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Viviana Valla. Sight Unseen

21 Ott

di Ivan Quaroni

L’intuizione è la percezione dell’invisibile,
così come la percezione è l’intuizione del visibile.
(Nicolás Gómez Dávila)

La ricerca artistica di Viviana Valla è indubbiamente imperniata sulla percezione, anche se in un modo assai diverso, e forse più sottile, rispetto alle sperimentazioni condotte negli anni Sessanta nell’ambito della cosiddetta Arte Ottica e Cinetica. Queste ultime, infatti, consistevano spesso nella creazione di dispositivi estetici, che miravano ad aumentare la consapevolezza del pubblico nei confronti del problema della “visione” ed evidenziavano il ruolo dei meccanismi di percezione cognitiva e sensoriale nell’interpretazione delle immagini. Nel lavoro di Viviana Valla è, piuttosto, il tempo della fruizione a essere importante, perché le sue opere non sono immediatamente decrittabili. Non lo sono, prima di tutto, perché sono costruite con un meccanismo complesso di stratificazione, che procede per aggiunte progressive e rivelatrici sottrazioni, stabilendo un’intricata trama di relazioni segniche, geometriche e materiche tra i diversi livelli di cui è composta l’immagine.

Comes as, 2014, tecnica mista su tela, 30x30cm

Comes as, 2014, tecnica mista su tela, 30x30cm

La procedura è quella delle velature, certo, ma l’accumulo non coinvolge solo le campiture di colore, i segni e le forme, ma anche il collaggio di frammenti di carta velina, post-it, nastri adesivi, ritagli di stampe, a loro volta ricoperti da strati di liquidissimi acrilici. Il risultato è, allo stesso tempo, leggibile e oscuro quel tanto da non rivelare immediatamente che l’immagine finale, un diagramma chiaramente astratto, è la conseguenza di un processo costruttivo elaborato. La percezione lenta è necessaria. Il tempo diventa un fattore sensibile per evitare di trarre conclusioni affrettate e leggere l’opera nello stesso modo con cui leggiamo una qualsiasi immagine, cioè semplicemente come un conglomerato di forme più o meno ordinate su una superficie. Nelle opere di Viviana Valla c’è, invece, una morfologia invisibile, che è parte integrante dell’immagine. Tutto ciò che non vediamo, cioè gli interventi pittorici e i collage che l’artista cancella nel processo di stratificazione, costituisce non solo l’ossatura dell’opera, ma la sua ragion d’essere. I contenuti formali sedimentati e solo parzialmente affioranti sulla superficie dell’opera, fanno parte di un percorso di progressivo rassetto di elementi caotici, tramite un continuo flusso di aggiunte e sottrazioni. Il risultato è un dipinto contrassegnato da micro rilievi che muovono quasi ritmicamente la superficie con impercettibili screziature.

Non è possibile ricostruire la successione degli interventi sulla tela, perché l’artista agisce in maniera erratica, imprevedibile, precisando via via il proprio progetto compositivo. In sostanza, nella ricerca di Viviana Valla, gli elementi progettuali e processuali convergono in una grammatica formale d’impianto apparentemente analitico e minimale, che, in verità, occulta una matrice intuitiva ed emozionale. “Il mio lavoro prende le mosse da un astrattismo geometrico”, afferma l’artista, “attraverso l’utilizzo di materiali atipici, ma anche di segni, collage e materiali di recupero che alludono a una dimensione intimistica, a una sorta di diario che negli anni si è fatto sempre più criptico ed ermetico”. Dietro il nitore e la pulizia formale di questi lavori si annida, infatti, un coagulo di pensieri inafferrabili, di repentine intuizioni, d’improvvise illuminazioni che l’artista tenta di tradurre in una lingua chiara, estensiva, effetto ultimo di un raffreddamento espressivo del magma interiore.

Anche la scelta della scala cromatica, composta prevalentemente da tinte tenui e toni delicati, grazie all’uso di acrilici molto liquidi che producono effetti di trasparenza, testimonia la necessità di attutire la temperie emotiva del processo. Si avverte, insomma, che nella sua ricerca è in atto una sorta di volontaria censura sentimentale, di pudica rimozione dei segnali lirici, che appaiono invece imbrigliati in un reticolo di forme poligonali e di scansioni cartesiane. Lo spazio dell’opera, con i suoi molteplici strati e le sue lievissime asperità epidermiche tende talvolta a sconfinare oltre il perimetro. Soprattutto nelle installazioni, segni, tracce e linee colonizzano porzioni di muro, di pavimento o di soffitto, suggerendo l’idea di una potenziale continuazione o proliferazione ad libitum del vocabolario pittorico dell’artista. Espansione e sottrazione, rimozione e allusione si susseguono costantemente nella pittura di Viviana Valla, innescando un gioco sottilmente seduttivo, che irretisce l’osservatore nel tentativo di intuire il contenuto velato, latente nei simulacri della geometria.

