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Giuseppe Veneziano. Operette immorali

22 Giu

di Ivan Quaroni

“I moralisti sono persone che rinunciano ad ogni piacere
eccetto quello di immischiarsi nei piaceri altrui.”
(H. G. Wells)

Il sospetto che l’arte e la morale abbiano ben poco da dirsi, come credeva l’autore di Arancia MeccanicaAnthony Burgess, viene a chiunque abbia studiato un po’ di storia dell’arte, ma si fa ancor più fondato se si getta uno sguardo al panorama delle ricerche contemporanee.

Il problema deriva forse da una cattiva interpretazione del ruolo che l’arte dovrebbe ricoprire in seno alla società. Molti credono che essa abbia la responsabilità di trasmettere messaggi etici. Purtroppo, costoro ignorano il semplice fatto che l’etica e la morale sono concetti variabili nel tempo e nello spazio e, talora, confondono il contenuto iconografico di un’opera con il suo (eventuale, ma niente affatto scontato) significato.

La questione è annosa, anzi plurisecolare, se già San Paolo nell’epistola a Tito affermava che “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza”.

Proprio il celebre motto dell’apostolo – Omnia munda mundis– è all’origine del detto “la malizia è negli occhi di chi guarda”, che rimetterebbe la disputa sulla presunta moralità di un’immagine nelle mani di chi la interpreta, piuttosto che in quelle di chi la crea.

Gli scandali che certe opere d’arte hanno destato nel corso dei secoli, dal Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti alla Morte della Verginedi Caravaggio, da L’origine du mondedi Gustave Courbet a Le Déjeuner sur l’herbedi Édouard Manet, tanto per citarne alcune, sono stati il termometro non della tempra morale di una società ma, piuttosto, del suo moralismo, cioè della deteriore tendenza a giudicare secondo i principi, spesso astratti e preconcetti, di una presunta morale comune.

Di contro, il compito dell’artista consiste nell’assumere una posizione dubitativa nei confronti della morale corrente, di cui dovrebbe evidenziare antinomie e contraddizioni. Ad esempio, il dipinto La Madonna del Terzo Reichdi Giuseppe Veneziano, da molti ritenuto scandaloso o addirittura sacrilego, è un esempio di come un’immagine, intenzionalmente ambigua, sia capace di suscitare interpretazioni incongruenti e discrepanti. Infatti, “Per quanto Hitler sia la rappresentazione più eclatante del male”, afferma l’artista, “è pur sempre, secondo la dottrina cristiana, un figlio di Dio.”[1]Questo genere di ambiguità semantica, peraltro riscontrabile in molti altri lavori di Veneziano, richiama il monito paolino dell’Omia munda mundis– o meglio dell’Omnia immunda immundis– cioè il caso in cui, per usare le parole dell’artista, “l’opera riflette il pensiero di chi la osserva.”[2]

Il titolo Operette immorali, che capovolge quello di una celebre raccolta di componimenti in prosa di Giacomo Leopardi, prende le mosse dalla volontà di creare questo genere di cortocircuito interpretativo, peraltro ricorrente nella ricerca artistica di Giuseppe Veneziano.

Attraverso la tecnica del mash-up– la stessa usata da molti dee-jay per unire, grazie a giradischi e campionatori, diversi brani in un’unica canzone – l’artista miscela elementi iconografici contrastanti, ottenendo immagini capaci di creare inedite e sorprendenti associazioni visive.

Un caso tipico è rappresentato dall’abbinamento di personaggi reali e fantastici, che induce l’osservatore a riflettere sull’ormai labile confine che separa la realtà dalla finzione.

Un altro, è quello di ricontestualizzare celebri icone dell’arte oppure del cinema, della cronaca o della politica per formulare immagini ambigue e dissacranti, spesso venate d’ironia.

I meccanismi compositivi che guidano la ricerca di Veneziano sono molteplici, come variegate sono le sue fonti d’ispirazione. L’artista saccheggia tutta la tradizione della pittura occidentale, dal Rinascimento fino al Novecento, perché in essa riconosce il codice genetico ineludibile di un certo modo di concepire l’arte, non ancora corrotto dai concettualismi di maniera.

La citazione continua di Raffaello, Michelangelo e Leonardo, oltre ad essere un tributo affettuoso dell’artista verso gli amati maestri, ha il senso di una presa di posizione politica, direi quasi ideologica, nei confronti della vocazione effimera ed esiziale di tanta arte contemporanea. Sulla conoscenza solida e puntuale della storia dell’arte, Veneziano costruisce, però, un linguaggio completamente immerso nel presente, una grammatica filtrata dalla lezione della Pop Art, ma soprattutto profondamente contagiata dall’immaginario mediatico e dall’odierna cultura di massa.

