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Eccentrici, apocalittici, pop. Inferno e delizia nell’arte contemporanea

30 Giu

di Ivan Quaroni

Invasione americana

Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider

Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive. 

Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative. 

Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson. 

Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti. 

Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010). 

Genoma italiano

La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale. 

A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].

Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo. 

Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione. 

Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC. 

Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale. 

Eccentrici, apocalittici, pop

Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani. 

La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.

Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.   

L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason. 

Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù. 

Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue opere si possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd. 

Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.

Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione. 

L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.

Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.

Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop SurrealismNicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.

Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro. 

Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.

Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore.  El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso. 

Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.

Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.

Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità. 

Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.


[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.

[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.

[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[4] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.

Hauntology. Natura spettrale della pittura

22 Mar

di Ivan Quaroni

Hauntology è un vocabolo originariamente coniato dal filosofo Jaques Derrida nel libro Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova internazionale (1993). Si tratta di un gioco di parole composto dalla crasi del verbo to haunt (infestare, ossessionare) e del sostantivo ontology, che designa la disciplina filosofica che si occupa dello studio dell’essere in quanto tale, vale a dire di tutto ciò che ha le qualità dell’esistere, i cosiddetti enti. Secondo Mark Fisher, l’hauntologia, che eredita concetti usati in precedenza da Derrida come quelli di traccia e di différance, si riferisce al fatto che nulla gode di un’esistenza puramente positiva perché “tutto ciò che esiste è possibile soltanto sulla base di una serie di assenze che lo precedono e lo circondano, permettendogli così di acquisire la coerenza e l’intellegibilità che possiede”[1]. Con l’hauntologia, Derrida si oppone al concetto tradizionale di ontologia, che definisce l’essere come una presenza sempre identica a sé stessa, introducendo la figura dello spettro.

Lo spettro è un’entità che non è mai pienamente presente, che non possiede l’essere in sé ma che, come sosteneva Martin Hägglund in Radical Atheism: Derrida and the Time of life (2008), segna una relazione con ciò che non è più e con ciò che non è ancora. Per Mark Fisher, i fantasmi esercitano sul presente una “causalità spettrale”, proprio perché non possono essere pienamente presenti, essendo residui del passato o frammenti di un futuro mai esistito. Perciò, può essere definito hauntologico quel che, non essendo pienamente presente, gode di una sorta di ubiquità ed esercita sul presente un potere infestante e spettrale. 

La pittura possiede una natura intimamente hauntologica. La sua propensione spettrale s’invera nel persistente rimando a qualcosa che non è mai del tutto presente, a un altrove verso il quale ogni significato slitta inevitabilmente. L’infestazione può provenire dal passato, dal futuro o da una dimensione temporale distorta. Si può dire che l’immagine pittorica non abita mai l’attuale, se non sotto forma di traccia o di ectoplasma di un tempo disallineato.

“Una delle espressioni che si ripetono negli Spettri di Marx”, spiega Fisher, “è una frase proveniente dall’Amleto, «il tempo è fuori di sesto»”[2]. Significa che il tempo è lussato, disarticolato e che spetta ad Amleto, per destino o fatalità, di rimetterlo sui giusti binari ripristinando la giustizia. A chiederlo è il fantasma del padre assassinato, che reclama vendetta, lamentando la crudeltà di un tempo che non lascia requie nemmeno ai morti. Tempo fuor di sesto è anche il titolo di un romanzo di Philip K. Dick, pubblicato nel 1959, in cui il personaggio di Ragle Gumm, come Amleto, è ossessionato dallo spettro paterno. In entrambi i casi, la percezione dei protagonisti di vivere in un tempo fuori di sesto implica un senso di turbamento rispetto alla natura anomala e traviata del presente. Ma tale turbamento non si traduce in una critica della realtà, ma piuttosto in un’interrogazione sulla natura stessa della realtà. “Che cosa è reale? Che cosa è vero?”, si chiedono ontologicamente i due personaggi. Ed è qui che entra in campo lo spettro, il fantasma, la sostanza ectoplasmatica, che non è tanto un’essere soprannaturale, ma un’entità virtuale che agisce senza essere presente.

L’hauntologia derridiana (e fisheriana) non è, tuttavia, un concetto sostitutivo della nostalgia. Lo spettro con cui l’hauntologia fa i conti non è solo quello del passato, avvertito come un tempo migliore rispetto al presente, ma è soprattutto quello del futuro che non si manifesta. Un “futuro forcluso”, come lo definisce Fisher, la promessa di un passato che non si realizzerà. Quindi, non solo l’hauntologia costituisce il volto fantasmatico dell’ontologia, ma ne è anche la variante temporalmente ubiqua, che marca l’esistenza delle cose con “una serie di assenze”: il non più e il non ancora che esercitano sulla realtà un’influenza spettrale, virtuale.

La pittura, ogni forma di pittura, reitera il potere infestante degli spettri attraverso persistenze, ripetizioni e prefigurazioni che impediscono ogni forma di equazione col presente. Essa, infatti, si sottrae sistematicamente al potere bloccante della realtà, così come viene intesa dall’ontologia tradizionale. Si può dire che tutta la pittura è “fuor di sesto” in quanto non corrisponde mai pienamente alla realtà di cui è, piuttosto, parvenza, rappresentazione esteriore, simulacro e fantasmagoria. Di più, la pittura, similmente a quanto scrive Baudrillard a proposito dell’arte tutta, “costringe la realtà a sparire e introduce dunque, contro il naturale corso del mondo, le condizioni del Giudizio finale”[3]. Ed è qui curioso che l’espressione “contro il naturale corso del mondo”, in cui avvertiamo l’eco dello shakespeariano “tempo fuori di sesto”, sia connessa, come nell’Amleto, all’idea di ristabilire una giustizia, quella di un apocalittico giudizio finale. 

Persistenze, ripetizioni, prefigurazioni sono rilevate anche da Baudrillard quando afferma che “Noi viviamo nella riproduzione indefinita di ideali, di fantasmi, di immagini, di segni, che sono ormai dietro di noi e che dobbiamo tuttavia riprodurre in una specie di indifferenza fatale”[4]. È il risultato di un processo dissolutivo di deterrenza del simbolico che ha sostituito il simbolo, tipico delle espressioni artistiche del passato, con l’immaginario (imagery) che caratterizza i linguaggi post-moderni. “Noi stiamo vivendo la trasformazione dei simboli in immagini”, spiega Fulvio Carmagnola, “ovvero la dissoluzione dello spazio o del dominio del simbolico, come già da tempo ha affermato Baudrillard: «non c’è più scambio simbolico a livello delle formazioni sociali moderne; non più come forma organizzatrice»”[5]. Secondo Carmagnola, “L’imagery implica […] sia la presenza di un insieme di figure che precedono l’uso individuale, che appartengono al patrimonio della cultura e del linguaggio – o secondo un’altra lettura al regno degli archetipi sovratemporali – sia l’attività individuale, poietica, di creazione e ricombinazione”[6]. In entrambe le accezioni, l’imagery si contrappone alla realtà in quanto costrutto formato da immagini mentali di cui, peraltro, la pittura fa largo uso, perfino quando impiega linguaggi iper-mimetici per ricalcare fedelmente la realtà. 

Potremmo dire, parafrasando Fisher, che in pittura l’hauntologia non rappresenta un caso raro, anzi essa è già presente in Baudrillard quando parla di “simulacri” e “immagini sintetiche” e quando introduce i concetti di “tecno-tele-discorsività” e “tecno-tele-iconicità” per rilevare la crisi di spazio e tempo prodotta dall’avvento delle nuove tecnologie, grazie alle quali “eventi spazialmente remoti divengono disponibili al pubblico nello stesso istante”[7].

Emblematici, in tal senso, sono gli Internet Paintings di Miltos Manetas, pensati inizialmente come opere work-in-progress che riproducono temporaneamente sulla tela schermate di siti web destinati a modificarsi o scomparire nel tempo. Nel suo tentativo di forzare la pittura a fondersi con la natura impalpabile ed effimera delle immagini del cyberspazio, Manetas concepisce quadri che cambiano continuamente per effetto di progressive sovrascritture pittoriche che ricalcano il perpetuo mutamento dei contenuti virtuali di internet. Internet Painting (Off) è un grande olio su tela del 2002 che testimonia l’interruzione (o la momentanea messa in pausa) di un processo virtualmente infinito. Così, le immagini impresse sulla tela diventano la traccia (ectoplasmatica) di una pletora di iconografie provvisorie, che la rete consegna all’implacabile flusso degli aggiornamenti periodici. 

In una dimensione antitetica si allignano le rovine architettoniche della civiltà industriale che ossessionano Andrea Chiesi, il quale trascrive su tela il sogno (o l’incubo) di una modernità solida che resiste alle trasformazioni della società liquida profetizzata da Zygmunt Bauman. Siamo lontani, però, dalle tassonomiche indagini dei coniugi Bernd e Hilla Becker, con le loro fotografie di edifici industriali dal taglio obbiettivo e documentaristico. Quelli di Chiesi sono, invece, paesaggi lividi, plumbei, dove sembra che gli spettri di un’epoca trascorsa si siano solidificati nelle ossature di acciaio e cemento di fabbriche e infrastrutture abbandonate. Qui, più che l’anonimia dei non-luoghi di Marc Augé, si avverte la presenza infestante delle memorie materiali, oggetti tragici, quanto inutili, che resistono all’usura del tempo. Come le lunghe file di schedari di un vecchio archivio di stato che nessuno consulta più. 

È una pittura abitata dai fantasmi dell’arte del passato quella di Pablo Candiloro, che materializza schegge di memoria visiva nelle sue pennellate di malte sintetiche, bruciate con una pistola termica. La qualità materiale dei suoi dipinti è quasi un antidoto visivo contro l’invadenza delle immagini “tele-tecnologiche” di cui parlava Baudrillard, che oggi cannibalizzano il dominio della visione. Perfino l’evocazione (quasi spiritica) dei maestri del passato, attraverso il tema del ritratto sul balcone, già trattato da una pletora di pittori – da Goya a Manet, da Caillebotte a Segantini, fino a Boccioni e Magritte -, si costituisce come una forma di resistenza contro la montante marea dell’immaginario mediatico. La riflessione di Candiloro si svolge, dunque, attorno al tema del ruolo della pittura in quello che lui stesso definisce “un tempo disarticolato e frastornato” o, per meglio dire, “fuori di sesto”. “Che cosa resta della capacità di visione della pittura oggi?”, sembra chiedersi l’artista. La risposta si trova, forse, nel piccolo, prezioso dipinto che raffigura un paio di occhiali rotti.  Come a dire che, per l’artista, le sorti della pittura si giocano più che sul piano della seduzione ottica e retinica, già presidiato dall’imagery massmediatica, sul terreno delle qualità evocative (ed elusive) delle immagini. 

Al contrario, la pittura di Maurizio Cannavacciuolo irretisce lo sguardo dell’osservatore in una griglia visiva squisitamente ottica e bidimensionale, dove vocaboli figurativi e astratti si affastellano a formare un’ipnotica tessitura iconografica. La superficie è il luogo in cui, per effetto dell’annullamento di corpo e spazio, le immagini possono assumere un valore puramente segnaletico, esornativo, ma anche indicativo. Come frammenti indiziari di un enigma irrisolvibile, i lemmi figurativi di Cannavacciuolo costituiscono gli ingranaggi di quella che è stata spesso definita una sorta di machine à penser, o meglio, un dispositivo di pattern recognition (per dirla con William Gibson), che sfida l’osservatore a pensare e riconoscere differenti modelli e codici visivi. Il dipinto intitolato Lazy Ceramist Violet Sunflower VS Green (2021) è il perfetto esempio di questa strategia fatale, una trappola che conduce, attraverso la deterrenza del simbolico, a quella che Baudrillard chiama “la vertigine tattile dell’immagine”[8].

Una vertigine spirituale è invece quella prodotta dalla pittura di Alberto Di Fabio che indaga, a cavallo tra arte e scienza, relazioni e corrispondenze tra gli universi microcosmico e macrocosmico della natura, intesi come riflessi di un ordine che opera similmente su scale di grandezza differenti. Con quella che è stata definita una grammatica “realisticamente astratta”, Di Fabio indaga, solitamente, oggetti che esuberano le possibilità percettive dell’occhio umano, come fenomeni subatomici, forme microbiologiche, eventi elettromagnetici, reti neurali o siderali geografie stellari, mostrando, così, le analogie che accomunano le diverse manifestazioni dell’esistenza. I lavori su carta degli inizi degli anni ’90 possono essere letti come un primo tentativo di ristrutturazione del tessuto simbolico della pittura. Le montagne di Di Fabio, dove si avverte la spettrale relazione con i soggetti dipinti da Mario Sironi negli anni Cinquanta, sono, infatti, morfologie naturali che rimandano ai temi “tradizionali” della montagna cosmica e dell’arboreo axis mundi, entrambi raffigurazioni delle possibilità di elevazione spirituale dell’uomo. 

Una pittura concisa, stringata, distillata è quella di Marco Neri, che trasforma memorie e impressioni del vissuto in paesaggi architettonicamente strutturati, dominati da linee e volumi geometrici. La trascrizione del tempo in spazio nei suoi dipinti corrisponde alla formulazione d’immagini essenziali, simili a segnali. “La natura del segnale”, scriveva George Kubler, “è tale che il messaggio convenuto non è «qui» né «ora», ma «là» e «allora»”[9]. Ciò significa che se c’è un segnale, il messaggio è nel passato, ma la sua percezione avviene nel presente. Dipinti come Monologo (2013) o i due acquarelli della serie Passante incrociato (2011), mostrano la distanza che intercorre tra l’impulso iniziale del messaggio, cioè impressioni ed esperienze ricavate dall’osservazione della realtà, e la sua codificazione in immagine. Questa codificazione della ridondanza esperienziale in immagini elegantemente scarne, quasi diagrammatiche, ricorda il processo di riduzione husserliana, un metodo filosofico che, attraverso lo scarto del dato empirico e psicologico, conduce all’essenza dei fenomeni. 

Curioso come la pittura di Daniele Galliano intrattenga un rapporto ambiguo con la realtà. Infatti, se da una parte l’artista ricorre a fonti fotografiche per catturare schegge di vita quotidiana, dall’altra traduce tali spunti in un linguaggio pittorico “low-fi” che Mario Perniola ha definito “iporealistico”, nel senso che opera un downgrade della definizione ottica attraverso la sfocatura delle immagini. Tra l’altro, come asserisce proprio Perniola, “nessuna operazione artistica può più battere l’effetto traumatico o immondo di un reportage fotografico”[10]. Di conseguenza, l’estetica “fuzzy” di Galliano è il risultato di una rimediazione della sorgente fotografica attraverso lo strumento caldo della pittura. Un processo che porta non solo a sostanziare il fantasma dell’immagine mediale nella materia organica e oleosa, ma che, di fatto, produce un radicale stravolgimento del senso dell’immagine stessa. Infatti, alla sottrazione di fedeltà retinica corrisponde un potenziamento del gradiente emotivo e seduttivo che ritroviamo tanto nelle scene collettive con gruppi di bagnanti, quanto nei ritratti di donne colte in momenti d’intimità erotica (o auto-erotica).

La rappresentazione anatomica nella pittura di Nicola Verlato è una forma di possessione dello spirito “classico”, che l’artista adatta a un campionario di nuove iconografie, come uno schema flessibile, infinitamente modulabile. Come avverte Salvatore Settis, “molte apparizioni e riapparizioni del ‘classico’ hanno preso e prendono la forma non tanto della riscoperta, quanto della rinascita o del ritorno, quasi si trattasse di un fantasma dotato di propria volontà e personalità, capace di tornare allo scoperto quando meglio creda”[11]. Ma tale iterazione del classico, che nella produzione di Verlato si avvale dell’interpolazione tra vecchie tecniche artigianali e moderne tecnologie digitali di elaborazione 3D delle immagini, assume anche un valore programmatico. La costruzione anatomica diventa, infatti, il segnale di una concezione che non relega l’arte alla mera produzione di idee, ma reintegra quell’insieme di abilità, perizia professionale e padronanza delle regole del mestiere che gli antichi chiamavano techné. Singolare è, invece, il modo in cui – per esempio in opere come Mishima Seppuku 2 (2021) e Study for “The Settler 2” (2020) – la persistenza del “classico” passi attraverso un immaginario weird, come lo definirebbe Fisher, in cui elementi dell’iconografia pagana e cristiana vengono calati in circostanze e ambientazioni a loro estranee. Si tratta di una dislocazione destabilizzante, che catapulta i tropi classici all’interno di inedite congiunture spazio-temporali.

Nell’arte di Danilo Bucchi lo iato che esiste tra gesto e segno è evidente. Sulla tela, infatti, possiamo leggere solo la traccia, quasi una registrazione di un complesso di azioni. Una traccia è qualsiasi segno lasciato dal passaggio di un corpo su una superficie e un disegno è, indubbiamente una traccia. Ciò significa che l’energia meccanica che l’ha generata (la traccia) è nel passato, nel non più, mentre davanti ai nostri occhi si dipana la sua scia, la cui natura è, ancora una volta, quella di un segnale. Henri Focillon sosteneva che “Quale che sia la forza di ricezione e di invenzione della mente, senza il concorso della mano essa non darebbe vita che ad un tumulto interiore”[12]. Danilo Bucchi ha trovato il modo di trasformare il tumulto in una pittura che è soprattutto una forma di “appropriazione” del mondo. Non si tratta, naturalmente, di una conoscenza razionale, sorvegliata, ma di una esperienza in cui la mano non è la “docile serva della mente”. Un dipinto come Butterfly (2016) si mostra, allora, come il prodotto di due intelligenze, quella contemplativa e quella tattile, che operano congiuntamente. Tutto parte, rubando le parole di Focillon, con “Una linea, un segno sull’aridità del foglio bianco, divorato dalla luce [dove] senza compiacersi in artifici tecnici, senza attardarsi in alchimie complesse, si direbbe che lo spirito parli allo spirito”[13].

