Archivio | febbraio, 2016

Guarneri, Olivieri, Verna. Gli anni Settanta

20 Feb

LA RICOSTRUZIONE DELLA PITTURA

di Ivan Quaroni

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Gli anni Settanta sono stati, per certi versi, una sorta di strettoia in cui si sono radicalizzati (anche politicamente) i fermenti culturali degli anni Sessanta mentre, parallelamente, sotto la superficie corrusca del tempo, ribollivano aneliti e pulsioni che avrebbero poi costituito l’identikit della sensibilità post-moderna. Artisticamente, è stato un periodo compresso tra il rigore selettivo del Minimalismo, dell’Arte Concettuale e dell’Arte Povera e l’ondivago, seducente afflato libertario della Transavanguardia (ma anche dell’Anacronismo, del Citazionismo, dei Nuovi Nuovi). Sul delicato passaggio tra queste due contrapposte epifanie culturali, sono maturate le ricerche di artisti come Riccardo Guarneri, Claudio Olivieri e Claudio Verna, che con altri compagni dovettero far fronte all’indebolimento (almeno nominale) della pittura. Esaurita la stagione delle sperimentazioni informali, e alle prese con l’eredità fertile ma aggressiva del Concettuale, che archiviava la pittura come uno strumento tradizionale e conservativo, questi artisti avvertirono certamente una sensazione di pericolo e di allerta, domandandosi se per caso a essere esausto non fosse piuttosto un certo modo di fare pittura, condizionato da velleitarie esigenze di rappresentazione e da pretestuosi contenuti letterari. Proprio qui, intorno a tale questione, nacque la volontà di rifondare il valore di una pratica millenaria ripartendo dalle sue basi, ossia dai fondamenti grammaticali e linguistici che andavano ripensati e verificati alla radice. Invece di buttar via il bambino con l’acqua sporca, i cani sciolti – come li definì Giorgio Griffa – della Pittura Analitica decisero di salvaguardare e rifondare una prassi ormai data per spacciata. Con un atto di coraggio, che peraltro implicava l’accettazione, almeno momentanea, di uno stato di minorità culturale rispetto alle tendenze dominanti, i pittori-pittori, come furono spesso chiamati, non solo scongiurarono il rischio di estinzione della pittura, ma costruirono, lentamente e inesorabilmente, le premesse per quel ritorno di cui godettero pienamente i frutti i più disimpegnati esponenti delle future generazioni.

Non fosse stato per loro, per l’impegno che individualmente (prima) e collettivamente (dopo) profusero artisti come Guarneri, Olivieri, Verna (e i loro compagni di viaggio Carmengloria Morales, Giorgio Griffa, Marco Gastini, Pino Pinelli, Enzo Cacciola, Paolo Cotani, Gianfranco Zappettini, Elio Marchegiani, Carlo Battaglia e altri), forse la storia dell’arte italiana avrebbe preso un altro corso. Quel che è certo, col senno di poi, è che in quel fatidico decennio i destini incrociati di Verna, Olivieri e Guarneri hanno giocato un ruolo primario nel processo di ridefinizione della pratica pittorica. Ciascuno a proprio modo e con la propria storia, hanno affrontato analiticamente (con opere e scritti) il problema del linguaggio, adottando talora lo stesso atteggiamento critico dei detrattori della pittura. Invece di trincerarsi dietro i valori della tradizione, hanno eletto il dubbio e la verifica a fondamenti del loro operare, scoprendo, così, che ridotta all’osso ed epurata da ogni tentazione descrittiva, la pittura poteva riassumersi in un vocabolario minimo, fatto di lemmi primari: luce, colore, segno (ma anche tempo, spazio, struttura). Il loro più grande merito, che costituisce anche un elemento distintivo rispetto all’Astrazione classica, è stato quello di interrogarsi non solo sugli oggetti della pittura (le opere), ma sull’atto stesso del dipingere. L’aspetto processuale e operativo è stato, infatti, un tema centrale nelle loro riflessioni, insieme alla cognizione degli strumenti sintattici basilari della prassi pittorica e alla consapevolezza del carattere intenzionale e deliberato del fare pittura. Sia nelle opere di Guarneri, che in quelle di Olivieri e Verna degli anni Settanta, pur con esiti formali diversi, si avverte una profonda adesione ai fondamenti linguistici, sentiti come presupposti necessari dell’indagine. Verna e Olivieri esordiscono negli anni Cinquanta e nello stesso periodo, parallelamente all’attività musicale, anche Guarneri inizia a dipingere. Nella decade successiva, la crisi ormai conclamata dell’Informale e l’affermarsi delle sperimentazioni ottiche e cinetiche da una parte e minimaliste e concettuali dall’altra, influiscono necessariamente sulla coscienza di chi pratica la pittura. Quell’attitudine riflessiva e autocritica, che in seguito porterà i tre artisti alla costruzione di un campo pittorico autonomo e privo di referenti esterni, una specie di terza tappa dell’Astrazione, dopo la Geometrica e l’Informale, nasce dunque prima. Anche se giunge a maturazione solo nei primi anni Settanta.