I personaggi che popolano le opere dell’artista sono sempre immediatamente riconoscibili. Caratteri disneyani come Topolino e Pippo o eroine manga come Candy Candy e Lady Oscar, uomini politici come Putin e Berlusconi o icone dell’arte come la Gioconda e le numerose madonne raffaellesche, formano un alfabeto d’immagini elementari e condivisibili, godibili anche da un pubblico generalista. Il forte anelito comunicativo di Veneziano, derivante da un’idea democratica e inclusiva dell’arte, si combina, tuttavia, con il gusto per la citazione, talvolta anche preziosa. Sotto il velame pop, infatti, si nasconde un artista colto, un’intellettuale capace di adattare la lezione formale dei classici alle necessità espressive del nostro tempo e di calibrare il messaggio visivo su una variegata gamma di registri. Veneziano si rivolge tanto al pubblico generalista quanto alla ristretta accolita dei connoisseure degli amatori d’arte, modulando l’iconografia dei propri dipinti in modo da “colpire” differenti target.

Da vero artista, egli sa che l’interpretazione di un’immagine deve includere sia il livello letterale, che quello iconografico e simbolico. Così mentre una parte del pubblico si concentra sulla lettura epidermica dell’opera, riconoscendo magari il meccanismo ironico di decontestualizzazione dell’immagine, un’altra può cogliere la fitta rete di riferimenti che spesso sorreggono l’impalcatura iconografica dei suoi dipinti.

Nell’apparente innocenza di Candy’s Crush, ad esempio, si possono riconoscere la struttura compositiva e l’afflato sottilmente erotico de La Gimblettedi Jean Honoré Fragonard, mentre La Madonna di Instagram, di cui è protagonista una virginale Chiara Ferragni, ricalca La Madonna Colonnadi Raffaello conservata alla Gemäldegalerie di Berlino.

Sul celebre ritratto di Napoleone di Jacques-Louis David è, invece, modellato il dipinto Ras-Putin, che ironizza sulle ambizioni imperialiste del presidente della Federazione Russa mostrandolo nei panni di un novello Bonaparte in atto di mostrare il dito allo spettatore. Più prosaico, ma non meno importante, è il riferimento iconografico di Quasi amici, ripreso dal disegno della copertina de Il libro rosso del Maledi Andrea Pazienza, fumettista che ha profondamente influenzato l’arte di Giuseppe Veneziano.

La complessa trama di citazioni e indizi che innervano l’immaginario di Veneziano, rintracciabile anche nei titoli di molti suoi lavori, è però bilanciata dall’uso di un linguaggio insieme semplice e raffinato. Veneziano non usa le velature e lo sfumato, ma modella le figure attraverso l’accostamento di diverse gradazioni cromatiche. Il suo processo di sintesi non giunge fino agli estremi esiti di una pittura puramente segnaletica – quale quella, ad esempio, di Julian Opie -, ma si ferma sulla soglia della riconoscibilità mimetica. Vale a dire che l’identificabilità dei suoi personaggi sussiste nonostante l’impiego di una grammatica evidentemente non realistica, tutta giocata sulla giustapposizione di colori piatti e tinte ricorrenti che contribuiscono a creare l’originale e inconfondibile temperatura cromatica dei suoi quadri.

Troppo raramente la critica specializzata ha posto l’accento sull’aspetto formale e stilistico del lavoro di Veneziano, preferendo concentrarsi sull’abilità combinatoria del suo mash-upe sui suoi evidenti legami con la Pop Art, quando invece l’elemento distintivo della sua opera consiste precisamente nell’aver saputo elaborare un lessico originale. Basterebbe esaminare la pletora di artisti contemporanei che saccheggiano il medesimo immaginario mediatico di Veneziano per accorgersi che quest’ultimo non si è limitato a usare un campionario di figure riconoscibili, come quelle dei supereroi o dei personaggi dei cartoni animati, ma ha sottoposto tale campionario al vaglio di una sensibilità pittorica che andata via via raffinandosi nel tempo in uno stile caratterizzato da una pulizia e una leggibilità uniche.

Le Operette immoralidi Veneziano ci restituiscono tutto il sapore di questo stile conciso e allo stesso tempo ricco d’invenzioni iconografiche, su cui, in questo caso specifico, domina il tema erotico, cartina di tornasole del moralismo di una società.

