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Giorgio Griffa. Il caos nell’ordine.

18 Nov


Guarneri, Olivieri, Verna. Gli anni Settanta

20 Feb

LA RICOSTRUZIONE DELLA PITTURA

di Ivan Quaroni

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Gli anni Settanta sono stati, per certi versi, una sorta di strettoia in cui si sono radicalizzati (anche politicamente) i fermenti culturali degli anni Sessanta mentre, parallelamente, sotto la superficie corrusca del tempo, ribollivano aneliti e pulsioni che avrebbero poi costituito l’identikit della sensibilità post-moderna. Artisticamente, è stato un periodo compresso tra il rigore selettivo del Minimalismo, dell’Arte Concettuale e dell’Arte Povera e l’ondivago, seducente afflato libertario della Transavanguardia (ma anche dell’Anacronismo, del Citazionismo, dei Nuovi Nuovi). Sul delicato passaggio tra queste due contrapposte epifanie culturali, sono maturate le ricerche di artisti come Riccardo Guarneri, Claudio Olivieri e Claudio Verna, che con altri compagni dovettero far fronte all’indebolimento (almeno nominale) della pittura. Esaurita la stagione delle sperimentazioni informali, e alle prese con l’eredità fertile ma aggressiva del Concettuale, che archiviava la pittura come uno strumento tradizionale e conservativo, questi artisti avvertirono certamente una sensazione di pericolo e di allerta, domandandosi se per caso a essere esausto non fosse piuttosto un certo modo di fare pittura, condizionato da velleitarie esigenze di rappresentazione e da pretestuosi contenuti letterari. Proprio qui, intorno a tale questione, nacque la volontà di rifondare il valore di una pratica millenaria ripartendo dalle sue basi, ossia dai fondamenti grammaticali e linguistici che andavano ripensati e verificati alla radice. Invece di buttar via il bambino con l’acqua sporca, i cani sciolti – come li definì Giorgio Griffa – della Pittura Analitica decisero di salvaguardare e rifondare una prassi ormai data per spacciata. Con un atto di coraggio, che peraltro implicava l’accettazione, almeno momentanea, di uno stato di minorità culturale rispetto alle tendenze dominanti, i pittori-pittori, come furono spesso chiamati, non solo scongiurarono il rischio di estinzione della pittura, ma costruirono, lentamente e inesorabilmente, le premesse per quel ritorno di cui godettero pienamente i frutti i più disimpegnati esponenti delle future generazioni.

Non fosse stato per loro, per l’impegno che individualmente (prima) e collettivamente (dopo) profusero artisti come Guarneri, Olivieri, Verna (e i loro compagni di viaggio Carmengloria Morales, Giorgio Griffa, Marco Gastini, Pino Pinelli, Enzo Cacciola, Paolo Cotani, Gianfranco Zappettini, Elio Marchegiani, Carlo Battaglia e altri), forse la storia dell’arte italiana avrebbe preso un altro corso. Quel che è certo, col senno di poi, è che in quel fatidico decennio i destini incrociati di Verna, Olivieri e Guarneri hanno giocato un ruolo primario nel processo di ridefinizione della pratica pittorica. Ciascuno a proprio modo e con la propria storia, hanno affrontato analiticamente (con opere e scritti) il problema del linguaggio, adottando talora lo stesso atteggiamento critico dei detrattori della pittura. Invece di trincerarsi dietro i valori della tradizione, hanno eletto il dubbio e la verifica a fondamenti del loro operare, scoprendo, così, che ridotta all’osso ed epurata da ogni tentazione descrittiva, la pittura poteva riassumersi in un vocabolario minimo, fatto di lemmi primari: luce, colore, segno (ma anche tempo, spazio, struttura). Il loro più grande merito, che costituisce anche un elemento distintivo rispetto all’Astrazione classica, è stato quello di interrogarsi non solo sugli oggetti della pittura (le opere), ma sull’atto stesso del dipingere. L’aspetto processuale e operativo è stato, infatti, un tema centrale nelle loro riflessioni, insieme alla cognizione degli strumenti sintattici basilari della prassi pittorica e alla consapevolezza del carattere intenzionale e deliberato del fare pittura. Sia nelle opere di Guarneri, che in quelle di Olivieri e Verna degli anni Settanta, pur con esiti formali diversi, si avverte una profonda adesione ai fondamenti linguistici, sentiti come presupposti necessari dell’indagine. Verna e Olivieri esordiscono negli anni Cinquanta e nello stesso periodo, parallelamente all’attività musicale, anche Guarneri inizia a dipingere. Nella decade successiva, la crisi ormai conclamata dell’Informale e l’affermarsi delle sperimentazioni ottiche e cinetiche da una parte e minimaliste e concettuali dall’altra, influiscono necessariamente sulla coscienza di chi pratica la pittura. Quell’attitudine riflessiva e autocritica, che in seguito porterà i tre artisti alla costruzione di un campo pittorico autonomo e privo di referenti esterni, una specie di terza tappa dell’Astrazione, dopo la Geometrica e l’Informale, nasce dunque prima. Anche se giunge a maturazione solo nei primi anni Settanta.