In particolare, Riccardo Guarneri muove i primi passi nell’ambito dell’Astrazione Informale, con opere che si sviluppano intorno al confronto tra campiture cromatiche e partiture segniche. Inizialmente, la sua idea, modellata sull’esempio di Rothko e perseguita con i compagni del Gruppo Tempo 3 (Gian Carlo Bergoni, Attilio Carreri, Gianni Stirone), è di comporre una via mediana tra l’arte concreta e informale. A influenzarlo sono soprattutto le teorie gestaltiche sulla percezione e le indagini dell’arte cinetica e programmata, suggestioni che egli traduce in una pittura chiara e monocromatica solcata da interventi a grafite colorata che formano una filigrana geometrica sensibile e vibrante. Si tratta, come scrive l’artista nel 1974, di “una geometria più interiore che formale”, costruita quasi liricamente, come trascrizione dell’esperienza personale nell’accadimento della pittura. “A me piace che la pittura si serva del suo medium specifico che poi è la pittura stessa”, dichiara Guarneri, “quella pittura che per il suo particolare linguaggio riesce a comunicare emozioni e sensazioni che sarebbero impensabili in altre forme di linguaggio”.[1] L’artista identifica il colore con la luce creando immagini fondate sulla trasparenza e sulla rarefazione, oltre che sulla strutturazione di uno spazio quasi oscillante, dove le tensioni strutturali e le cadenze ritmiche della geometria affiorano, come evanescenti apparizioni, da una sostanza lattescente. I quadri albini di Guarneri rientrano, per sua stessa ammissione, in quel filone della pittura denominato “bassa percezione”, che impone al riguardante un prolungamento dei tempi di osservazione. Sono opere difficili da fotografare, tutte giocate su pulsazioni minime del bianco che offrono all’artista l’opportunità di vagliare la natura luminosa del colore. Anche il segno a grafite obbedisce all’imperio della luce, facendosi sottile fino al limite ottico, e organizzandosi in geometrie fantasmatiche, di una levità a stento percettibile.

Quadrangoli, triangoli e bande lineari, infatti, si articolano sotto la pelle nivea del colore, come a indicare l’esistenza di uno spazio ulteriore, non immediatamente accessibile. Ma è bene rimarcare che lo spazio per Guarneri non è mai prospettico, né atmosferico. È, semmai, un costrutto mentale, una proiezione ideale, baluginante e instabile e, dunque, inafferrabile. Mentale e ideale è pure la prefigurazione di un campo o di una superficie su cui innestare un fitto e sottilissimo tracciato grafico che trasmuta gli elementi segnici in diafane epifanie di colore. In un testo di Guarneri, scritto in forma di lettera all’amico Claudio Olivieri per un catalogo del 2012, l’artista torna ancora sulla questione della percezione, definendo i propri lavori come “opere a lento consumo”, dove ombra e luce producono “una astrazione lirica, leggera e impalpabile ma sempre rigorosa nel suo farsi”.[2] E rigore e lirismo sono, infatti, motivi fondanti di tutta la sua ricerca, sempre protesa verso la formulazione di un linguaggio capace di conciliare l’elemento aureo e razionale della ragione con la sostanza fragile e sensibile delle emozioni.

Anche l’esordio di Claudio Olivieri alla fine degli anni Cinquanta avviene nell’ambito dell’Arte Informale, ma nel decennio successivo il suo interesse è rivolto alle ricerche futuriste sulla scomposizione della luce. Nelle opere di quel periodo la gestualità del segno si risolve in sottili fenditure di colore, che squarciano la materia cromatica, evidenziando già l’interesse per il dato procedurale, per l’azione stessa del dipingere. Nel testo del catalogo di una mostra del 1966 a Milano scrive: “spazio e cose mi appaiono in un unico fiotto, come una sola pulsazione, che trascina con se l’accadere e il formarsi, il precipitare e il deporsi di elementi frammentari che trovano la loro corrispondenza non per virtù compositiva ma per una specie di gravitazione, di magnetismo attrattivo e repulsivo pronto a compromettersi in caos, a rientrare nell’indistinto, nel limo della mia coscienza da cui era nato”.[3] L’attenzione per una pittura intesa come accadimento appare già in questa precoce affermazione, dove peraltro filtra un modo di sentire più affine alla poetica romantica che non al razionalismo analitico. La sensibilità mercuriale e notturna di Olivieri si manifesta nella predilezione per oscure masse cromatiche, emergenti da una profondità ctonia, appena rischiarata da sferzanti fasce di luce. All’inizio degli anni Settanta, la superficie dei dipinti di Olivieri è ancora sensibilizzata da guizzi grafici, collocati in posizione periferica rispetto al plasma scuro del colore.