La disamina dell’artista spazia dal commento satirico di Non sono un santo, dove l’aureola di Silvio Berlusconi è contrassegnata da una sequenza di posizioni del Kamasutra, al remix in salsa fetishdella Monnalisa di B.D.S.M., dal sensuale candore manga di Candy’s Crushe Hot Rose, alle smaccate allusioni sessuali di In bocca al lupoe Only a Friend Can Betray You.

Ogni dipinto è inserito in una cornice d’epoca pensata per valorizzare l’immagine pittorica e insieme per richiamare i valori formali del barocco, compiuta espressione di quel gusto borghese che è anche l’oggetto degli strali dell’artista. Niente, infatti, è meglio di una capricciosa cornice rococò per inquadrare i deliqui erotici di Cappuccetto rosso o di Minnie, varianti fantastiche e attualizzate delle spudorate fanciulle di Boucher e Fragonard. D’altra parte, il rovescio della medaglia dell’illuminismo borghese di Voltaire e Diderot, è la sfrenata immaginazione erotica del Marchese De Sade.

Con un occhio agli Old Masterse uno all’attualità, Veneziano disseziona in immagini il prontuario libidico dell’uomo ai tempi di You Porn e ci mostra come persino in un’epoca come questa, caratterizzata da un’estrema rilassatezza di costumi, l’indignazione morale continui a essere, come la definiva H. G. Wells, la forma più diffusa di “invidia con l’aureola”.


Note
[1]Giuseppe Veneziano, Dichiarazioni dell’artista, in Giuseppe Veneziano, Mash-Up, 2018, Skira, Milano, p. 187.
[2]Ivi.


Info:

Giuseppe Veneziano. Operette immorali
a cura di Ivan Quaroni
Futura Art Gallery
Via Garibaldi, 10 – Pietrasanta
7 luglio 2018 – 10 agosto 2018
Orario:tutti i giorni 18.30 – 00.30

Contatti:

info@galleriafutura.com
tel. +39.338.3362.101
http://www.galleriafutura.com

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Ryan Heshka. Una Storia fantastica del Canada

14 Mar

di Ivan Quaroni

Si sa, la vita e l’arte sono strettamente legate, perfino quando quest’ultima sembra solo il parto di una fantasia scatenata. Prendete il caso dell’artista canadese Ryan Heshka: quarantaquattro anni, con una laurea in Interior Design e un passato di animatore e d’illustratore per famose riviste come Vanity Fair, Wall Street Journal, New York Times, Forbes, Playboy ed Esquire. Citato nei principali annuali d’illustrazione americani, e con all’attivo la pubblicazione di ben tre libri per bambini tradotti in diverse lingue, Ryan Heshka, ancor prima di darsi anima e corpo all’arte, aveva già sviluppato la sua personalissima visione fantastica, influenzata da fumettisti come Jack Kirby e Basil Wolverton, dai film di fantascienza, dalle riviste pulp e, insomma, da tutto l’immaginario della cultura pop che un giovane nordamericano può assorbire.

Ryan Heshka, Canadian Home Movies, 2015, acrylic and mixed on illustration board, 10x7 cm

Ryan Heshka, Canadian Home Movies, 2015, acrylic and mixed on illustration board, 10×7 cm

Uno potrebbe pensare che la vita, quella vera, non c’entri nulla con le pin up, i supereroi, robot giganti, i mostri e gli scenari di cartapesta da vecchio b-movie. Invece non è così. Se siete stati bambini negli anni Settanta in un paese come il Canada, famigerato per i suoi lunghi e freddisimi inverni, sapete che significa ciondolare per ore in casa e cercare di combattere la noia inventandosi qualche passatempo.

Ryan Heshka, Wood Gang of Lake Winnipegosis, 2015, gouache and mixed on vinatge paper, 24x18 cm

Ryan Heshka, Wood Gang of Lake Winnipegosis, 2015, gouache and mixed on vinatge paper, 24×18 cm

L’arte di Ryan Heshka nasce così, durante quell’infanzia dilatata e ovattata, nel tepore dell’ambiente domestico, mentre passa il tempo a giocare, leggere fumetti, guardare film di fantascienza, coltivando, giorno dopo giorno, la propria immaginazione. Fin qui niente di strano. Tutti i bambini canadesi, in un modo o nell’altro hanno un’infanzia simile. Ma Ryan Heshka ha qualcosa in più, è un bambino creativo che disegna moltissimo e gira filmini amatoriali in stop motion con la sua cinepresa Super 8. Immaginate poi, che influenza abbia esercitato su di lui il fatto di crescere in una nazione caratterizzata da una natura selvaggia, piena di monti, fiumi, laghi e boschi, popolata da animali come l’alce, la lince, il caribou, l’orso polare, il grizzly e il castoro e perfino creature fantastiche come il Sasquatch o Bigfoot, il mitico ominide peloso da grandi piedi. Un bambino, e per giunta con un’innegabile vocazione artistica, non può che rimanere segnato indelebilmente da questo genere di esperienze.