In particolare, Riccardo Guarneri muove i primi passi nell’ambito dell’Astrazione Informale, con opere che si sviluppano intorno al confronto tra campiture cromatiche e partiture segniche. Inizialmente, la sua idea, modellata sull’esempio di Rothko e perseguita con i compagni del Gruppo Tempo 3 (Gian Carlo Bergoni, Attilio Carreri, Gianni Stirone), è di comporre una via mediana tra l’arte concreta e informale. A influenzarlo sono soprattutto le teorie gestaltiche sulla percezione e le indagini dell’arte cinetica e programmata, suggestioni che egli traduce in una pittura chiara e monocromatica solcata da interventi a grafite colorata che formano una filigrana geometrica sensibile e vibrante. Si tratta, come scrive l’artista nel 1974, di “una geometria più interiore che formale”, costruita quasi liricamente, come trascrizione dell’esperienza personale nell’accadimento della pittura. “A me piace che la pittura si serva del suo medium specifico che poi è la pittura stessa”, dichiara Guarneri, “quella pittura che per il suo particolare linguaggio riesce a comunicare emozioni e sensazioni che sarebbero impensabili in altre forme di linguaggio”.[1] L’artista identifica il colore con la luce creando immagini fondate sulla trasparenza e sulla rarefazione, oltre che sulla strutturazione di uno spazio quasi oscillante, dove le tensioni strutturali e le cadenze ritmiche della geometria affiorano, come evanescenti apparizioni, da una sostanza lattescente. I quadri albini di Guarneri rientrano, per sua stessa ammissione, in quel filone della pittura denominato “bassa percezione”, che impone al riguardante un prolungamento dei tempi di osservazione. Sono opere difficili da fotografare, tutte giocate su pulsazioni minime del bianco che offrono all’artista l’opportunità di vagliare la natura luminosa del colore. Anche il segno a grafite obbedisce all’imperio della luce, facendosi sottile fino al limite ottico, e organizzandosi in geometrie fantasmatiche, di una levità a stento percettibile.

Quadrangoli, triangoli e bande lineari, infatti, si articolano sotto la pelle nivea del colore, come a indicare l’esistenza di uno spazio ulteriore, non immediatamente accessibile. Ma è bene rimarcare che lo spazio per Guarneri non è mai prospettico, né atmosferico. È, semmai, un costrutto mentale, una proiezione ideale, baluginante e instabile e, dunque, inafferrabile. Mentale e ideale è pure la prefigurazione di un campo o di una superficie su cui innestare un fitto e sottilissimo tracciato grafico che trasmuta gli elementi segnici in diafane epifanie di colore. In un testo di Guarneri, scritto in forma di lettera all’amico Claudio Olivieri per un catalogo del 2012, l’artista torna ancora sulla questione della percezione, definendo i propri lavori come “opere a lento consumo”, dove ombra e luce producono “una astrazione lirica, leggera e impalpabile ma sempre rigorosa nel suo farsi”.[2] E rigore e lirismo sono, infatti, motivi fondanti di tutta la sua ricerca, sempre protesa verso la formulazione di un linguaggio capace di conciliare l’elemento aureo e razionale della ragione con la sostanza fragile e sensibile delle emozioni.

Anche l’esordio di Claudio Olivieri alla fine degli anni Cinquanta avviene nell’ambito dell’Arte Informale, ma nel decennio successivo il suo interesse è rivolto alle ricerche futuriste sulla scomposizione della luce. Nelle opere di quel periodo la gestualità del segno si risolve in sottili fenditure di colore, che squarciano la materia cromatica, evidenziando già l’interesse per il dato procedurale, per l’azione stessa del dipingere. Nel testo del catalogo di una mostra del 1966 a Milano scrive: “spazio e cose mi appaiono in un unico fiotto, come una sola pulsazione, che trascina con se l’accadere e il formarsi, il precipitare e il deporsi di elementi frammentari che trovano la loro corrispondenza non per virtù compositiva ma per una specie di gravitazione, di magnetismo attrattivo e repulsivo pronto a compromettersi in caos, a rientrare nell’indistinto, nel limo della mia coscienza da cui era nato”.[3] L’attenzione per una pittura intesa come accadimento appare già in questa precoce affermazione, dove peraltro filtra un modo di sentire più affine alla poetica romantica che non al razionalismo analitico. La sensibilità mercuriale e notturna di Olivieri si manifesta nella predilezione per oscure masse cromatiche, emergenti da una profondità ctonia, appena rischiarata da sferzanti fasce di luce. All’inizio degli anni Settanta, la superficie dei dipinti di Olivieri è ancora sensibilizzata da guizzi grafici, collocati in posizione periferica rispetto al plasma scuro del colore.