Nel 1971, Cesare Vivaldi parla di “fasce luminose che si contrastano, si accampano sulla tela in recisa dialettica l’una rispetto alle altre sino a trovare un equilibrio che riguarda non soltanto lo spazio del quadro ma anche lo spazio nel quale il quadro agisce”.[4] Anche in questo caso, lo spazio non è inteso come illusione prospettica, ma è, piuttosto, una qualità del colore, che si espande sulla superficie con un movimento ascendente, quasi di fluida emersione. Non ci sono forme organizzate, né rapporti gerarchici all’interno dell’immagine, dove prende il sopravvento la natura eventuale, formativa della pittura. Il risultato è qualcosa di formalmente indeterminato, mobile, sfuggente, come il distendersi di una formazione ancora in atto, in cui i costrutti mentali e le necessità pratiche si scontrano in un continuo processo di reciproca verifica. Già dalla seconda metà degli anni Settanta, però, i lavori dell’artista trovano una struttura più stringente, con i colori che si alternano in fasce e vele di diversa intensità luministica, creando una pulsante dinamica interna. Per Olivieri la pittura non è un campo statico, ma un luogo che documenta la costruzione e il disfacimento dell’immagine. “Penso che la pittura sia innanzitutto qualcosa di corporeo”, scrive nel 1978, “un prolungamento della fisicità e non una specie di protesi linguistica intercambiabile e sostituibile”.[5]

Dopo una fase di claustrale sperimentazione, l’uscita di Claudio Verna tra il ’67 e il ’68 avviene sotto il segno del rigore formale, nel clima del neo astrattismo romano e fiorentino. Le iniziali suggestioni neoplastiche, mediate dalla lezione di Dorazio (ma anche di Magnelli e Licini) si coagulano intorno alla dialettica tra struttura e colore, un discorso che l’artista mette a fuoco nei lavori dei primi anni Settanta, dove le forme geometriche fanno da supporto alla pienezza cromatica. Nel 1973, sulle pagine di Flash Art, Verna ammette come “non ci sia mezzo più duttile della pittura per portare avanti un discorso in cui hanno tanta importanza luce e colore”.[6] Nella serie iniziata nel 1970, contrassegnata dalla lettera A, seguita da un numero progressivo, la geometria, quando c’è, è posta al servizio del colore e delle sue possibilità. Lo spazio dell’opera assume una connotazione ambigua, incerta su cui si svolge l’esperienza processuale della pittura, ormai svincolata da necessità narrative e rappresentative. Il dipinto diventa, così, il momento di una procedura di verifica duplice, della disciplina pittorica, con la sua millenaria storia, ma anche del ruolo sociale dell’artista e del suo impegno a ridefinire costantemente i presupposti della sua azione. Per Verna non esiste arte senza critica, perché né la teoria artistica né la pratica pittorica possono sussistere autonomamente senza perdere di significato. Questo implica che la progettazione dell’opera deve necessariamente misurarsi con l’azione pittorica, la quale non può mai ridursi a mera esecuzione. Sul piano fattuale, come nota l’amico Piero Dorazio, Verna “costruisce il suo spazio per zone di colore, per campiture e accenti, da un margine della tela all’altro. Il suo colore è spazio vibrante, non è più elemento di una costruzione per piani o linee di uno spazio da riempire e previsto. È spazio radiante ogni campitura e sagoma che egli scelga nel repertorio pittorico che è suo e non è della geometria né del design”.[7]

Nella prima metà della decade, e anche oltre, i quadrati, i rettangoli e le strisce orizzontali che compaiono nelle sue opere disegnano una geometria instabile e costruiscono uno spazio percettivo stratificato, dominato dalle tensioni liriche e timbriche del colore, che diverrà sempre più centrale nella sperimentazione degli anni successivi. I dipinti di questo periodo, ben esemplificati nell’accurata selezione di questa mostra, evidenziano come, pur partendo da presupposti diversi, di matrice appunto neoplastica e neo astratta, Verna giunga a maturare quell’attitudine critica che sarà poi la marca distintiva di molti membri della frastagliata compagine della Nuova Pittura.

Rivedere, a distanza di quarant’anni, alcune delle opere che Verna, Olivieri e Guarneri hanno realizzato in quel periodo decisivo, ci permettono di valutare come le promesse implicitamente contenute nelle loro indagini siano state pienamente mantenute. Chi pratica oggi la pittura e cerca una qualche consapevolezza nelle ragioni del proprio operare è a questi artisti (e ai loro compagni) che deve guardare, più che ai cinici, disincantati vessiliferi del postmoderno. Chi pensa che la pittura sia ancora un dominio fertile, all’incrocio tra la speculazione teorica e la sperimentazione pratica, deve necessariamente riappropriarsi di questo capitolo fondamentale della recente storia dell’arte. Perché è tra disjecta membra della Pittura Analitica, di quell’aggregato d’individualità affini, che si trovano i padri fondatori – anzi rifondatori – della pittura contemporanea.

Info

Guarneri, Olivieri, Verna. Gli anni Settanta
a cura di Ivan Quaroni
Opening: giovedi 25 febbraio 2016, ore 18.30
25 febbraio – 29 aprile 2016

Galleria Progetto Arte ELM
Via fusetti 14, 20143 Milano
Tel/Fax +390283390437
e-mail: info@progettoarte-elm.com

[1] Claudio Cerritelli, Riccardo Guarneri. Arie di luce, Arie di luce, cat. Ferrarin Arte, Legnago (Vr), 2011.

[2] Riccardo Guarneri, Caro Claudio…, in Claudio Olivieri, L’urgenza di accadere, cat. Ferrarin Arte, Legnago (Vr), 2012.

[3] Claudio Olivieri, È ormai acquisita…, in Olivieri, cat. Salone Annunciata, Milano, 1966.

[4] Cesare Vivaldi, Olivieri, cat. Galleria del Milione, Milano, 1971.