Ryan Heshka, Fulvia and Ulva, 2015, oil and mixed on wood panel, 45x35 cm

Ryan Heshka, Fulvia and Ulva, 2015, oil and mixed on wood panel, 45×35 cm

In ogni caso, Ryan Heska è cresciuto e, con una buona dose di senso pratico, ha indirizzato la sua creatività verso applicazioni più commerciali. Ha studiato e lavorato per un po’ nel campo dell’Interior Design e poi in quello dell’animazione, ma certi ricordi sono duri a morire, le impressioni ricevute nei primi anni di vita ti restano incollate addosso. E poi, si sa, più cresci e più certe memorie diventano vivide. Così, nel 2000, Ryan è tornato alla sua vecchia passione. I più pragmatici direbbero che è passato al “lato oscuro della forza” e che trasformando l’arte nella sua attività principale, ha fatto un salto nel buio. Ma per me questo è il tipico comportamento di uno Jedi: rischiare tutto per dedicarsi anima e corpo a qualcosa che corrisponde di più all’idea che avevi di te stesso da bambino.

Romance of Canada, titolo della seconda mostra personale alla galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea, è un ritorno alle origini e, insieme, un tributo alla nazione dei Grandi Laghi, vista attraverso lo sguardo deformato dell’infanzia. Heshka prende spunto dai luoghi comuni e dagli stereotipi canadesi per costruire un’immagine inedita del suo paese, una nuova identità sospesa tra presente e futuro anteriore, tra finzione e realtà. Messi da parte, almeno per il momento, mostri e robot di latta, l’artista si concentra sulla definizione di un racconto, se possibile, ancor più sognante e rarefatto. Non mancano le atmosfere surreali, a tratti perfino noir, caratteristiche del suo lavoro, come pure i riferimenti agli stilemi grafici del fumetto e dell’illustrazione della Golden Age, ma si avverte ora un’impronta più personale e autobiografica.

Romance of Canada segna il passaggio a una pittura più dettagliata, in cui la tipica palette cromatica dell’artista – fatta di gialli squillanti, rosa pallidi, rossi accesi e intense gradazioni di blu – si salda all’introduzione di nuovi temi iconografici. La mostra, composta di una trentina di opere tra gouache su carta e dipinti a olio e tecnica mista su tavola, è concepita come una rappresentazione romanzata e immaginifica della nazione nordamericana. Ogni dipinto include, infatti, un riferimento a una città, a un luogo specifico, oppure ad aspetti ben noti della storia e del costume del paese, come riti, usanze, festività, filtrate attraverso uno sguardo in cui dominano le figure retoriche della metafora e dell’allegoria. Nel costruire il suo Canada immaginario, all’incrocio tra storia, folclore e fantascienza, Ryan Heshka non risparmia qualche stoccata ai cliché domestici della Maple Leaf (la foglia d’acero).

Ryan Heshka, Canadian Military, 2015, gouache, collage and mixed media on vintage paper, 57x77 cm

Ryan Heshka, Canadian Military, 2015, gouache, collage and mixed media on vintage paper, 57×77 cm

Canadian Military, ad esempio, ironizza sulla proverbiale struttura gerarchica delle forze armate, ipotizzando un esercito che sembra uscito dalle pagine di Weird Tales, la popolare rivista a fumetti di Sci-fi degli anni Cinquanta. Dentro c’è di tutto: un robot con tre gambe, una donna con due teste, un corpo di fucilieri con le ciaspole ai piedi, due spadaccini in buffi costumi carnevaleschi, un cecchino in tacchi a spillo, una sexy telegrafista, una cinepresa e un bersaglio umani, una rana kamikaze, un’aragosta portabandiera, un castoro infermiere e un bambino vestito da razzo. Insomma, è la milizia più stravagante e scalcagnata che si possa immaginare, ordinatamente allineata a formare una specie di abete natalizio, sormontato da un cartiglio con un grido di battaglia quantomeno comico: “I’m sorry”.

Forse non tutti sanno che “I’m sorry” è una frase ricorrente nel lessico inglese della Terra dei Grandi Laghi, celebre per le sue innumerevoli varianti di significato. Si dice, infatti, che mentre gli inglesi non usano quasi mai questa espressione, i canadesi ne abusano. Heshka ne ha fatto il motto nazionale del suo Canada privato. I’m Sorry. National Flag è, infatti, uno stendardo d’ordinanza che, però, somiglia alla tavola di un bestiario medievale, con gli animali simmetricamente disposti in campo nero come nella migliore tradizione araldica.