Lo spazio cavo del bianco è il locus su cui si dirime l’impronta pittorica di Gianluca Di Pasquale, che in molti dipinti si dà attraverso una micro-gestualità che organizza la presenza antropica sulla superficie di una tela che, stando a quel che dice Gilles Deleuze, è, fin dall’inizio, interamente ingombra di cliché. “Il lavoro del pittore”, sostiene, infatti, il filosofo francese, “consiste nel distruggerli: il pittore deve passare attraverso un momento in cui non vede più nulla, attraverso uno sprofondamento delle coordinate visuali”[14]. Questo momento è, per Gianluca Di Pasquale l’incipit di un processo simile a una disciplina meditativa. Certo, i suoi quadri mostrano letteralmente gli scorci innevati di un paesaggio alpino (L’ultima discesa, 2023), appena segnato dall’esigua presenza di alberi e sciatori, ma possono essere letti anche alla luce di una “dialettica di pieno e di vuoto”[15], dove il vuoto è inteso come uno spazio generativo di epifanie discrete e sommesse apparizioni. La sensazione di silenzio, che molti hanno notato nei candidi landscape di Di Pasquale – e che in qualche modo corrobora l’idea di una pittura misurata, discreta appunto – emana anche dai suoi ritratti, lavori come Felce e fiori (2023) e La cuffia verde (2023) dove la dialettica tra vuoti e pieni appare più bilanciata e dove la figura umana si sostituisce al paesaggio nel divenire ricettacolo di forme ritmiche, pattern che scandiscono, con minuzie esornative, il campo della visione (e del pensiero). 

Vanni Cuoghi intende la pittura come una mise-en-scène, un palcoscenico che ospita una pletora di finzioni, allestite scenograficamente per costruire un mondo che non c’è, un mondo altro, dove le abituali coordinate spazio-temporali sono sospese. In questa serie di lavori, l’atto pittorico è preceduto da un momento costruttivo, in cui l’artista edifica piccole maquette servendosi di materiali di scarto, oggetti, strumenti, periferiche che fanno da sfondo al lavoro di studio. Questi teatri miniaturizzati sono microcosmi metafisici tangibili in cui, come notavo in altre occasioni, si avverte l’irrompere di una dimensione weird, perturbante, che manifesta un’alterità irriducibile di marca quasi lovecraftiana. Proprio Mark Fisher scriveva che “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[16]. Questi surreali assemblaggi sono come cartamodelli dai quali Vanni Cuoghi muove per elaborare una pittura teatralizzata e sfacciatamente artificiale, che smaterializza la dimensione oggettuale del prototipo nella sostanza virtuale dell’immagine. Lo slittamento dall’oggetto alla tela è, però, foriero di conseguenze, perché il dipinto non è mai una mera trasposizione. Opere del ciclo “La messa in scena della pittura”, come ad esempio Night Fever (2021) e Judith (2022), mostrano il carattere pretestuoso del prototipo, rivelando, invece, la natura radicalmente trasformativa del gesto pittorico, che appare come il veicolo più adeguato all’esplorazione di una realtà “fuori di sesto”. 

La potenza metamorfica dell’immagine infesta tutta la pittura di Fulvio Di Piazza, che traduce inquiete morfologie geografiche in perturbanti fisionomie, adattando, così, la lezione di Arcimboldo all’atmosfera apocalittica della fine dell’antropocene, l’attuale era geologica caratterizzata dalle conseguenze ambientali prodotte dall’attività dell’uomo. Potrebbe essere, come già pensava Jurgis Baltrušaitis a proposito dei cicli di corruzione delle forme classiche, che anche la pittura di Di Piazza sia la conseguenza di una stabilità alterata delle grammatiche artistiche, in cui “quando le metamorfosi delle forme e dello spirito scatenano la fantasia e l’immaginazione, ecco che ritroviamo il mostro e la bestia”[17]. I dipinti King of Klan (2017) e Spettro del Reef (2023) non solo mostrano la qualità allucinata delle sue portentose personificazioni, creature mutanti formate da miriadi di concrezioni fossili e agglomerati di organismi viventi, ma offrono anche uno spaccato delle proprietà incantatorie di una pittura rigogliosa, eccedente, dove l’eredità della sensibilità barocca s’innesta sul disturbante immaginario surrealista e, insieme, sulle distopiche visioni della fantascienza popolare.

I dipinti di Elisa Filomena sembrano superfici dilavate dal tempo, abitate da personaggi spettrali, dalla consistenza incerta. Queste figure sottili, quasi di filigrana, sono forse la migliore trascrizione visiva della natura frammentaria delle memorie. Come le memorie, esse hanno, infatti, una forma incompleta, corrotta e un carattere arbitrario che deriva dal desiderio dell’artista di cogliere la qualità impalpabile, essenziale delle immagini. Lo spunto iconografico deriva talvolta da vecchie fotografie dell’Ottocento o degli inizi del Novecento, ma viene poi filtrato da un lungo processo di gestazione pittorica che libera le immagini da ogni scoria accidentale, asciugandole e assottigliandole fino a renderle quasi trasparenti come flebili ectoplasmi. Alla radice di questa prassi hauntologica, c’è l’ambizione di visualizzare la sostanza rarefatta dei ricordi, evanescente come l’eco di una voce registrata su un vecchio nastro magnetico. Figure (2019) e Le muse (2020) sono il prodotto esemplare di una pittura intesa come pratica medianica, capace di evocare in immagini lo spirito di un tempo trascorso e i fantasmi di vite mai vissute.

La pittura di Giuditta Branconi è come una tessitura iconografica organizzata intorno all’armatura della tela. Le immagini, sono, infatti, dipinte su entrambi i lati del supporto, a formare una compatta struttura di trame e orditi visuali che occupano l’intera superficie senza soluzione di continuità. Il risultato di questo procedimento è la creazione di una grammatica esuberante, eccedente, costruita anche attraverso l’affastellamento di disparati codici linguistici, dal tatuaggio alla serigrafia, dall’illustrazione all’ornamento. Si tratta di un approccio cumulativo, che scarta ogni tradizionale gerarchia stilistica per far confluire elementi antitetici in un unico continuum narrativo. In dipinti come Dillo al vento (per Vladimir) e Ancora cieca, la superficie, saturata da una pletora di tropi iconici ed esornativi, si offre allo sguardo dell’osservatore come un vertiginoso sbarramento visivo. Ma è proprio questa plenitudine retinica, questa compattezza ottica dal ritmo ossessivo e incantatorio a rendere la pittura di Giuditta Branconi una sorta di formulario di giaculatorie visive o di moderno grimorio figurato.

Per Giampiero Bodino la costruzione della pittura passa attraverso l’interpolazione e l’alterazione di immagini fotografiche, considerate come parte della moderna dotazione strumentale dell’artista. La trasformazione del lemma fotografico in sintagma pittorico è un atto di fagocitazione mediatica che denuncia la natura onnivora, ma non per questo meno selettiva, della sua prassi artistica. Per Bodino il frammento fotografico, sia esso stampato o dipinto, è parte integrante di una complessa architettura iconografica, che si propone anche come un’interrogazione sul valore delle immagini in quest’epoca di esuberanza mediatica. Per questo, un elemento decisivo della sua pittura concerne la post-produzione, attraverso cui l’artista snatura la fonte fotografica enfatizzando, quasi espressionisticamente, i contrasti luministici. L’immaginario che ne deriva non può che ruotare attorno al tema della memoria, intesa come serbatoio d’immagini alterate, fabbricate e, in un certo senso, “post-prodotte” in forma di ricordi che, come il drammatico ritratto in bianco e nero di Bob Kennedy nel piccolo dittico Presunzione d’innocenza (2023), non corrispondono mai alla realtà. 

Un ritratto pittorico non è mai una mera restituzione dei tratti somatici di un volto, ma piuttosto una sintesi degli elementi sia tangibili che aleatori di una personalità. Lo sapeva bene Fulvia Zambon, che catturava l’anima dei suoi soggetti non solo ritraendoli dal vivo, ma soprattutto costruendosi di loro una precisa immagine mentale, quasi la vista, da sola, fosse uno strumento inadeguato. “Dipingo per me stessa”, diceva, “e per coloro che sanno che la realtà che vediamo non è sufficiente”. Torinese di nascita, ma americana d’adozione, Zambon era stata allieva di Ronald Sherr, celebre ritrattista di entrambi i presidenti Bush e di altri personaggi di spicco della società americana, ma il suo stile si discosta notevolmente da quello paludato e celebrativo del maestro, per la sua capacità di cogliere, in un certo senso, il carattere sovratemporale di certe personalità. L’artista sapeva, infatti, che stare davanti a un quadro non significa solo interrogare l’oggetto dei nostri sguardi ma, come sosteneva Georges Didi-Huberman, “Vuol dire anche fermarsi di fronte al tempo”[18]. Quelli di Monica Lynch(2016) e Sara Schoofs (2017) sono ritratti “fuori flusso”, nel senso che non abitano la realtà del divenire fenomenico, ma piuttosto una dimensione contemplativa, atarassica, non turbata dalle passioni esistenziali. Ed è questa una cosa che solo una pittura autenticamente hauntologica può fare.        


[1] Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, traduzione di Vincenzo Perna, 2019, Minimum Fax, Roma, p. 32.

[2] Ibidem.

[3] Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, a cura di Elio Grazioli, 2012, Abscondita, Milano, ., p. 25.

[4] Ivi, p. 27.

[5] Fulvio Carmagnola, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, 2006, Bruno Mondadori, Milano, pp. 27-28.

[6] Ivi, p. 45.

[7] Fisher, Op. cit., p. 35.

[8] Baudrillard, Op. cit., p. 25.

[9] George Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, 2001, traduzione di Giuseppe Casatello, Einaudi, Torino, p. 25.

[10] Mario Perniola, L’arte espansa, 2019, Einaudi, Torino, p. 29.

[11] Salvatore Settis, Futuro del “classico”, 2020, Einaudi, Torino, p. 9.

[12] Henri Focillon, Elogio della mano, traduzione di Elena De Angeli, in Vita delle forme seguito da Elogio della mano, 2018, Einaudi, Torino, p. 114.

[13] Ivi, p. 121.

[14] Gilles Deleuze, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, a cura di Ubaldo Fadini, 2002, Ombre corte, Verona, p. 106.

[15] Alberto Mugnaini, Gianluca Di Pasquale. Respirare la pittura, in «Flash Art», marzo/aprile 2015, p. 53.

[16] Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, traduzione di Vincenzo Perna, 2022, Minimum Fax, Roma, p. 10.

[17] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, traduzione di Fulvio Zuliani e F. Bovoli, 1997, Adelphi, Milano, p. 43. 

[18] Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, 2007, Bollati Boringhieri, Torino, p. 16.


Lo strano e l’inquietante. La demondificazione nell’arte di Vanni Cuoghi

20 Lug

di Ivan Quaroni

 

Spesso le sue opere assumono (letteralmente) l’aspetto di vere e proprie scatole narrative in cui stranianti paesaggi sono compressi dentro una cornice spaziale rigidamente codificata che somiglia al palcoscenico di un teatro miniaturizzato. In questa pittura oggettuale, fatta non solo di elementi grafici, ma di collage e carta intagliata, l’artista cristallizza gli episodi apicali di un racconto aperto, suscettibile di molteplici interpretazioni. Un uguale procedura compare anche nei dipinti di scala monumentale, come ad esempio la grande tela intitolata Le due verità (2017), dove sono le figure stesse a diventare ricettacoli di storie, accogliendo nel proprio corpo, o meglio nelle pieghe dei loro sontuosi e ipertrofici abiti, episodi narrativi che rimandano agli stilemi rappresentativi dei bassorilievi tardo-antichi o, addirittura, dei codici miniati medievali.  

Questi oggetti sono, in effetti, dei bozzetti progettuali, allestimenti scenici che rivelano i meccanismi associativi dell’artista. Non sono ancora opere, ma studi tridimensionali che, solo successivamente, si trasformano in dipinti su tela o in opere che combinano la pittura con la tecnica del paper cutting, l’antica arte psaligrafica d’intagliare la carta per ottenere forme e figure leggibili.

Si può dire, con un certo grado di approssimazione, che l’arte contemporanea sia caratterizzata dal ricorso sistematico a tecniche di appropriazione di materiali estranei alla tradizione artistica. Nello specifico caso di Vanni Cuoghi, l’appropriazione assume la forma del bricolage. Il bricoleur, secondo Claude Lévi-Strauss, “è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto; il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè ad un insieme via via «finito» di arnesi e di materiali, peraltro eterocliti, dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né d’altronde con nessun progetto in particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o di arricchire lo stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedenti”[1].

Se questo è il meccanismo procedurale usato dall’artista, il risultato che ne sortisce è qualcosa di sottilmente perturbante. In passato, nelle mie numerose letture critiche del lavoro di Cuoghi, ho utilizzato l’aggettivo “bizzarro”. C’è, però, un termine inglese che è forse più appropriato: weird. Le traduzioni di weird proposte dai dizionari includono i significati di “bizzarro”, “strano”, “strambo”, “assurdo”, “misterioso”, mentre lo scrittore e critico culturale inglese Mark Fisher ne ha fornito una descrizione più accurata secondo la quale weird indicherebbe ciò che è fuori posto, ciò che non torna. 

Nei dipinti del ciclo “La messa in scena della pittura” il paesaggio ricavato dal montaggio di frammenti di realtà è evidentemente una congerie di oggetti fuori posto, come pezzi di legno schermi di PC portatili o archi a tutto sesto spuntati dal nulla. Tuttavia, tale paesaggio è anche una morfologia dissestata, in cui gli elementi naturali non obbediscono più né alle leggi gravitazionali né a quelle climatiche e dove, ad esempio, deserti e montagne innevate coesistono con alberi mostruosamente fioriti. “La forma artistica che è forse più appropriata al weird”, scrive Fisher, “è quella del montaggio – la combinazione di due o più elementi che non appartengono allo stesso luogo[2]. Da qui deriverebbe, secondo il critico inglese, la fascinazione per il weird da parte del Surrealismo “che interpretava l’inconscio come una macchina per il montaggio cinematografico, un generatore di accostamenti bizzarri”[3] 

Nella serie dei “Fondali oceanici”, caratterizzata dalla combinazione di pittura e paper cutting, il montaggio di cose fuori postoè più chiaramente leggibile. Le creature marine sorvolano paesaggi terrestri che sorgono, letteralmente, da una sorta di sottomondo su cui lasciano impressa la propria traccia negativa, l’inquietante evidenza di un’assenza, l’ombra, insomma, di una sparizione che secondo la grammatica di Fisher dovremmo definire con un altro termine intraducibile: eerie

Eerie indicherebbe un fallimento di assenza o un fallimento di presenza, vale a dire una sensazione che si verifica “quando c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci niente, o quando non c’è niente quando dovrebbe esserci qualcosa”[4]. Come avviene, ad esempio, con le creature marine fluttuanti nel cielo o con il vulnus prodotto dalla sollevazione del paesaggio.  

Nella pittura di Vanni Cuoghi l’immagine è costruita come una finzione, una costruzione apparentemente confortevole in cui s’insinuano gli spettri del weird e dell’eerie. Non è tanto la loro smaccata natura di “artefatti” a produrre la strisciante sensazione che qualcosa non torni, ma la loro pretesa simulazione del “mondo”. Laddove “mondo” significa, secondo l’accezione latina locus mundus, un luogo pulito, chiaro, visibile (e intellegibile) per l’uomo. Il mondo non coincide con un habitat, come la Terra con le sue variegate specie di organismi viventi, ma è piuttosto un ordine, un kósmos a misura d’uomo. Le opere di Cuoghi scardinano questa concezione attribuendo all’uomo un posto tra le cose, trasformandolo in un ente tra altri enti che, dunque, non ha più alcuna preminenza. Qual è, infatti, il ruolo degli uomini nelle sue opere? Sono spettatori? Sono testimoni? Non sono certamente i protagonisti di queste mise en scene. Sembrano piuttosto presenze aliene in un universo alieno. Sono, in effetti, sagome ritagliate come ogni altro elemento oggettuale, una morfologia tra altre morfologie. 

Quel che Mark Fisher scrive a proposito della sensazione di weird generata dal romanzo Tempo fuor di sesto di Philp K. Dick, pubblicato nel 1959, vale anche per il meccanismo di bricolage con cui Cuoghi trasforma il mondo realistico in un “non mondo”: “Una volta declassato a simulazione, il mondo realistico non appare soltanto infranto, quanto piuttosto cancellato”[5]. Quel che Cuoghi mette in atto è un processo di demondificazione, cioè la decostruzione dell’idea di “mondo” come insieme di semantiche fondative e come base di autenticazione del reale. Tanto i paesaggi “messi in scena” quanto i “Fondali oceanici” annullano il concetto di “mondo” come costrutto ontologico stabile, spalancando la visione sull’abisso di un universo alienonon familiare, del tutto indifferente alla nostra esistenza e al nostro sistema valoriale. Qui non si tratta più di affermare, come facevano i surrealisti, l’erompere dell’unheimlich, del Perturbante freudiano, che starebbe ancora nei confini del “mondo”, ma di avvertire la possibilità di una realtà altra, estranea, che invera non solo la fine dell’antropocentrismo, come si augurano gli esponenti del cosiddetto Realismo speculativo, ma che prefigura addirittura quel “mondo senza l’uomo” che oggi appare a molti pensatori contemporanei come una possibilità più che concreta. 

Se il proposito dichiarato di Cuoghi era di svelare con queste opere i dispositivi associativi che presiedono alla costruzione della sua pittura, mostrandone peraltro il carattere metalinguistico, l’effetto inatteso è stato, invece, di aprire una crepa nel suo linguaggio figurativo. Da quella fenditura sono emersi i contorni di una autentica esternalità, di un mondo strano e sconosciuto che esercita una potente forza attrattiva proprio nel momento in cui promette di rendere antiquato ogni appagamento derivante dalla visione di ciò che è normale e convenzionale. Non è ancora l’Esterno infestato dall’ombra di cui scrive Lovecraft in una lettera del 1927 al direttore di Weird Tales, “in cui dobbiamo ricordarci di lasciare sulla soglia la nostra umanità e il nostro essere terrestri”[6], ma è il limbo che ci prepara a entrare in quell’irriducibile alterità.  


[1] Claude Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il saggiatore, Milano 1964, pp. 30-31.

[2] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[3] Ibidem

[4] Ivi, p. 72.

[5] Ivi, p. 57.

[6] Mark Fisher, Op. cit., pp. 23-24.