Il titolo della mostra, Sight Unseen (a scatola chiusa) allude propriamente al leitmotiv della recente indagine dell’artista, tutta incentrata sul dualismo tra accumulo e cancellazione, tra stratificazione e occultamento. Di fatto, i dipinti dell’artista in qualche modo somigliano a scatole chiuse. Il loro sigillo, se così si può dire, è di solito una forma bianca, che occlude una parte rilevante della superficie, sigillando, allo stesso tempo, le stratificazioni pittoriche inferiori.

Questi bianchi poligoni sono ottenuti con la sovrapposizione di varie stesure di gesso acrilico in sagome poligonali, ma di recente, tali forme si dissolvono in pennellate o si frammentano in moduli. Il bianco, metafora di cancellazione, sembra ripristinare il vuoto iniziale della tela. Ma, naturalmente, la stesura finale di gesso non ha lo stesso valore del fondo bianco. Tra l’uno e l’altro è avvenuto qualcosa, si è consumata una vicenda, quella dell’artista eternamente in lotta con il proprio linguaggio, impegnato in un corpo a corpo con le proprie facoltà espressive. Come dire, infatti, in pittura ciò che non può essere espresso in parole? E, soprattutto, in che modo è possibile dire qualcosa di così inafferrabile da resistere a ogni forma di linguaggio – e a maggior ragione nella pratica aleatoria della pittura -, come le intuizioni e le epifanie che di tanto in tanto, balenano nella mente dell’artista?

Unadorned frequency#1, 2015, tecnica mista su tela, 70x50cm

Unadorned frequency#1, 2015, tecnica mista su tela, 70x50cm

Forse Viviana Valla è consapevole di tale ineluttabilità, e la trasforma in un tema, in un concetto attorno al quale articolare la propria ricerca. Le sue opere diventano, allora, come le scatole chiuse del titolo, contenitori di sintomi e presagi, di segnali e annunci costantemente negati. E, come nella migliore tradizione aniconica occidentale, la sua pittura astratta finisce per acquisire tutte le qualità di un linguaggio indiziario, ambiguo, disseminato di omissioni. D’altra parte, come pensava Claude Lévi Strauss, “il linguaggio è una forma della ragione umana, con una sua logica interna della quale gli uomini non conoscono nulla”. Alla fine, l’enigma della pittura di Viviana Valla non può che rimandare la sua soluzione all’occhio vigile dell’osservatore o, meglio, alla sua capacità di afferrarne il significato nella forma stessa, il senso nella materia sensibile.

Untitled#1, 2014, tecnica mista su carta, 10,5x15,5cm

Untitled#1, 2014, tecnica mista su carta, 10,5×15,5cm

Info:

Viviana Valla – Sight Unseen

A cura di Ivan Quaroni

ABC-ARTE Contemporary Art Gallery 

ABC-ARTE for MARYLING Piazza Gae Aulenti 1, Milano – Lun – Sab: 9am-9pm
Opening: Mercoledi 28 Ottobre, 6.30pm to 9.30pm

Dal 28 Ottobre al 20 Novembre 2015


ENGLISH TEXT

Sight Unseen

 

By Ivan Quaroni

Intuition is the perception of the invisible,

just as perception is the intuition of the visible.”

(Nicolás Gómez Dávila)

Installation's View

Installation’s View

Viviana Valla’s artistic research is based on perception without doubt. She experiments in a hugely different, and more subtle, way from the Kinetic and Op Art of the Sixties. These artistic movements created attractive devices to make the audience aware of the “vision” problem. They underlined the role of knowledge and senses in the interpretation of images. The time of fruition is rather important in Viviana Valla’s work. Her works are not immediately comprehensible, because they are based on a complex stratification mechanism. Through gradual additions and revealing removals, she establishes an elaborate web of relations of signs, structures and substances between the different layers of the image. This is a glazing process, of course, but here colours, signs and shapes are assembled together with the collage of tissues, post-it, tapes, print-cuts covered by layers of liquid acrylics.

The result is clear and obscure at the same time, it does show the final image, a distinctly abstract diagram as a consequence of a complex productive process. Slow perception is necessary. Time becomes an useful tool to avoid easy conclusions and it helps reading the work in the same way we would read any image. It is a combination of more or less organised shapes on a surface. In Viviana Valla’s work is present an invisible morphology, which is an essential part of the image. All we do not see, such as the pictorial adjustments and the collage erased by the artist during the stratification process, is not only the skeleton of her work, but is also its own raison d’être. The settled formal subjects partially emerge from the work’s surface, they are part of a gradual rearrangement of chaotic elements through continuous additions and exclusions . The result is a painting characterised by micro-relieves rhythmically shaking the surface with slight variegations.