Ryan Heshka, Hockey Widow, 2015, oil and mixed media on board, 33x28 cm

Ryan Heshka, Hockey Widow, 2015, oil and mixed media on board, 33×28 cm

Stereotipi, cliché e riferimenti al Canada attuale serpeggiano in tutti i dipinti dell’artista. Uno è quello delle vedove dell’hockey, cioè le mogli dei giocatori professionisti dello sport nazionale canadese, che durante i Play Off sono costrette a vivere in una condizione di solitudine quasi vedovile. Con il suo consueto humor a tinte fosche, Heshka immagina una di queste donne davanti alla salma ibernata del marito, inumato con la divisa e la mazza della sua squadra.

Ryan Heshka, Winter Festival, 2015, oil and mixed, 32x26 cm

Ryan Heshka, Winter Festival, 2015, oil and mixed, 32×26 cm

Winter Festival contiene invece una velata allusione alle manifestazioni e alle sagre che caratterizzano il Canada nel periodo invernale, come ad esempio quella che ogni anno anima le Cascate del Niagara con fuochi d’artificio e spettacoli pirotecnici. Ma il dipinto Winter Fall, con la misteriosa e malinconica ragazza seduta su un blocco di ghiaccio, contiene anche un succinto campionario della fauna nazionale, con alcuni esemplari che ritroviamo anche in Red Beaver Bandit, Blue Birds e Mith of the Blue Caribou.

Ryan Heshka, Myth of the Blue Caribou, 2015, acrylic and mixed on illustration board, 14x19 cm

Ryan Heshka, Myth of the Blue Caribou, 2015, acrylic and mixed on illustration board, 14×19 cm

Altro protagonista indiscusso delle opere di Heshka è il paesaggio, per lo più innevato o ghiacciato, come in Canada in Colour o caratterizzato da una minacciosa flora mutante, come in Ravages of Pine Disease e The Floral Entity. Gli scenari più inquietanti e spettacolari sono, però, quelli di Romance of Canada e Masters of the Man-Dogs.

Ryan Heshka, Ravages of Pine Disease, 2015, oil and mixed on paper, 40x28 cm

Ryan Heshka, Ravages of Pine Disease, 2015, oil and mixed on paper, 40×28 cm

La prima opera è una piccola tecnica mista su tavola, che illustra un episodio degno di Fortitude, il fortunato show televisivo della BBC ambientato nel circolo polare artico. Mentre l’altra è una scena corale di sottomissione che non ha nulla da invidiare alle crudeli fantasie di Henry Darger[1]. E, in effetti, The Realms of the Unreal, in riferimento all’ipertrofica narrazione illustrata dell’artista outsider di Chicago, sarebbe un sottotitolo perfetto per la serie di Romance of Canada. Anche perché oltre che irreale e fantastico, il Canada di Heshka, come quello vero, è pur sempre un regno, una monarchia, anche se parlamentare, con due inni nazionali, uno dei quali è il celeberrimo (e britannico) “God Save the Queen”.

Politica a parte, il Canada di Heshka sembra il sogno scaturito da un’immaginazione irrefrenabile, un’utopia capovolta a metà tra Tim Burton e Wes Anderson, popolata da creature selvagge e aberrazioni genetiche, alieni e supereroi e, soprattutto, da un campionario di pin up, vamp, femme fatale e cover girl che farebbero invidia perfino a Mel Ramos.

Ryan Heshka, Masters of the Man-Dogs, 2015, acrylic and mixed media on wood, 55x69 cm

Ryan Heshka, Masters of the Man-Dogs, 2015, acrylic and mixed media on wood, 55×69 cm

Insomma, questo Canada è come un vecchio film perduto della RKO che avresti sempre voluto vedere, come l’ultima puntata di una serie che ti ha tenuto avvinto per mesi davanti al teleschermo, come il libro d’illustrazioni fuori stampa che una volta possedevi e che rimpiangi d’aver perso, come il cartone animato definitivo che bisognerebbe inventare, qualcosa che hai appena intravisto con la coda dell’occhio e di cui non puoi già più fare a meno.