INFO:

Titolo SUBMARINER

Artista VANNI CUOGHI

a cura di Nicoletta Castellaneta e Ivan Quaroni

Sede Acquario Civico di Milano – Viale G. Gadio 2, Milano – M2 Lanza

Tel. 02 88 46 57 50 

Apertura dal 14 luglio al 12 settembre 2021

Orari martedì – domenica ore 10 – 17.30 (ultimo ingresso ore 17, con biglietto). Chiusura biglietteria ore 16:30. Lunedì chiuso

Biglietti d’ingresso 5.00 euro intero, 3.00 euro ridotto, la visita alla mostra è compresa nel biglietto d’ingresso all’Acquario. 

Informazioni Acquario giorni e orari di apertura, modalità d’accesso 

http://www.acquariodimilano.it

Prenotazione gratuita e biglietti acquistabili su:

http://www.museicivicimilano.vivaticket.it

Informazioni mostra OPERA d’ARTE 

Tel. 02.45487400

Italian Newbrow. Genealogia culturale di un’esperienza

11 Giu

di Ivan Quaroni

Vanni Cuoghi, Under blood red sky, (La messa in scena della Pittura 02), 2019, acrilico e olio su tela, cm45x45

Italian Newbrow è un termine piuttosto curioso. Sono stato più volte rimproverato, perfino dagli artisti che hanno aderito a questo progetto, di aver scelto un nome che sarebbe risultato incomprensibile al pubblico italiano. Avevano naturalmente ragione! E la prova evidente sta nelle molteplici deformazioni che del nome sono state fatte dai giornalisti più disattenti, per non dire dislessici: Nebrown (nuovi marroni?), Newborn (neonati?), Newboh (bho!, appunto). In effetti, Newbrow è una parola inglese difficilmente traducibile nella nostra lingua, che è intimamente legata agli sviluppi di un fermento artistico di matrice americana, quella che viene chiamata Lowbrow Art, ma che è conosciuta anche con il più fortunato nome di Pop Surrealism. Il significato letterale della parola Brow è “ciglio” o “fronte”, cioè due elementi anatomici, ma il suo senso cambia notevolmente se associato ad altre parole. Lowbrow, ad esempio, si riferisce, nella cultura pop, a qualcosa che è privo di gusto, di intelligenza, di raffinatezza. Insomma, a qualcosa che è considerato intellettualmente inferiore come, talvolta, sono state considerate le produzioni plastiche e pittoriche degli artisti pop surrealisti americani che si sono ispirati a fonti triviali e corrive della cultura di massa quali il fumetto, l’illustrazione, i cartoni animati, le vecchie serie televisive, i B-movie di genere horror e fantascientifico. Il termine Pop Surrealism è stato introdotto proprio perché molti degli artisti che appartenevano a quella compagine non si riconoscevano nell’accezione negativa del termine Lowbrow, che invece era orgogliosamente rivendicato da coloro che provenivano dalle esperienze della Custom Culture, del tatuaggio o dei comic book. 

Il motivo per cui, a un certo punto, decisi di adottare questa terminologia per definire quanto stava facendo in pittura un gruppo di artisti che operava soprattutto a Milano, è molto semplice: tra il 2005 e il 2007 eravamo tutti interessati al Pop Surrealism. Anche se alcune gallerie, come la bolognese Mondo Bizzarro, avevano già fatto da apripista, era solo da qualche anno che iniziavano a filtrare attraverso la stampa notizie relative a questa nuova tendenza pop che aveva caratteristiche del tutto diverse rispetto alla Pop Art di Warhol e Lichtenstein, come pure al New Pop di Jean-Michel Basquat, Keith Haring, Ronnie Cutrone o Kenny Scharf. 

Giuliano Sale, Private Rave in my Living Room, 2021, olio su tela, cm. 130×110

L’influsso del Pop Surrealism si mescolava e si confondeva, peraltro, con quello proveniente dalle similari, ma non identiche, esperienze degli artisti giapponesi Superflat, da Takeshi Murakami a Yoshitomo Nara, da Aya Takano a Chiho Aoshima, che avevano traslato il linguaggio dei manga e degli anime nell’arte contemporanea. 

Questo riversamento magmatico d’immagini semplici e immediate, ma anche seducenti e affascinanti, aveva irretito non solo la mia attenzione, ma anche quella di amici artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Michael Rotondi, Michela Muserra, Massimo Gurnari, Giuliano Sale e Silvia Argiolas, con i quali avevo già avuto modo di collaborare in differenti occasioni espositive. Tuttavia – ne sono certo -, questa nuova sottocultura pop cominciava a fare breccia nelle menti e nei cuori di molti altri artisti sparsi nella penisola. All’interno del nucleo di artisti che in seguito avrebbero preso parte alle iniziative di Italian Newbrow, non tutti, per la verità, condividevano questa entusiastica curiosità verso le nuove tendenze Pop, che contrastavano la convenzionale coolness intellettualistica dell’arte concettuale per aprire il campo a un pubblico più vasto e variegato. Artisti come Paolo De Biasi, Eloisa Gobbo e Fulvia Mendini rimasero sempre sostanzialmente estranei a tale influsso, sebbene usassero un linguaggio pittorico che presentava molte analogie con quel tipo di influenze. Inoltre, noi tutti eravamo cresciuti nei primi anni Duemila in un clima artistico dominato dalla cosiddetta Nuova Figurazione, un raggruppamento davvero composito di esperienze artistiche che era stato alacremente sostenuto e propagandato dai critici Alessandro Riva e Maurizio Sciaccaluga sulle pagine della rivista “Arte” e in numerose mostre in spazi pubblici e in gallerie private. Il tratto comune degli artisti neofigurativi era il ricorso a linguaggi narrativi, le cui grammatiche spaziavano dalle forme più realistiche a quelle più fantastiche e che prevedevano, talvolta, il saccheggio d’immagini d’origine mediatica (cinema e televisione) o di derivazione letteraria, fumettistica e illustrativa. 

La mostra cardine di quella frastagliata compagine fu Sui Generis, curata nel 2001 da Alessandro Riva al PAC di Milano con la precisa volontà di mostrare come la cultura di massa avesse plasmato l’immaginario di molti artisti (soprattutto pittori) nati tra gli anni Sessanta e Settanta. Posso affermare che il mio gusto si formò tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio sulla visione, talvolta anche scettica, di quel genere di arte. 

Fulvia Mendini, Madonnina della pera, 2016, acrilico su carta, cm 38 x 28

Per chi, come me, scriveva recensioni di anemiche mostre concettuali sulle pagine di “Flash Art”, la Nuova Figurazione rappresentava non solo una specie di guilty pleasure, ma una risposta diretta, per quanto scomposta e disordinata, all’atteggiamento snob di molta arte contemporanea, percepita come un’esoterica conventicola di affiliati che dialogavano tra loro e con i collezionisti in un linguaggio criptato, volutamente oscuro ed enigmatico. Si può dire che la Nuova Figurazione sia stata la prima forma di Lowbrow Art italiana, anzi, la prima effettivamente Newbrow, capace di contaminare l’alto col basso, il popolare con il colto, l’accademico con l’antiaccademico. 

Prima che nascesse la definizione Italian Newbrow, il gruppo di artisti con i quali ero entrato in contatto a Milano, aveva, dunque, un retroterra culturale che rispondeva favorevolmente ai segnali delle nuove sensibilità pop provenienti dagli Stati Uniti e dal Giappone. Tra il 2004 e il 2007, grazie all’intensificarsi delle opportunità espositive e delle occasioni di frequentazione, si crearono tra noi legami sempre più stretti, basati non tanto su un programma artistico condiviso, ma su una comune attitudine a privilegiare un’idea di arte immediata e comprensibile, contaminata dalla cultura di massa e dunque accessibile a un pubblico più ampio di quello tradizionalmente elitario del modo dell’arte. Non eravamo i primi a porci il problema dell’accessibilità dei linguaggi artistici, ma appartenevamo, forse, a una generazione che avvertiva con più ansia e trepidazione l’urgenza dei cambiamenti della società del tardo capitalismo, in particolare dopo lo shock dell’11 settembre e l’accelerazione dei fenomeni di globalizzazione economica. 

Personalmente, la lettura di Zygmunt Bauman, con la sua apocalittica, ma profetica, descrizione del Mondo liquido – una società moderna in cui i cambiamenti tecnologici e sociali sono più rapidi della nostra capacità di sopportarli -, mi aveva convinto che le uniche forme d’arte che avrebbero potuto interpretare la cataclismatica velocità di tali mutamenti, sarebbero state quelle che avessero saputo mutuare la semplicità e l’immediatezza comunicativa da altre forme espressive come il fumetto, l’illustrazione, il videogame, il cinema, la televisione e soprattutto il web. 

La riflessione sulla Google Generation, derivata forse dalla lettura di un articolo di Luca Beatrice, mi aveva definitivamente persuaso che il vecchio atteggiamento elitario, inaccessibile e astruso dell’arte contemporanea sarebbe presto caduto sotto i colpi della rivoluzione digitale. Per me e per gli artisti con i quali collaboravo la semplicità e la comprensibilità erano valori che la pittura doveva combinare con un intenso, gioioso, sfrontato e qualche volta drammatico vitalismo. 

Silvia Argiolas, La rossa, 2021, tecnica mista su tela, 80×60 cm

Nella formazione della mia sensibilità critica era anche l’unico modo per combinare il pessimismo di Bauman con la filosofia espansiva e appunto vitalistica di un nietzschiano eretico come Franco Bolelli, alla cui lettura ero stato introdotto da Paolo De Biasi, artista che ha avuto un ruolo importante nell’elaborazione teorica di Italian Newbrow. 

La necessità di dare un nome a questa nuova attitudine pittorica si scontrava, però, con la mia ritrosia a etichettare quella che ritenevo essere più una sensibilità che un linguaggio coerente e a presentarmi come guida teorica di un gruppo di artisti stilisticamente troppo variegato. D’altra parte, pur convinto che il tempo dei gruppi e dei manifesti fosse finito da un pezzo, prendevo atto del fatto che le novità più interessanti in pittura provenivano proprio da quegli artisti americani e giapponesi che erano stati capaci di “fare squadra”, proponendosi come un fronte compatto, tenuto insieme da una comune volontà nell’affrontare i problemi della rappresentazione pittorica nella società liquido-moderna.

Furono le pressioni di alcuni artisti e una circostanza fortuita a obbligarmi a decidere. L’occasione si presentò quando Giancarlo Politi visitò la mia mostra milanese Beautiful Dreamers[1], una collettiva che includeva una serie di opere di surrealisti pop americani, artisti giapponesi superflat e pittori neopop italiani. Fu allora, infatti, che il direttore e fondatore di «Flash Art» mi invitò – per la verità un po’ titubante – a curare una parte della sezione italiana della IV Biennale di Praga nel 2009, dandomi così modo di presentare le ricerche di alcuni degli artisti con cui lavoravo da tempo. 

Il nome Italian Newbrow saltò fuori, nella fretta di dover decidere un titolo per la mostra di Praga, durante una discussione con Giuseppe Veneziano e Vanni Cuoghi nello studio di quest’ultimo in via Rucellai. Mi sembrò adatto soprattutto perché univa il background italiano neofigurativo con l’eccitazione generata dal fermento Lowbrow americano. Conteneva un richiamo a quell’esperienza della West Coast americana e, allo stesso tempo, rivendicava anche il genoma fondamentalmente italiano del gruppo

Oltre alla Nuova Figurazione italiana, al Pop Surrealismo californiano e al Superflat giapponese, altri stimoli e sollecitazioni plasmarono la variegata identità artistica di Italian Newbrow: il cosiddetto New Folk newyorkese e la pittura della Nuova Scuola di Lipsia, che declinavano l’immediatezza e la forza comunicativa del Post-Pop in forme e direzioni meno convenzionali.

Laurina Paperina, Atomic Bomb, acrilico su tela, cm 120×170

Nel 2006 ricordo di aver letto un interessante articolo di Luca Vona[2] che raccontava l’emergere a New York – dopo lo shock dell’undici settembre -, di un’arte che tornava alla dimensione lirica del quotidiano, ad atmosfere più quiete e feriali ispirate all’arte folk, ai pittori autodidatti, agli artisti della domenica. Artisti come Marcel Dzama, Amy Cutler, Jules De Balincourt, Jockum Nordström, tutti di stanza a New York, dipingevano, infatti, con un linguaggio fiabesco vicino alle illustrazioni dei libri per bambini scene apparentemente rassicuranti che adombravano contenuti perturbanti. 

Questo nuovo Folk rappresentava la dimensione umbratile, lirica, intimistica, ma anche più drammatica, del Pop. Pop e Folk coglievano due aspetti dell’arte popolare, la matrice urbana e quella pastorale, quella mediatica e quella ancestrale, quella estroversa e quella intimista. Il New Folk era, insomma, la versione timida, diaristica, sognante, ma anche destabilizzante, del Pop e, perciò, all’indomani della nascita del progetto Italian Newbrow, mi era sembrato necessario aprire le fila del gruppo ad artisti come Silvia Argiolas, Elena Rapa, Marco Demis, Alice Colombo, Cristina Pancini, Diego Cinquegrana, Daniele Giunta e Mirka Pretelli che ampliavano notevolmente quella iniziale indicazione di semplicità e immediatezza della pittura dell’era liquido-moderna. 

La conoscenza diretta dell’arte folk fu un’esperienza collettiva e rivelatoria che si consumò negli anni tra il 2009 e il 2011 durante le nostre annuali visite all’Armory Show di New York. La scoperta dell’American Folk Art Museum, che allora si trovava proprio accanto al MoMA, ci rivelò le fonti d’ispirazione di quella nuova sensibilità artistica promossa, appena l’anno prima del nostro arrivo nella Grande Mela, dalla mostra Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger[3]

Henry Darger era una figura di artista outsider nato a Chicago nel 1892, che era stato l’autore di un voluminoso manoscritto di oltre quindicimila pagine e trecento illustrazioni intitolato The Realms of Unreal, scoperto solo dopo la sua morte avvenuta nel 1973. The Realms of Unreal è una storia folle che racconta le avventure delle figlie di Robert Vivian, sette sorelle principesse della nazione cristiana di Abbiennia, che partecipano a una eroica ribellione contro un regime di sfruttamento schiavistico dei bambini imposto dai generali “Glandeliniani”, una versione fascista dei soldati Confederati della Guerra Civile Americana. L’ immaginario di Darger, fiabesco e insieme disturbante, ha affascinato non solo artisti, ma anche scrittori, poeti e registi contemporanei. 

Nel 2006, due anni prima di imbattermi nella figura di Henry Darger, avevo curato una mostra intitolata Back to Folk[4], in cui erano esposte opere di Marcel Dzama, Raymond Pettibon, Vanni Cuoghi, Enrico Vezzi e Matteo Fato, che, pur con le dovute differenze, mi sembravano condividere una comune temperatura emotiva, una specie di fondo oscuro e passionale che trapelava, attraverso una delicata trama disegnativa, in immagini ambigue o sconcertanti. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, cm. 100×70

L’ultimo tassello di questa genealogia culturale di Italian Newbrow è, come ho accennato, costituito dalla curiosità verso le espressioni pittoriche provenienti dall’est Europa, o meglio, dall’area della ex DDR, cioè quella che era, prima della caduta del muro di Berlino, la Repubblica Democratico Tedesca. La cosiddetta Neue Leipziger Schule, che comprendeva una pletora di artisti che avevano studiato nell’Accademia di Belle Arti della città sassone e che emersero, come gruppo, attraverso una serie di mostre in Europa e negli Stati Uniti nei primi anni Duemila. Pittori come Neo Rauch, Matthias Weischer, Tim Eitel, David Schnell, Tilo Baumgartel e Christoph Ruckhäberle ci avevano stregato per quella combinazione di abilità tecniche e figurazione fantastica in cui sopravvivenze dell’arte del Novecento, tra Realismo Magico, Metafisica e Nuova Oggettività, si fondevano con una nuova sensibilità figurativa, capace di condensare la narrazione in una rappresentazione simultanea e sintetica di episodi visivi, spesso straniante e destabilizzante. Ad eccezione di Paolo De Biasi, il più continentale e mitteleuropeo, dunque più sensibile e attento alle evoluzioni della pittura d’oltralpe, per gli artisti Newbrow la Scuola di Lipsia fu una passione intellettuale, un esempio di come un gruppo compatto, appoggiato dai media e da una rete di gallerie, musei e istituzioni, potesse affermarsi sulla scena internazionale dell’arte. Ancora adesso, la nostra ammirazione per i colleghi tedeschi è incondizionata, ma la verità è che lo specifico genoma italiano del Newbrow ha sempre avuto la meglio sulle nostre passioni e curiosità. Nonostante le evidenti aperture globaliste, Italian Newbrow è stata un’esperienza maturata sul suolo italico, nel contesto di una cultura che guardava fuori dai propri confini geografici per ridefinire le proprie fondamenta in un complesso, spesso difficile, rapporto tra attualità e tradizione, tra identità ed extraterritorialità, tra retrospezione e visionarietà. 

L’arte di Italian Newbrow è infestata dagli spettri del passato, dai fantasmi della tradizione, ma è anche percorsa da una vena di traiettorie iperstizionali, di futuribili precognizioni[5] e di immersioni nella realtà ambigua e inafferrabile del presente. L’elemento citazionistico nei lavori di Giuseppe Veneziano, Paolo De Biasi, Vanni Cuoghi e Giuliano Sale, non assume mai il carattere sfacciato di un anacronismo necrofilo e mortuario che è, sorprendentemente, quello che un pubblico pigro e indolente, sovente straniero, associa alla nostra tradizione artistica. I riferimenti, le allusioni, i rifacimenti alla storia aurea della pittura italiana o europea sono sempre filtrati dall’ironia, alterati da una memoria labile, scomposti tra le pieghe di un linguaggio mutante, ibrido, in costante oscillazione non solo tra passato e presente, ma anche tra realtà e fiction. 