It is not possible to re-trace the sequence of interventions on the canvas. The artist acts in a erratic way, claryfing her project step by step. Basically, the plan and realisation of artistic elements in Viviana Valla’s research are structured through an apparently analytical and minimal system which, actually, hides an intuitive and emotional origin. “My work begins from geometrical abstract art”, says the artist, “I use atypical substances, but also signs, collages and recyclable materials suggesting an intimate dimension, a kind of diary, more cryptic and hermetic throughout the years.” Behind the formal neatness and integrity of these works, there is a gathering of elusive thoughts, immediate ideas and sudden inspirations translated in a clear and extensive language by the artist. The final effect of the expressive cooling of interior fire.

Also the choice of colours, tenuous tints and delicate tones, helps the process of softening the emotional aspect, thanks to the use of very liquid acrylics producing transparency effects. It is possible to feel a kind of ongoing emotional censure, a discrete removal of poetic messages trapped by a net polygonal shapes and Cartesian volumes. The work’s space, because of its various layers and subtle superficial irregularities, sometimes crossovers its own borders. It happens especially with installations. Signs, traces, lines conquer portions of walls, floors and ceilings, suggesting the idea of continuing or increasing ad libitum the pictorial vocabulary of the artist. Expansion and exclusion, removals and allusions follow one another in Viviana Valla’s painting. They activate a slightly seducing game, entrapping the observer who tries to understand the veiled contents through geometrical appearance.

Sweet unrest, 2015, tecnica mista su tela, 120x100cm

Sweet unrest, 2015, tecnica mista su tela, 120x100cm

The title of the exhibition, Sight Unseen, refers to the leitmotiv recently investigated by the artist, the dualism between accumulation and exclusion, stratification and concealing. The paintings do look like a closed box. Their seal is generally a white shape, which hides a relevant part of the surface and, at the same time, it seals the lower pictorial layers. These white polygons are obtained through the addition of various layers of acrylic gesso in polygonal shapes. Recently, these shapes have been dissolved by brush strokes or fragmented in modules. White, as a metaphore of cancellation, looks like bringing back the initial emptiness of the canvas. Of course, the final layer of gesso is not the same as the white background of the beginning. Something happened between one phase and the other. The eternal fight between the artist and her language has taken place, a hand-to-hand examination of her own expressive tools. How can you express through painting what you can’t say through words? How is it possible to say something so elusive that no language can express it – especially in the random pratice of painting -, such as ideas and epiphanies which sometimes appear in the mind of the artist?

Ancient breath,2015, tecnica mista su tela, 70x70cm

Ancient breath,2015, tecnica mista su tela, 70x70cm

Perhaps Viviana Valla is aware of this unavoidability. She may transform it in a subject, in a concept at the base of her research. Her works become so the sight unseen of the title, closed boxes containing warnings, predictions and perpetually denied messages. Like in the best aniconic traditions, her abstract way of painting shows all the properties belonging to an ambiguous language, full of clues and omissions. There again, as proposed by Claude Lévi Strauss, “Language is a form of human reason, which has its internal logic of which man knows nothing.” After all, the enigma of Viviana Valla’s paintings can only find its solutions through the attentive eye of the observer or, even better, through his ability to understand the meaning of shape itself, the sense of sensitive substance.

Info:

Viviana Valla – Sight Unseen

Curated by Ivan Quaroni

ABC-ARTE Contemporary Art Gallery 
ABC-ARTE for MARYLING Piazza Gae Aulenti 1, Milano – Mon – Sun: 9am-9pm
Opening: Wednesday October 28th, 6.30pm to 9.30pm

From Wednesday October 28th  to November 20th 2015

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Viviana Valla. Beyond The White (Spaces)

1 Dic

di Ivan Quaroni

“Confusione è parola inventata per indicare un ordine che non si capisce”
(Henry Miller, Tropico del Capricorno)

Nella teoria estetica di Theodor Adorno, la forma e il contenuto erano considerati identici, due categorie inscindibili. Egli giudicava, tuttavia, che fossero i mezzi formali a costituire l’opera, cioè la configurazione stessa degli elementi. Nel caso della pittura, le linee e i colori. In realtà, il filosofo tedesco esprimeva una posizione in aperta polemica con tutte le forme d’arte in cui il contenuto prevaleva sulla forma – come ad esempio nel Realismo Socialista – perché esse esprimevano una sorta di asservimento dell’arte nei confronti della realtà. Per lui lo statuto fondamentale dell’arte, la sua conditio sine qua non, consisteva, invece, nella sua assoluta autonomia dal mondo della politica, dell’ideologia, della teologia, ma non necessariamente dalla vita. La prevalenza della forma sul contenuto, o quantomeno la loro radicale interdipendenza, tutelava questa indipendenza e garantiva, al contempo, una libertà dalle strutture preordinate della società. “Il compito attuale dell’arte”, sosteneva Adorno, “è di introdurre caos nell’ordine”.[1]

