surrealismo e Rappel a l’ordre

Ciro Palumbo, La casa magica, 2020, olio su tela, 40×50 cm

Quel che affiora prepotentemente dalla pittura di Palumbo, capillarmente irrorata da una rêverie di stampo classicista, è l’immaginazione mitopoietica, una potente spinta fantastica a creare nuovi miti e nuove narrazioni in cui affiorano, accanto a iconografie inedite, forme e figure d’immediata riconoscibilità. Una di queste è l’isola dei morti di böckliniana memoria, il massiccio scoglio di pietra, chiuso da svettanti cipressi, che Palumbo replica in miriadi di varianti, trasformandolo in un’allegoria mobile e fluttuante del bisogno di raccoglimento e contemplazione dell’uomo moderno. Una simbologia, questa, che richiama quella dell’hortus conclusus e che fa il paio con la metafora del viaggio, dell’attraversamento precario e instabile del mare magnum rappresentato da un piccolo natante che reca sulla prua l’immagine dipinta di un occhio, allusione alla missione visionaria e profetica dell’arte. L’universo di Palumbo, intriso di un’autunnale luce vespertina, include anche un altro topos dechirichiano, quello dell’interno metafisico, concepito come una scatola prospettica costellata di oggetti enigmatici e aperta, tramite una porta o una finestra, alla visione di un paesaggio esterno, una sorta di quadro nel quadro. In queste stanze silenti e malinconiche confluiscono, oltre alle suddette iconografie dell’isola (Interno magico, 2020) e del natante (Viaggio con la luna, 2020), anche quella pletora di giocattoli, ninnoli (La casa magica, 2020) e architetture miniaturizzate (E d’improvviso, 2020) che, pur costituendo un accorato tributo all’estetica di Savinio, s’inquadrano nell’originale linguaggio di Palumbo, capace di traslare i lemmi della pittura metafisica in una teoria di forme mobili e instabili, più adatte a rappresentare la fondamentale precarietà dei tempi attuali

Metastoria

Olinsky è il nome che adombra il progetto pittorico di Paolo Sandano, artista contemporaneo innamorato della storia, che affida le sue fantasie a un personaggio fittizio, un oscuro pittore, originario della Slavonia Occidentale che attraversa le vicende dell’arte del secolo scorso alla ricerca di un’improbabile illuminazione artistica a cavallo tra vecchio e nuovo continente. 

Nella sua pittura parabolica, affetta da un compulsivo nomadismo tra i linguaggi classici e le grammatiche avanguardiste, Olinsky include il ricco immaginario visivo di Walt Disney, che considera il più grande artista del XX secolo. Tutta la sua produzione pittorica è, infatti, abitata da una figura di muride, personale stilizzazione del Topolino disneyano e, insieme, alter ego che incarna i sogni, le aspirazioni, ma anche le delusioni e i tracolli dell’artista (Il pittore fallito, 1933), e che riflette, per estensione, la condizione esistenziale dell’umanità tutta, protesa verso un futuro quanto mai incerto. 

Olinsky, Felicità 1920, olio su tela, 80×60 cm

L’incontro di Olinsky con la Metafisica matura attraverso i giovanili approcci al genere arcadico (Eine Kleines Trumpet Konzert) e a quello romantico (Solo), in cui è lecito ravvisare i primi segnali di una predilezione per atmosfere incantate e stupefatte, talora venate di malinconia. Sarà, tuttavia nei dipinti della maturità, compresi tra gli anni Venti e Trenta, che Olinsky dimostrerà di aver assimilato i codici metafisici di Carlo Carrà (Felicità, 1920) e del giovane Mario Sironi (Un attimo prima, 1930), parafrasando, con la propria pittura, la lezione giottesca del primo e il malinconico incanto delle periferie urbane del secondo.  Olinsky è il primo e forse il solo artista che sia riuscito a tradurre la Stimmung in un sentimento di tragicomica catarsi iconografica.    