Le polarità espressive all’interno del gruppo sono, inoltre, esasperate dalla coesistenza di linguaggi chiari, intellegibili, narrativi, come quelli di Laurina Paperina, Fulvia Mendini, Vanni Cuoghi e Giuseppe Veneziano, e di grammatiche più ambigue ed elusive, come quelle di Giuliano Sale, Silvia Argiolas e Paolo De Biasi, che resistono a ogni fascinazione mediatica e sostituiscono la linearità del racconto con libere associazioni di tropi e figure. E tuttavia i confini tra i vari stilemi all’interno della compagine non sono mai definitivi. Non esiste nell’Italian Newbrow qualcosa di simile all’ala destrae all’ala sinistra della Neue Schlichkeit. Ci sono influssi pop e impulsi folk, tentazioni metafisiche e umori espressionistici, richiami alla cronaca ed evasioni fantastiche, allusioni alla musica rock e alla mass culture e richiami all’arte, alla poesia o al cinema d’autore. Per questo risulta impossibile “compartimentare” ogni singola tendenza. Se al criterio di intellegibilità pop sostituiamo, per esempio, il gradiente d’intensità espressiva gli schieramenti cambiano. Una ipotetica linea freddapotrebbe comprendere i lavori di Mendini e Veneziano, ironici, ma privi di gestualità e grumi emotivi, mentre una linea calda includerebbe le opere pur diversissime tra loro di Argiolas, Sale e Laurina Paperina, in cui l’elemento ironico s’innesta su una matrice più gestuale, magmatica, libera. Tra queste due linee, a giudicare dai recenti esiti delle loro ricerche, dovrebbe frapporsi una linea mediana, in cui rientrerebbero le sospensioni metafisiche di Cuoghi e De Biasi dai modi espressivi più temperati. Insomma, nel tentativo di definire i diversi orientamenti all’interno di Italian Newbrow, ci si trova costretti ad ammettere che è sufficiente variare il criterio per ottenere linee e tendenze ogni volta diverse. Questa varietà formale, di per sé in continuo mutamento, si è accentuata nel corso del tempo. Come è ovvio che sia, ciascun artista ha proseguito la propria ricerca, talvolta ampliando il proprio campo d’azione dalla pittura alla scultura fino all’installazione, talaltra maturando, anche in modo radicale, il proprio linguaggio visivo. Italian Newbrow non è mai stata un’entità stabile, né nella componente puramente numerica dei suoi membri, né, appunto, nelle grammatiche espressive. D’altra parte, è un’entità figlia della società preconizzata da Bauman. Come scrivevo nel 2012, Italian Newbrow “è uno scenario artistico in continua evoluzione, che incarna il mutato clima della società liquido-moderna e, allo stesso tempo, sanziona la nascita di una nuova attitudine, […] una condizione mentale, un mood emotivo e spirituale, generato dai recenti mutamenti tecnologici e culturali”[6].

A distanza di dodici anni dalla nascita del progetto, si può dire che le cose stiano ancora così, sebbene l’accelerazione dei mutamenti tecnologici sia stata più rapida del previsto. Spero che gli artisti Newbrow continuino a evolversi per comprendere il senso di questa condizione di perpetua transizione. Una condizione che, dopotutto, appartiene alla dimensione biologica della vita stessa, con le sue costanti mutazioni e trasformazioni.


NOTE

[1] Ivan Quaroni (a cura di), Beautiful Dreamers, 1° dicembre 2008 – 13 febbraio 2009, Angel Art Gallery, Milano. 

[2] “Fortemente radicato nella cultura popolare, a tal punto da evocare gli stilemi dei “pittori della domenica”, è il New Folk, tendenza di punta della nuova figurazione americana. Mescolando sapientemente cultura “alta” con elementi vicini alla sensibilità popolare, il New Folk riesce a parlare a tutti in un linguaggio di facile comprensione. Differentemente dalla Pop Art, vengono richiamate non tanto le icone della cultura di massa, quanto piuttosto la sua stessa capacità di esprimersi attraverso codici semplici, a volte banali, e di rappresentare un mondo altrettanto semplice e -apparentemente- “banale”: quello delle persone a cui si rivolge. La naiveté dei dipinti folk è un mezzo per veicolare contenuti morali (non più solo di critica verso la società dei consumi, come accadeva nella Pop Art) che celebrano l’eroismo e la bellezza della dimensione feriale dell’esistenza, delle piccole azioni di ogni giorno, contrariamente a quell’estetica dello shock che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’arte e non solo”. Luca Vona, New York, New Folk, «Exibart», 19 settembre 2006.

[3] Brook Davis Anderson (a cura di), Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger, 15 aprile – 21 settembre 2008, American Folk Art Museum, New York. 

[4] Ivan Quaroni (a cura di), Back to Folk, 1° dicembre 2006 – 3 marzo 2007, Daniele Ugolini Contemporary, Firenze.

[5] Si vedano, ad esempio, le creature post-organiche fabbricate da Diego Dutto pubblicate in: Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow. Cattive compagnie, 8 agosto – 2 settembre 2012, Fortino, Forte dei Marmi (MC).

[6] Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow, 11 febbraio – 25 marzo 2012, Pinacoteca civica Palazzo Volpi, Como.


INFO:

Italian Newbrow

a cura di Valerio Dehò e Ivan Quaroni

Sabato 19 giugno 2021

Ex Chiesa e Chiostri di Sant’Agostino, Pietrasanta (LU)

Italian Newbrow. Apocalittica

5 Set

Di Ivan Quaroni

Se potessi esprimerlo con le parole non ci sarebbe bisogno di dipingerlo.”
(Edward Hopper)

Non lasciatevi ingannare dal titolo, questa mostra non è sull’iconografia dell’apocalisse. Non ci saranno piaghe, pestilenze e catastrofi che annunciano l’imminente fine dei tempi e nemmeno dotte allusioni alla celeberrima raccolta di xilografie di Albrecht Dürer (Apocalisse, 1498). Molte sono, invece, le immagini critiche e problematiche che, da un lato, registrano lo stato di crisi della società odierna, dall’altro, attestano la ricostruzione di un linguaggio narrativo adeguato alla frammentata, e quanto mai distratta, sensibilità contemporanea.

Nell’attuale regime di sovrabbondanza iconica, di ridondanza e perfino d’invadenza delle immagini cui siamo quotidianamente sottoposti, potremmo legittimamente domandarci quale sia la funzione della pittura oggi e in che cosa le sue figure e i suoi tropi divergano dalle immagini massivamente prodotte dell’industria dell’intrattenimento, dell’editoria, della pubblicità. In poche parole, a cosa serve oggi la pittura figurativa?

Bob Nickas, uno dei critici più attenti all’analisi delle nuove forme d’ibridazione della pittura – afferma in un’intervista che “la pittura è lenta”, mentre “la vita moderna è velocissima ed è forse l’aspetto […] più radicale, quello di introdurre un rallentamento, non solo nel momento creativo, ma anche nella visione dell’arte”.[1] Sulla lentezza della pittura avevano ampiamente riflettuto gli artisti analitici degli anni Settanta, i cosiddetti “pittori pittori”, che, però, operavano nell’ambito dell’astrazione, una forma d’arte relativamente giovane, che vanta appena un secolo di vita. Il problema è più complesso nel caso della pittura figurativa e delle sue attuali varianti ibride o ambigue. Secondo Nickas, “in tutti i dipinti figurativi c’è un elemento di citazione che si riferisce proprio alla mancanza di limiti e confini[2], cioè al fatto che un artista possa guardare al passato o, viceversa, avventurarsi nel futuro per sperimentare nuove forme di rappresentazione.

Ora, la vastità di campo in cui opera il pittore figurativo è tale da rendere la pittura una pratica ancora necessaria. I modi della rappresentazione in pittura mutano, infatti, col volgere delle stagioni, traducendo, in termini visivi, la percezione che l’artista ha del proprio tempo. Un altro critico contemporaneo, Tony Godfrey, ha scritto che “la pittura non è solo un modo di vedere, ma anche di costruire il proprio universo, come per i bambini plasmare oggetti e disegnare sono strumenti per comprendere il mondo”.[3]

Per quanto parziale e personale, ogni dipinto è un tentativo di costruzione di senso e, allo stesso tempo, una forma molto lenta di trasmissione delle informazioni. La presunta obsolescenza della pittura (soprattutto figurativa), rispetto ad altre forme d’arte orientate all’oggetto, costituisce forse l’aspetto più radicale di questa pratica millenaria. La lentezza della pittura e la sua fondamentale “portabilità”, cioè il fatto che possa essere spostata con estrema facilità, quasi fosse una valuta o uno strumento finanziario, ne hanno garantito la sopravvivenza.

Il termine “Apocalisse” deriva dal greco apokalipsis, che letteralmente significa “scoperta” o “disvelamento”. La pittura figurativa è etimologicamente “apocalittica”, perché la sua funzione è di svelare le informazioni, rendendole disponibili a un tipo di fruizione antitetico a quella delle nuove tecnologie. Inoltre, le immagini sono simili a codici criptati che contengono significati multipli. Una natura morta di Morandi può essere considerata solo una sequenza di bottiglie allineate? Un dipinto di Cézanne con il Mont Sainte Victoire sullo sfondo non è forse qualcosa di più di un semplice paesaggio provenzale? Se così non fosse, le arti figurative non sarebbero sopravvissute all’usura del tempo. Se si fossero limitate a ricalcare la realtà, sarebbero state niente più che una forma di documentazione. D’altronde, come polemicamente affermava James Whistler, “dire al pittore che la natura deve esser presa com’è, è come dire al pianista di sedersi sul pianoforte”.[4] Invece, le immagini dipinte, sfuggenti ed elusive per costituzione, sovente costruiscono racconti ambigui e inafferrabili che, proprio come i simboli, si aprono a una pletora d’interpretazioni differenti.

Con le loro opere, gli artisti che di volta in volta hanno preso parte alla variata compagine di Italian Newbrow, non si sono sottratti al compito di ridare alla pittura una funzione narrativa, per quanto elusiva e ambigua essa sia. In un’epoca, come abbiamo detto, di comunicazioni rapide, quasi istantanee, essi si sono fatti carico di ricostruire una struttura narrativa, ipertestuale, che contrasta con la teoria secondo cui l’arte non parlerebbe d’altro che di se stessa. La persistenza di allusioni e citazioni, spesso iconoclaste e pretestuose, all’arte del passato, è la misura di quanto il campo della pittura sia un dominio operativo complesso e denso di stratificazioni. Rinunciare a confrontarsi con tale complessità, come fanno, ad esempio, i campioni della cosiddetta Provisional Painting, ossia di quel genere di pittura che si accontenta di ridurre il campo a una congerie di segni fragili e provvisori, d’interventi casuali e fortuiti, significa abdicare al ruolo eroico della pittura, in nome di una pretesa bellezza delle cose umili e spesso prive di significato. A tal riguardo, il critico Raphael Rubinstein, argomenta che il lavoro dei provisional painter sarebbe, almeno in parte, “il risultato di una lotta con un medium che può apparire sovraccarico di attese riguardo a durata nel tempo, virtuosismo, composizione, stratificazione di significati, autorità artistica ed energia creativa – tutte qualità che rendono le arti appunto delle belle arti”.[5] Ma proprio qui sta il punto: per poter sopravvivere, la pittura figurativa deve ritrovare la dimensione eroica e ambiziosa del racconto, accettare la sfida della creazione di valori durevoli, che sappiano raccordare la spinta creativa dell’individuo con gli stimoli che provengono dal mondo esterno, dalla dimensione sociale e culturale della società cui gli artisti appartengono.

Nei dipinti di Silvia Argiolas, ad esempio, la descrizione di un’umanità marginale, posta alla periferia fisica e morale della società, si salda alle distorsioni di un inconscio ipertrofico, che trova fuori da sé la conferma di dubbi ossessivi e febbrili inquietudini. I suoi personaggi borderline – prostitute, emarginati e derelitti – abitano una dimensione di decentramento sociale ed etico che li pone fuori dai confini morali della società. Una dimensione psicologica ed esistenziale che la geografia, con i suoi parchi suburbani innestati nel tessuto sconnesso delle periferie, sembra validare anche da un punto di vista morfologico. Quello che si svolge nell’immaginario pittorico di Silvia Argiolas è il racconto di una condizione di minorità sociale ed estraneità ai valori dominanti e, al tempo stesso, la disamina di un vissuto che, contro la falsità e virtualità del mondo digitale, elegge finalmente, a salvaguardia dell’individuo, la verità del corpo e della psiche, con le sue sofferenze e i suoi appetiti primordiali.

I lavori di Vanni Cuoghi, in special modo quelli della serie Monolocali, si configurano come perfette scatole narrative, contenitori di storie che l’artista ambienta liberamente nel passato o nel presente, entro una cornice spaziale rigidamente codificata, che somiglia al palcoscenico di un teatro miniaturizzato, luogo proiettivo per eccellenza. In questa pittura che si fa oggetto, box tridimensionale costruito con carta intagliata e acquarelli, disseminato di dettagli descrittivi, l’artista cristallizza gli episodi apicali di una narrazione aperta e, dunque, suscettibile a molteplici interpretazioni. Lo stesso si può dire dei dipinti in cui Cuoghi adotta una scala monumentale, come la grande tela intitolata Le due verità (2017), dove sono le figure stesse a diventare scatole narrative, accogliendo al loro interno, nelle trame tessili dei loro abiti ipertrofici, l’inserzione di storie che rimandano ai modi rappresentativi dei bassorilievi tardo-antichi e dei codici miniati medievali.

Gli interni neo-metafisici di Paolo De Biasi sono organizzati come dei set di posa che rivelano immediatamente il carattere fittizio della pittura. Sono luoghi mentali, in cui l’artista dispone oggetti e figure dalla forte carica evocativa. Teste, busti, statue acefale, oggetti comuni, ritagli fotografici, solidi geometrici, piante e drappi di tessuto sono collocati su palchi, pedane o scaffali, quasi fossero i prodotti di un campionario iconografico, che serve all’artista per indagare la relazione tra i meccanismi di percezione e di cognizione dell’immagine. Proprio nello iato che separa il pensiero dalla visione, s’incunea la ricerca di De Biasi. La sua è, infatti, una pittura ipertestuale, più che narrativa. Nel senso che le sue figure si sottraggono alla logica del racconto, pur essendo strenuamente correlate a una cornice spaziale, a un’ambientazione che ne attesta il valore puramente semantico e lessicale, peraltro amplificato dall’uso di locuzioni avverbiali per i titoli delle opere.

È una pittura iconoclasta e irreverente quella di Giuliano Sale, in cui l’uso pretestuoso e intercambiabile d’immagini sacre e profane, talvolta perfino pornografiche, è posto al servizio di una grammatica schizofrenica, che nella somma di apporti grafici e gestuali e nella fluida commistione di asserzioni e ripensamenti, costruisce un linguaggio crudamente destrutturato. Nei ritratti come nelle scene corali (si veda ad esempio Wrong Deposition) si avverte come l’artista si sottragga all’idea della pittura intesa come iter programmatico, razionalmente proteso alla generazione d’immagini predefinite. Nei suoi lavori prevale, piuttosto, una logica di affastellamento che si declina, momento per momento, per accumulazione d’intuizioni successive. La natura fondamentalmente abduttiva del suo modo di procedere è quella di chi costruisce una verità che ancor non conosce. Una formulazione visiva che può prodursi solo come conseguenza di un’esperienza, di un processo non interamente replicabile, proprio perché fondato sulla vigile attenzione a cogliere dentro e fuori di sé i segnali di una realtà profondamente frantumata.

Nei dipinti, nei disegni e nelle video-animazioni di Laurina Paperina, assistiamo all’adattamento di tutto l’armamentario dell’iconografia pop a uno stile lineare e sintetico, che permette all’artista di trattare i temi più cruenti con un atteggiamento di cinico candore. Il tratto volutamente infantile, quasi indolente, la cultura da geek che cinema, televisione e fumetto, e un sarcasmo feroce sono gli ingredienti basilari del suo linguaggio, sempre in bilico tra visioni scatologiche ed escatologiche. Se le carte di piccolo formato, si leggono come una carrellata di fulminei episodi splatter, dove gli eroi dell’immaginario massmediatico sono sottoposti alle più cruente leggi del contrappasso, le grandi tele assumono le proporzioni di affollatissimi scenari apocalittici, di rutilanti carneficine da b-movie. Skull Valley (2017) è il tipico esempio di ecatombe iconografica concepita dalla mente di un nerd, un paesaggio catastrofico popolato dai peggiori incubi della cattiva coscienza collettiva, dove le infernali visioni di Hieronymus Bosch s’innestano sulla feroce satira sociale di South Park.

All’incrocio tra realtà e finzione, mito e storia, fantasia e cronaca, la pittura di Giuseppe Veneziano è segnata da uno stile sintetico e da una palette cromatica virata su tonalità zuccherine e caramellose. L’artista adotta la tecnica del mesh-up, la stessa usata da molti dee-jay, per miscelare elementi contrastanti e antitetici, come quando mette in relazione personaggi reali e fantastici per creare sorprendenti cortocircuiti narrativi che ci inducono a riconsiderare il labile confine tra il vero e il verosimile. O come quando recupera un’iconografia artistica del passato, trasformandola in un commentario sui vizi e le virtù del mondo contemporaneo. Le opere dedicate a Salvador Dalì, da Jesus Christ Superstar (2017) a Petrifying Glance (2017), fino al Principe pittore (2017), sono esempi di come certe icone iconografie artistiche continuino a esercitare un influsso sull’immaginario collettivo, prestandosi, con opportuni adattamenti, alla trasmissione di nuovi contenuti. In particolare, Jesus Christ Superstar (2017), una sorta di crasi tra il Cristo di san Giovanni della croce di Dalì e il manifesto del film Blow Up di Michelangelo Antonioni, può essere interpretata come un semplice gioco combinatorio, oppure come una riflessione critica sugli eccessi della sovraesposizione mediatica nella società odierna.


Note

[1] Mario Diacono e Bob Nickas, Pittura radicale, in “Flash Art” n. 308, febbraio 2013, Politi Editore, Milano.
[2] Ivi.
[3] Tony Godfrey, Painting Today 2010, Phaidon Press, Londra.
[4] James McNeill Whistler, The Gentle Art of Making Enemies, 1968, Dover Pubsn, Londra.
[5] Raphael Rubinstein, Pittura provvisoria. Il fascino discreto del non finito, in “Flash Art” n. 291, marzo 2011, Politi Editore, Milano.