Viviana Valla, Bi-polar, 2014, tec.mista su tela, 30x30cm

Viviana Valla, Bi-polar, 2014, tec.mista su tela, 30x30cm

Per capire la complessa dialettica tra forma e contenuto, Adorno usava la nozione di apparizione. Sosteneva, cioè, che il contenuto fosse sedimentato nel farsi dell’opera, cioè nel suo processo di costruzione formale e che l’opera, così, si offrisse allo sguardo come apparizione, enunciando un contenuto invisibile e immateriale attraverso una forma visibile. Come a dire che le forme artistiche sono rappresentazioni di contenuti che non appartengono alla realtà e che, soprattutto, non sussistono se non in qualità d’apparizioni. Infatti, tolto il “velo” della forma, i contenuti sedimentati in essa finiscono per svanire. Questo preambolo descrive con precisione la natura dell’arte di Viviana Valla, una ricerca eminentemente formale, che adombra contenuti altrimenti inafferrabili. Quali siano, infatti, questi contenuti, non è dato di sapere. Probabilmente attengono a stati emotivi, pensieri fuggevoli, formulazioni inconsce, intuizioni improvvise e provvidenziali epifanie.

Viviana Valla, Cold breeze, 2014, tecnica mista su tela, 30x30cm

Viviana Valla, Cold breeze, 2014, tecnica mista su tela, 30x30cm

Qualche raro, laconico indizio ci arriva dai titoli (da This is the Where a It’s Home e A Melancholy Place), ma il contenuto appare chiaramente sedimentato nel percorso creativo, sepolto nei meandri di una pratica operativa che procede per progressive aggiunte e sottrazioni, affermazioni e negazioni che si stratificano fino a stabilire un differenziale, uno scarto che diventa, infine, la forma finale dell’opera. Un’opera che, a tutta prima, sembra derivare da precedenti astratti analitici e minimali, ma che, in verità, si costruisce innanzitutto attraverso accumuli segnici, gestuali, anche materici, secondo una logica, se così si può dire, di graduale riordino formale. Il suo lavoro, infatti, è l’effetto di un modello esecutivo che perviene all’ordine finale tramite una lenta decantazione di stadi apparentemente caotici, in cui le tecniche e i materiali si affastellano in un alternarsi di aggiunte e decurtazioni. L’artista affianca a una pittura liquida, costruita per velature di acrilici, con apporti di gesso e grafite, collage e decollage di carte, brandelli di scotch, stampe d’immagini prelevate da internet.

Viviana Valla, De-constriction, 2014, Tec.mista su tela, 60x60cm

Viviana Valla, De-constriction, 2014, Tec.mista su tela, 60x60cm

Il procedimento attuato dall’artista intende la pittura come pratica estensiva, ibrida, come disciplina protesa verso una pletora di sconfinamenti non solo formali, ma perfino spaziali. Di fatto, l’annullamento del perimetro fisico del quadro tramite l’espansione dell’immagine sull’adiacente superficie murale – oppure nel caso limite della forma installativa – svolge la funzione di rivelare la molteplicità di livelli della sua pittura, conferendo ad ogni piano una dimensione autonoma.

Valla usa uno stratagemma analitico, per isolare i diversi passaggi del suo processo pittorico, rendendo evidente (e tridimensionale) ciò che, altrimenti, affiora simultaneamente sulla superficie delle sue tele. Il suo è un esperimento che tradisce una necessità comunicativa, un bisogno di chiarificare un’idea di metodo che consiste, appunto, nel produrre un ordine dal caos magmatico della creazione. Per sua stessa ammissione, infatti, Viviana Valla dichiara di ricercare un equilibrio classico, una misura aurea. Misura che, però, non origina da una preconfezionata geometria, da una disposizione analitica di figure euclidee, ma da una lenta, meticolosa strutturazione del disordine. Intendo dire che il modello costruttivo nella ricerca dell’artista, se c’è, è quello delle proliferazioni naturali, delle crescite organiche che obbediscono a un ordine invisibile. Anche se il risultato finale sembra rigoroso, quasi pianificato, l’artista si lascia sovente guidare dall’intuito, concedendo un ampio margine alla possibilità di assecondare errori e deviazioni del percorso.

Viviana Valla, This is th where, 2014, Tecnica mista su tela, 130x160cm

Viviana Valla, This is th where, 2014, Tecnica mista su tela, 130x160cm

Descrivere con precisione la costruzione di una sua tela è quasi impossibile, perché non c’è alcun modo di prevedere l’ordine degli interventi. Basti sapere che la tecnica è, in sostanza, quella delle velature, usata anche dai pittori tradizionali. Con la sola differenza che qui le velature non sono solo di colore, ma includono stratificazioni di post-it, nastri adesivi, carte veline, stampe e perfino coaguli di colore essiccato, secondo un principio di riciclo ecologico (ed etico) dei materiali. Eppure, i dipinti astratti di Viviana Valla possiedono un’impressionante coerenza formale, data dalla reiterazione di elementi tipici del suo vocabolario pittorico, come ad esempio l’uso di una gamma cromatica di tinte neutre o comunque tenui, che annullano le note squillanti dei pigmenti puri, o la presenza, in primo piano, di figure poligonali bianche, che polarizzano la composizione, occultando parzialmente le velature e le stratificazioni del fondo.