Metapop

L’esempio di Andy Warhol, che tradusse e rinnovò la pittura di de Chirico nel linguaggio della Pop art, dimostra come la Metafisica fosse già entrata a far parte dell’immaginario comune, esattamente come le più celebri icone dell’arte. La mostra Warhol versus de Chirico, allestita a Roma tra il 1982 e il 1983 alla sala degli Orazi e Curazi in Campidoglio, evidenziava, peraltro, come gli After de Chirico di Warhol, pur nella ripetizione differente della procedura serigrafica, mantenessero inalterate le atmosfere silenziose e rarefatte del Pictor Optimus, preservando il senso di straniamento e di sospensione delle sue Piazze d’Italia e il carattere misterioso ed enigmatico dei suoi manichini. Tra le opere di de Chirico revisionate in chiave pop dall’artista americano, c’è anche Ettore e Andromaca, dipinto cardine del periodo ferrarese che rappresenta, in chiave metafisica, l’episodio dell’Iliade relativo all’ultimo abbraccio tra Ettore e Andromaca, prima del fatale scontro dell’eroe troiano con Achille. Si tratta di un soggetto iconografico risalente al 1917, che de Chirico avrebbe ripreso in numerosissime varianti pittoriche e scultorie, ben prima della rilettura Warholiana.

Non stupisce, quindi, che un artista come Giuseppe Veneziano abbia rintracciato proprio in quest’opera il paradigma iconografico della fusione tra Metafisica e Pop Art, aggiungendovi il proprio personale contributo autoriale. 

Giuseppe Veneziano, Actarus e Andromaca, 2020, acrilico su tela, 80×60

Actarus e Andromaca (2020) è un mash up iconografico ottenuto dalla fusione di due figure antitetiche, capaci di generare un cortocircuito tra passato e presente, tra storia dell’arte e cultura di massa. Nel tradizionale impianto iconografico dechirichiano, Veneziano non solo opera la sostituzione del manichino di Ettore con la figura di Actarus, popolare eroe della serie animata giapponese Atlas Ufo Robot, ma inscrive l’impalcatura iconografica dell’opera nel rigoroso e riconoscibilissimo registro cromatico della sua pittura. Una pittura che ha dimostrato, in più occasioni, di saper interpretare il presente attraverso immagini polisemiche, che dischiudono molteplici possibilità interpretative, e che, proprio per questo, hanno lo stesso carattere enigmatico e interrogativo dei feticci metafisici.  


[1] Giorgio De Chirico, Scritti/1. Romanzi e scritti critici e teorici, a cura di Andrea Cortellessa, 2008, Milano, p. 1043.

[2] Ibidem, p. 1043.

[3] Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita (1945-1962), 2002, Milano, pp. 73-74

[4] Riccardo Dottori, Giorgio De Chirico. Immagini metafisiche, Milano, 2018, p.40. 

[5] Giorgio De Chirico, Op. cit, p. 597. 

[6] Gioia Mori, De Chirico metafisico, Art e Dossier, allegato al n. 230, febbraio 2007, Firenze-Milano, p. 25. 

[7] Ibidem, p. 45.

[8] Giorgio De Chirico, Noi metafisici, articolo apparso in “Cronache d’attualità”, Roma, 15 febbraio 1919; ristampato in Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 66-71; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, pp. 270-276.

[9] Michael Rotondi, Five Questions for Paolo De Biasi,  in “Forme Uniche”, 27 giugno 2016, http://formeuniche.org/five-questions-for-paolo-de-biasi/.


Info:

NEUE STIMMUNG
a cura di Ivan Quaroni.