Nel 1971, Cesare Vivaldi parla di “fasce luminose che si contrastano, si accampano sulla tela in recisa dialettica l’una rispetto alle altre sino a trovare un equilibrio che riguarda non soltanto lo spazio del quadro ma anche lo spazio nel quale il quadro agisce”.[4] Anche in questo caso, lo spazio non è inteso come illusione prospettica, ma è, piuttosto, una qualità del colore, che si espande sulla superficie con un movimento ascendente, quasi di fluida emersione. Non ci sono forme organizzate, né rapporti gerarchici all’interno dell’immagine, dove prende il sopravvento la natura eventuale, formativa della pittura. Il risultato è qualcosa di formalmente indeterminato, mobile, sfuggente, come il distendersi di una formazione ancora in atto, in cui i costrutti mentali e le necessità pratiche si scontrano in un continuo processo di reciproca verifica. Già dalla seconda metà degli anni Settanta, però, i lavori dell’artista trovano una struttura più stringente, con i colori che si alternano in fasce e vele di diversa intensità luministica, creando una pulsante dinamica interna. Per Olivieri la pittura non è un campo statico, ma un luogo che documenta la costruzione e il disfacimento dell’immagine. “Penso che la pittura sia innanzitutto qualcosa di corporeo”, scrive nel 1978, “un prolungamento della fisicità e non una specie di protesi linguistica intercambiabile e sostituibile”.[5]

Dopo una fase di claustrale sperimentazione, l’uscita di Claudio Verna tra il ’67 e il ’68 avviene sotto il segno del rigore formale, nel clima del neo astrattismo romano e fiorentino. Le iniziali suggestioni neoplastiche, mediate dalla lezione di Dorazio (ma anche di Magnelli e Licini) si coagulano intorno alla dialettica tra struttura e colore, un discorso che l’artista mette a fuoco nei lavori dei primi anni Settanta, dove le forme geometriche fanno da supporto alla pienezza cromatica. Nel 1973, sulle pagine di Flash Art, Verna ammette come “non ci sia mezzo più duttile della pittura per portare avanti un discorso in cui hanno tanta importanza luce e colore”.[6] Nella serie iniziata nel 1970, contrassegnata dalla lettera A, seguita da un numero progressivo, la geometria, quando c’è, è posta al servizio del colore e delle sue possibilità. Lo spazio dell’opera assume una connotazione ambigua, incerta su cui si svolge l’esperienza processuale della pittura, ormai svincolata da necessità narrative e rappresentative. Il dipinto diventa, così, il momento di una procedura di verifica duplice, della disciplina pittorica, con la sua millenaria storia, ma anche del ruolo sociale dell’artista e del suo impegno a ridefinire costantemente i presupposti della sua azione. Per Verna non esiste arte senza critica, perché né la teoria artistica né la pratica pittorica possono sussistere autonomamente senza perdere di significato. Questo implica che la progettazione dell’opera deve necessariamente misurarsi con l’azione pittorica, la quale non può mai ridursi a mera esecuzione. Sul piano fattuale, come nota l’amico Piero Dorazio, Verna “costruisce il suo spazio per zone di colore, per campiture e accenti, da un margine della tela all’altro. Il suo colore è spazio vibrante, non è più elemento di una costruzione per piani o linee di uno spazio da riempire e previsto. È spazio radiante ogni campitura e sagoma che egli scelga nel repertorio pittorico che è suo e non è della geometria né del design”.[7]

Nella prima metà della decade, e anche oltre, i quadrati, i rettangoli e le strisce orizzontali che compaiono nelle sue opere disegnano una geometria instabile e costruiscono uno spazio percettivo stratificato, dominato dalle tensioni liriche e timbriche del colore, che diverrà sempre più centrale nella sperimentazione degli anni successivi. I dipinti di questo periodo, ben esemplificati nell’accurata selezione di questa mostra, evidenziano come, pur partendo da presupposti diversi, di matrice appunto neoplastica e neo astratta, Verna giunga a maturare quell’attitudine critica che sarà poi la marca distintiva di molti membri della frastagliata compagine della Nuova Pittura.

Rivedere, a distanza di quarant’anni, alcune delle opere che Verna, Olivieri e Guarneri hanno realizzato in quel periodo decisivo, ci permettono di valutare come le promesse implicitamente contenute nelle loro indagini siano state pienamente mantenute. Chi pratica oggi la pittura e cerca una qualche consapevolezza nelle ragioni del proprio operare è a questi artisti (e ai loro compagni) che deve guardare, più che ai cinici, disincantati vessiliferi del postmoderno. Chi pensa che la pittura sia ancora un dominio fertile, all’incrocio tra la speculazione teorica e la sperimentazione pratica, deve necessariamente riappropriarsi di questo capitolo fondamentale della recente storia dell’arte. Perché è tra disjecta membra della Pittura Analitica, di quell’aggregato d’individualità affini, che si trovano i padri fondatori – anzi rifondatori – della pittura contemporanea.

Info

Guarneri, Olivieri, Verna. Gli anni Settanta
a cura di Ivan Quaroni
Opening: giovedi 25 febbraio 2016, ore 18.30
25 febbraio – 29 aprile 2016

Galleria Progetto Arte ELM
Via fusetti 14, 20143 Milano
Tel/Fax +390283390437
e-mail: info@progettoarte-elm.com

[1] Claudio Cerritelli, Riccardo Guarneri. Arie di luce, Arie di luce, cat. Ferrarin Arte, Legnago (Vr), 2011.