INFO

SCHEDA TECNICA
Italian Newbrow. Apocalittica
A cura di Ivan Quaroni
LABS Gallery
Via Santo Stefano 38, 42125 Bologna
30 settembre – 11 novembre 2017
Inaugurazione: sabato 30 settembre, ore 18.00
Orari: da martedì a sabato ore 16.00-20.00, oppure su appuntamento
Catalogo disponibile in sede con testi di Ivan Quaroni
Ingresso libero

PER INFORMAZIONI
LABS Gallery
Via Santo Stefano 38, 40121 Bologna
+39 348 9325473
info@labsgallery.it
www.labsgallery.it

UFFICIO STAMPA
CSArt – Comunicazione per l’Arte
Via Emilia Santo Stefano 54, 42121 Reggio Emilia
+39 0522 1715142
info@csart.it
www.csart.it

Vanni Cuoghi. Storie del ghetto, tra la terra e il cielo

8 Nov

di Ivan Quaroni

Il ghetto nasce esattamente cinque secoli fa nel sestiere di Cannaregio a Venezia, dove, fino ai primi del ‘400 erano attivi i cosiddetti “geti”, ossia le fonderie pubbliche impegnate nella fabbricazione di bombarde. La decisione era maturata in seguito agli sconvolgimenti causati dalla guerra della Lega di Cambrai che aveva spinto molti ebrei dalla terraferma verso Venezia, destando la preoccupazione dei cittadini cristiani. Col decreto del 29 marzo 1516, infatti, il senato della Serenissima si propose di “regolare” la presenza ebraica nel territorio lagunare, espellendola dal corpo della città e confinandola nell’area del Ghetto nuovo.

Fin dall’antichità, i quartieri ebraici – le giudecche – si erano formati spontaneamente. Il Ghetto di Venezia, invece, nasceva forzatamente, per effetto di una decisione politica che vietava agli ebrei di risiedere in altri quartieri della città e che imponeva loro un domicilio coatto, oltre a una serie di pesanti restrizioni, come la chiusura del quartiere dal tramonto all’alba, l’impossibilità di acquistare beni immobili (abitazioni, negozi, magazzini) e l’obbligo di portare un segno di riconoscimento.

La risoluzione presa dalla Repubblica veneziana anticipò, di fatto, le politiche di segregazione adottate da numerose città italiane tra il XVI e il XIX secolo e peraltro ulteriormente stimolate dalla bolla Cum nimis absurdum (1555) di Papa Paolo IV, che obbligava gli ebrei a risiedere in un’area specifica della città, e dalla bolla Hebraeorum Gens (1569) di Papa Pio V, che espelleva dallo Stato Pontificio tutti gli ebrei che non accettassero di trasferirsi nei ghetti di Roma, Ancona e Avignone.

A Venezia, Roma, Bologna, Mantova Padova e altre città italiane, le aree scelte per la segregazione, seppure centrali, come scrive Vincenza Maugeri, direttrice del Museo Ebraico di Bologna, erano “sottraibili alla città, in quanto prive di edifici importanti e di luoghi nevralgici per lo svolgimento della vita e delle attività”.[1] Al loro interno, tuttavia, si trovava tutto quanto era necessario alla vita quotidiana e a quella religiosa e culturale della comunità, dai forni per le azzime alle macellerie kosher, dalle sinagoghe alle scuole talmudiche, dai laboratori artigiani alle accademie rabbiniche. In pratica, l’universo del ghetto, come quello precedente della giudecca, era un microcosmo identitario, confinato, però, entro un perimetro preciso. Cosa che nel tempo aveva comportato problemi di sovraffollamento, con conseguenti restringimenti delle unità abitative e inevitabili innalzamenti degli edifici. Effetti visibili soprattutto nel ghetto di Venezia, dove le case raggiungono fino agli otto piani di altezza, superando l’elevazione media dello skyline lagunare.

Ad ogni modo, quello “spazio d’identità”, come lo chiama Vincenza Maugeri, rende il ghetto un formidabile crogiuolo di storie, una summa senza eguali di avvenimenti, fatti, cronache e racconti. Ed è proprio questa qualità ad aver attirato l’interesse di Vanni Cuoghi per il mondo dei ghetti ebraici italiani. Il fatto, cioè, che per un artista come lui, creatore di teatri miniaturizzati e di diorami fantastici, pazientemente intagliati nella carta e diligentemente dipinti, il ghetto rappresenta non solo un ricco serbatoio d’immagini e suggestioni, ma anche la più seducente delle scatole narrative. La scatola è anche la forma prediletta di gran parte della recente produzione dell’artista, che, infatti, chiama i suoi teatrini “monolocali”, perché appresentano l’unità minima abitativa, quella che, col suo spazio concentrato, più somiglia a un palcoscenico o a un teatro di posa.

Costruiti mescolando la tecnica psaligrafica con i fondamenti della scenografia e con il gusto pittorico per il racconto, i monolocali realizzati da Vanni Cuoghi da oltre un anno a questa parte, sono tutti ambientati nel microcosmo del ghetto. In particolare, i primi, già esposti nel dicembre 2015 nella mostra “Vanni Cuoghi: Da Terra a Cielo”, alla galleria Giuseppe Pero di Milano, traggono ispirazione dal più antico, quello veneziano, che tra il XVI e il XVII secolo si allarga dall’isola del ghetto nuovo (1516) agli adiacenti ghetto vecchio (1541) e ghetto nuovissimo (1633), circoscrivendo in uno spazio ridotto una congerie di lingue, usanze e tradizioni ed esperienze variegate.

Del ghetto Cuoghi coglie soprattutto l’atmosfera, insieme magica e claustrofobica, mescolando scorci quotidiani e schegge del passato, ma anche miti e leggende, in un intricato, e quasi surreale, intreccio di rimandi che spaziano dalla cronaca storica (la peste veneziana del 1630 di Monolocale 22, dove i medici vestono la tipica maschera col becco adunco) ai fumetti di Hugo Pratt (il Corto Maltese di Monolocale 30); dalla scena nuziale ambientata nell’antica Scola Canton (Monolocale 26) ai prosaici spaccati di vita delle cenciaiole, dove aleggia con evidenza il ricordo della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto.

Medici, prestatori e straccivendoli – che poi erano le sole professioni consentite agli ebrei dalla Serenissima – popolano gli angusti teatrini di Cuoghi, insieme alle figure di rabbini e alchimisti, come il leggendario Leone da Modena, uno dei maggiori intermediari tra la cultura ebraica e quella cristiana e umanistica, che potrebbe essere il protagonista di Monolocale 20, episodio ambientato in uno studiolo modellato su quello de La visione di Sant’Agostino di Vittore Carpaccio, e con lo squisito dettaglio dell’altare da cui spuntano due piedi umani, rubato di sana pianta dalla Presentazione al Tempio di Lorenzo Lotto, ultimo lavoro autografo del maestro veneziano.

Ma il ghetto liberamente interpretato dall’artista genovese non è solo quello del sestriere di Cannaregio. Parte da quelle calli, ma si propaga, come effettivamente successe nel corso dei secoli in altre città come Roma, Bologna, Ancona, Ferrara e perfino la lontana Praga. Questo perché, nella narrazione episodica e frammentata di Cuoghi la geografia si trasforma in uno stato d’animo, sempre in bilico tra il dramma e lo stupore, in una condizione dello spirito che oscilla tra l’umana afflizione e la tensione verso la libertà e l’emancipazione. La storia dei ghetti è, infatti, la storia di uno stato di segregazione che non solo relega le comunità che lo abitano in uno stato di minorità giuridica, ma che le condanna a una libertà vigilata o meglio a una carcerazione parziale, che non può che dirsi drammatica. Eppure, tra le molte vicende tragiche narrate, siano esse documentate o solo immaginate, l’artista introduce sovente episodi di sospensione, brevi scene che concedono un attimo di respiro allo spettatore e un motivo di riflessione.

Tra le immagini più dolorose e, allo stesso tempo più poetiche, c’è quella di Monolocale 28 che illustra l’incursione di un commando nazista in un appartamento abitato da una famiglia di ebrei. La sequenza, quasi cinematografica, mostra a destra l’irruzione degli ufficiali tedeschi, rappresentati come ombre minacciose, e a sinistra la famiglia intenta a varcare la soglia di un armadio, una specie di soglia dimensionale, simile a quella che nei romanzi di C.S. Lewis permette di entrare nel fantastico regno di Narnia. L’immagine è, però, ambigua. Non sappiamo, infatti, se il trucco dell’armadio sia un espediente per mitigare la tragica realtà dei fatti. Cioè che in circostanze simili, la fuga e la salvezza appaiono più che mai come eventi eccezionali, quasi miracolistici.

Cuoghi introduce la magia come elemento salvifico, assegnandole un colore preciso, un profondissimo blu oltremare, che compare ogni volta come annuncio della dimensione celeste o come preavviso di una tensione spirituale al superamento delle vicissitudini terrene. Quello del cielo stellato nell’armadio – ma anche delle notturne volte di Solstizio d’estate (via Borgolocchi) e Solstizio d’inverno – è lo stesso colore che accompagna la sorprendente apparizione di Melchisedec a Corto Maltese nella veneziana Scola Canton (Monolocale 30). Un colore che simboleggia non tanto la speranza, ma la promessa di un riscatto o di una definitiva risoluzione.

Altrove, invece, il blu oltremare diventa segno distintivo del sacro e contrassegno di “parole celesti”. Come quelle, ad esempio, che corrono in caratteri ebraici sulla facciata di Palazzo Bocchi, edificio bolognese progettato dagli architetti Vignola e Serlio (Monolocale 54), o quelle stampate sui fogli appesi ad asciugare nella stamperia dei Soncino, celebre famiglia di tipografi ed editori ebrei ashkenaziti, che operò in Italia e poi in Grecia e Turchia tra il XV e XVI secolo.

Le folgoranti storie di Vanni Cuoghi, disseminate di particolari veridici come luoghi, edifici e oggetti storicamente documentati, spesso contengono un elemento distonico, un dettaglio che spezza la continuità logica della narrazione. Il blu oltremare è uno di questi elementi, che ritroviamo anche nelle sagome di alcuni colombi in volo davanti alla casa israelitica di riposo del Monolocale 32. Un altro è il personaggio inventato da Hugo Pratt, che certo, almeno in un paio di storie (Le Elvetiche e La favola di Venezia), incrocia personaggi e luoghi cari alla cultura ebraica, ma che in sostanza ha poco a che fare con le vicende del ghetto. Corto Maltese è piuttosto un testimone silente, peraltro non del tutto disinteressato. Stando, infatti, alla sua immaginifica biografia, pare che abbia studiato a La Valletta presso la scuola ebraica del rabbino Ezra Toledano, che lo avrebbe iniziato ai misteri della Cabbala e dello Zohar.

L’avventuriero, figlio di un marinaio inglese e di una gitana di Siviglia, non è il solo personaggio straordinario dei racconti di Vanni Cuoghi. L’altro è il Golem che, secondo una delle leggende, fu creato a Praga dal rabbino Jehuda Löw ai tempi dell’Imperatore Rodolfo II, col proposito di servire e proteggere il popolo ebraico dai suoi persecutori. Il mitico gigante di argilla che ha ispirato poeti e scrittori come Gustav Meyrink e Jorge Luis Borges, Isac Singer e Primo Levi, è protagonista dei Monolocali 31 e 55. In entrambi i casi, è rappresentato, come vuole la tradizione, con la parola “verità” (in ebraico אמת, Emet) scritta sulla fronte, ed è conservato in un luogo segreto e nascosto, come la Genizah della sinagoga Staronova di Praga. Le Genizoth delle sinagoghe sono i luoghi deputati alla conservazione delle opere religiose inutilizzabili, ma anche di vecchie lettere e contratti legali e di tutti quei documenti in cui compare uno dei sette nomi sacri di Dio e che, quindi, non possono essere gettati. Una di esse è lo sfondo di Monolocale 55, che l’artista immagina come un buio e polveroso deposito infestato di topi; l’altra ha, invece, l’aspetto di uno studiolo rinascimentale, con tanto di pavone e coturnice ripresi da un celebre dipinto di Antonello da Messina conservato alla National Gallery di Londra (San Girolamo nello studio, 1474-75).

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Il caso Mortara, 2016, chine e collage su carta, 118×42 cm

Una delle caratteristiche principali della ricerca pittorica di Vanni Cuoghi, anche attraverso questo lungo progetto dedicato alle storie dei ghetti, è soprattutto la volontà, più volte ribadita in queste pagine, di affermare un modello di racconto svincolato dalla consequenzialità tipica della narrativa scritta. La pittura, infatti, adotta un codice linguistico differente in cui, ad esempio, è possibile introdurre elementi di simultaneità e sincronicità o dove è, addirittura, lecito mescolare la realtà e la finzione, allineandole su un medesimo piano. Operazioni normalissime per un artista, assai meno per uno scrittore. Quello che l’artista può fare con la pittura e il paper cutting, in termini di storytelling, è certamente più ardito. Lo dimostrano due tra le opere più drammatiche, quelle dedicate alle tristi vicende di Edgardo Mortara e al rogo dei marrani ad Ancona nel 1556, pensate non in forma di diorami, ma di libri aperti, che molto devono all’arte sequenziale del fumetto. Prigioniero del papa re, titolo preso in prestito dal libro di David I. Kertzer (BUR, 2005), riassume le tappe salienti del Caso Mortara, una storia d’inganno e sopraffazione che fece scalpore negli anni precedenti l’unità d’Italia e che riguarda la conversione di un bambino ebreo di sei anni per opera della domestica cristiana della sua famiglia, e il suo trasferimento forzato da parte dell’inquisizione pontificia a Roma, dove sarà educato alla fede cattolica. La sequenza dipinta da Cuoghi, come al solito densa di riferimenti precisi – dalle uniforme degli ufficiali pontifici del 1858, al rifacimento dell’unica fotografia (in ovale) di Edgardo Mortara con la madre – è più volte intervallata dall’inserzione di elementi sorprendenti. Come ad esempio il brandello di giacca sospeso, una sorta di macchia scura sull’episodio della denuncia della domestica all’autorità ecclesiastica, o la tranche de vie dei ritratti di Napoleone III e Francesco Giuseppe d’Austria, i cui accorati appelli non bastarono a smuovere l’intransigenza di Pio IX, che mai che concesse il ritorno di Edgardo alla famiglia d’origine. Spiazzante è, invece, l’ultima pagina disallineata, che rompe l’andamento orizzontale del libro e rivela un finale amaro: la mortificante immagine di un uomo distrutto, colto negli ultimi giorni di vita. Ancona 1556 è, infine, il racconto di uno dei più cruenti episodi di violenza perpetrati ai danni di ebrei convertiti al cristianesimo, sospettati di continuare a praticare in segreto la religione dei loro padri. Vanni Cuoghi condensa tutta la storia nella macabra visione delle venticinque pire, un’immagine quasi apocalittica, tutta virata sui toni sanguigni del vermiglio e terminante con la perturbante rivelazione degli aguzzini intenti ad appiccare il fuoco.

Per fortuna non tutte le opere raggiungono questo livello d’intensità drammatica. Ci sono, infatti, molti lavori che non hanno alcun contenuto narrativo (ad esempio quelle con immagini di saracinesche, d’interni decadenti e quelle con animali domestici e volatili) e che servono principalmente ad abbassare la tensione dell’intero ciclo, mentre altre, particolarmente elaborate, sono il pretesto per raccontare gli aspetti positivi della vita del ghetto, per rimarcare come molti elementi della cultura ebraica si siano rafforzati o addirittura formati proprio in virtù delle condizioni avverse della segregazione. Un esempio meraviglioso spaccato folkloristico di Monolocale 57, ambientato sotto l’arco del Portico d’Ottavia, ai margini del ghetto romano, dove un gruppo di donne raccoglie gli scarti di pesce, accatastati dopo il mercato presso la vicina chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, teste, lische e parti meno nobili che costituiranno gli ingredienti essenziali del brodo di pesce, una delle più celebri specialità della cucina ebraica romana.


Note

[1] Vincenza Maugeri, L’istituzione del ghetto in Italia, in AA.VV., Ghetti e giudecche in Emilia-Romagna, Quaderni del Museo Ebraico di Bologna / 4, a cura di Franco Bonilauri e Vincenza Maugeri, De Luca Editori, Roma, 2004, p. 16.


Info

Vanni Cuoghi – Da Cielo a Terra
a cura di Ivan Quaroni e Giuseppe Pero
M.E.B. – Museo Ebraico di Bologna
via Valdonica 1/5 Bologna
dal 17 novembre 2016 al 15 gennaio 2017
http://www.museoebraicobo.it
mail info@museoebraicobo.it; tel +39 051 235430
Galleria Giuseppe Pero, Milano
www,giuseppepero.it
info@giuseppepero.it
T. 02 6682 3916


Ghetto stories, between earth and sky

by Ivan Quaroni

The ghetto was born exactly five centuries ago in the Cannaregio district of Venice, which until the early 1400s had been the location of the so-called “geti,” namely the public foundries used for the production of weapons. The decision was taken in the wake of the disorder caused by the War of the League of Cambrai, which had driven many Jews from the mainland towards Venice, triggering concern amongst the Christian citizenry. With a decree on 29 March 1516, the Venetian Senate set out to “regulate” the Jewish influx, expelling it from the city and restricting it to the area of the Ghetto Nuovo.

Since ancient times, the Jewish neighborhoods – known as giudecche – had taken form spontaneously. The Ghetto of Venice, on the other hand, was forced into existence by means of a political decision that barred Jews from living in other zones of the city and relegated them to one area, alongside a series of repressive measures, such as the closing of the gates of the settlement from sunset to dawn, a ban on Jewish ownership of real estate (houses, shops, workshops), and the obligation to wear special signs of recognition.

The resolution of the Venetian Republic was a forerunner of policies of segregation enacted by many Italian cities from the 16th to the 19th century, also driven by the papal bull Cum nimis absurdum (1555) of Pope Paul IV, which obliged Jews to live in a specific area of the city, and the bull Hebraeorum Gens (1569) of Pope Pius V, which expelled all Jews from the Papal State if they did not agree to move into the ghettoes of Rome, Ancona and Avignon.