[5] Claudio Olivieri, Non posso spiegare…, in Claudio Olivieri, bollettino della Galleria Lorenzelli n.9, Milano, 1978.

[6] Claudio Verna, Quale pittura?, in Flash Art n.38, Politi editore, Milano, 1973.

[7] Piero Dorazio, in Claudio Verna, cat. Galleria dell’Ariete, Milano, 1970.

Isabella Nazzarri. Life on Mars

15 Feb

di Ivan Quaroni

Sistema Innaturale  #7, acquerello su carta, 70x50 cm, 2015

Sistema Innaturale  #7, acquerello su carta, 70×50 cm, 2015

La coscienza è il caos delle chimere, delle brame, dei tentativi;
la fornace dei sogni; l’antro delle idee vergognose; il pandemonio
dei sofismi; il campo di battaglia delle passioni.”
(Victor Hugo, I miserabili, 1862)

Nell’arte contemporanea è ormai chiaro che sono decadute le vecchie impostazioni classificatorie che separavano nettamente le espressioni astratte da quelle figurative. Non si tratta solo di un cedimento dei sistemi critici che circoscrivevano le ricerche pittoriche in ambiti specifici, ma di un cambiamento strutturale che riguarda l’insorgere di una nuova coscienza ideologicamente a-confessionale. Un’eredità del Post-Moderno, che però ha contribuito a ridefinire i generi, fluidificandone i confini e documentando una più libera circolazione degli artisti tra i diversi domini disciplinari dell’arte. Anche la critica ha registrato questo cambio di marcia, spingendo alcuni autori come Tony Godfrey[1] e Bob Nikas[2] a ripensare le vecchie denominazioni e a proporre una visione più elastica delle ricerche pittoriche attuali. Il primo, introduce, infatti, il concetto di Ambiguous Abstraction per definire le indagini di artisti astratti nei cui lavori sopravvivono tracce, seppur labili, di figurazione; il secondo usa il termine Hybrid Pictures per presentare lavori di artisti, come ad esempio Jules De Balincourt e Wilhelm Sasnal, che usano stilemi prevalentemente figurativi (e perfino narrativi), sconfinando talvolta nei territori della pittura aniconica.

Naturalmente, Gerhard Richter ha indicato la via alle generazioni future e ha mostrato la pittura come un corpo unitario, che può declinarsi indifferentemente nelle più diverse accezioni linguistiche, a patto di rimanere fedele alle ragioni della sua indagine. Richter è, infatti, il perfetto esempio di artista postmoderno, l’uomo giusto al momento giusto che, con la sua arte, è riuscito a testimoniare il delicato, drammatico passaggio dall’epoca ideologica a quella post-ideologica e mediatica.

Appartenente alla generazione dei nati negli anni Ottanta, Isabella Nazzarri ha ovviamente metabolizzato questa nuova attitudine, vivendo, peraltro senza drammi, la possibilità di usare le grammatiche astratte e figurative e, all’occasione, perfino di mescolarle in quel qualcosa d’indefinito, che è appunto il campo d’azione più fertile delle recenti sperimentazioni. L’artista – livornese di nascita e milanese d’adozione – ha seguito un percorso tortuoso, caratterizzato da frequenti andirivieni tra l’uno e l’altro polo, riuscendo, ogni volta, a riorientare la bussola della sua indagine pittorica per adattarla alla propria temperie emotiva.

Sistema Innaturale 32 olio su tela 80x100 cm 2016

Sistema Innaturale 32, olio su tela, 80×100 cm, 2016

Il suo lavoro ha, infatti, un carattere quasi biografico, intimista, che affiora soprattutto nella capacità di dare corpo e immagine a stati mentali, suggestioni emotive e visionarie epifanie che poco hanno a che vedere con l’anamnesi della realtà esteriore, ma che, piuttosto, scaturiscono dalla consapevolezza che oggi alla pittura non rimane che farsi espressione dell’invisibile e dell’indicibile, a rischio di costruire fantasiosi mondi paralleli e personalissimi universi immaginifici.

Sistema Innaturale #5, acquerello su carta, 70x50 cm, 2015

Sistema Innaturale #5, acquerello su carta, 70×50 cm, 2015

Partita da un linguaggio pittorico lineare, di marca disegnativa, Nazzarri ha via via mutato il suo modo di dipingere e ha fatto emergere un segno più corposo, dove gesto e colore si sono organizzati in forme allusive (ma anche elusive) di origine biomorfica e organica. Per maturare questo nuovo modo di sentire e di praticare la pittura, l’artista ha dovuto ripensare i modelli di rappresentazione della realtà demolendo ogni residuo di mimesi e di prospettiva, ma soprattutto di narrazione. La serie di opere precedenti, intitolata Rooms, dimostra come l’organizzazione dello spazio tridimensionale, e dunque la tradizionale impostazione prospettica, lascia campo all’inserimento di campiture astratte, di griglie geometriche e accostamenti di piani che ricordano certe intuizioni della Nuova Scuola di Lipsia. “Il ciclo è incentrato sulle possibilità della pittura di evadere dalla rappresentazione”, dice l’artista. La stanza diventa un pretesto per indagare il potenziale alchemico della pittura, quello che Elkins James[3]definisce un corto circuito percettivo, in cui lo spettatore esplora la superficie trovando appigli evocativi che tuttavia non danno risposte univoche.