Ricorrente, nel suo linguaggio, è anche la consistenza quasi tattile della superficie pittorica, animata da micro rilievi prodotti dai diversi spessori di carte e colori, come pure la profusione di linee rette o diagonali, che sovente segnalano le zone di accumulo o di sottrazione della pasta cromatica. È difficile farsi un’idea chiara del lavoro di Viviana Valla attraverso l’osservazione di una riproduzione fotografica delle sue opere, senza rischiare di perdere quei dettagli che ne costituiscono la specificità.

Viviana Valla, Tropical geometry, 2014, Tec.mista su tela,30x30cm

Viviana Valla, Tropical geometry, 2014, Tec.mista su tela,30x30cm

I suoi dipinti non sono semplici composizioni astratte, costruite sull’accostamento di scansioni modulari e campiture monocrome, ma immagini ben più complesse, che esigono, come notava Arianna Baldoni, “un processo di percezione lenta”.[2] Lo conferma il programmatico titolo dell’installazione What remains, resurfaces (Ciò che resta, riaffiora) che, appunto, suggerisce la necessità di una fruizione dilatata, graduale, che permetta a quelli che Adorno definiva i “contenuti sedimentati” di affiorare in superficie. Anche quando, a dominare la superficie, è uno spazio bianco, allusivo di un’assenza. Uno spazio che rimanda alla dimensione germinale del fondo intonso, immacolato e che, tuttavia, nel medesimo tempo, chiude la composizione come un sigillo, imponendo al rumore di fondo dei pattern stratificati, un definitivo silenzio.

Così, Viviana Valla costruisce una pittura sottilmente vibrante, intrinsecamente ritmica, dove lampeggiano, come sotto l’impulso di una corrente alternata, i sedimenti emotivi e i detriti psichici. Una pittura che, finalmente, grazie a un vigile controllo disciplinare, trova un modo originale e rigoroso di tradurre in forma e colore, in struttura e geometria, il linguaggio aleatorio e inafferrabile dell’inconscio.

Info:

BEYOND THE WHITE (Spaces)
Milano, Rivolidue - via Rivoli 2 (MM Lanza)
18 dicembre – 10 gennaio 2014
Inaugurazione: Giovedi 18 dicembre, ore 18.30
Orari:   dal martedì al venerdì 16.00-19.00; sabato 15.30 -19.30
In tutti gli altri giorni è possibile visitare la Fondazione su appuntamento
Ufficio stampa
Simona Cantoni
cell.3423837100
s.cantoni@rivolidue.org

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[1] Theodor W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 105.

[2] Arianna Baldoni, Minimi termini, in Viviana Valla. Minimi termini, catalogo della mostra, 23 maggio – 7 luglio 2012, Galleria Monopoli, Milano.

Riccardo Gusmaroli. Così vicino, così lontano

4 Lug

di Ivan Quaroni

“La creatività non è solo produrre cose (questo lo fanno le industrie),
ma creare cose nuove, che prima non esistevano”
(Rich Gold, Le leggi della pienezza)

 

Le idee sono la materia prima dell’arte, la sostanza di cui sono fatte le opere. Bruno Munari, che d’idee se ne intendeva, aveva capito che esse nascono, di solito, da una rilettura di ciò che c’è già. Lo aveva dimostrato nel suo splendido libro Da cosa nasce cosa, vero e proprio vademecum dell’era post-industriale per la progettazione e creazione di manufatti, immagini, concetti. Un altro grande pensatore, Edward De Bono, ha intuito che il pensiero creativo è il prodotto di una visione diversa, di uno sguardo laterale, inaspettato, capace di generare nuove risposte a vecchie domande. “L’obiettivo del pensiero laterale”, scriveva il pensatore maltese, “è quello di osservare le cose in modi diversi, di ristrutturare i modelli, di generare alternative”[1]. In fondo, quello del pensiero laterale, è un metodo che aiuta a liberare la mente dalle prigioni concettuali delle vecchie idee e produce un cambiamento di atteggiamento e di approccio. Si tratta, insomma, di guardare le cose da un altro angolo visuale, che prima non era stato considerato.

