di Ivan Quaroni
Fuoco prometeico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 97×90 cm
Wilhelm Worringer pensava che all’origine dell’impulso creativo ci fosse “il bisogno di creare – di fronte allo sconvolgente e inquietante mutare dei fenomeni del mondo esterno – dei punti di quiete, delle occasioni di riposo, delle necessità nella cui contemplazione potesse sostare lo spirito esausto dell’arbitrarietà delle percezioni”[1]. Così, lo studioso tedesco pensava che, proprio perché svincolata da ogni legame col mondo esterno, l’astrazione geometrica offrisse a tale impulso una prima soddisfazione, anzi una forma di felicità. Eppure, “a causa della profondissima, intima connessione tra tutte le cose della vita, la forma geometrica costituisce anche la legge morfologica della materia cristallina inorganica”[2]. In altre parole, la forma geometrica rappresenterebbe sia una via di fuga dall’incessante metamorfosi delle forme, sia l’intima struttura di rocce, minerali, gemme e cristalli. Essa sarebbe, allo stesso tempo, fuori e dentro la materia.
Spazio cosmico, 2022, encausto cera e pigmenti su tela di cotone, 84×113 cm
L’interesse di De Fazio per le forme inorganiche dei minerali e per le strutture (organiche e inorganiche) di cristalli e rocce si è poi precisata ulteriormente a partire dagli anni Novanta, attraverso il passaggio a una pittura che azzerava ogni spunto iconografico per virare verso una grammatica astratta, o meglio, apparentemente aniconica. Iniziavano, così, a emergere proprio in quegli anni gli elementi caratterizzanti di un linguaggio che ruotava attorno al rapporto tra il colore, la luce e geometria. Si registrava, insomma, nella sua pittura un piacere per i pattern e le trame ricorsive prodotte dalle forze geofisiche sulla terra e, in particolare, sugli oggetti studiati nelle discipline della petrologia, mineralogia e gemmologia.
Anche Henri Focillon ha affrontato il tema del rapporto tra opera d’arte e fissità, tra creazione e quiete, avvertendoci, però, che tutte le forme plastiche “Sono soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente, ed al principio degli stili, che, con una progressione ineguale, tende successivamente a saggiare, a fissare e a disciogliere i loro rapporti”[3]. In sostanza, per il grande storico dell’arte francese l’opera d’arte è immobile solo in apparenza, anzi essa “esprime un desiderio di fissità, è un arresto; ma alla maniera di un momento nel passato. In realtà l’opera nasce da un mutamento e ne prepara un altro”[4]. L’aspirazione alla fissità cristallina nell’arte s’incontra ben prima dell’affermazione dei linguaggi aniconici del Novecento. Nel Rinascimento italiano una tendenza mineralizzante si ravvede nel modo in cui Carlo Crivelli dipinge gli altari marmorei o tramuta i frutti in incorruttibili pietre dure (Immacolata Concezione, 1492, National Gallery, Londra); nella passione di Andrea Mantegna per la geologia (Madonna delle Cave, 1488-90. Galleria degli Uffizi, Firenze); nelle spigolose forme di Cosmè Tura (Calliope, 1460, National Gallery, Londra), di cui il Longhi rilevava la “natura stalagmitica; un’umanità di smalto e di avorio, con giunture di cristallo…”[5]. Questi, però, sono solo alcuni dei molteplici esempi. Lo sa bene Giuseppe De Fazio, artista che, a partire dalla fine degli anni Settanta, reinterpreta alcune iconografie di opere rinascimentali. All’inizio, come notava Valerio Terraroli, le scelte artistiche di De Fazio “si orientano verso il recupero del valore tattile della pittura e un costante impegno, talvolta capzioso, nell’elaborazione tecnica delle forme e dei colori, al fine di restituire una realtà vissuta e interpretata attraverso sedimentazioni di archetipi e qualità pittoriche di ascendenza classica”[6]. L’artista traeva, infatti, spunto da opere di Mantegna, Leonardo, Michelangelo, Giorgione, Tiziano e Caravaggio – ma anche di Matisse, Bonnard e Van De Velde -, i cui soggetti modificava in configurazioni spigolose e volumetrie che evocavano la consistenza dei cristalli.