A dirla tutta, mentre aspetto di guardare i quadri di Heshka dal vivo, mi sento come uno che non abbia mai visto la prima puntata di Twin Peaks…

Note

[1] Henry Darger (Chicago, 1892 – 1973) è un artista autodidatta americano, che soffriva della Sindrome di Tourette, considerato uno dei massimi esponenti della outsider art. La sua opera più famosa è un manoscritto fantastico di oltre 15000 pagine intitolato The story of the Vivian girls, in What is known as the Realms of the Unreal, of the Glandeco-Angelinnian War Storm, Caused by the Child Slave Rebellion. Conosciuta semplicemente come The Realms of the Unreal, questa gigantesca opera è costellata di centinaia di collage e aquarello che illustrano le vicende delle Vivian Girls, bambine ermafrodite impegnate in una sanguinosa guerra con i generali Glandeliniani.

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RYAN HESHKA – ROMANCE OF CANADA
a cura di Ivan Quaroni
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milano
La mostra inaugura giovedì 26 marzo alle ore 18.30
E resterà aperta fino al 16 maggio 2015
Da martedì a venerdì, dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00 – sabato dalle 15.00 alle 19.00

K.K. Kustom Kulture. Una mostra rock

29 Nov

Ecco la mia recensione della mostra curata da Luca Beatrice alla galleria Antonio Colombo Artecontemporanea di Milano.

Solo su AD Today:  http://adtoday.it/una-mostra-rock/

Qui sotto il comunicato:

Kustom Kulture

Anthony Ausgang – Damian Fulton – David Perry – Sara Ray – The Pizz – Keith Weesner

+ Special guests: Stevie Gee e Wes Freed

a cura di Anthony Ausgang

da un’idea di Antonio Colombo e con il contributo critico di Luca Beatrice

dal 20/11/14

Anthony Ausgang, Saved by Stupidity, 2014, acrylic on canvas, 76,2x101,6 cm

Anthony Ausgang, Saved by Stupidity, 2014, acrylic on canvas, 76,2×101,6 cm

Il termine Kustom Kulture, molto diffuso nella cultura americana, comincia a riscuotere grande interesse anche qui da noi in diversi linguaggi visivi contemporanei. L’espressione deriva dall’underground usa e si sviluppa a partire dagli anni ’50 ma trova negli ultimi decenni una crescita più articolata e complessa.

Custom (la lettera K è usata in nome di una licenza poetica) si riferisce al consumatore, ovvero colui che non si limita a utilizzare un oggetto così come viene prodotto ma vuole personalizzarlo con interventi minimi oppure stravolgerlo fino a renderlo irriconoscibile. In termini filosofici si può dire che è l’esatto contrario del mercato di massa e dell’omologazione: non più tutti uguali in nome di una moda o una tendenza, ma tutti diversi, unici, irripetibili, in nome invece di un irresistibile voler essere al di sopra delle mode.

Damian Fulton, Prodigal Daughter, 2013, oil on canvas, 61x91 cm

Damian Fulton, Prodigal Daughter, 2013, oil on canvas, 61×91 cm

Kustom Kulture si applica dunque alle motociclette –oggi le Special risultano molto più attraenti dei modelli di serie- alle automobili –con il fenomeno delle Hot Rod (letteralmente bielle roventi, vetture spesso storiche, notevolmente modificate e truccate nel motore e nella carrozzeria con le tipiche decorazioni flaming)- ma anche alle arti visive, in particolare alla pittura, e al design.

Sarà per la sua inesausta ricerca in questo campo –le sue biciclette sono quanto di più vicino alla cultura del do it yourself– da un po’ di tempo Antonio Colombo ha messo il naso sul fenomeno americano ripromettendosi di portare in Italia un assaggio di questa meravigliosa tendenza. Dice di aver voluto “mettere le mani nel mito americano e sporcarmele. That’s why. Io che guido male brutte automobili, non mi ubriaco mai, non ho tatuaggi e non so suonare nemmeno il mandolino, non la Stratocaster”. Capita così che “un bel giorno, ossessionato dalle immagini da una vita, ho voluto capire di più un mondo affascinante, eccessivo, volgare e mitico che risponde al nome di Hot Rod e Kustom Kulture. Il sogno americano che tutti o quasi sognano, vento tra capelli lunghi, velocità, musica ZZ Top e un po’ di Eagles, grafiche che forse riuscivo a fare anch’io sui banchi del Liceo Ginnasio statale Giosuè Carducci”.

Sara Ray, Black Tar Day, 2014, oil on canvas, 76x61 cm

Sara Ray, Black Tar Day, 2014, oil on canvas, 76×61 cm

Ecco come è nata l’idea di chiedere ad Anthony Ausgang, che aveva esposto qualche stagione fa in una personale da me curata, di raccogliere una serie di protagonisti storici e non di questo straordinario mondo. Autoincludendosi ovviamente nella scelta. Insieme, noi tre, abbiamo condiviso discussioni, fascino e grandi sogni. Per una volta il mio ruolo abituale di curatore passa in secondo piano per svolgere, volentieri, quello di raccordo tra Milano e l’America. Passo la parola ad Ausgang che ci racconta chi sono alcuni tra i protagonisti della Kustom Kulture a stelle e strisce. Per un pubblico di fans, addicted, appassionati e curiosi. (Luca Beatrice)

Anthony Ausgang (Nato nel 1959 a Trinidad e Tobago. Vive e lavora a Los Angeles).