RIGU-1170

Ora, esistono tanti tipi di artisti, ma non sono molti quelli capaci di generare una visione davvero alternativa della realtà. Riccardo Gusmaroli appartiene certamente al novero di coloro che hanno avuto, e continuano ad avere, intuizioni sorprendenti e inaspettate. Di lui si è spesso detto che ha saputo ereditare un certo atteggiamento dell’arte del secondo Novecento. I debiti vanno soprattutto a Lucio Fontana, a Piero Manzoni e Alighiero Boetti, con i quali è lecito stabilire parallelismi e affinità elettive. Si è anche scritto a proposito della sua appartenenza al clima culturale e artistico dei primi anni Novanta, che riscopriva il valore della leggerezza e dell’ironia, attraverso la predilezione per supporti semplici e prosaici come la carta e una certa vocazione per l’intervento minimo, per lo scarto quasi impercettibile, adoperato su oggetti e immagini preesistenti. Poco si è detto, invece, a proposito della sua attitudine di bricoleur, che lo porta a generare soluzioni alternative e quindi inedite.

RIGU-1052

Ogni suo nuovo ciclo appare, infatti, come la testimonianza di un esercizio intenzionale di ristrutturazione dei modelli visivi e percettivi. I vortici di barchette di carta intorno ai continenti, le spirali di pastiglie che disegnano suadenti arabeschi, le carte nautiche con i mari increspati da una moltitudine di origami, i buchi estroflessi che ipotizzano nuove morfologie vulcaniche e poi le uova ricamate a traforo, alla maniera di vecchi merletti, le battaglie navali, le foto di raffinatissimi lampadari di cristallo con le gocce dipinte da mille pittorici barbagli, dimostrano la facilità con cui Gusmaroli sposta, di volta in volta, il proprio angolo visuale, mettendo a soqquadro cliché e stereotipi consolidati.  Il suo è il modus operandi del trickster, figura mitica del folclore, che mette in moto cambiamenti imprevedibili e sovverte la percezione ordinaria della realtà. Come nei Vortici, rappresentazioni di un nuovo modo d’intendere la geografia, che sposta l’attenzione dall’aspetto cartografico a quello energetico e, se vogliamo, spirituale. Le linee circolari e concentriche delle barchette, infatti, non disegnano solamente nuove, e fantastiche traiettorie intorno alle terre emerse, ma sottolineano i flussi delle correnti, i loro campi magnetici, in una sorta d’immaginaria geomanzia, che riconfigura il mappamondo secondo criteri illogici, ma altamente lirici e suggestivi.

RIGU-1135

La suggestione è, di fatto, un elemento centrale del linguaggio di Gusmaroli, che usa la luce in senso squisitamente pittorico, sfruttando al massimo le sfumature d’ombra prodotte dalle barche, talora giocando sul contrasto texturale tra materiali diversi, come la foglia d’oro (e d’argento) e la carta, talaltra modulando la ritmica di ogni rappresentazione con calibrati addensamenti e rarefazioni di segni. Poco importa se quei segni sono tridimensionali e hanno la forma di minuscoli natanti di carta. Quel che conta è piuttosto il risultato estetico, ma anche metaforico, di questi lavori, che si prestano a innumerevoli possibilità di lettura. C’è, infatti, chi rileva soprattutto l’aspetto ironico della ricerca di Gusmaroli, la sua tendenza a cambiare il significato degli oggetti con quei lievi scarti cui accennavamo sopra. Chi, invece, interpreta i suoi lavori in un senso più poetico, apprezzandone il lato evocativo e fantastico. Chi, infine, ne ammira le soluzioni formali, l’eclettica varietà di cicli, che spaziano dall’intervento oggettuale alla fotografia, fino alla pittura, evidenziando la propensione nomadica dell’artista. Proprio la serie dei Vortici può essere letta come un’allegoria del viaggio, inteso come un girovagare ellittico e spiraliforme tra i meandri dell’immaginazione e della psiche. Non è un caso, infatti, che una variante dei Vortici è quella in cui le barchette di carta sono sostituite da lunghe file di pillole, che potrebbero essere interpretate come una sorta di conversione del viaggio immaginario in un trip allucinato, magari provocato dall’abuso di psicofarmaci. Eppure, la natura fondamentalmente ironica (e non drammatica) del lavoro di Gusmaroli ci fa venire il sospetto che quelle pillole, quelle compresse rosse e bianche siano piuttosto dei farmaci che producono un benefico effetto placebo.