Casati Arte Contemporanea
Docks Dora, Via Valprato 68 – TORINO
Sabato 19 settembre ore 17,30

 

Giovanni Motta. Thanks

1 Set

di Ivan Quaroni

 

Secoli fa la nostalgia era considerata una malattia. Ne soffrivano i mercenari svizzeri stanziati in Europa durante il Seicento, che esprimevano la propria malinconia per la terra d’origine con una melodia – il Ranz des vaches cantato dai mandriani sulle Alpi – talmente dolce e straziante da essere proibita, pena la morte. Il termine appare per la prima volta proprio nel XVII secolo ad opera di un giovane medico, Johannes Hofer, che nella sua tesi di laurea, intitolata Dissertatio medica de nostalgia, individuava le cause fisiche e materiali di questo doloroso desiderio di tornare in patria non solo nel cambiamento di abitudini, aria, cibo, usi e costumi, ma anche in una precisa sintomatologia: l’immaginazione turbata, la tristezza, il pianto e addirittura la febbre. Questo neologismo, derivato dalla crasi delle parole greche Nóstos (ritorno) e Álgos (sofferenza), definisce il tormento provocato da un inappagato desiderio di ritorno ai luoghi natii. E, in tal senso, l’Odissea è il perfetto poema epico della nostalgia, il meraviglioso racconto dell’accidentato viaggio di Ulisse verso Itaca.

NEON INSEGNA NOSTALGIA

Giovanni Motta, Nostalgia, 2020, installazione, neon e legno

Progressivamente, nel corso del tempo, la nozione di nostalgia è cambiata e alla sua accezione geografica e spaziale se ne sono aggiunte di nuove: la nostalgia del tempo perduto di proustiana memoria e quella per una persona assente o lontana o perfino per un’immagine o un oggetto. L’originaria malattia dei mercenari svizzeri è diventata uno stato d’animo, una condizione esistenziale che è parte del nostro immaginario culturale e sociale. Esistono, però, due tipi di nostalgia secondo l’antropologo Vito Teti, una patologica e una creativa. La prima, di stampo regressivo, vorrebbe tornare al passato e alla tradizione, cristallizzando il tempo in un algido rigor mortis; la seconda, di tipo critico e riflessivo, desidera recuperare tutto ciò che è utile – percorsi, esperienze, deviazioni – per rigenerare il presente e liberare un nuovo potenziale sovversivo.

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Giovanni Motta, Wonder, 2020, tecnica mista  su tela, 120×100 cm

È di questo tipo il sentimento che muove, come un impulso rigenerativo, tutta la ricerca estetica di Giovanni Motta e a cui, non a caso, l’artista dedica un lavoro installativo – la grande insegna al neon con la scritta “Nostalgia” – che è un richiamo alle tanto amate atmosfere degli anni Ottanta (quelle, per intenderci, prepotentemente tornate in auge grazie alla serie Stranger Things), ma anche un pungolo all’analisi critica di un sentimento che, attraverso i film, la musica, la moda, è diventato oggi condiviso e formalizzato, e dunque, inevitabilmente, deteriore.

Il confine tra una nostalgia positiva e una negativa è, infatti, quanto mai labile, pericolosamente in bilico tra un quiescente ripiegamento verso tutto ciò che è già noto e un vigile desiderio di recuperare le energie inespresse e i possibili sviluppi dei sentieri della Storia. Ma per Giovanni Motta la questione della nostalgia è solo in senso lato una faccenda che impatta sul tessuto sociale. Piuttosto, per usare le parole dello scrittore Roberto Cotroneo, “è una forma per preservare l’identità psichica, tenerla unita, come una fascia che impedisce al proprio io di disgregarsi.” Le sue incursioni nell’immaginario infantile dei manga e dei cartoni animati servono ad agganciare sensazioni, stati d’animo e illuminazioni che innescano un diverso modo d’interpretare e vivere la realtà odierna. Con le sculture e i quadri popolati di eroi bambini e di prodigiosi mostriciattoli che, insieme ai colori forti, amplificano l’intensità emozionale delle sue storie, Motta non racconta solo la nostalgia di un decennio che è rimasto impresso, come un tatuaggio dell’anima, nella generazione X, ma indaga soprattutto il tempo magmatico ed incandescente della propria formazione emotiva e spirituale (e, per estensione, della formazione di tutti, inclusi quelli che oggi chiamiamo Millennials e che stanno attraversando, forse inconsapevoli, le tempestose acque dell’infanzia e dell’adolescenza).