[2] Riccardo Guarneri, Caro Claudio…, in Claudio Olivieri, L’urgenza di accadere, cat. Ferrarin Arte, Legnago (Vr), 2012.

[3] Claudio Olivieri, È ormai acquisita…, in Olivieri, cat. Salone Annunciata, Milano, 1966.

[4] Cesare Vivaldi, Olivieri, cat. Galleria del Milione, Milano, 1971.

[5] Claudio Olivieri, Non posso spiegare…, in Claudio Olivieri, bollettino della Galleria Lorenzelli n.9, Milano, 1978.

[6] Claudio Verna, Quale pittura?, in Flash Art n.38, Politi editore, Milano, 1973.

[7] Piero Dorazio, in Claudio Verna, cat. Galleria dell’Ariete, Milano, 1970.

Giorgio Griffa – Esonerare il mondo

21 Set

di Ivan Quaroni

Per comprendere il senso della ricerca pittorica di Giorgio Griffa, uno dei maggiori protagonisti dell’arte astratta italiana, è necessario capire che la sua opera non può essere intesa solo in conformità a valutazioni e rilievi di tipo formalistico. Se è vero, infatti, che a lui si deve addebitare la titolarità della creazione di un linguaggio originale, tanto semplice e basilare quanto efficace e incisivo, è altrettanto innegabile che tale grammatica, si è formata grazie alla progressiva precisazione di un pensiero e di una visione sulle ragioni stesse del “fare arte” e sulle qualità intrinseche della pratica pittorica.

Nei suoi scritti, così come nelle interviste rilasciate nel corso della sua lunga e per fortuna inesaurita carriera, Giorgio Griffa ha, infatti, più volte rivendicato per l’arte un ruolo sapienziale, ponendola sullo stesso piano della filosofia, della scienza, della poesia, della religione e, in generale, di tutte le forme di conoscenza umana. L’artista torinese ha, insomma, riservato alla pittura, ma potremmo dire per estensione a tutta l’arte, una funzione gnoseologica. Essa è, per lui, uno strumento di comprensione e di penetrazione dell’ineffabile e dell’indicibile, cioè di quel sovrappiù, che sfugge al pensiero logico e razionale, ma che ogni uomo porta in sé. Non si tratta banalmente solo dell’aspetto irrazionale ed emotivo, ma di quella parte irriducibile che sembra sfuggire ad ogni tentativo di misurazione e di valutazione. Si tratta di un quid, ossia di qualcosa di analogo a quanto accade nell’ambito della fisica quantistica, quando il tentativo di osservazione del comportamento delle particelle subatomiche ne fa crollare la funzione d’onda. Sappiamo che nel Principio d’indeterminazione di Heisemberg si cela la stessa quantità d’ignoto che per secoli fu solo appannaggio della religione e della poesia e, allo stesso tempo, che tale principio estende alle nuove scienze la consapevolezza dei propri limiti.

Griffa ha più volte parlato della metafora di Orfeo che riceve la lira da Apollo come di un momento cruciale della cultura occidentale in cui la sapienza delle origini, la Sophia dei greci, diventa Filo-sophia, cioè “discorso sulla conoscenza”. Da quel momento in avanti, la comprensione dell’ignoto, del lato ineffabile filtra dalla religione alla poesia. L’uomo vi ha accesso non attraverso il pensiero scientifico, ma tramite le forme liriche e mitopoietiche, attraverso le storie degli Dei che conservano la conoscenza in forme simboliche.

Con la sua pittura Griffa accoglie la sfida che fu già della religione e della poesia di simbolizzare il mondo, cioè di alleggerirlo e sintetizzarlo in forme semplici, elementari, secondo un processo che il filosofo, sociologo e antropologo Arnold Gehlen, molto amato dall’artista, definisce di “esonero”. Come nota Roberto Mastroianni, citando Maria Teresa Pansera[1], “con questo termine Gelhen vuole indicare la capacità dell’uomo di creare schemi standard di comportamento, i quali una volta stabiliti scattano automaticamente in circostanze simili e, quindi, esonerano l’uomo da continue risposte agli stimoli ambientali e alle pulsioni interne, liberando così energie per ulteriori e più elaborate imprese, che coinvolgono anche funzioni rappresentative e simboliche[2]. Naturalmente il filosofo di Lipsia si riferisce a un procedimento che avviene sia a livello motorio, che in ambito linguistico e cognitivo. Il primo aspetto favorisce la formazione dei riflessi condizionati e delle abitudini, il secondo converte le esperienze sensibili in parole e simboli.

Data la natura del suo lavoro, fondato sulla ripetizione gestuale di segni e grafemi (e poi anche di numeri) in qualche modo sintetici e riepilogativi, Griffa non poteva che riscontrare nell’intuizione di Arnold Gehlen la perfetta descrizione del suo modo di pensare e di “praticare” la pittura. Innanzitutto il gesto di Griffa, il suo differenziato ripetersi, ossia quel suo modulare, molto “umanamente” – analogicamente vorremmo dire – le basi del discorso pittorico (il punto, la linea, la superficie, la materia), è qualcosa di molto simile al riflesso condizionato e all’abitudine pratica che ha le sue radici nella fisiologia stessa del dipingere.