RIGU-1252

In verità, è la natura stessa dell’arabesco, del ghirigoro, di cui Gusmaroli ha fatto ampio uso anche nei dipinti e negli interventi su fotografie, a suggerirci l’idea che il viaggio possa essere un’esperienza compiuta in uno stato alterato di percezione. D’altra parte, in molte tradizioni orientali, una delle funzioni dell’arabesco è precisamente quella di indurre l’osservatore a entrare nella dimensione contemplativa della meditazione, basti pensare ai grandi apparati decorativi delle moschee islamiche o ai mandala nepalesi e tibetani. Molti lavori di Gusmaroli possiedono un’analoga qualità ipnotica, non solo i Vortici, ma anche certe carte bianche, ritmicamente disseminate di barchette o di origami di forma stellare, che finiscono per sembrare diagrammi incomprensibili, schemi grafici di cui non riusciamo a cogliere la misteriosa funzione. Sono opere in cui appare evidente il riferimento a molta arte astratta del secolo scorso. Ne sono un esempio quelli che l’artista chiama Vulcani, e che somigliano a una versione rovesciata ed estroflessa dei buchi di Fontana, ma con l’aggiunta dell’immancabile colore oro che scintilla nella bocca di ogni cratere. Persino in questi altorilievi, in bilico tra seconda e terza dimensione, a prevalere è sempre il senso del ritmo, l’istinto per il pattern, che è poi il riflesso di una tendenza a replicare ad libitum un’idea, una forma, fino a quando questa non sia definitivamente acquisita e si possa poi passare ad altro.

RIGU-1113

Il ritmo, cui accennavo pocanzi, non è altro che il susseguirsi di una serie di accenti, una sequenza periodica più o meno regolare di figure, di grafemi, di sintagmi. Le Uova ricamate sono forse l’esempio più calzante di come la struttura dell’arabesco influisca sul processo creativo di Gusmaroli, il quale prende una cosa comune, in qualche modo prosaica, come un uovo di gallina, e la trasforma in un manufatto prezioso, minuziosamente scolpito con un trapano a punta sottilissima. Il gusto miniaturistico è un elemento ricorrente della grammatica dell’artista, spesso associato all’idea di forzare le possibilità dei materiali fino a dimensioni minime. Le piccole barchette di carta e le altrettanto minute stelle piegate secondo la tecnica giapponese degli origami, dimostrano come, accanto al piacere “artigianale” di fabbricare oggetti, vi sia in Gusmaroli una vena memoriale, intima, che rimanda ai giorni lontani dell’infanzia, tempi in cui i bambini si divertivano con attività semplici, come costruire barchette e giocare a battaglia navale. I lavori dedicati al tema delle Battaglie navali, in fin dei conti, riguardano proprio questo sentimento di nostalgia, ma vissuto in modo ironico, anziché malinconico. Le navi di Gusmaroli, infatti, sono bersagli mancati, le bombe esplodono attorno al loro perimetro, con scoppi iridescenti di pittura, ma senza centrare mai un colpo. Se il destino d’incrociatori e portaerei è di colare a picco, allora sarà piuttosto per autoaffondamento, come nel bellissimo lavoro in cui i natanti s’inclinano all’unisono sulla superficie del foglio, scivolando, concordi, verso abissi immaginari. Ecco, nelle opere di Gusmaroli, c’è sempre il risvolto positivo, le barche veleggiano nella certezza che a ogni deriva corrisponde un approdo, nelle battaglie si sparano colpi a salve di vernice colorata e l’unica controindicazione delle pillole placebo è un esubero d’immaginazione. Quella stessa immaginazione che l’artista usa per trasformare la realtà a noi più vicina in qualcosa di straordinario, qualcosa che ci proietta aldilà dei confini del quotidiano, verso mondi lontanissimi, dove tutto è possibile.


[1] Edward De Bono, Creatività e pensiero laterale, pag. 128, BUR, 2007, Milano.

Paolo Icaro. La misura di un uomo (reprint)

20 Mag

 

di Ivan Quaroni

Guardo le cose di Icaro senza pregiudizio, con “ignoranza”. Ignoro il chi, il come, il quando, il dove. Sono osservatore diretto, tabula rasa. L’informazione viene dopo lo sguardo, dopo l’esperienza, quasi per provare la “tenuta”, la forza e l’energia delle cose quando non se ne sa niente. Ed è un test universale, una prova del fuoco. Se annulli il fattore cognitivo, quello intellettuale, sei obbligato a fare una fenomenologia, a ricostruire dal nulla. Anche se quel “nulla” riguarda solo l’arte, la sua storia, i suoi movimenti.

Vedo le cose di Icaro per la prima volta (o quasi). Vedere significa accorgersi di qualcosa, aprire una porta. Nelle sue cose c’è un abbracciare, un avvolgere, un accogliere, ma anche un respingere, un ferire, un contrapporre. C’è un girare attorno alla conoscenza pregiudiziale, uno schivare i preconcetti, reinventando i termini della geometria delle figure piane e dei solidi. I cubi sono ingannevoli, hanno angoli cedevoli, mutevoli. Le linee rette hanno troppa materia, troppa sostanza e allora Icaro ne aumenta la tensione, ne assottiglia le estremità, quasi ad esaudire quel desiderio, tutto astratto, di tornare alla matrice, al punto da cui tutto trae origine. Eppure lo spazio della retta non è più compreso tra due punti, ma tra due punte. Non è la stessa cosa. Il punto concerne lo spazio quanto la punta concerne l’uomo. La punta utensile, la punta arma, la punta polo d’attrazione magnetica. L’uomo, ecco il punto. La pietra di paragone.