Si avvertono, però, i sintomi di un’insofferenza verso i modelli figurativi, che poi si tramuterà in un volontario allontanamento perfino dalle forme più scomposte e libere di rappresentazione, quelle che, per intenderci, oggi attirano tanti artisti della sua generazione. Alle spesse concrezioni di pasta pittorica che caratterizzano tanta pittura europea (specialmente dell’Est), Nazzarri preferisce una materia più leggera, quasi liquida ed evanescente, che spesso trova nella tecnica dell’acquerello uno strumento adeguato. Molti dei suoi lavori recenti sono realizzati su carta, anche se parallelamente l’artista continua a dipingere nella tradizionale tecnica dell’olio su tela.

Innesti  #26 acquerelli su carta 35x25 cm_2015

Innesti #26, acquerelli su carta, 35×25 cm, 2015

L’eredità della serie Rooms, ancora visibile nella necessità di inquadrare le forme in una griglia geometrica, in una struttura ordinata e rigorosa mutuata dagli erbari, si manifesta soprattutto nei lavori del ciclo Systema Innaturalis come un impianto di classificazione morfologica. In realtà, le forme biomorfiche di Isabella Nazzarri nascono prima, come generazione di organismi pittorici individuali nelle serie intitolate Conversazioni extraterrestri e Innesti, in cui la metamorfosi dal figurativo all’astratto è colta in divenire. Proprio qui si chiarifica il suo modus operandi, che procede per successivi trapianti e innesti formali, attraverso passaggi fluidi, che danno l’idea di una progressiva germinazione e di una liquida gemmazione di segni pittorici. Anche la gamma cromatica cambia, si alleggerisce in membrane delicate e trasparenti dagli amniotici toni pastello.

Si ha la sensazione che l’artista maneggi una materia viva ma embrionale, non del tutto formata, che ricorda gli organismi semplici del brodo primordiale. La somiglianza con gli ordini di amebe, parameci, batteri e altri protozoi è del tutto occasionale, perché quelle di Nazzarri sono soprattutto forme intuitive, proiezioni mentali che certamente rimandano al mondo delle forme naturali, ma che poi non trovano corrispondenza nella biologia terrestre. Forse, per questo, l’artista le vede come il frutto d’ipotetiche, quanto fantastiche, Conversazioni extraterrestri. Qualcosa di alieno e morfologicamente estraneo contraddistingue, infatti, questi organuli cellulari dotati di pseudopodi e flagelli, ordinati in un campionario tipologico che sta a metà tra il taccuino di un naturalista vittoriano e la tavola di un bestiario medievale.

Eppure niente è più lontano dall’artista dell’interesse per la fantascienza. Piuttosto, si può dire che calandosi nel profondo della propria interiorità, tra i labirinti dell’immaginazione e i fantasmi della psiche, Nazzarri abbia scoperto un catalogo di forme primitive che costituisce l’anello di congiunzione tra gli archetipi junghiani e gli organismi semplici che diedero inizio allo sviluppo della vita nell’universo. In verità, nessuno può affermare con certezza che queste forme non siano mai esistite Se sono nel microcosmo interiore dell’artista, forse esistono anche fuori dai confini conosciuti, magari su un remoto pianeta di una galassia sconosciuta. D’altra parte, la pittura è come una sonda lanciata nello spazio infinito della conoscenza. E l’artista, un cosmonauta della consapevolezza.


Note

[1] Tony Godfrey, Painting Today, Phaidon Press, London, 2014.
[2] Bob Nikas, Painting Abstraction. New Elements in Abstract Painting, Phaidon Press, London, 2009.
[3] Elkins James, Pittura cos’è. Un linguaggio alchemico, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni – Milano, 2012.


Info

Isabella Nazzarri. Life on Mars
a cura di Ivan Quaroni
opening: mercoledi 24 febbraio 2016, h. 18.30
24 febbraio > 23 marzo 2016
Circoloquadro
Via Genova Giovanni Thaon di Revel 21, Milano
Tel. 02 6884442 – info@circoloquadro.com

Andy Rementer e Fulvia Mendini. The Age of Innocence

1 Feb

di Ivan Quaroni

La perfezione si ottiene non quando non c’è più nulla da aggiungere,
ma quando non c’è più niente da togliere.”
(Antoine de Saint-Exupéry)

La semplicità nell’arte è, in generale, una complessità risolta.
(Constantin Brâncuşi)

 

Siamo in un’epoca di conclamata sublimazione della tridimensionalità, effetto evidente di una fase ultra-mimetica delle tecnologie digitali. Il 3D ormai non imita più la realtà, ma la supera in nome di una super definizione dell’esperienza ottica che, però, finisce per appiattire il contributo immaginativo dello spettatore. Credo sia successo a ognuno di noi di sperimentare il fastidio generato dalla visione di un film (oppure di un videogioco) in 3D, in cui l’applicazione forzosa di tale tecnica ha provocato un impoverimento, anziché un arricchimento del godimento estetico o ludico. Quello che i geek degli effetti speciali e gli smanettoni dell’industria videoludica non riescono a capire è che la mente umana contribuisce attivamente alla visione, alterando e ristrutturando le percezioni visive in base ai concetti già immagazzinati. Fenomeni come lo scotoma, l’effetto priming, la misdirection passiva, la cecità selettiva e altri curiosi trucchi mentali sono, infatti, ben noti agli scienziati e agli illusionisti. René Magritte sosteneva che “la mente ama le immagini il cui significato è ignoto, poiché il significato della mente stessa è sconosciuto”. Guardare un’immagine, quindi, è come ingaggiare una sfida con il mistero che essa sottende. Quando, invece, l’immagine contiene troppe informazioni, quando è denotativa, eccessivamente didascalica rispetto al proprio contenuto, il mistero si dissolve.