Del valore del gesto nella pittura di Griffa si è parlato troppo poco, forse nel timore che tale aspetto potesse suggerire qualche semplicistica assimilazione ai modi dell’Action Painting o della Pittura Informale. Invece il gesto di Griffa è importante in ragione del significato che egli conferisce all’azione, al fare. Non solo la mano ha una propria intelligenza fisiologica, organica, radicata quindi nella biologia dell’individuo, e segnatamente del pittore, ma essa si rapporta, inoltre, con l’intelligenza della pittura stessa, con il suo cammino evolutivo, con la storia delle sue epifanie attraverso i millenni.

Griffa ha ribadito molte volte il fatto che per lui la pittura non sia un oggetto, ma un soggetto che, attraverso il segno e il colore “esonera” il mondo, cioè lo riepiloga, addensando e sintetizzando, quasi alchemicamente, la storia dell’umanità. Allo stesso tempo, la pittura è anche una norma di relazione col mondo, una procedura, come ricordavamo, “sapienziale”, di conoscenza dei rapporti tra l’uomo, lo spazio e il tempo, in cui peraltro si riassume e si riattiva sempre, in un eterno presente, il senso stesso della parabola evolutiva umana. Una parabola, come ricordavo altrove[3], che nei suoi scritti l’artista sintetizza in una pletora di tappe (per esempio, la sezione aurea nella concezione spaziale dell’Arte Greca e il canone prospettico nel Rinascimento) per affermare come, per la sua arte, il passato e la storia abbiano un valore primario.

Per Griffa, la memoria millenaria della pittura si salda alla memoria millenaria della mano (e del cervello) e la pratica pittorica, esattamente come la trasmissione orale dell’epos, diventa un processo riepilogativo favorito dal principio dell’esonero di Gehlen, che è appunto un meccanismo di condensazione e “alleggerimento” attraverso l’economia dei simboli e dei segni, di una quantità abnorme d’informazioni. Nel caso di Griffa questi segni riepilogativi sono di una semplicità disarmante: linee rette, punti e poi numeri e arabeschi. Sono grafemi tracciati sulla tela che conservano tutte le irregolarità e imperfezioni tipiche dell’evento pittorico. Sono segni ripetuti ma differenziati dall’unicità di ogni singolo gesto.Nonostante la sua opera sia per convenzione ascritta all’alveo della Pittura Analitica, nel suo approccio prevale il principio sintetico, quello dell’alleggerimento geheliano dell’esonero. La sintesi è, infatti, una prassi antitetica alla scomposizione analitica. Le linee, in punti, i numeri, perfino il colore, usati da Griffa non sono il prodotto di uno smembramento formale, ma il dato primario del linguaggio figurativo, i fonemi basilari della pittura, elementi che non solo appartengono a tutti, ma che chiunque può rifare. Proprio perché semplici, facili e riproducibili, i suoi segni, a differenza di quelli di altri artisti astratti in cui emerge, invece, una marca identificativa, “autoriale”, sono universali. L’artista stesso ha, infatti, rilevato come il suo non sia un segno personale stilizzato – come potrebbe essere quello, per esempio di Capogrossi – ma un segno anonimo, la semplice traccia del pennello.[4] E, tuttavia, questo segno, come qualunque altro segno pittorico, si differenzia dalla traccia di un evento naturale per il fatto di essere costruito dall’uomo, il quale ha almeno trentamila anni di storia.

La pittura di Giorgio Griffa, tanto quella del periodo preso in esame da questa mostra (1968-1978), quanto quella posteriore, arricchita di nuovi temi come l’inserimento di numeri e di arabeschi esornativi, è appunto una pittura astratta e concettuale equidistante tanto dalla figurazione, che si occupa della descrizione dei fenomeni esterni, quanto dall’astrazione tradizionale, che egli considera come una forma di figurazione idealizzata. Per l’artista torinese non si tratta di rappresentare qualcosa, ma di “introdursi” dentro il fenomeno. L’atto di rappresentare implica sempre una distanza tra l’oggetto e il soggetto, ma per Griffa introdursi dentro i fenomeni significa considerare la pittura come un evento e ripartire dal rapporto primario, fisico, che essa intrattiene con i materiali e i supporti. L’artista ha usato sovente l’espressione “rifare il mondo”, in luogo di “rappresentare il mondo”, proprio per indicare lo spostamento del soggetto da “fuori” a “dentro” il fenomeno.

Roberto Mastroianni ha giustamente scritto che “Griffa mette in atto […] un’attività conoscitiva che rifiuta la contrapposizione soggetto-oggetto e riconosce il mondo come un gioco di relazioni, e una continua, raffinata e ininterrotta re-interpretazione della tradizione pittorica” e ha aggiunto che egli “torna alla pittura, alle sue componenti essenziali e costitutive (punto, linea, superficie, tela e colore…), creando le condizioni per il manifestarsi stesso delle cose, attraverso un gesto della mano che libera l’intelligenza stessa della natura”.[5]

La grammatica pittorica di Griffa si sviluppa, in questo senso, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in lavori stringati e asciutti, caratterizzati da interventi pittorici minimali su superfici in massima parte vuote. Il ciclo dei cosiddetti Segni primari, che coincide con l’arco temporale dei lavori qui esposti, mostra sequenze di linee verticali, oblique, orizzontali su tele prive di cornice e telaio disposte direttamente sul muro per mezzo di piccoli chiodi.