Qual è il fondamento della scultura? Non è lo spazio, non il tempo, non la materia. Il fondamento è l’uomo, l’artefice e il beneficiario. Non si è mai sentito parlare di una scultura per gli angeli, per gli Dei, per gli alieni. Ci sono sculture d’angeli e di Dei (persino d’alieni), ci sono omaggi ed ex-voto. Ma sono per gli uomini. Nella scultura, Icaro cerca l’uomo che è. Il suo essere forma e proporzione, il suo essere molle, fendibile, feribile. I suoi punti zenitali, i suoi nadir misurano la sua scultura. O è la sua scultura che li misura, nella forma di una minaccia potenziale. Ci sono linee di acciaio ramato e fili di alluminio che si possono avvolgere intorno ai suoi piedi o alle sue braccia. Ci Sono strutture metalliche che vestono come elmi puntuti, altre che percorrono il midollo, giù fino allo scroto. Ma tutte sono a misura d’un solo uomo, per una sola pietra di paragone.

Ciascuno fabbrica la sua prigione e, fuori delle sbarre, l’universo che lo attende.  Icaro ha fabbricato prigioni temporanee, feritoie troppo aperte per lui. Sono luoghi, le prigioni, in cui qualche volta ci capita d’entrare. Non è mica detto che non ci si possa uscire. Dipende dai punti (ancora) di vista, dalla prospettiva, che può essere accelerata, assottigliata per l’effetto di un angolo specchiante. Si può entrare e uscire dalle cose, come dalle prigioni. Due boccole incassate nel muro su due pareti opposte, allineate in perfetta simmetria, sono come due porte che idealmente attraversano tutto il globo, due poli, due orifizi. Un ano e una bocca, due ani, due bocche…come vi piace.

Tutte le cose sono misurabili, quantificabili, ma anche relative. Mi piacerebbe conoscere l’uomo che ha prestato il piede o il pollice agli inglesi perché ne facessero una misura. La loro misura. Conoscere il metro non è affatto affascinante, deve aver pensato Icaro. Così si è fatto la sua misura: un’asta retta, suddivisa in sottomisure della grandezza d’un pollice d’Icaro. Una misura naturale, organica come il rapporto aureo, che regola la crescita degli esseri viventi, ma non universale e nemmeno planetaria. Una misura piccola.

Paolo Icaro, Sette interdigitali 2006 marmo di Carrara e creta cm12x200x10

Paolo Icaro, Sette interdigitali 2006 marmo di Carrara e creta cm12x200x10. Courtesy Lorenzelli Arte

Ho visto nelle sculture di Icaro il luogo di un’accoglienza pericolosa, come quando il ferro attorcigliato affonda nella tavola di gesso fresco e non sai più se stia annegando o affiorando in superficie. Come quei sassi galleggianti su pozze di gesso solido, a loro volta chiuse in cestini di piombo. Anche qui c’è una misura di sprofondamento o di affioramento, una visibilità determinata dal coefficiente d’immersione.

C’è l’istinto di avvolgere e circondare, quasi di costringere. Una collana colossale, con denti di pietra bianca non somiglia forse a un giogo?

Eppure si può avvertire la qualità dell’abbraccio nell’avvoltolarsi cilindrico del piombo intorno al gesso, che cresce e decresce come nelle lunazioni, che fanno il ritmo delle maree e delle polluzioni fertili delle donne. Guardo ad Icaro come ad un intermediario, anzi come a un mediatore tra le sostanze, un pacificatore tra solidi e fluidi, tra consistenze effimere e durature, ora morbide ora taglienti. Ci sono lame di vetro che sembrano fendere il gesso dall’interno e poi volgersi fuori come ferri d’ascia o punte di freccia. Ci sono reti leggere poggiate sui sassi, oppure graffe di ferro, come suture nella pietra. Poi ci sono obelischi di gesso frastagliato che abbracciano ventri di piombo morbido. Ovunque c’è il gesso, la femmina dolce che tutto accoglie, che tutto lenisce: le punture del metallo, le percussioni del legno, gli sfondamenti della pietra.

C’è, inevitabile, una musica, un ritmo dei ferri ritorti, attorcigliati secondo sinusoidi inventate come le tracce di uno scarabocchio. Somigliano a “variazioni su un tema”, a “fughe improvvise”. Il ritmo varia secondo le superfici, che s’increspano, si raggrinzano, come le acque d’un lago. La scansione del battere e del colpire è un altro modo della misura. È un gesto ossessivo, che conduce la mente a una breve dimenticanza. Ma alla fine il corpo è ancora li, con la misura del respiro, della pulsazione, del battito di ciglia. L’uomo non si elude che per pochi attimi. E allora, mi chiedo, di che altro può occuparsi la scultura?