Il suo sforzo individuale di recuperare la purezza, il vigore e la terribile vemenza delle epifanie vissute nella primavera della vita è a beneficio di tutti. Non solo perché indica una via nuova alla rilettura del passato che scarta il rimpianto esistenziale e ogni facile ripiegamento retrospettivo, ma perché dimostra, con la persuasione e la potenza delle immagini, che la magia, il coraggio, lo stupore e l’eroismo, a volte folle, dei bambini sono risorse inespresse dell’adulto di oggi. Al diavolo, dunque, la sindrome di Peter Pan tanto sbandierata dalla sociologia odierna! Se restare bambini significa tornare ad essere eroi (di noi stessi) con quello slancio pop e vitalistico di cui parla Franco Bolelli, cioè Con il cuore e con le palle (Garzanti, 2005), allora ne vale la pena! Proprio lui, l’eretico filosofo nietzschiano contemporaneo, scrive, infatti, che “l’essenza stessa dell’evoluzione è e non può che essere adolescenziale, quando avanza con i suoi nuovi passi, quando si lascia sospingere e attraversare dall’innovazione e dall’energia.”[1]

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Giovanni Motta, Everyone with me, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm

Per questo Giovanni Motta fa coincidere sul piano estetico e linguistico l’epos dei cartoon e degli anime giapponesi con il suo personale bagaglio di esperienze e memorie puberali. Su di lui – come su molti di noi – i cartoni hanno avuto lo stesso impatto delle favole e dei racconti mitologici sui nostri avi. Altrettanto epiche e paradossali, magiche e inverosimili, sono le storie visive della nostra formazione, dipanatesi nei lunghi pomeriggi passati davanti al tubo catodico, dove abbiamo costruito, volenti o nolenti, i fondamenti della nostra weltanschauung e gettato le basi della nostra conoscenza della vita e del mondo.

Nell’immaginazione plastica e pittorica di Motta il vissuto reale s’intreccia e si confonde con le memorie visive dei cartoni animati, grazie a una grammatica che sembra allontanarsi sempre di più dai codici del superflat nipponico per trovare una propria originale formula espressiva, meno freddamente rifinita e più calda e pastosa. Come ai suoi esordi, Motta mescola ancora la pratica artigianale della pittura con le inserzioni serigrafiche, contamina l’arte di plasmare le forme con le più recenti tecniche di stampa tridimensionale, quasi infiammato da una furia sperimentale che sfrutta tutte le potenzialità della tecnologia senza mai scadere in una supervalutazione dei mezzi e degli strumenti. Perché, nel suo caso, il medium non coincide mai col messaggio, ma il suo stile formale, cioè il suo linguaggio visivo, è un elemento essenziale del suo storytelling.

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Giovanni Motta, Lady, Lady, Lady, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm,

Ci sono due aspetti complementari nell’arte di Giovanni Motta, quello pittorico e disegnativo e quello plastico e scultoreo, che enucleano due diversi momenti della sua indagine: uno caotico, esplosivo e partecipe che si riflette nelle affollatissime composizioni delle sue tele e delle sue carte, dove il dinamismo dello slancio, dell’impeto e del turbinio dell’azione dominano il racconto; l’altro icastico, contemplativo, aurorale che emana dalle sculture di medie e grandi dimensioni che invitano lo spettatore a un confronto più intimo e meditato con le immagini. Sono i due tempi di uno stesso respiro, le aritmie di un unico battito cardiaco, le contrazioni e distensioni del medesimo muscolo creativo che variano il ritmo della narrazione.