Nato nel 1959 a Trinidad e Tobago, losangelino di residenza, Ausgang ha già esposto da Antonio Colombo nel 2011. Per questa mostra dal titolo KK Kustome Kulture, ha scelto di proporre le opere di alcuni degli artisti più significativi della scena hot rod. Così racconta il suo lavoro, con lucidità e consapevolezza: “il mio obiettivo è quello di modificare la definizione di arte figurativa utilizzando i caratteri antropomorfi dei cartoni animati per spiegare la condizione umana in un contesto non umano. La non umanità dei cartoni animati è una presunta innocenza, soprattutto è materiale per bambini e adulti regressivi. Ma sotto la superficie del mio mondo abitato da gatti si nascondono alcune verità scomode sul mondo delle persone: enigmi sessuali, perplessità religiose, l’uso di droga e la noia, tutti concetti esplorati nei miei dipinti. Il mio programma di grafica, psichedelico e colorato, mi sta portando verso un’astrazione della rappresentazione di questi animali dei cartoni. Anche se i miei quadri iniziano come disegni su carta, il computer è diventato una parte importante dello sviluppo grafico delle mie idee. Una volta che i disegni vengono trasformati su monitor e sono soddisfatto di ciò che ho ottenuto, mi metto davanti alla tela con i tradizionali pennelli e dipingo. Ho più a cuore il contenuto di distributore di gomme da masticare (gumball machine) che di ciò che succede all’interno del museo di arte contemporanea. Il mio infatti è un pubblico che non richiede una formazione artistica ma solo la consapevolezza di quanto sia assurdo essere vivo”.

Anthony Ausgang, Help in on the way, 2014, acrylic on canvas, 106,7x71,1 cm

Anthony Ausgang, Help in on the way, 2014, acrylic on canvas, 106,7×71,1 cm

Damian Fulton (vive e lavora a Los Angeles).

Inseguimenti in auto, ragazze con le pistole e nostalgia noir animano un racconto visivo che si legge come un Exploitation Movie. Damian è stato sempre affascinato dalla cultura balneare di Los Angeles, la vicinanza a una delle più congestionate città del mondo, affacciata sulla costa del Pacifico, fornisce il materiale fertile per affrontare, con la sua cifra stilistica dark, il sogno della California. L’amore per la moto, l’auto, la West Coast, i cartoni animati classici e i mostri si completa in una visione pop-surrealista del tutto personale e originale. Precedentemente all’attività di artista, Fulton ha collaborato con realtà aziendali come Disneyland, Marvel Productions e vari marchi lifestyle.

 

Damian Fulton, Adam's Rib Damian, 2014, oil on canvas, 36x46 inch

Damian Fulton, Adam’s Rib Damian, 2014, oil on canvas, 36×46 inch

David Perry (Nato nel 1959 a Denver, Colorado. Vive e lavora in California).

Dai negozi di East Bakersfield alle dragstrips della California e Utah, David Perry cattura attraverso le sue fotografie la passione americana per la velocità, le emozioni e le auto. Greasers, gearheads, drag strip beatniks, rockabilly queens, hopped-up machines sono i personaggi presenti nelle sue suggestive immagini dal gusto vintage. Ha un vero e proprio culto per le macchine condiviso con Hipster tatuati, barba e pizzetto a cui si uniscono i piloti dei Bonneville Salt Flats e il letto prosciugato del lago di El Mirage. Con le sue fotografie Perry mostra l’anima di un’ossessione sempre più crescente.

David Perry, 666 Steamliner - Bonneville Salt Flats, Utah toned silver gelatin print, 28x35,5 cm

David Perry, 666 Steamliner – Bonneville Salt Flats, Utah toned silver gelatin print, 28×35,5 cm

Sara Ray (Nata a Hermosa Beach, California. Vive e lavora a Los Angeles).