In Venice, Rome, Bologna, Mantua, Padua and other Italian cities, the areas selected for the segregation, though central, as Vincenza Maugeri, director of the Jewish Museum of Bologna writes, could be “subtracted from the city because they contained no important buildings or nerve centers for the unfolding of life and affairs.”[1] They did contain, however, all that was needed for the everyday life and the cultural and religious practices of the community, from bakeries for unleavened bread to kosher butcher shops, synagogues to Talmudic schools, crafts workshops to yeshivot. In practice, the universe of the ghetto, like the previous one of the giudecca, was a microcosm of identity, but confined inside a precise perimeter. Over time this led to problems of overcrowding, with continuous shrinkage of residential units and the inevitable construction of additional upper levels. These effects are visible above all in the Venice ghetto, where the buildings reach a height of 8 stories, rising above the average height of the Venice skyline.

In any case, that “space of identity,” as Vincenza Maugeri calls it, makes the ghetto a remarkable crucible of histories, an unparalleled compendium of events, facts, reports and legends. This is precisely the quality that has attracted Vanni Cuoghi to the world of Italian Jewish ghettoes. For an artist like Cuoghi, a creator of miniaturized theaters and fantastic dioramas, patiently cut out of paper and diligently painted, the ghetto represents not only a storehouse of images and suggestions, but also the most seductive of narrative boxes. The box is also the preferred form of much of the artist’s recent output, and in fact he calls his little theaters “monolocali” (studio apartments), because they represent the minimum housing unit, which in its concentrated space best resembles a stage or a photo studio.

Built by mixing the technique of papercutting with the basics of set design and a painterly taste for narration, the housing units created by Vanni Cuoghi for over a year now are all set in the microcosm of the ghetto. In particular, the first ones, already shown in December 2015 in the exhibition “Vanni Cuoghi: Da Terra a Cielo” at Galleria Giuseppe Pero in Milan, draw their inspiration from the oldest ghetto, that of Venice, which from the 16th to the 17th century expanded from the island of the Ghetto Nuovo (1516) to the adjacent Ghetto Vecchio (1541) and the Ghetto Nuovissimo (1633), enclosing in a limited space a congeries of various tongues, customs, traditions and experiences.

Cuoghi captures above all the atmosphere of the ghetto, which is both magical and claustrophobic, mixing everyday glimpses and scraps of the past, but also myths and legends, in an intricate and almost surreal weave of references that range from historical accounts (the plague in Venice in 1630 of Monolocale 22, where the doctors wear the typical beaked masks) to the comics of Hugo Pratt (the Corto Maltese of Monolocale 30); from the wedding scene in the old Schola Canton (Monolocale 26) to the prosaic slices of life of the cenciaiole (rag pickers), where the memory of the Venere degli stracci of Michelangelo Pistoletto clearly hovers.

Doctors, money-lenders, ragmen – the sole lines of work open to Jews in Venice – inhabit Cuoghi’s cramped little theaters, along with figures of rabbis and alchemists, like the legendary Leon of Modena, one of the greatest intermediaries between Jewish culture and that of Christianity and Humanism, who could be the protagonist of Monolocale 20, an episode set in a study based on that of the Vision of Saint Augustine by Vittore Carpaccio, with the exquisite detail of the altar from which two human feet protrude, stolen outright from the Presentation of Christ in the Temple by Lorenzo Lotto, the last signed work by the Venetian master.

But the ghetto freely interpreted by the artist from Genoa is not only the one at Cannaregio. It starts in those narrow streets but then spreads, as effectively happened over the course of the centuries, to other cities like Rome, Bologna, Ancona, Ferrara and even faraway Prague. This is because in Cuoghi’s episodic and fragmented narrative geography is transformed into a state of mind, always balanced between drama and awe, in a condition of the spirit that wavers between human affliction and the drive towards freedom and emancipation. The story of the ghettoes is in fact the tale of a state of segregation that not only relegates the communities that inhabit them to a state of lawful discrimination, but also sentences them to condition of probation or even partial incarceration that can only be seen as dramatic. Yet in the midst of the many tragic episodes narrated, from documented events to imaginary ones, the artist often introduces moments of suspension, brief scenes that offer the viewer some small respite, and a pause for reflection.

Among the most painful and at the same time poetic images is that of Monolocale 28, which shows the raid of a Nazi commando in the apartment of a Jewish family. The almost film-like sequence shows the entry of the German officers to the right, represented by menacing shadows, and the family bent on crossing the threshold of a closet, to the left, a sort of dimensional gate like the one in the novels of C.S. Lewis that offers entry to the fantasy realm of Narnia. But the image is ambiguous. We do not know, in fact, if the ploy of the closet is an expedient to soften the tragic reality of the facts. In other words, in such circumstances escape and salvation seem like utterly exceptional, almost miraculous developments.

Cuoghi introduces magic as a means of salvation, assigning it a precise color, a very deep ultramarine blue, that appears each time to announce the celestial dimension, or as a harbinger of a spiritual tension to get beyond earthly vicissitudes. That of the starry sky in the closet – but also of the nocturnal skies of Solstizio d’estate (via Borgolocchi) (Summer Solstice [Via Borgolocchi]) and Solstizio d’inverno (Winter Solstice) – is the same color that accompanies the surprising apparition of Melchizedek to Corto Maltese in the Venetian Schola Canton (Monolocale 30). A color that symbolizes not just hope, but also the promise of redemption, or a definitive resolution.

Elsewhere, instead, the ultramarine blue becomes a distinctive sign of the sacred, the earmark of “celestial words.” Like those, for example, that run in Hebrew characters on the facade of Palazzo Bocchi, the building in Bologna designed by the architects Vignola and Serlio (Monolocale 54), or those printed on sheets of paper hung up to dry in the print shop of the Soncinos, the famous Ashkenazi Jewish family of printers and publishers, who were active in Italy and then Greece and Turkey in the 15th and 16th centuries.

Vanni Cuoghi’s stunning stories, scattered with realistic details like historically documented places, buildings and objects, often contain a jarring element, a detail that breaks up the logical continuity of the narration. The ultramarine blue is one of them, also seen in the silhouettes of doves in flight in front of the Jewish convalescence home in Monolocale 32. Another is the character invented by Hugo Pratt, who does indeed come across personalities and places cherished by Hebrew culture in at least a couple of stories (The Helvetians and Fable of Venice), but in substance has little to do with the history of the ghetto. Corto Maltese, instead, is a silent witness, though not utterly detached. Relying on his imaginative biography, in fact, it would appear that he studied in Valletta at the Jewish school of the rabbi Ezra Toledano, who initiated him to the mysteries of Kabbalah and the Zohar.

The adventurer, son of an English sailor and a gypsy woman from Seville, is not the only extraordinary character in the tales of Vanni Cuoghi. The other is the Golem, which according to legend was created in Prague by the rabbi Judah Löw at the time of the Emperor Rudolf II, with the purpose of serving and protecting the Jewish people from its persecutors. The mythical clay giant that inspired poets and writers like Gustav Meyrink and Jorge Luis Borges, Isaac Singer and Primo Levi, is the protagonist of Monolocali 31 and 55. In both cases it is represented, as tradition would have it, by the word “truth” (in Hebrew אמת, Emet) written on the forehead, and conserved in a secret hiding place, like the Genizah of the Old New Synagogue in Prague. The Genizot of synagogues are the places set aside for the conservation of religious works that cannot be used, but also of old letters and legal contracts, and all those documents that contain one of the seven holy names of God and therefore can never be thrown away. One of them is the background of Monolocale 55, which the artist imagines as a dark, dusty storeroom infested by mice; the other, instead, has the look of a Renaissance study, complete with a peacock and a partridge taken from a famous painting by Antonello da Messina conserved at the National Gallery of London (Saint Jerome in His Study, 1474-75).

One of the main characteristics of the research of Vanni Cuoghi, also through this long project on the history of the ghettoes, is above all the desire – repeatedly underlined on these pages – to exercise a narrative model that has been freed of the typical cause-and-effect logic of written tales. His painting, in fact, takes on a different linguistic code in which, for example, it is possible to introduce elements of simultaneity and synchronicity, or where it is even permitted to mix reality and fiction, aligning them on the same plane. These are very normal operations for an artist, but much less normal for a writer. What the artist can do with painting and papercutting in terms of storytelling is certainly far more daring. This is demonstrated by two of the most dramatic works, those on the sad story of Edgardo Mortara and the slaughter of the Marranos in Ancona in 1556, conceived not as dioramas but as open books, which owe much to the sequential art of comics. Prigioniero del papa re, a title borrowed from the book by David I. Kertzer (Prisoner of the Vatican), summarizes the salient phases of the Mortara Case, a tale of treachery and arrogance that caused a scandal in the years prior to the Unification of Italy, having to do with the conversion of a six-year-old Jewish boy by the family maid, a Christian, and his forced removal to Rome on the part of the Papal State, where he was brought up as a Catholic. The sequence painted by Cuoghi, full of precise references, as usual – from the uniforms of the papal officials of 1858, to the reproduction of the only existing photograph (an oval) of Edgardo Mortara with his mother – is repeatedly interrupted by the insertion of surprising features. Examples include the suspended scrap of a jacket, a sort of dark stain on the episode of the maid’s statement to the church authorities, or the tranche de vie of the portraits of Napoleon III and Franz Joseph I of Austria, whose earnest appeals did not suffice to sway Pius IX, who never permitted the return of Edgardo to his family of origin. The final page, not aligned, is disorienting, breaking up the horizontal progress of the book and revealing a bitter end: the dismaying image of a man destroyed, seen in the final days of life. Ancona 1556, finally, is the story of one of the most horrid episodes of violence carried out against Jewish converts to Christianity suspected of secretly continuing to practice the religion of their forefathers. Vanni Cuoghi condenses the whole story in the macabre vision of the 25 pyres, an almost apocalyptic image, shifted into bloody tones of vermilion and terminating in the disturbing revelation of the persecutors lighting the fires.

Fortunately not all the works achieve this level of dramatic intensity. There are, in fact, many that have no narrative content (for example, those with images of shutters, of dilapidated interiors, or those with domesticated animals and birds) and serve mainly to lower the tension of the whole cycle, while other particularly elaborate images are a pretext to narrate the positive aspects of life in the ghetto, to underscore how many features of Jewish culture were reinforced or even took form precisely as a result of the difficult conditions of segregation. One remarkable example is the folk scene of Monolocale 57, set under the arch of the Porticus Octaviae, at the edge of the Roman ghetto, where a group of women gather the scraps of fish piled up after the market at the nearby church of Sant’Angelo in Pescheria: heads, bones, the less appealing parts become the essential ingredients to make fish soup, one of the delicious specialties of Roman Jewish cuisine.


Footnotes

[1] Vincenza Maugeri, L’istituzione del ghetto in Italia, in AA.VV., Ghetti e giudecche in Emilia-Romagna, Quaderni del Museo Ebraico di Bologna / 4, ed. Franco Bonilauri and Vincenza Maugeri, De Luca Editori, Roma, 2004, p. 16.


Info

Vanni Cuoghi – Da Cielo a Terra
curated by Ivan Quaroni e Giuseppe Pero
M.E.B. – Museo Ebraico di Bologna (Italy)
via Valdonica 1/5 Bologna
dal 17 novembre 2016 al 15 gennaio 2017
http://www.museoebraicobo.it
mail info@museoebraicobo.it; tel +39 051 235430
Galleria Giuseppe Pero, Milan (Italy)
www,giuseppepero.it
info@giuseppepero.it
T. 02 6682 3916

Vanni Cuoghi e Marcel Dzama. Masked Tales

26 Apr

di Ivan Quaroni

 

 

 

“Dopo tutto, che cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.”
(George Byron)

 

Monolocale 44, (Discorsi da salotto) 2016, acqerello e china su carta, cm 21x30 copia

Vanni Cuoghi, Monolocale 44, (Discorsi da salotto) 2016, acqerello e china su carta, cm 21×30

PREMESSA

Perché accostare il lavoro di artisti diversi come Vanni Cuoghi e Marcel Dzama? In fondo, sono molti gli elementi di discontinuità innanzitutto biografici e culturali che li separano. Uno è genovese, classe 1966, naturalizzato milanese; l’altro, nato nel 1974, canadese di Winnipeg, provincia di Manitoba, vive oggi a New York. Il loro background non potrebbe essere più dissimile, considerato che mentre il primo è cresciuto emotivamente e intellettualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, tra due centri urbani del nord Italia, subendo il fascino della storia dell’arte e della pittura coeva, il secondo si è formato in un ambiente fortemente influenzato dalla natura, attingendo alle tradizioni folk del proprio paese e alla cultura popolare degli anni Novanta. Due identikit così manifestamente antitetici che cosa possono avere in comune? All’apparenza nulla, eppure… Eppure gli elementi di convergenza formale e attitudinale sono numerosi, anche se ognuno ha sviluppato una propria mitologia interiore e un’autonoma geografia di riferimenti artistici in cui si annida, però, qualche comune ascendenza.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 56x76 cm, anni 2000

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 56×76 cm, anni 2000

Cominciamo dicendo che il confronto qui proposto ha il gusto del gioco, della suggestione, una specie di “what if”, cioè d’ipotesi, tutta da verificare, sulle similarità di mood e d’atmosfera tra i testi visivi di un europeo e di un nordamericano. Un gioco, appunto, in absentia, cioè fatto a priori da chi scrive, senza la necessità di un mutuo consenso da parte degli artisti, che d’altronde non si conoscono. Il compito del critico consiste, in questo caso, nella capacità di trovare connessioni formali, stilistiche, perfino sentimentali tra opere di diversa provenienza, datazione e fattura. In fondo, è esattamente quello che fanno sempre i critici e i curatori quando costruiscono una mostra: rintracciano affinità e divergenze, creando un dialogo o un contrasto tra opere. Nel caso di Cuoghi e Dzama il confronto era peraltro già avvenuto in un paio di occasioni – le mostre Back to folk alla galleria Daniele Ugolini di Firenze[1] e Beautiful Dreamers alla Angel Art Gallery di Milano[2] -, dove emergeva una sottile sintonia stilistica e narrativa tra i due artisti.

Sibilla 1, 2016, china e acquerello su carta cm70x100. AJPG

Vanni Cuoghi, Sibilla 1, 2016, china e acquerello su carta cm70x100

Con Masked Tales, titolo di questa esposizione, il raffronto diventa intenzionalmente più serrato grazie alla presenza di un più nutrito nucleo di opere: undici inchiostri e acquarelli su carta del canadese, tutti realizzati tra la seconda metà degli anni Novanta e il 2002; quindici opere recenti dell’italiano, che spaziano dal paper cutting all’acquarello, fino alla tecnica mista su tela.

LINEA CHIARA E FIGURE FLUTTUANTI

Dal punto di vista formale, Marcel Dzama e Vanni Cuoghi usano un linguaggio di tipo grafico e di chiaro impianto disegnativo che in qualche modo rimanda al mondo del fumetto. Entrambi, infatti, soprattutto in passato, hanno saccheggiato l’iconografia dei supereroi americani, dislocandola nel mondo estraniato ed estraniante delle proprie narrazioni. Ma se negli acquarelli di Dzama è leggibile l’ascendenza dalla cosiddetta linea chiara del fumetto classico francese, in quelli di Cuoghi si avverte, piuttosto, la lezione anatomica del Tarzan di Burne Hogarth, commista agli studi accademici sul Barocco e il Rinascimento. Sono due modi diversi d’intendere il disegno, quello classico di Cuoghi e quello sintetico di Dzama, che però s’incontrano, attraverso la comune passione per l’illustrazione, sul piano dell’immediatezza e della freschezza comunicativa. In quasi tutti gli acquarelli dell’artista canadese, figure di orsi, boy scout, fumatori, gangster, poliziotti e miliziani si stagliano su un fondale bianco, vuoto, che accentua il senso di sospensione delle sue storie, fiabe solo in apparenza che, invece, affrontano con un misto d’ironia e crudeltà temi quali la violenza, il sesso, la sopraffazione.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6x27,9 cm, 2000-

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6×27,9 cm, 2000

All’inizio anche Vanni Cuoghi adottava l’espediente del fondo bianco per concentrare l’attenzione sull’episodio narrato in primo piano. Un residuo di questo stratagemma grafico si vede, ad esempio, nelle Intagliatrici, figure parzialmente intagliate nel foglio, che sono poi capovolte e dipinte a china e acquarello, lasciando visibile nella parte superiore del fondo la propria sagoma vuota, come una sorta di matrice o di stampo. Sono, però, figure fluttuanti in un campo vuoto, mentale, anche quelle della serie Sibille e dello stregonesco Mental Cut, che celebrano l’eleganza dinamica e misteriosa delle sue schermitrici.

Intagliatrice rossa, 2016, acquerello e china su carta cm 21x30

Vanni Cuoghi, Intagliatrice rossa, 2016, acquerello e china su carta cm 21×30

STORIA E STORIE

I racconti di Dzama si svolgono non solo in un luogo imprecisato, proiezione astratta di stati d’animo ed emozioni, ma anche in un tempo imprecisato vagamente collocabile tra l’Otto e il Novecento, come si desume dalla fascinazione per gli abiti di tweed, per le divise degli anni Venti e per le uniformi militari napoleoniche o della Guerra di secessione americana. Sono, però, riferimenti soprattutto estetici, rimarcati anche dalla predilezione per certi colori demodé, dal marrone al verde muschio, dal bordeaux al grigio aviazione e al blu carta da zucchero, che creano una particolare temperie emotiva e un’atmosfera d’altri tempi. Quelle di Dzama sono narrazioni incongrue e surreali, spesso accompagnate da frasi e brevi testi che, come nei lavori eseguiti con il gruppo Royal Art Lodge (oggi composto dai soli Neil Farber e Michael Dumontier), creano un corto circuito tra l’immagine e la parola scritta. L’artista non è, però, interessato alla trasmissione di un messaggio etico e le sue scene di mutilazione, decapitazione e pornografia sono piuttosto la testimonianza di un processo di sublimazione grafica della violenza.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 31,5x25,5 cm, anni 2000

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 31,5×25,5 cm, anni 2000

Negli ultimi lavori di Vanni Cuoghi la descrizione ambientale e paesaggistica è sempre più frequente. Ai fondi bianchi si sostituiscono eleganti interni borghesi, architetture rinascimentali e barocche, boschi e foreste di sapore arcadico. L’amore per l’arte italiana trapela ovunque, negli arredi e nelle tappezzerie dei Monolocali, nei castelli in rovina e nelle pievi romaniche delle Sibille, nelle arcate della Cà Granda di Milano che fanno da quinte ai Balletti plastici armati e, perfino, nei capricciosi tempietti barocchi che inquadrano le ballerine di Il lago dei cigni e Roses for me. Insomma, la marca stilistica di Cuoghi è chiaramente latina e mediterranea e i suoi racconti, pur surreali e immaginifici, quasi mai indulgono in scene raccapriccianti. Le sue narrazioni procedono con maggiore linearità, racchiudendo la trama in immagini compiute, perfettamente definite in ogni dettaglio. Così, mentre nei primi lavori di Dzama prevale il gusto sintetico e quasi bozzettistico per le figure, in quelli di Cuoghi affiora l’acribia miniaturistica, l’amore per la cornice scenica e l’attenzione per il particolare rifinito e prezioso.