I dipinti di Motta ci trascinano di getto al centro della storia, nel mezzo di un’azione che, con la forza centripeta di un ciclone, sconquassa luoghi, cose e persone. Il nostro occhio è forzato a immedesimarsi con gli eroi bambini e le loro schiere di mostri, ad adottare una visione in soggettiva degli eventi, quasi senza poter opporre resistenza. Diventiamo parte di quello sturm un drang emotivo, fatto di passioni e entusiasmi eroici che l’allegoria della lotta e del conflitto illustrano così sapientemente. Mentre guardiamo, siamo la furia rabbiosa in Lady, Lady, Lady, dove il bambino con la maschera da lupo lotta per liberarsi da tentacolari spire vegetali, oppure ci immedesimiamo con lo sconsiderato ardimento dei ragazzi che si gettano nella fossa delle tigri in Orphans; siamo il risoluto coraggio del guerriero che corre incontro alla battaglia in Thankse in Everyone With Me, ma anche la concentrazione massima di un pensiero fluttuante, come il bambino di Wonder che brilla di quell’energia potenziale in procinto di esplodere in un atto risolutivo.

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Giovanni Motta, Orphans, 2020, tecnica mista su tela, 100×100 cm,

Tutte queste emozioni precipitano al centro delle tele di Giovanni Motta, magneticamente attratte da un fuoco prospettico che coincide, sempre, con l’immagine di Johnny Boy, il bambino allegorico, la metafora animata del vulcanico magma viscerale non solo dell’infanzia, ma di tutte le infanzie. Un espediente che l’artista usa per ricordarci quel che abbiamo perduto e che dobbiamo recuperare, se vogliamo ritornare a sentire la magia dell’esperienza vitale. Le sue storie hanno sempre del miracoloso e usano i registri dello straordinario, dell’eclatante e del sorprendente perché la vitalità e l’entusiasmo non conoscono limiti e restrizioni (e non osservano le regole del bon ton!).

Paradossalmente, nelle sue sculture, la capacità di coinvolgere lo sguardo diventa più sottile e persuasiva rispetto ai dipinti. Lo spettatore recupera il senso di unità soggettiva e percepisce l’oggetto tridimensionale, una delle numerose variazioni di Johnny Boy, come altro da sé, un corpo immobile nello spazio che gli consente un approccio apparentemente più analitico. I tempi di fruizione si allungano, la contemplazione si dilata e si fraziona. Nel muoversi attorno alla forma plastica, l’osservatore adotta molteplici punti di vista, non riesce, cioè, a risolvere la complessità delle forme di un oggetto solido così come risolve otticamente lo spazio illusorio di un’immagine dipinta. Motta conta su questa complessità per irretire l’osservatore in una trama più complessa, in un gioco che più quietamente innesca i meccanismi identificativi. L’immagine è fissa, statica, come una fotografia solidificata nella terza dimensione e il personaggio – uno solo questa volta – concentra su di sé tutte le possibili narrazioni.

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Giovanni Motta, Joe, 2020, resina stratificata, resina, creta, acrilico, legno,60x26x26 cm ,

Lo storytelling, così evidente nei dipinti, si trasferisce ora alla mente dello spettatore. Johnny Boy è la porta d’ingresso dei suoi circuiti proiettivi, proprio come i simboli in pietra scolpiti sui portali delle chiese romaniche e gotiche. La funzione del simbolo è di riunire cose diverse, di mettere insieme pensieri, esperienze, sentimenti e significati contrastanti, di essere, appunto, come una porta che conduce a differenti luoghi o come una chiave che apre diverse porte. Johnny Boy, in tutte le sue numerose incarnazioni, non è mai il latore di un messaggio predefinito, ma l’interruttore che accende la pletora di ricordi e impressioni che riposano nella mente e nel cuore di ognuno di noi. Il suo scopo è risvegliare qualcosa che credevamo sepolto nelle macerie della memoria non per crogiolarsi in un malinconico rimpianto, ma perché possa servirci ora ad affrontare il presente. La nostalgia, così come la intende Giovanni Motta, e come la intendo io, è uno strumento di conoscenza, un tool. Qualcosa che può addirittura assumere le sembianze di un QR Code che ci rimanda alla voce di un bambino mentre recita una poesia imparata a memoria, spalancando, così, dentro di noi un nuovo giacimento di emozioni dimenticate.