I lavori pittorici di Andy Rementer e Fulvia Mendini non corrono questo rischio. Nonostante l’apparente semplicità dei loro dipinti, peraltro non privi di dettagli preziosi e riferimenti colti, Rementer e Mendini dimostrano di aver ben compreso il potenziale comunicativo, ma soprattutto seduttivo, del linguaggio bidimensionale, il quale sopperisce alla sottrazione degli elementi prospettici e chiaroscurali con l’aumentata capacità allusiva di linea e colore. Tipica di molte forme di arte antica, così come di quella bizantina e medievale fino al Trecento, la bidimensionalità è stata una caratteristica che ha attraversato molte correnti dell’arte del Novecento. Essa consiste in una rappresentazione concentrata nei soli parametri di altezza e larghezza, in cui la rinuncia a ogni effetto di profondità spaziale finisce per alterare anche la dimensione temporale e narrativa.

Un esempio di questo meccanismo è Guernica di Picasso, forse il più celebre capolavoro di arte bidimensionale di tutti i tempi, dove la sintesi pittorica e l’allineamento anti-prospettico di tutte le figure sullo stesso piano producono il più alto modello di narrazione simultanea, sulla scia di quanto già avveniva nella struttura paratattica dei rilievi paleocristiani e degli affreschi altomedievali, in cui si affastellavano i diversi episodi di una storia.

Belide

Fulvia Mendini, Belide, 2015, acrilico su tavola, 23×17 cm

Né l’artista americano, né quella italiana si servono, però, di questo espediente. Più che nell’impianto narrativo – stringatissimo nel caso di Andy Rementer e totalmente abolito nei dipinti di Fulvia Mendini – gli effetti dell’adozione di un linguaggio sintetico si avvertono soprattutto nell’impatto iconico delle figure, in parte ereditato dalla Pop Art e in parte dall’economia progettuale e comunicativa del design, cui entrambi devono la propria formazione.

Originario del New Jersey, Andy Rementer ha, infatti, studiato Graphic Design alla University of the Arts di Philadelphia ed ha poi lavorato come illustratore e fumettista per testate come il New York Times, il New Yorker, Apartamento Magazine e Creative Review e, come animatore, con l’emittente MTV e la casa di produzione cinematografica Warner Bros. Per due anni è stato a Treviso alla Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group, in compagnia di un manipolo di ricercatori internazionali specializzati in grafica, design, fotografia, video, musica e giornalismo. Durante la sua permanenza in Italia, l’artista ha sviluppato un linguaggio visivo ispirato oltre che al design, al fumetto e ai cartoni animati, anche all’arte europea e, in particolare a quella medievale, bizantina e rinascimentale conosciuta nelle sue frequenti incursioni a Venezia.

Nelle opere di Andy Rementer, la flatness si esprime attraverso una teoria di personaggi dalle sagome compatte e dai contorni definiti, spesso stagliati sullo sfondo di un paesaggio urbano. La metropoli è, infatti, protagonista di una serie di episodi fulminei, di storie semplicissime che, però, rivelano il carattere straordinario dell’esperienza quotidiana. L’artista annulla i dettagli di spazio e tempo e cala i suoi personaggi in una dimensione silente e sospesa di sapore quasi Novecentista. Non a caso, annovera Ferdinand Léger tra le sue principali influenze, anche se la propensione per la stringatezza e la sintesi gli deriva dalla lettura dei racconti di Raymond Carver, dove l’economia narrativa si combina con un linguaggio conciso e minimale.

DIVA

Andy Rementer, Divano Diva, 2015, oil on canvas, 76×122 cm

Se le forme piene delle sue figure ricordano a tratti quelle dipinte dagli europei nel clima di Ritorno all’ordine degli anni Venti e Trenta, gli oggetti e i complementi d’arredo che compaiono negli interni domestici denotano, invece, il suo duplice interesse per il design e per la Metafisica italiana. Da buon cosmopolita, e con la spavalderia di chi è abituato a trasgredire ogni confine disciplinare, Rementer condensa nel lessico pop una varietà d’interessi, che stanno all’incrocio tra passato e presente, ma anche tra arte, grafica e illustrazione. E, così, reinventa una mitologia urbana allegramente nevrotica, vivacemente malinconica, che ben si adatta alle contraddizioni della società moderna.