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Vanni Cuoghi, Roses for me, 2014, Acquarello e china su carta, 70x50cm i

GUERRA E DANZA

Marcel Dzama, fin dai suoi esordi con il gruppo Royal Art Lodge, e in seguito anche nella sua ricerca personale, affina un’idea di raffreddamento emotivo della violenza. I suoi soggetti sono disposti sul foglio in un modo da richiamare le strutture paratattiche dell’arte tardo antica oppure quelle dell’arte tribale dell’Oceania, di cui si dichiara appassionato. Ad esempio, in We run the Brandon Police force i detective e gli agenti sono allineati su due file orizzontali sovrapposte, come nella coreografia di un ballo di gruppo. La struttura coreografica emerge, tuttavia, anche in altri acquarelli, sotto forma di parata danzante o di esercizio ginnico. Tutto il lavoro di Dzama successivo al 2002 si è sviluppato in questa direzione. La danza e in particolare il balletto d’avanguardia come espressione artistica, è, infatti, ripreso in numerose opere recenti. Il principale riferimento, per i film The Infidels (2009), Death Disco Dance (2011) e A Game of Chess (2011), è il Triadic Ballet di Oskar Schlemmer, che esordì a Stoccarda nel 1922 ed è oggi ritenuto uno dei più importanti balletti sperimentali tra le due guerre. Già prima della realizzazione dei suoi film, la guerra sublimata in coreografia è un tema ricorrente nelle opere su carta di Dzama. Le miliziane in divisa col volto coperto dal balaclava, che compaiono frequentemente nei suoi acquarelli e che sono poi riprese anche in un videoclip musicale dei Department of Eagles[3], sono le vessillifere di questa concezione coreografica della guerra, tramutata in un sanguinoso ballo della Storia. La guerra è, infatti, per l’artista canadese un fattore ineliminabile della Storia di cui il gioco degli scacchi e la danza stessa sono rappresentazioni figurate.

Marcel Dzama, We run the Brandon police force, inchiostro e acquarello su carta, 35,5x27,5 cm, 2000

Marcel Dzama, We run the Brandon police force, inchiostro e acquarello su carta, 35,5×27,5 cm, 2000

Una ginnastica marziale, sospesa tra la delicata grazia del balletto e il vigore atletico del combattimento, è quella praticata dalle Sibille di Vanni Cuoghi, moderne samurai in cui si fondono il mito classico delle amazzoni e l’immaginario visivo steampunk e cyberpunk. Vestite d’ingombranti abiti vittoriani o di succinti short militari, le schermitrici di Cuoghi ricordano evidentemente l’emancipate eroine del Cinema di Tarantino (Kill Bill) e dei blockbuster statunitensi di fantascienza (Tomb Rider), sebbene il teatro delle loro gesta non sia la megalopoli, ma una natura astratta, mentale, popolata di animali totemici (orsi, cervi, aquile e lupi) e disseminata di rovine medievali. Per Cuoghi, il combattimento all’arma bianca è talvolta metafora di un conflitto interiore, allegoria dell’eterna lotta contro i demoni che albergano nel profondo di ogni uomo (Mental Cut); talaltra si configura come una sorta di autogenesi (Intagliatrici). Quasi mai, nelle sue opere, il combattimento allude direttamente alla guerra, tantomeno negli assemblaggi Balletti plastici armati e La caduta, dove l’artista appare più interessato alla relazione mimetica tra danzatrici e paesaggio. Invece, fuor di metafora, sono ispirati alle figure aggraziate del balletto classico e alle opulente scenografie teatrali barocche i già citati Roses for me e Il lago dei cigni.

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Vanni Cuoghi, La caduta,2014, collage,chine e acquerello su carta, cm33x58x38

MASCHERA E VOLTO

“Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte”, scriveva Oscar Wilde. Forse per questo, Cuoghi e Dzama scelgono di usare una narrativa svincolata dall’identità dei personaggi. Non c’è mai, nei loro lavori, un riferimento diretto all’attualità o alla cronaca, così come non c’è un tema o un soggetto riconducibile a personaggi e fatti realmente accaduti. La prima forma di occultamento consiste, infatti, nell’utilizzo del linguaggio allegorico e metaforico, sempre evocativo e mai indicativo, che entrambi gli artisti praticano mediante la composizione di caratteri tipologici, essenzialmente astratti e perfino i riferimenti visivi appaiono quanto mai vaghi, velati, sottintesi e sostanzialmente funzionali al racconto.

Seppure in modi diversi, Marcel Dzama e Vanni Cuoghi ricorrono sovente all’uso di maschere per nascondere il volto dei propri personaggi col preciso intento di ribadirne il carattere prototipico. Negli acquarelli dell’artista canadese il meccanismo di mascheramento è innescato in due modi diversi, ma complementari. L’uno consiste nel caricare l’espressività dei volti dei suoi personaggi, stravolgendoli in smorfie, come nel caso delle teste macrocefale che richiamano gli idoli dei totem tribali. L’altro modo consiste nel nascondere le fisionomie dietro cappucci, balaclava e mascherine, che diventano complementi vestitivi di uniformi e divise da combattenti. In entrambi i casi, Dzama ottiene l’effetto di acuire il mistero e l’inquietudine dei suoi racconti crudeli, pervasi di una vena di beffardo pessimismo.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6x27,9 cm, 2003

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6×27,9 cm, 2003

Tutte le bellicose schermitrici di Vanni Cuoghi portano una sottile maschera sul volto, del tipo di quelle usate dai vecchi eroi del fumetto come Lone Ranger o simili a quelle portate dagli 88 Folli, la fittizia gang della yakuza, inventata da Tarantino in Kill Bill. Per l’artista, la maschera è una memoria nostalgica dei carnevaleschi travestimenti infantili, ma anche una metafora della fondamentale ambiguità della pittura, sempre protesa verso la costruzione di una realtà fittizia, immaginifica, misteriosa. Ma se la pittura è una finzione, allora tanto vale epurarla di ogni elemento realistico, di ogni accidente espressivo e dichiarare che la sua funzione è, prima di tutto ideale. Fin dagli esordi, Cuoghi ha scelto di rappresentare i suoi personaggi con gli occhi chiusi, elidendo, così, il più efficace strumento espressivo dell’anatomia umana, traducendo la fisionomia psicologica in una morfologia della maschera. Senza la luce vivificante dello sguardo, infatti, il volto diventa simulacro, icona, sublime e algida effige di dormiente. Così, sognando, le Sibille di Cuoghi inventano un mondo nuovo, rigenerato dalle fondamenta. Esattamente come fa la pittura, quando abbraccia la sua vocazione profetica.

Notturno, 2015, acrilico e olio su tela, cm 130x215

Vanni Cuoghi, Notturno, 2015, acrilico e olio su tela, cm 130×215


NOTE

[1] Back to folk, a cura di Ivan Quaroni, Daniele Ugolini Contemporary, 2006, Firenze.

[2] Beautiful Dreamers, a cura di Ivan Quaroni, Angel Art Gallery, 2009, Milano.

[3] Si tratta del videoclip di No One Does It Like You, le cui sequenze filmiche, riprese dal film The Infidels, mostrano lo scontro tra due eserciti contrapposti su un campo di battaglia nel modo del balletto avanguardista degli anni Venti.


INFO

Vanni Cuoghi, Marcel Dzama, Masked Tales
A cura di Ivan Quaroni
Labs Gallery via Santo Stefano n 38 Bologna
Opening: 7 maggio h 18,30
Dal 7 maggio al 7 giugno 2016
Info: Alessandro Luppi, tel:+39 348 9325473 info@labsgallery.it
http://www.labsgallery.it


Sibilla 3, 2016, china e acquerello su carta cm70x100. AJPG

Vanni Cuoghi, Sibilla 3, 2016, china e acquerello su carta cm70x100

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,5x27,9 cm, 2003

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,5×27,9 cm, 2003

La famosa invasione degli artisti a Milano

21 Mag

La città dei miracoli

(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.

Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm

Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.

Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106x150 cm

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm

Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.

Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.

Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100x90 cm

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm

Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.

Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.

Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.

Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.

A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.

In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.

Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.


[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.

[2] Ivi, p. 109.


INFO:

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Le stanze misteriose di Vanni Cuoghi

7 Mag

 di Ivan Quaroni

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

ITALIAN TEXT (ENGLISH TEXT BELOW)

I Monolocali di Vanni Cuoghi rappresentano l’esito finale di un lungo percorso di affinamento tecnico e linguistico durato oltre dieci anni e, insieme, il sintomo di un ritorno alle origini o meglio di un recupero di abilità, intuizioni e capacità di visione che appartengono al suo più antico background culturale. Sono il frutto di una grammatica costruita attorno alla fusione di diverse pratiche, dalla pittura al collage, dal disegno alla scenografia, fino al paper cutting, cioè all’arte di intagliare figure in fogli di carta per farne delle opere d’arte. Di fatto, i Monolocali sono dipinti, in tutto e per tutto simili a quelli su tela, sebbene abbiano la forma di oggetti tridimensionali in cui lo spazio illusorio e quello reale e fisico scivolano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Si possono definire diorami, perché la logica compositiva è quella dei plastici tridimensionali e delle maquette che appassionano i modellisti.

Diorama è un termine francese che deriva dal greco διά (attraverso) e ὅραμα (veduta). Indica, cioè, un oggetto attraverso il quale si possono vedere delle cose. Non stupisce che la sua diffusione e il suo successo nel diciannovesimo secolo siano attribuiti, tra gli altri, a Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, pittore e decoratore teatrale che nel 1837 inventò un metodo per fissare le immagini riprese con la camera oscura su un supporto sensibile in rame o argento (i famosi daghrrotipi). Solo un uomo di teatro, avvezzo alla costruzione di complessi allestimenti scenici, poteva inventare qualcosa di simile ai moderni modelli architettonici.

Nei Monolocali di Vanni Cuoghi c’è la memoria dei suoi trascorsi da scenografo, unita, però, a una matura comprensione dei meccanismi inventivi della pittura. A prevalere in queste opere, infatti, non è tanto la dimensione progettuale del diorama, che semmai sussiste nella scelta di una cornice convenzionale, di uno spazio scenico standardizzato equivalente alle dimensioni di un foglio A4 entro cui si svolge l’azione ma, piuttosto, la logica imprendibile della giustapposizione giocosa, dell’intuizione fulminea, dell’errore fecondo.

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

Gli elementi che compongono queste scatole prospettiche, questi teatrini misteriosi ed enigmatici, sono, infatti, come le tessere di un puzzle ancora da definire. Personaggi, oggetti, complementi d’arredo, carte da parati, piastrelle, decori sono spesso realizzati in anticipo. Costituiscono, cioè, i frammenti di un collage di là da venire, di un’immagine ancora da costruire. Alcuni saranno usati, altri saranno scartati, altri ancora finiranno in un’opera successiva. Non c’è una regola, un copione prestabilito nell’assemblaggio di queste tessere, ma solo un’idea, un’intuizione, insomma un indirizzo che può mutare nel corso dell’opera. Come nell’atto del dipingere, ciò che conta è il percorso, quel labirintico susseguirsi di prove, errori e ripensamenti che portano, inevitabilmente, a soluzioni impreviste e risultati inaspettati.

Ovviamente in quest’attitudine, che prende la forma di un vero e proprio modus operandi, giocano un ruolo fondamentale la gioia e lo stupore della scoperta, caratteristiche tipiche della ricerca di Cuoghi. Se queste stanze sono piene di eventi sorprendenti, di storie al limite del credibile, sempre in bilico tra una fantasia scatenata e una verosimiglianza ossessiva, è perché l’artista stesso si apre alla conoscenza di un mistero più sottile proprio attraverso l’adozione di una procedura non codificata. Vanni Cuoghi non progetta mai la forma finale di un’opera, nel senso che non prevede i dettagli, ma guida il processo verso l’espressione di una sensazione o di un’atmosfera impalpabile.

Molti dei suoi Monolocali contengono riferimenti biografici, tracce di vissuto che la memoria sembra riattivare alla presenza di un profumo, di una luce, di un colore, di un suono. In un certo senso, le capricciose narrazioni dell’artista formano una sorta di diario intimo e sinestetico delle sue peregrinazioni. Genovese di nascita e milanese d’adozione, Cuoghi ha vissuto gli anni da studente nel capoluogo meneghino, abitando una pletora di appartamenti molto piccoli. Il monolocale o, se preferite, la stanza, è diventata per lui, come per molti studenti, la metafora di una condizione esistenziale e, insieme, il simbolo di un certo tipo di formazione. Gli ambienti ristretti, i compromessi della convivenza e della condivisione, le inevitabili economie di una vita libera, ma pur sempre confinata in un perimetro definito, hanno contribuito ad acuire la sua percezione dell’unità abitativa come spazio funzionale e, allo stesso tempo, autonomo.

Bilocale 2 (Chernobyl's animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50x70

Bilocale 2 (Chernobyl’s animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50×70

La stanza, esattamente come il palcoscenico, è una scatola prospettica in cui convergono illusione e realtà, è un teatro di accadimenti che vanta una lunga tradizione tanto nella letteratura, quanto nella pittura e nel cinema, dai Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe alla Stanza di Arles di Van Gogh, fino alla Redrum di Shining e alla stanza rossa di Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adotta questa convenzione iconografica, trasformandola in un formato, in una misura che delimita e circoscrive le classiche unità di luogo, tempo e azione. I suoi Monolocali sono tutti, tranne qualche rara eccezione, rettangoli orizzontali di 21×30 centimetri che l’occhio dell’osservatore riconosce, inconsciamente, come una grandezza familiare, dato che è quella delle risme di carta che acquistiamo per le nostre stampanti domestiche.

La natura delle invenzioni dell’artista, in questo caso, è piuttosto affine al genere letterario degli enigmi della camera chiusa[1], e soprattutto a certe misteriose visioni di René Magritte (L’assassin menacé, 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964) dominate da un’atmosfera di sinistra attesa e d’ipnotica inquietudine.

Mentre da un lato i Monolocali rappresentano una sfida formale sul piano compositivo e, insieme, un tentativo di tradurre nel linguaggio visivo memorie e sensazioni personali, dall’altro essi approdano a una dimensione surreale che ha più a che fare con l’esplorazione dei meandri del subcosciente. È vero, infatti, che l’artista trae spesso spunto dalla storia dell’arte o dall’immaginario della cultura popolare, ma è altrettanto chiaro che il risultato finale corrisponde alla formulazione di una personalissima sigla pittorica, di uno stile coerente e originale dove il significato eventuale delle immagini retrocede, per lasciare campo a una moltitudine di letture e interpretazioni.

Certo, è possibile rintracciare, qua e là, una serie di rimandi, discretamente disseminati tra le pareti delle sue camere chiuse come, ad esempio, negli unici due Monolocali dipinti su tela, che simulano le profondità e le ombre dei suoi diorami con una tecnica da perfetto illusionista. Mentre nel primo, intitolato Monolocale n. 17 (tinto), compare un evidente riferimento alla tradizione degli azulejos, le celebri piastrelle in ceramica smaltata che ornavano i palazzi nobiliari di Spagna e Portogallo, nel secondo, intitolato Monolocale n. 19 (le ciliegie), gli indizi del personaggio che spia la coppia attraverso una porta socchiusa e il quadro con una natura morta di ciliegie appeso alla parete, alludono a due celebri dipinti di Giulio Romano e di Giovanna Garzoni.

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21×30

Nel diorama Monolocale n. 14 (tonnata), invece, la donna alla fune è ispirata a una sequenza del video Orient di Markus Shinwald, l’artista che ha rappresentato l’Austria alla 54° Biennale di Venezia, mentre l’interno di Monolocale n. 18 (la lettera) è rubato a una scena del film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) di Roy Andersson, così come la protagonista in primo piano cita, evidentemente, La lettera d’amore di Jan Vermeer (1669-1670).

Aldilà dei riferimenti abilmente occultati nella trama di queste scatole del mistero, ciò che conta è, piuttosto, l’impiego di sorprendenti soluzioni grafiche e compositive. La più ricorrente è l’incursione di un elemento sinistro, di un’entità informe che frantuma muri e pavimenti delle stanze, minacciando la quiete di questi interni borghesi. È come una sorta di apocalittico deus ex machina, un intervento esterno e imprevedibile che assume, di volta in volta, sembianze diverse. È un famelico organismo tentacolare nei Monolocali n. 2 e n. 3 e in Bilocale n. 1 (MM1 Pasteur); una nera sostanza fluida in Monolocale n. 10; una colossale trave di legno precipitata dal soffitto in Monolocale n. 18; un fiotto sanguigno che squarcia il parquet di Monolocale n. 13 (barbecue). In questi, come in altri casi, l’evento non ha un carattere necessariamente negativo. Semplicemente, si tratta di una trasposizione visiva del modo in cui a volte i ricordi e le sensazioni irrompono violentemente nella nostra coscienza. Come in Monolocale n. 11 (odor di basilico), dove l’evento scatenante è la memoria olfattiva del basilico di Prà appena colto, o in Monolocale n. 12 (l’astice), in cui è il sapore, questa volta immaginato attraverso il racconto di alcuni amici, di un noto crostaceo del Maine. A ben vedere, Cuoghi adombra il racconto a puntate della propria biografia di gourmet e di voyeur sotto le mentite spoglie di una crime story o di un weird tale, costruisce un mistero fittizio per celebrare i fasti dell’esperienza e dell’immaginazione. Così, finisce per somigliare a quei grandi artisti visionari che seppero raccontare la vita nelle forme traslate della metafora e dell’analogia. Forse perché, come diceva Jorge Luis Borges, “il reale è quello che vede la maggioranza”.