[1] Franco Bolelli, Cartesio non balla. Garzanti, 2007, Milano, p.22.

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Giovanni Motta, Thanks, 2020, tecnica mista su tela, 140×100 cm


INFO:

Giovanni Motta – THANKS
a cura di Ivan Quaroni

Galleria Doppia V
via Moncucco, 3 – 6900 Lugano – Svizzera
Opening: Venerdi 11 Settembre h. 18.00
Durata: 11 settembre – 9 ottobre 2020
Orari: dal Martedi al Venerdi, dalle ore 9.00 alle 12.00 / dalle 14.30 alle 17.00; Sabato su appuntamento

Catalogo disponibile in galleria: stampato da Grafiche Aurora, Verona

Galleria Doppia V
Via Moncucco 3, 6900 Lugano, Svizzera
Riferimento: Eugenia Walter
Tel. +41 091 966 0894
info@galleriadoppiav.com

Per ulteriori informazioni:
info@giovannimotta.it

Elena Stizzoli – assistente personale Giovanni Motta –
Tel. +39 340 1295227 elena@giovannimotta.it

Sito web:
www.giovannimotta.it

Thomas Berra. Fiur

17 Ott

di Ivan Quaroni

“Io devo forse ai fiori l’essere diventato pittore”.
(Claude Monet)

“E bastava la letizia di un fiore a riportarci alla ragione”.
(Alda Merini)

 

Verso casa il cielo è sereno, 2019 - Olio su tavola di multistrato di pioppo, cm. 19 x 54 - ph. Cosimo Filippini

Verso casa il cielo è sereno, 2019 – Olio su tavola di multistrato di pioppo, cm. 19 x 54 – ph. Cosimo Filippini

Dovrebbe essere ormai chiaro che la pittura di Thomas Berra, soprattutto quella precisatasi nella ricerca degli ultimi anni, consiste di una procedura apparentemente disorganizzata. Con procedura intendo un approccio sistematico alla costruzione dell’immagine che però non corrisponde alle dinamiche previsionali del designer. In che modo, allora, può darsi una procedura che scarta l’idea stessa di progettazione? Intanto attraverso l’ammissione che un’immagine si possa costruire soltanto come gesto e azione, ossia accogliendo quella moltitudine di epifanie e di pentimenti che compongono la massa stratigrafica del segno. Tra errori e correzioni, tra folgorazioni e tradimenti è, infatti, non solo possibile, ma assai probabile, che quella particolare forma di pensiero che chiamiamo pittura possa lentamente affiorare alla dimensione del visibile.

Come linguaggio a-logico, preterintenzionale, talvolta accidentale, la pittura ha un’anima contraddittoria. Essa si configura come un percorso in cui l’artista è, a un certo punto, spettatore di quanto accade sotto i suoi occhi mentre si fa strumento dell’apparizione delle immagini. Sapere in anticipo l’esito di tale percorso precluderebbe ogni scoperta, ogni possibile epifania. Nella pittura di Thomas Berra l’elemento erratico del dipingere è, infatti, esasperato fino al punto di diventare una procedura (un modus operandi, si diceva un tempo).

“Erratico” significa labirintico, tentacolare. Vuol dire, cioè, che è necessario compiere dei tentativi, degli errori, prima di trovare la via d’uscita verso un’immagine. Ma il termine “erratico” rimanda anche all’idea di “vagabondare”, di percorrere diversi sentieri e di incappare, eventualmente, in strade senza uscita. Questo comportamento in pittura prevede, da parte dell’artista, un certo grado di abbandono e di fiducia nella volontà del linguaggio stesso di farsi strada verso la superficie delle cose e di precisarsi in una forma.