Dopo gli studi di grafica e illustrazione all’Istituto Europeo del Design di Milano, Fulvia Mendini ha lavorato all’Atelier Mendini e, parallelamente, ha sviluppato la propria ricerca pittorica e decorativa concentrandosi in particolare sul ritratto e sul mondo delle forme naturali. Artista versatile, Mendini ha collaborato con artigiani e aziende, realizzando ceramiche, sculture, tappeti, murales, gioielli e borse. La sua pittura, caratterizzata (soprattutto nei ritratti) da un’impostazione frontale e ieratica, ricca di citazioni colte, è il risultato di una raffinata mescolanza di stili artistici e grafici. Se nelle sue moderne Madonne è lecito rintracciare l’influenza di molta pittura rinascimentale – da Giovanni Bellini a Piero della Francesca, fino a Pisanello – nei ritratti più recenti affiora, per la prima volta un vivo interesse per la pittura simbolista, filtrata però dalla sua tipica sensibilità lineare.

La reinventata tipologia mariana della Mendini sfocia, così, in una carrellata di fisionomie che alludono all’eterno femminino decadente, epurato, però, di ogni connotato drammatico. Fate e ninfe rubate al catalogo dei Fairy Tales Painting vittoriani si accompagnano, infatti, ai classici modelli di veneri preraffaellite e alle fatali dame secessioniste interpretate alla luce di una grammatica ultrapiatta che fa pensare alla pittura segnaletica di Julian Opie. Venus Verticordia, a cominciare dal titolo, è una rilettura del celebre dipinto di Dante Gabriel Rossetti corredato da floreali allusioni all’immaginario ornamentale di William Morris, mentre la più moderna Belide, sovrappone al nitore fotografico di Loretta Lux il ricordo di un ritratto di Helene Klimt, figlia del famoso maestro viennese.

Madonna della conchiglia

Fulvia Mendini, Madonna della conchiglia, 2014, acrilico su tela, 69×60 cm

Inedita, invece, è l’attrazione di Fulvia Mendini verso il paesaggio, anche questa volta derivato da suggestioni simboliste. La natura, finora confinata al mondo di piante e fiori, assume finalmente una dimensione ambientale e si distende, dietro i ritratti in primo piano, in orizzonti montani che molto devono ai paesaggi alpini di Giovanni Segantini e degli svizzeri Ferdinand Hodler, Cuno Amiet e Alexandre Perrier.

L’artista costruisce un universo bidimensionale apparentemente semplice, dove ogni figura assume una fisionomia aliena e ogni landscape sembra il fondale di un videogame, ma dentro i suoi paradisi terrestri, aristocraticamente elementari e improntati al più puro godimento ottico, si nascondono riferimenti a raffinati, preziosi episodi della storia dell’arte. Ciò che sembra una pittura facile, immediatamente fruibile, è invece un ipertesto visivo, che nasconde in superficie un numero impressionante d’informazioni. La forza dei linguaggi di Fulvia Mendini e Andy Rementer sta tutta qui. Ossia nell’aver compreso che – come diceva Bruno Munari, facendo eco a Leo Longanesi – “complicare è facile, semplificare è difficile”.

Info:
Fulvia Mendini | Andy Rementer - The age of innocence
a cura di Ivan Quaroni
11.02 - 2.04.2016
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milano
Tel/Fax 02.29060171 - info@colomboarte.com

The age of innocence

 

by Ivan Quaroni

 

Perfection is achieved not when there is nothing more to add, but when there is nothing left to take away.”
(Antoine de Saint-Exupéry)

Simplicity in art is generally complexity resolved.
(Constantin Brâncuşi)

 

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Fulvia Mendini, Lollipop

We are in an era of clear sublimation of three-dimensionality, an evident effect of an ultra-mimetic phase of digital technologies. 3D no longer imitates reality, but surpasses it in the name of a super-definition of the optical experience that, however, winds up flattening the imaginative contribution of the spectator. I think everyone has experience the irritation generated by watching a film (or a video game) in 3D, in which the enforced application of the technique leads to an impoverishment, rather than an enhancement, of aesthetic or recreational pleasure. What the special effects geeks and the tweakers of the video game industry cannot manage to understand is that the human mind takes an active part in viewing, altering and restructuring visual perceptions based on already absorbed concepts. Phenomena like the scotoma, the priming effect, passive misdirection, selective blindness and other curious mental tricks, have been known for a long time to both scientists and stage magicians.

René Magritte believed that “the mind loves images whose meaning is unknown, since the meaning of the mind itself is unknown.” To look at an image, then, means engaging in the challenge of a mystery the lies behind it. When the image instead contains too much information, when it is denotative, excessively caption-like with respect to its content, the mystery dissolves.

The painted works of Andy Rementer and Fulvia Mendini do not run this risk. In spite of the apparent simplicity of their paintings, which are not however lacking in precious details and erudite references, Rementer and Mendini demonstrate that they are understood the communicative but above all seductive potential of the two-dimensional language, which makes up for the subtraction of elements of perspective and chiaroscuro with an augmented allusive capacity of line and color. Typical of many forms of antique art, like Byzantine and medieval art until the 1300s, two-dimensionality has been a characteristic that crosses many 20th-century currents. It consists of a representation that concentrates only on parameters of height and width, in which the sacrifice of any effect of spatial depth also winds up altering the temporal and narrative dimension.