Meduse Fusione mineralica, 2020, encausto cera e pigmenti su juta, 134×134 cm
A distanza di oltre trent’anni, ritroviamo quello stesso piacere nella recente produzione dell’artista, abbinato a un inesausto anelito sperimentale che si esprime soprattutto nella scultura, dove composti industriali come il siporex – un calcestruzzo costituito di cemento e sabbia silicea -, il polistirene o la resina cementizia, sono associati a materiali più nobili come il metallo in foglie o addirittura la madreperla. Nella pittura, invece, Giuseppe De Fazio preferisce combinare tecniche tradizionali come l’encausto e l’olio, che gli permettono di enfatizzare la componente luministica delle sue composizioni, immagini che indagano la materia inorganica con straordinaria fedeltà. Sono dipinti, scrive, infatti, Marcello Séstito, che “farebbero la gioia di musei naturalistici o geologici”[7], proprio perché scandagliano, come se si trattasse di un ingrandimento al microscopio, la struttura geometrica di quarzi (Ametista, 2015), detriti spaziali (Meteorite, 2007) o minerali (Fluorite, 2015). Il risultato della sua ricerca compone un vasto archivio di forme, luci e colori che fanno della sua pittura (ma anche della sua scultura) una sorta di prismatico regesto di geometrie sotterranee. L’artista le chiama “estrazioni dalla madre terra”, sorta di carotaggi che catturano il flusso energetico di un sottosuolo in continuo movimento e trasformazione. Infatti, più che il bisogno di staticità e quiete cui accennava Worringer, nella pittura di Giuseppe De Fazio emerge piuttosto la natura magmatica e dunque mobile delle forze che agitano il mondo geologico. L’artista non solo “tenta di pietrificare e mineralizzare attraverso la pittura che ha un supporto bidimensionale”, come sostiene Séstito, “ciò che per sua natura è tridimensionale”[8], come rocce, pietre e gemme, ma riserva lo stesso trattamento anche a oggetti del regno animale e vegetale – come nel caso di Meduse “Fusione mineralica” (2022), Olive (2021) e Melograna (2022) –, a fondali marini e fiotti di magma lavico – Sommersione (2023) e Fuoco prometeico (2023) – e perfino a iperoggetti di sovrumana estensione come lo Spazio cosmico (2022). Insomma, De Fazio cristallizza qualsiasi soggetto, mineralizza tutto, fabbricando, così, un alfabeto che definire aniconico sarebbe azzardato. È vero, infatti, che nei suoi dipinti le uniche figure che si scorgono sono quelle geometriche, forse il riflesso platonico di un antico ideale di perfezione archetipica, ma è altrettanto vero che tali geometrie sono desunte dall’osservazione di strutture reali e configurazioni concrete dell’organico e dell’inorganico. Semmai, c’è nel lavoro di De Fazio un procedimento astrattivo (oltre che estrattivo), nel senso che l’artista astrae – [dal latino abstrahĕre, composto da abs «via da» e trahĕre «trarre»] -, cioè distoglie l’attenzione dalla realtà circostante, per concentrarsi su ciò che è invisibile ai più, cioè la dimensione geologica dell’esistenza. Una dimensione che esubera di molto la nostra capacità di comprensione. De Fazio rende, quindi, visibile ciò che possiamo a malapena immaginare, cioè il tumulto interiore della materia, la tettonica molecolare che fonde e plasma e vetrifica le sostanze terrestri fino a renderle fulgide e iridescenti.
Pirite, Polistirene, resina cementizia, stucco e metallo in foglie
Tuttavia, mentre nella pittura il suo sguardo, come quello di Focillon, coglie le forme “soggette al principio delle metamorfosi, che le rinnova perpetuamente”, nella scultura, come voleva Worringer, riesce a soddisfare quel “bisogno di creare […] dei punti di quiete, delle occasioni di riposo” in cui contemplare ciò che ai nostri sensi appare inalterabile, come la purezza strutturale di una roccia sedimentaria (Alabastro fiorito 1 e Alabastro fiorito 2, 2023) o l’aliena corazza geometrica di un solfuro di ferro (Pirite, 2022). E così, si può dire che l’artista riesca a far convergere nelle sue memorie dal sottosuolo – le plastiche e le pittoriche – due concezioni contrapposte dell’arte: la visione statica, cristallina, di origine platonica e quella dinamica, mobile, più affine allo spirito avanguardistico del Novecento. Il tutto in un’epoca in cui le barriere stilistiche sono crollate e ogni contrapposizione ideologica (perfino quella tra figurazione e astrazione) risulterebbe nient’altro che il segno di un’ingenuità culturale.
Sommersione, 2023, olio su cotone, 140×205 cm
L’arte di Giuseppe De Fazio è un’arte in cui i confini tra le forme reali e le loro interpretazioni sono sfumati e incerti, dove la precisione realistica delle geometrie cristalline e minerali convive con l’arbitrarietà delle loro estensioni a ogni aspetto del mondo naturale. Un’arte così non può che essere considerata una forma di “astrazione ambigua”[9] o di “pittura ibrida”[10], che si sottrae a ogni rigida classificazione per abbracciare il mistero indistinto della creazione.
[1] Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, 2008, Einaudi, Torino, p. 37.
[2] Ibidem.
[3] Henri Focillon, Vita delle forme seguito da Elogio della mano, 2002, Einaudi, Torino, p. 10.
[4] Ibidem.
[5] Roberto Longhi, Officina ferrarese, 1980, Sansoni, Firenze, p. 24.
[6] Valerio Terraroli, Giuseppe De Fazio, catalogo della omonima mostra itinerante, San Zenone all’Arco, Brescia; Sala San Rocco, Este (PD); Biblioteca Comunale, Tropea (VV), 1989, Litografia G.A.M., Roma.
[7] Marcello Sèstito, Giuseppe De Fazio. Grumi contratti di senso, 2017, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (CZ), p. 18.
[8] Marcello Sèstito, Op. cit., p. 9.
[9] La definizione “Ambiguous Abstraction” si trova in Tony Godfrey, Pittura Oggi, 2010, Phaidon Press, Londra.
[10] La definizione “Hybrid painting” si trova in Bob Nickas, Painting Abstraction: New Elements in Abstract Painting, 2014, Phaidon Press, Londra.