L’immagine, non il verboè, come pensava de Chirico, la prima forma di linguaggio umano. Prima di partorire calligrammi, segni e parole, il pensiero genera immagini. Pertanto, noi non pensiamo in parole, ma in immagini che poi tramutiamo in fonemi.

Thomas Berra - Il Monta i vasi e lo steccolecco, 2019 - Olio su tela di lino, cm. 145 x 205 - ph. Cosimo Filippini

Il Monta i vasi e lo steccolecco, 2019 – Olio su tela di lino, cm. 145 x 205 – ph. Cosimo Filippini

La ricerca di Berra s’inquadra nell’interesse per la dimensione sorgiva delle immagini. La forma finale e decantata della pittura, cioè quella definita, dettagliata, verosimile o “realistica” non appartiene allo spirito della sua indagine. Piuttosto, l’artista esplora lo stato germinale e larvale dell’apparizione, individuando forme dal carattere fantasmatico e aleatorio.

Osservando da vicino i suoi lavori ci si accorge che la stratificazione dei segni e dei gesti non conduce a forme solide e volumetriche, ma a figure che hanno l’aspetto di sagome. La vernice copre le forme dipinte, lasciandole talvolta trasparire come filigrane, come echi di sottofondo. Eppure, anche le immagini più definite in primo piano, quelle arboree e antropomorfe o le architetture elementari, hanno una consistenza instabile, appena più solida delle filigrane sul fondo. Si percepisce, in parte, che l’affastellamento segnico di Berra e il carattere aperto e destrutturato del suo “metodo” fissano l’orizzonte degli eventi della pittura allo stadio formativo appunto. Non è un caso, tra l’altro, che iconograficamente l’artista abbia insistito negli ultimi anni sulla rappresentazione di forme vegetali, come alberi, foglie, fili d’erba, reiterando l’idea di una natura prolifica in modo quasi ossessivo, tanto che la sua ricerca, come ha scritto Simona Squadrito, “è [a un certo punto] diventata un puro studio sul ritmo […]”[1].

La cadenza ripetitiva di segni e forme, elemento che ultimamente aveva caratterizzato la sua grammatica pittorica, s’inquadra ora in una ritrovata aspirazione al racconto. Tornano, insomma, i fantasmi di corpi, di architetture e paesaggi che orientano l’immagine in senso narrativo anche tramite il recupero di memorie del Trecento e Quattrocento toscani.

Thomas Berra. Foto, Cosimo Filippini 2019

Senza titolo, Foto, Cosimo Filippini 2019

I riferimenti iconografici alla pittura di Sassetta indirizzano i dipinti di Berra verso una maggiore strutturazione figurale. Anche i supporti lignei, che richiamano le cuspidi arrotondate del Polittico di Borgo San Sepolcro (1437-44), servono a circoscrivere il perimetro tradizionale del racconto. In queste immagini, dove la natura virescente del fogliame segna una sorta di continuità con gli episodi precedenti della sua indagine, tornano la figura e il paesaggio antropico, tratteggiati con l’abituale essenzialità, ma ispessiti dal corpo della pittura ad olio.

Fiur, cioè “fiore” nel dialetto lombardo – un termine che per Berra rimanda a memorie private e ai suoni della lingua degli affetti familiari – è titolo che non solo conferma l’amore dell’artista per le forme naturali, ben espresso nell’uso insistito del colore verde, ma che può, altresì, indicare una nuova germinazione formale.

Il fiore che sboccia, in questo caso, è il ritrovato rapporto con la tradizione figurativa della pittura italiana, lungo un percorso che idealmente collega lo stile dei pittori tardo-gotici a quello della Transavanguardia, passando attraverso la metabolizzazione dell’arte popolare e del folclore. Thomas Berra è, da sempre, un consumatore compulsivo d’immagini, un divoratore bulimico di suggestioni visive. Tutti questi impulsi, provenienti dalle più disparate fonti, da Sassetta a Beccafumi, da Mario Schifano a Tano Festa, da Mimmo Paladino a Enzo Cucchi (senza dimenticare, però i Neue Wildene i graffitisti americani degli anni Ottanta), si traducono in un frasario pittorico che ammorbidisce la marca espressionista con una sorprendente delicatezza lirica e cromatica.