One typical example of this mechanism is Picasso’s Guernica, perhaps the most famous work of two-dimensional art of all time, where the pictorial synthesis and anti-perspective alignment of all the figures on the same plane produce the loftiest model of simultaneous narration, in the wake of what had already happened in the paratactic structure of Paleo-Christian reliefs and the frescoes of the Early Middle Ages, clustering the various episodes of a story. Neither of the two artists makes use of this expedient, however. More than in the narrative plot – very pithy, in the case of Andy Rementer, totally abolished in the paintings of Fulvia Mendini – the effects of the use of a synthetic language can be seen in the iconic impact of the figures, partially inherited from Pop Art and partially from the communicative economy of design, in which both have a background.

LA_GAZZA_LADRA

Andy Rementer, La Gazza ladra, 2015, oil on canvas, 122×76 cm

Hailing from New Jersey, Andy Rementer studied Graphic Design at the University of the Arts in Philadelphia and then worked as an illustrator and cartoonist for periodicals like the New York Times, the New Yorker, Apartamento and the Creative Review, and as an animator for MTV and Warner Bros. He spent two years in Treviso at Fabrica, the communications research center of Benetton Group, in the company of a handful of international researchers specializing in graphics, design, photography, video, music and journalism. During his time in Italy the artist developed a visual language driven not only by design, comics and cartoons, but also by European art and, in particular, medieval, Byzantine and Renaissance art, encountered in his frequent trips to Venice.

In the works of Andy Rementer flatness is expressed through a series of characters with compact silhouettes and sharp edges, often standing out against the backdrop of a cityscape. The metropolis is the protagonist of a series of quick episodes, very simple stories that nevertheless reveal the extraordinary character of everyday experience. The artist annuls the details of space and time and sets his characters in a silent, suspended dimension with almost 20th-century overtones. It is no coincidence that he cites Ferdinand Léger as one of his main influences, though the tendency to be concise comes from the reading of stories by Raymond Carver, where narrative economy is combined with terse, minimal language.

TOGETHER

Andy Rementer, Together

While the full forms of his figures remind us at times of those painted by the Europeans in the context of the “return to order” of the 1920s and 1930s, the objects and furnishings that appear in the domestic interiors point to his dual interest in design and Italian Metaphysical Art. As a proper cosmopolitan, and with the brashness of one accustomed to crossing all disciplinary boundaries, Rementer condenses a variety of interests in the pop lexicon, at the intersection between past and present, but also between art, graphics and illustration. Doing so, he reinvents a cheerfully neurotic, vivaciously melancholy urban mythology, well-suited to the contradictions of modern society.

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Andy Rementer, La pausa

After studying Graphic Design and Illustration at the European Design Institute in Milan, Fulvia Mendini worked at Atelier Mendini and, at the same time, developed her own research on painting and decoration, concentrating in particular on portraiture and the world of natural forms. A versatile artist, Mendini has worked with artisans and companies, making ceramics, sculptures, carpets, murals, jewelry and handbags. Her painting, characterized (especially in the portraits) by a frontal, hieratic arrangement, full of erudite citations, is the result of a refined mixture of artistic and graphic styles. While in her modern Madonnas we can see the influence of Renaissance painting – from Giovanni Bellini to Piero della Francesca, all the way to Pisanello – in the more recent portraits a lively interest surfaces for the first time in Symbolist painting, but filtered by her typical linear sensibility.

Madonnina dell' umiltà

Fulvia Mendini, Madonnina dell’umiltà, 2015, acrilico su legno, 23×1\7 cm

The reinvented Marian typology of Mendini converges in a medley of physiognomies that allude to a decadent eternal femininity, but purged of any dramatic connotations. Fairies and nymphs stole from the catalogue of Victorian “fairy painting” are accompanied, in fact, by classic models of Pre-Raphaelite Venuses and Secessionist femmes fatales interpreted with an ultraflat grammar that brings to mind the signage-like painting of Julian Opie. Venus Verticordia, starting with its title, is a re-reading of the famous painting by Dante Gabriel Rossetti, provided with floral allusions to the ornamental imaginary of William Morris, while the more modern Belide overlaps the photographic clarity of Loretta Lux with the memory of a portrait of Helene Klimt, daughter of the famous Viennese master.

Proserpina

Fulvia Mendini, Proserpina, 2009, acrilico su tela, 69×60

Fulvia Mendini’s attraction to the landscape, on the other hand, is unprecedented, and again comes from Symbolist suggestions. Nature, previously confined to the world of plants and flowers, finally takes on an environmental dimension and spreads, behind the portraits in the foreground, into mountainous horizons that owe a lot to the Alpine paintings of Giovanni Segantini and the Swiss painters Ferdinand Hodler, Cuno Amiet and Alexandre Perrier.

The artist constructs an apparently simple two-dimensional universe where each figure takes on an alien physiognomy and every landscape seems like the background of a video game. But inside her earthly paradises, aristocratically elementary and bent on pure optical enjoyment, references are lurking to refined, precious episodes in the history of art. What looks like easy, immediately enjoyable painting is instead a visual hypertext that conceals an impressive amount of information. The force of the languages of Fulvia Mendini and Andy Rementer lies here: in having understood that – as Bruno Munari said, echoing Leo Longanesi – “complicating things is easy, simplifying them is hard.

Info:
Fulvia Mendini | Andy Rementer - The age of innocence
curated by Ivan Quaroni
11.02 - 2.04.2016
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milano (Italy)
Tel/Fax 02.29060171 - info@colomboarte.com