Alle linee dipinte si sommano quelle generate dalla piegatura della tela, che disegnano una trama cartesiana di ombre sottili. Anche lo spazio vuoto della tela e gli intervalli tra un segno e l’altro sono elementi essenziali, allusioni a un’azione pittorica potenzialmente infinita. Bisogna tenere a mente, infatti, che per Griffa la pittura è un accadimento presente, un’epifania che non può mai essere definitivamente archiviata come “passata”.

Presente è, infatti, la relazione del soggetto (pittore) con l’evento (pittura), che riattiva, come notavamo, tutta la sua millenaria storia. Condensata in ogni linea, in ogni colore, in ogni ritmo, è il farsi stesso della pittura, quel suo inevitabile attingere al fondo di se stessa e a tutte le tappe del suo glorioso cammino evolutivo.

La ripetizione segnica, altro elemento essenziale dell’opera di Griffa, ha un duplice valore. Da un lato, essa replica il modo con cui le forme naturali si evolvono, in una continua interazione con l’ambiente circostante, dall’altro si ricollega alla storia dell’arte come rilettura e reiterazione. D’altro canto, tale aspetto è facilmente riscontrabile nel modo in cui la plurisecolare ripetizione di certi temi, ad esempio quelli dell’iconografia pagana o cristiana, abbia generato esiti diversi e talora innovativi.

Per Griffa, fare e rifare il “mondo” a partire dai suoi segni elementari e costitutivi , è una forma di conoscenza dell’ignoto, cioè di quell’elemento sotterraneo dell’arte che egli ha poi esemplificato nell’allusione al numero aureo, il canone di proporzione e bellezza corrispondente al valore numerico 1,6180339887… Non è un caso, infatti, che a un certo punto nella produzione dell’artista, accanto ai segni primari, siano comparsi i numeri e gli arabeschi, quasi a segnalare l’importanza dell’elemento ritmico tanto in natura, quanto negli artefatti umani. In realtà, la sezione aurea è l’esempio più eclatante di questo gradiente ignoto, di questo sovrappiù irriducibile che, a differenza della pittura, le altre forme di conoscenza non riescono ad assorbire.

La relazione col mistero e con l’ineffabile, che rende la pittura affine alla religione, alla poesia e perfino alle pratiche divinatorie, consiste nella capacità di ricomporre aspetti multiformi e contradditori della realtà. Tramite l’ambiguità e la polisemia dei simboli, delle metafore, delle allegorie, dei segni, la pittura diventa una soglia percettiva tra l’universo conosciuto e l’ignoto. Come il Giano bifronte, essa guarda oltre il confine in entrambe le direzioni, all’esterno e all’interno, nel visibile e nell’invisibile.

Naturalmente, Griffa sa che attraverso il principio dell’esonero (Entlastung), la pittura coincide con un processo di produzione finzionale della realtà, di alleggerimento del mondo, ma non di annullamento della sua complessità. I segni elementari dell’artista, nella loro semplice, e a un tempo ambigua evidenza, sono, infatti, il prodotto di quella sintesi e condensazione. “Io esonero il mondo per conoscerlo e maneggiarlo”, afferma Griffa, “cancello la rappresentazione del mondo, al suo posto lascio le immagini del segno e del pennello e attraverso di esse ritrovo il mondo nel meccanismo della finzione”.[6] È questo il senso della sibillina espressione “fare e rifare il mondo” e, allo stesso tempo, il più profondo significato della sua pittura.


Note

[1] Maria Teresa Pansera, Antropologia filosofica, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2001, pp. 23-24.

[2] Roberto Mastroianni, Quadri d’epoca e immagini del mondo, in AA.VV., Giorgio Griffa. Il paradosso del più nel meno, Gribaudo, Milano, 2014, p. 31.

[3] Ivan Quaroni, Silenzio: parla la pittura, in Giorgio Griffa, Silenzio. Parla la pittura, Lorenzelli Arte, Milano, 2015.

[4] Giorgio Griffa, Giulio Caresio, Roberto Mastroianni, Primo colloquio (11 luglio 2013), in AA.VV., Giorgio Griffa, Il paradosso del più nel meno, op. cit., p.74.

[5] Roberto Mastroianni, Quadri d’epoca e immagini del mondo, in AA.VV., Giorgio Griffa, Il paradosso del più nel meno, op. cit., p. 14.

[6] Giorgio Griffa, Giulio Caresio, Roberto Mastroianni, Secondo colloquio (15 luglio 2013), in AA.VV., Giorgio Griffa, Il paradosso del più nel meno, op. cit., p.122.