Sembra quasi che Berra si sia aperto alla dimensione sentimentale, rispolverando i temi dell’iconografia francescana avvertita come modello etico ineludibile. A ispirare le tavole, le tele e le carte di Fiur non è l’agiografia riepilogata nella pittura di Giotto o nella poesia di Dante, ma la figura storica di San Francesco. Dal nuovo corso della pittura di Berra traspare, infatti, una volontà di approfondimento della dimensione spirituale che si traduce in un alfabeto di gesti affettuosi e di soffuse emozioni.

Thomas Berra - Studio con titolo 3, 2019 - Olio su tela di cotone, cm. 28 x 35,5 - ph. Cosimo Filippini

Studio con titolo 3, 2019 – Olio su tela di cotone, cm. 28 x 35,5 – ph. Cosimo Filippini

Tema ricorrente è l’incontro filiale tra personaggi che si abbandonano alla dolcezza di un abbraccio, di una carezza, insomma di un gesto di riconoscimento e comprensione reciproca. Il modello è quello delle antiche Visitazioni(della Vergine Maria a Sant’Elisabetta), delle scene della vita di San Francesco (come il celebre episodio della spoliazione del mantello) e di certe delicate Sacre Famiglie, come quella in tondo con San Giovannino e l’agnellino di Domenico Beccafumi (1521-22). Sono, tuttavia, iconografie che l’artista adatta alla propria ortografia pittorica, stagliandole su un paesaggio naturale plasticamente costellato di edifici semplici ed essenziali dalla forma cubica e dal tetto spiovente.

Berra trasferisce l’immaginario sacro in una dimensione laica e quotidiana, oltre che intima e biografica, e tra le molte figure senza volto che abitano le sue tavole e le sue carte compare, sovente, la sagoma di un autoritratto, segno di un maggiore coinvolgimento emotivo.

Non è solo il cambiamento formale a segnare il passo di questa nuova fase di ricerca, ma un mutamento attitudinale: la pittura sintetica di Berra accantona l’immediatezza segnaletica di certe soluzioni grafiche e il gusto per l’inserzione di frasi e parole efficaci per abbandonarsi, finalmente, alla sola potenza espressiva dell’immagine. Anche la tipica tensione ornamentale che ha caratterizzato parte della sua recente produzione fino alla mostra Tutti dobbiamo dei soldi al vecchio sarto di Toledo, diventa ora un principio accessorio e rafforzativo del racconto.

Al rigoglioso intreccio dei pattern vegetali in opere come La selva, Loschi figuri, Abbraccio d’erba e Capitolando nella foresta, fa da contrappeso la scabra nudità degliStudi con titolo, tele in cui, invece, prevale l’impronta segnica e gestuale (la stessa che ritroviamo nei lavori su carta, tutti rigorosamente in bianco e nero). A prevalere, in questo nuovo capitolo della sua ricerca, è, infatti, una pittura essenziale, costruita con lo stretto necessario (il segno, la forma e il colore) e soprattutto capace di fissare sul supporto il carattere provvisorio e transiente delle immagini. Immagini a tratti delicate e indimenticabili come certi fiori di campo.


Note

[1]Simona Squadrito, Tutti dobbiamo dei soldi al vecchio sarto di Toledo, catalogo della mostra omonima, 12 aprile – 8 giugno 2018, Spazio Leonardo, Milano, p. 6.


Info:

Thomas Berra – Fiur
a cura di Ivan Quaroni e Riccardo Ferrucci
Magazzini del Sale, Siena
Opening: sabato 9 novembre 2019 (fino al 8 dicembre 2019)
Organizzata da Casa d’arte San Lorenzo, San Miniato

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