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21x30

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21×30


English Text

Vanni Cuoghi’s Studio Flats represent the ultimate result of a long technical and linguistic refining path, that took over ten years, together with a symptom of a throwback to the roots , or better, a retrieval of skills and intuitions and visions belonging to his most ancient cultural background. They are the outcome of a grammar built around the fusion of different practices , from painting to collage, from drawing to scenography, to paper cutting, the art of cutting shapes and figures into paper sheets to make a piece of art out of them. The Studio Flats are in fact paintings, very similar to the ones on canvas, even if they are shaped as tri-dimensional objects where illusory and real space seamlessly melt one into another. They can be defined s dioramas, because the composing logic is the one of tri-dimensional scale models and maquettes loved by the collectors.

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello  acrilico su carta, cm 50 x70

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello acrilico su carta, cm 50 x70

Diorama is a French word originated by Greek διά (through) and ὅραμα (view). It stands for a see-through +object. It is not surprising that its diffusion and success are ascribed, among others, to Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, theatre painter and decorator who, in1837 invented a method to fix images captured by the darkroom on a sensitive copper or silver stand (famous daguerreotypes). Only a man of theatre, accustomed to building complex scenes on stage, could invent something so similar to modern architectural models.

Inside Cuoghi’s Studio Flats, lies the memory of his past as a set designer, yet joined by a mature comprehension of the inventive mechanisms of painting. What is most prevalent in these artworks, in effect, is the uncatchable logic of playful juxtaposition, of striking intuition and fruitful mistake.

The elements that form these prospect boxes , these mysterious and enigmatic tiny theatres, are indeed just as the cards of a still to be defined jigsaw. Characters, objects, pieces of furniture, wallpapers, tiles and decorations are often made in advance. They are the fragments of a collage yet to come. Some of them will be used, others will be set aside and some more will end up in a following artwork. There is no rule or script in the making of these works, there is just an idea, some kind of destination that can change while progressing. As in the act of painting, what is most important is the path, that labyrinthine sequence of attempts, mistakes and second thoughts, necessarily leading to unexpected sudden results.

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35x50

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35×50

Joy, astonishment and discovery, clearly play a main role in this attitude, becoming a true modus operandi of Cuoghi’s research. These rooms are so full of surprising events, of almost unbelievable stories, always balancing between crazy fantasy and obsessive plausibility, because the artist himself opens up to the knowledge of a more subtle mystery right through an uncodified procedure. Vanni Cuoghi never plans the final shape of an artwork, he does not foresee the details, but he drives the process to expressing a sense or a weightless atmosphere.

Many of his Studio Flats include autobiographical references, traces of a life that memory seems to re-activate thanks to a scent, a light, a colour, a sound. In a certain way, the artist’s whimsical narrations form a sort of intimate and synaesthetic journal of his own peregrinations. Born in Genoa and adopted by Milan, Cuoghi lived his student years in the Lombard main city, living in a multitude of tiny flats. The studio flat, or if you prefer , the room, became to him as to many other students, the metaphor of an existential condition together and the symbol of a certain type of education. The narrow locations, the compromises of cohabiting and sharing, the unavoidable frugality of a free yet confined life, all contributed to sharpen his perception of the living unit as a functional yet independent space. The room, just as the stage, is a prospect box where reality and illusion converge; it is a theatre of events that boasts a long literary tradition, as well as cinema and painting, from The murders in the Rue Morgue by Edgar Allan Poe, to The room in Arles by Van Gogh, until the Redrum in Shining, and the red room in Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adopts this iconographic agreement and he transforms it into a measurement that limits and contains the ordinary units of time, place and action. All of his Studio Flats, few exceptions made, are rectangles of 21×30 cm, which the eye can unconsciously recognize as a familiar size, because it is just like the one of the paper we get for our home printers.

In this case, the nature of the artist’s invention, is quite similar to the literary genre of the locked room mysteries¹, and especially close to some baffling visions by René Magritte (L’assassin menacé 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964), all dominated by an atmosphere of sinister wait and hypnotic anxiety.

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

While on a side, the Studio Flats represent a formal challenge on the compositional level together with an attempt to translate personal memories and sensations into visual language, they end up to a surreal dimension that has more to do with exploring the twists and turns of the subconscious. Sure enough the artist often draws inspiration from the history of art and from the imagery of popular culture, though it is clear that the final results is the formulation of an extra personal painting signature, of a congruent original style where the possible meaning of images moves back, to allow multiple readings and interpretations.

It is surely possible to retrace here and there, a series of refrains, discretely scattered on the walls of his locked rooms as, for example, in the only two Studio Flats painted on canvas, which simulate the depth and shades of his dioramas using a technique of a true mesmerizer. While in the first, called Studio Flat n.17 (tinted), lies an obvious reference to the azulejos tradition, the famous glazed ceramic tiles which decorated aristocratic palaces in Spain and Portugal, in the second, called Studio Flat n.19 (cherries), the hints of the character spying the couple behind an half shut door and the painting of a still life with cherries hanging on the wall, suggest two well-known paintings by Giulio Romano and Giovanna Garzoni.

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

In the diorama Studio Flat n.14 (tuna sauce), the woman at the rope is inspired by a sequence of the video Orient, by Markus Shinwald, the artist which represented Austria at 54th Venice Biennale, while the interiors of Studio Flat n. 18 (the letter), are stolen by a scene from the movie En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (2014) by Roy Andersson, just as the protagonist in the foreground obviously quotes, The love letter by Jan Vermeer (1669-1670). What really counts, beyond all the references, smartly hided in the weave of these mystery boxes, is the use of surprising graphic and arranging solutions. The most frequent one is the foray of a sinister element, a shapeless entity which the rooms’ walls and floors, threatening the quiet of these middle-class interiors. Some kind of apocalyptic deus ex machina, a foreign and sudden intervention that achieves different shapes, from time to time.

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21x30

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21×30

A ravenous pronged organism in Studio Flats n.2 and n.3 and in Two-room flat (MM1 Pasteur); a black fluid material in Studio Flat n.10; a huge wooden beam falling from the ceiling in Studio Flat n.18; a gush of blood that lacerates the wood flooring in Studio Flat n. 13 (barbecue).In these as in other cases, the event is not necessarily negative. It simply is a visual transposition of the way memories and sensations sometimes violently burst into our conscience. As for Studio Flat n. 11 (scent of basil), where the trigger event is the olfactory memory of freshly picked Prà basil, or for Studio Flat n.12 (the lobster), where it is the taste, imagined through the tale of some friends, of a famous crustaceous from Maine. At second glance , Cuoghi hides the tale by episodes of his biography as a gourmet and a voyeur, under the false pretences of a crime story or of a weird tale, he builds a fake mystery to celebrate the glories of the experience and imagination. So, he ends up looking like those great visionary artists who were able to tell life in the shifted shapes of metaphor and analogy. Perhaps that is because, as used to say Jorge Luis Borges, “the truth is what most people see”.


[1] Mario Gerosa, Viaggio intorno alla mia camera chiusa a chiave, in Le camere del delitto, Selis Editions, 1991, Milano.

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30


Info:

VANNI CUOGHI, Monolocali: tutte le mattine del mondo.
a cura di Ivan Quaroni
GALLERIA AREA B, Via Marco D’Oggiono n 10 Milano
OPENING: 14 maggio h 18.30
dal 14 maggio al 23 luglio 2015/ 14 May – 23 July 2015
Lunedì/monday h. 15.00 -18.00, martedì-sabato/Tuesday-Saturday h. 10.00-13.00 15.00-18.00
t 02 89059535     m info@areab.org http://www.areab.org

Elogio della Levità

28 Feb

Ivan Quaroni

Se l’eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo

sfondo, possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza.”

(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

2-Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24x30 cm., 2011

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24×30 cm., 2011

Una mostra sulla levità, in un momento come questo, può sembrare una scelta paradossale, quasi inopportuna. Eppure bisogna intendersi sul significato di questa parola. La levità non è necessariamente un sinonimo di “inconsistenza” o, peggio, di “superficialità”. Cicerone sosteneva che “la leggerezza è propria dell’età che sorge, la saggezza dell’età che tramonta”, ma io non concordo con il sommo retore latino. È piuttosto vero che la levità, come atteggiamento, attitudine e qualità, è una scelta propria dell’età matura. Una scelta creativa, che non si limita a costatare lo stato delle cose, ma si propone anzi di scoprire la bellezza nella complessità. Luigi Pirandello scriveva nel 1926 che “fare i cinici è pure un modo di dare leggerezza alla vita quando comincia a pesare”. E proprio dalla percezione della gravitas esistenziale e, dunque, delle difficoltà dell’esperienza umana, sorge la necessità di pervenire a uno stato di levità, che consenta, come dice Giovanni Soriano, di “attraversare il mondo in consapevole leggerezza”.

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Vanni Cuoghi, Nuove isole, acrilico e olio su tela, 45×45 cm, 2014

Italo Calvino ha trattato l’argomento nella prima delle sue Lezioni Americane, interrogandosi sul valore della levità nell’arte non all’inizio della sua carriera ma, appunto, nella sua piena maturità di scrittore: “Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto, ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio”.[1]

3-Kazumasa Mizokami, Senza muro, terracotta dipinta con polietilene, 32x32x115 cm., 2013-2006

Kazumasa Mizokami, Senza muro, terracotta dipinta con polietilene, 32x32x115 cm., 2013-2006

Un’analoga operazione di “alleggerimento”, che inevitabilmente passa attraverso una ristrutturazione del linguaggio e del racconto (sempre che si possa parlare di “racconto” in arte) caratterizza la ricerca di cinque artisti, che hanno fatto della levità la propria sigla espressiva. Vanni Cuoghi, Enzo Forese, Riccardo Gusmaroli, Mimmo Iacopino e Kazumasa Mizokami muovono dalla lezione di Calvino per elaborare tecniche, stili e codici linguistici diversi, in cui l’approccio ironico e giocoso convive con lo slancio lirico e perfino introspettivo. Mentre nelle opere di Riccardo Gusmaroli e Mimmo Iacopino l’attitudine ironica si salda alla ricerca espressiva sui materiali, dalla carta alla fotografia, fino all’object trouvé, in quelle di Kazumasa Mizokami prevale un approccio lirico, intimistico, che va di pari passo con la straordinaria capacità di alleggerire la terracotta con una pittura felice, ispirata ai colori delle forme naturali. Sono, invece, pittori, ma con una vocazione a sconfinare nel collage e nel paper cutting, Enzo Forese e Vanni Cuoghi, i quali, rispettivamente, trasferiscono la levità anche nella dimensione descrittiva e narrativa.

4-Riccardo Gusmaroli, Vortice rosso, 200x140,

Riccardo Gusmaroli, Vortice rosso, barche di carta e acrilico su tela, 200×140 cm., 2011.

Ironia, senso del ritmo, affabulazione, sperimentazione sono tutti elementi che accomunano questi artisti, capaci di irretire lo sguardo dello spettatore in una fitta trama di visioni. Visioni che, a ben vedere, corrispondono a quel modello linguistico che Calvino intendeva come orizzonte operativo in cui coesistono leggerezza, velocità, esattezza, visibilità, molteplicità e consistenza. Diversi per stile, tecnica e grammatica, questi cinque artisti sono accomunati, però, da uno stretto controllo formale, da una pratica paziente e certosina, quasi miniaturistica, che non lascia spazio a improvvisi cedimenti e dove, piuttosto, l’emotività, trattenuta e imbrigliata in forme, figure e pattern rigorosi, affiora solo sotto forma di messaggio. La pittura è limpida, circoscritta in confini compatti, in campiture nette; la geometria testurale è precisa, la stilizzazione necessaria, mai accessoria. Tutte qualità che indicano una disciplinata economia di gesti e d’intenzioni.

3-Mimmo Iacopino, Misure morbide, strisce di raso, strisce di velluto e metri su tela, 100x120 cm., 2013

Mimmo Iacopino, Misure morbide, strisce di raso, strisce di velluto e metri su tela, 100×120 cm., 2013

Levità e ironia si esprimono, nell’opera di Riccardo Gusmaroli, tramite la capacità di trasformare la realtà ordinaria in un’esperienza straordinaria. È un modo di osservare il mondo, di ripensarlo, per aprire la mente a nuove possibilità cognitive e a nuove categorie interpretative. Come quando l’artista, per esempio, osservando la geografia terrestre, trasforma la cartografia in un diagramma fantastico, percorso da sinuose spirali di barchette di carta (evidente riferimento ai giochi infantili) o altera la morfologia di una regione costellandone la superficie con centinaia di origami stelliformi. Gusmaroli riesce, attraverso lievi scarti formali, piccoli e, apparentemente insignificanti, interventi, a mutare il senso ultimo delle immagini e degli oggetti, ricorrendo a un materiale semplice e fragile, come la carta.

1-Mimmo Iacopino, Misure a colori n-1. 3, frammenti di metri per sarti e strisce di velluto e raso su tela, 30x30 cm. 2014

Mimmo Iacopino, Misure a colori n-1. 3, frammenti di metri per sarti e strisce di velluto e raso su tela, 30×30 cm. 2014

Anche Mimmo Iacopino lavora sul significato degli oggetti, sostituendo la loro naturale destinazione d’uso con una più alta e nobile funzione estetica. La sua attenzione si fissa soprattutto sulle qualità specifiche di alcuni materiali, come strisce di velluto e raso, metri sartoriali, trecce di fili da cucire, che annoda e compone con un paziente lavoro di tessitura, impuntura e rammendo, fino a ottenere degli arazzi, dei paramenti (si direbbe) su cui la luce danza, modulando effetti cangianti e producendo mutevoli iridescenze. Se Iacopino fosse un pittore, sarebbe di quelli che amano la matematica e la geometria. Invece è, con buona pace di Marcel Duchamp, un’artista, insieme retinico e concettuale, che sa tradurre l’algida eleganza dei numeri, delle unità di misura, delle scale musicali in suadenti partiture di pattern e texture.

4-Kazumasa Mizokami, Calendario – Primo di Marzo” 2013 , 24x18x03cm Terracotta dipinta

Kazumasa Mizokami, Calendario – Primo di Marzo , terracotta dipinta, 24x18x03 cm, 2013

Nei lavori di Kazumasa Mizokami, il numero, la quantità, la moltiplicazione adottano forme geminanti e fiorescenti. Le sue sculture di terracotta sono come giardini fioriti di un calendario senza fine, dove le stagioni si alternano seguendo i bioritmi non della natura, ma dell’immaginazione. Anche in Kazumasa c’è un’evidente tendenza al pattern, alla reiterazione di forme, ma la sua è, come direbbe Gilles Deleuze, una ripetizione differente, non geometrica, ma, piuttosto, spontanea, intuitiva, che lo porta a creare un almanacco lirico, uno scadenziario fantastico, dove ogni fioritura stagionale corrisponde a uno stato d’animo. Accanto al tocco lieve, poetico, dei suoi giardini, Kazumasa alligna anche opere di filosofico spessore. Il pensiero, luogo topico della speculazione, ma anche dell’immaginazione, è ossessivamente incarnato in figure umane, placidamente sospese in un’assorta contemplazione.

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Vanni Cuoghi, L’ombra della sera, acrilico e olio su tela, 45×45 cm, 2014

Con gli occhi chiusi, quasi a escludere la visione delle brutture del mondo, per aprirsi, invece, all’osservazione dei fatti interiori, alle infinite metamorfosi immaginifiche della coscienza, i personaggi inventati da Vanni Cuoghi sono protagonisti di storie assurde e paradossali, dominate da un sottile senso di straniamento e da una sorta d’ilare crudeltà. Cuoghi valorizza le anomalie e le idiosincrasie dell’umanità, cercando spunti tra le pieghe del senso comune, interrogandosi sui significati del frasario quotidiano, che egli sovverte e capovolge allo scopo di produrre sorprendenti narrazioni oniriche. È un artista intelligente, un pittore accorto, capace di dare corpo alla dimensione surreale senza mai cedere il controllo alle potenze caotiche dell’inconscio, ma, anzi, imbrigliando le forme, con un’acribia tecnica che gli permette di creare metafore, insieme chiare e profonde, in cui l’imperitura eleganza delle antiche miniature si sposa con la squisita semplicità delle immagini pop.

4-Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24x30 cm-1-2011

Enzo Forese, Senza titolo, olio su tela, 24×30 cm, 2011

Nelle opere di Enzo Forese la levità è raggiunta attraverso l’elaborazione della tradizione plurisecolare del paesaggio e della natura morta, cui l’artista si approccia con umiltà, ma anche con impeccabile intento semplificatorio. Compito che gli permette di sintetizzare il multiforme e variegato mondo naturale in piccoli dipinti che hanno l’eleganza e l’efficacia espressiva di un haiku giapponese. Forese dipinge paesaggi edenici, benedetti da una sempiterna primavera, luoghi interiori, di placido splendore, dove talvolta si attardano languide bagnanti, incarnazioni di una bellezza muliebre che mai sfiorisce nel tempio immacolato dei ricordi. Anche i vasi di fiori, modulati nelle mille sfumature che l’immaginazione sa concepire, diventano, così, gli archetipi di una bellezza imperitura, che Forese strappa alla brama vorace del tempo, pur nell’amara consapevolezza che si tratta di una finzione superflua e consolatoria.

3-Riccardo Gusmaroli, 1141, Lombardia piegata, 148x156 cm., 2010

Riccardo Gusmaroli, 1141, cartina della Lombardia piegata, 148×156 cm., 2010

Cuoghi, Forese, Gusmaroli, Iacopino e Kazumasa prolungano una stagione all’insegna della levità, inaugurata in Italia negli anni Novanta, prima con le esperienze concettuali di Stefano Arienti, Massimo Kaufmann, Marco Cingolani e Mario Della Vedova, i quali riscoprivano il valore dell’intelligenza e della speculazione nell’arte, e poi con le vicende di Portofranco, capitanate dal gallerista Franco Toselli, le quali riaffermavano il valore dello humor e della poesia, attraverso meccanismi di détournement e straniamento visivo. D’altra parte, il vero senso della pratica situazionista del détournement, fu proprio quello di allenare il soggetto ad aprire la propria mente verso nuovi, stranianti aspetti della realtà, favorendo inedite esperienze sensoriali ed estetiche. Una cosa che questi cinque artisti hanno dimostrato di saper fare.


[1] Italo Calvino, Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio, 1988, Garzanti Libri, Milano, p. 5.