Info: 

Giorgio Griffa – Esonerare il mondo
a cura di Ivan Quaroni

Opening giovedì 8 ottobre 2015

8 ottobre 2015 – 7 gennaio 2016
ABC-ARTE Contemporary Art Gallery
Via XX Settembre 11A,
16121 Genova – Italia
e-mail: info@abc-arte.com
T. +39 010 86.83.884
F. +39 010 86.31.680


ENGLISH TEXT

To relieve the world

by Ivan Quaroni

To understand the meaning of the research by Giorgio Griffa, one of the leading abstract artists in Italy, we must understand that his work cannot be analysed with formalistic values. Since it is true he created an original artistic language, simple and basic as sharp and effective, it is also true that this language has been realised thanks to the progressive definition of his way of thinking and making art based on the inner qualities of painting.

Giving interviews during his long and still active career, Giorgio Griffa claims a sapient role for art, equating it to philosophy, science, poetry, religion and, in general, to all branches of human knowledge. This artist from Turin assigned to painting, and to art in general, an epistemological purpose. It represents a tool to understand and penetrate what is ineffable and indescribable, which lies in every human being and escapes any logical and rational thought. It does not concern the irrational or emotional side, but that irreducible aspect that cannot be measured or evaluated. It’s a quid, in other words, something similar to what happens in the quantum theory. The attempt to observe the conduct of subatomic particles makes their wave function collapse. We know that inside Heisenberg’s uncertainty principle lies the same unknown which has been a prerogative of religion and poetry for centuries. In the same time, we know that this principle extends the awareness of its own limits to new sciences.

Many times Griffa mentioned the metaphor of Orpheus receiving his lyre from Apollo as a crucial moment of western culture. The wisdom of the origins, the Sophia of the Greeks becomes Filo-sophia, the “speech on knowledge”. Since that moment, the comprehension of the unknown, the ineffable is channeled through religion to poetry. Man can access it not through scientific reflection, but only through lyrics and myths, such as stories of the Gods holding knowledge in symbolic ways.

Griffa’s painting challenges religion and poetry to symbolise the world. He lightens and synthesizes it through simple, elementary shapes, following a “relief” process, as it was defined by the philosopher, sociologist and anthropologist Arnold Gehlen, beloved by the artist.

As noticed by Robert Mastroianni, quoting Maria Teresa Pansera[1]: “With this term, Gehlen wants to specify man’s ability to create standard systems of behaviour. Once established, these systems are activated automatically in similar circumstances, so they relieve man from continual responses to the environment’s incentives and internal pulsions. In this way, man may free more energies for further and more elaborated efforts, which may include symbolic and representative functions.[2]

Of course, the philosopher from Leipzig refers to a process taking place at a motoric level as well as at a linguistic and cognitive level. The first aspect helps to shape habits and conditioned responses, while the second transforms perceptible experiences in words and symbols.

Given the nature of his work, based on the gestural repetition of summarizing signs and graphics (and numbers later), Griffa found in Anrold Gehlen’s intuition the perfect description of his own way of thinking and practicing painting. The distinguished repetition of Griffa’s gesture, so his very human (or “analog”) way of regulating the basics of painting (dot, line, surface, substance), is something very similar to a conditioned response. It is a practical habit whose roots lie in the physiology of painting.

Not much has been said about the value of gesture in Griffa pictures. Perhaps it could have been assimilated to the methods of Action Painting or Informalism in a too simplistic way. Griffa’s gesture is instead truly important because of the meaning of his actions. Hands do have their own physiological, organic talent, coming from the biology of the individual and the artist, but hands do also relate with the talent of painting itself, along with its evolution and history.

Several times Griffa said that painting is not an object for him, but a subject which relieves the world through its signs and colours. It gathers and synthesizes the history of mankind, almost in an alchemic way. At the same time, painting is also a standard connection with the world. It is a a “sapient” procedure, as we said, to discover the relationship between man, space and time. Within this relationship lies the meaning of the human evolution and parable, synthesized and reactivated in an eternal present time.

As I mentioned elsewhere [3], in his writings the artist sums up this parable in a series of milestones (such as the golden section, in the spatial conception by Greek Art and the perspective canon in the Renaissance), to show how important the past and history are in his art.

Griffa believes that the thousand-year-old memory of painting is jointed by the thousand-year-old memory of hands (and brains). The pictorial practice, like the epos’ verbal legacy, becomes a summarizing process substained by the relief principle by Gehlen. This is indeed a concentration and reduction mechanism of a huge quantity of information through the use of symbols and signs. Griffa uses very simple signs: straight lines, dots, numbers and arabesque. These graphic signs are applied to the canvas and keep irregularities and imperfections of pictorial actions. These repeated signs are distinguished by the uniqueness of each single gesture.

Even if Griffa’s work is considered part of Analytical Painting, the synthetic relief principle by Gehlen prevails in his method. Synthesis is a diametrically opposed approach to the analytical decomposition. Lines, dots, numbers and even colours used by Griffa are not the result of a formal dissolution, but the primary element of a figurative language. These are the basic phonemes of painting, they belong to everyone and everyone can remake them. Griffa’s signs are simple, easy and reproducible, they are universal, in contrast with other abstract artists who distinguish themselves for their own authorial sign. The artist himself recognized his signs as anonymous, the simple trace of brush, differently from the stylized and personal signs of artists like Capogrossi. Nevertheless, as any other pictorial sign, this sign is different from a natural event because it has been made by a man, who carries at least thirty-thousand years of history in his hands.

Giorgio Griffa’s painting, as much as during the period examinated by this exhibition (1968 – 1978) as later, when it is enriched by the addition of numbers and arabesque, is an abstract and conceptual way of painting. It is far from representation, as description of external events, and from traditional abstraction, as a form of idealized representation by the artist. This artist from Turin does not want to represent something, he wants to “go himself into” the phenomenon. The act of representation is a distance between the object and the subject. Griffa goes himself into the phenomena because he considers painting as an event. So he begins from the primary, physical relationship of painting with its substances and supports. The artist uses frequently the expression “remaking the world” instead of “representing the world” to underline the moving of the subject from “outside” to “inside” the event.

Roberto Mastroianni properly noted that “Griffa uses a cognitive activity which refuses the subject – object contrast and recognizes the world as a game of relations, a perpetual, refined and uninterrupted re-interpretation of painting tradition.” He also adds that “He does go back to painting, to its essential components (dot, line, surface, canvas and colour…). He creates the conditions through which things reveal themselves, through a hand’s gesture, he frees the talent of nature.”

The pictorial alphabet of Griffa is developed between the end of the Sixties and the beginning of the Seventies. These are concise and dry works, with minimal pictorial traces on almost empty surface. The Primary signs series, realised in the same period of the works now exposed, shows vertical, oblique, horizontal line sequences on frameless canvases nailed to the wall.The thin shadows, drawn by the canvas’ foldings, appear as added to the painted lines. The empty space on the canvas, as well as the pauses, is a fundamental element of the composition, a hint to the potentially infinite pictorial action.To Griffa painting is a present event, an epiphany never considered as “past”.

The relation between the subject (painter) and event (painting) reactivates, as we said, its thousand-year-old history. The making itself of painting is concentrated in every line, colour, rhythm. It collects from the bottom each milestone of its glorious evolutionary path.

The repetition of signs, another essential element of Griffa’s work, has got a double meaning. By one side, it replays the way natural forms evolve, interacting continuously with the surrounding environment; by the other, it connects with the history of art as reinterpretation and reiteration. Such an aspect may be acknowledged when comparing the way certain themes belonging to the Pagan or Christian iconography have been repeated along the centuries, achieving different and sometimes new results.

To Griffa, to make and remake “the world” from his elementary signs is a way to discover the unknown, that underground part of art he then illustrated with the golden ratio, canon of proportion and beauty corresponding to the numeric value 1,6180339887… It is not a coincidence that, at a certain point, the artist added numbers and arabesque next to the primary signs. As if he wanted to highlight the importance of rhythm both in nature and human artefacts. Actually, the golden ratio is the most brighting example for this unknown gradient. This irriducible extra may be assimilated only by painting and not by other disciplines of knowledge.

Painting’s relationship with mystery and the ineffable matches with religion, poetry and also divination practices. It is all about the ability to recreate various and contradictory aspects of reality. Through the ambiguity and polysemy of symbols, metaphores, allegories and signs, painting becomes the perceptive limit between the known and the unknown universe. Like two-faced Janus, it sees what lies beyond the border on both directions, outside and inside, along the visible and the invisible.

Of course, Griffa knows that, through the principle of relief (Entlastung), painting corresponds to a process of fictional products of reality. It relieves the world, but it does not cancel its complexity. The basic signs by the artist are simple and ambiguous at the same time, so they are the result of that peculiar synthesis: “I relieve the world to know and manage it”, says Griffa, “I cancel the representation of the world and I leave the images of signs and brushes and, through them, I find again the world in the fictional mechanism”.[4]

This is the meaning of the enigmatic expression “make and remake the world”. In the same time, it is the deepest meaning of his paintings.


Notes

[1] Maria Teresa Pansera, Antropologia filosofica, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2001, pp.23-24

[2] Roberto Mastroianni, Quadri d’epoca e immagini del mondo, in AA.VV, Giorgio Griffa. Il paradosso del più nel meno, Gribaudo, Milano, 2014, p.31

[3] Ivan Quaroni, Silenzio: parla a pittura, in Giorgio Griffa, Silenzio. Parla la pittura, Lorenzelli Arte, Milano, 2015

[4] Giorgio Griffa, Giulio Caresio, Roberto Mastroianni, Secondo colloquio (15 luglio 2013), in AA.VV., Giorgio Griffa, Il paradosso del più nel meno, op.cit., p.122


Info:

Giorgio Griffa – Esonerare il mondo/ To Relieve the World
curated by Ivan Quaroni

Opening Tuesday October 8 – 2015

8th October 2015 – 7th gennaio 2016
ABC-ARTE Contemporary Art Gallery
Via XX Settembre 11A,
16121 Genua – Italia
e-mail: info@abc-arte.com
T. +39 010 86.83.884
F. +39 010 86.31.680