Sara è nata e cresciuta sulle spiagge nel sud della California, proprio nel bel mezzo di tutto ciò che è la Kustom Kulture. Le Hot Rod di George Barris erano parcheggiate nel garage della famiglia di Sara, accanto a pile di tavole da surf. Il nonno, Hap Jacobs, è uno dei più famosi shapers di tavole da surf nel mondo. La sua infanzia è stata accompagnata da motori, falò sulla spiaggia e turisti di Hollywood; tutti soggetti inseriti come immagini nelle sue tele. Le opere di Sara sono una miscela inebriante di piloti soprannaturali che viaggiano per le strade di notte, fanciulle tatuate e colorate; le sue opere mostrano l’amore per la città in cui vive e la passione per il metallo vintage che fa da sottofondo. I suoi lavori sono pubblicati in numerose riviste e libri: Easyriders, Guitar Player, Juxtapoz, Iron Horse. Sara Ray customizza anche chitarre Fender, Gretsch e Jackson. Realizza anche pitture ad hoc su serbatoi di motocicli per clienti privati. Vive in una casa a Los Angeles e spesso la si vede alla guida della sua 53 Buick, lungo le strade della città tra un negozio di fumetti e un altro.

Sara Ray, Black Tar Day, 2014, oil on canvas, 76x61 cm

Sara Ray, Black Tar Day, 2014, oil on canvas, 76×61 cm

The Pizz (vive e lavora a Los Angeles).

L’automobile, più che un semplice mezzo di trasporto, così come viene reinventata nel sud della California rappresenta un’espressione di stile, l’autonomia e un modo di essere. L’auto realizzata su misura, costruita a mano, ridisegnata con un’idea precisa in mente è il trofeo di caccia dell’uomo moderno; è l’esposizione del suo prestigio e del su potere, simboleggio ciò che è e come si muove nel mondo. Un messaggio trasmesso sia quando l’auto è lanciata a gran velocità che quando è parcheggiata in strada. I dipinti di Pizz rappresentano proprio questo mondo, questo regno dell’automobile customizzata, evocativo di un’attitudine e di un ambiente. Ogni immagine raffigura una determinata ora del giorno, un luogo e una specifica atmosfera; una vibrazione cromatica ottenuta con una gamma di colori saturi e ricchi di tinte. Ogni opera è un equilibrio triangolare tra sesso, morte e qualcosa di sconosciuto. La narrazione è lasciata aperta all’interpretazione da parte dello spettatore, la trama lascia più un punto interrogativo che una conclusione.

 

Pizz, Famoso Raceway, 2014, acrylic on canvas, 56x86 cm

Pizz, Famoso Raceway, 2014, acrylic on canvas, 56×86 cm

Keith Weesner (vive e lavora a Oaks, California).

Keith Weesner è un pittore i cui dipinti sono espressione della cultura dell’automobile, visione molto diffusa nel Sud della California, dove è stato cresciuto da suo padre, artista, pinstriper e appassionato di road/custom hot. Le sue passioni si sono rafforzate durante il periodo di formazione presso l’Art Center College of Design di Pasadena, dove ha studiato design automobilistico. Ha poi lavorato come disegnatore di fondali per la Warner Bros e per 13 anni in diversi studi, tra cui la Disney. Dal 2004 approda al mondo ufficiale dell’arte come artista, esponendo in diverse gallerie americane. Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati in riviste automobilistiche e di tatuaggi. Weesner vive a Thousand Oaks in California, con la moglie e la figlia.

Keith Weesner, Glamour Jet, 2014, acrylic on wood, 23x30,5 cm

Keith Weesner, Glamour Jet, 2014, acrylic on wood, 23×30,5 cm

 

E poi due special guests, come si conviene in questo tipo di raduni, scelti da Antonio Colombo, non perfettamente Hot Rod ma con una forte personalità rock interverranno nel Little Circus e in galleria:

Wes Freed (nato nel 1964 a Shenandoah Valley – Virginia, vive e lavora a Richmond, Virginia) sue le mitiche copertine dei DBT (Drive by Truckers, gruppo southern country-rock alternativo), da tempo passione del gallerista, con spiccati accenti folk.

Stevie Gee (nato nel 1980 nell’Essex, GB, vive e lavora a Londra) illustratore, rock, surf, moto e bici. Visto e piaciuto da Deus Ex Machina (luogo di culto per gli amanti delle ruote a motore) a Venice Beach e a Bali da Antonio Colombo. Collabora con Paul Smith, Nike, Beams Japan, Death Spray Custom, Penguin books e Deus Ex Machina.

 

Zio Ziegler. L’enfant prodige della street art californiana

2 Mag

 

di Ivan Quaroni

 

Zio Ziegler, The Venus of Milan, wall painting, Milano

Zio Ziegler, The Venus of Milan, wall painting, Milano

 

Vederlo dipingere un muro con le bombolette spray è come assistere a una fulminea epifania. Parte da un punto qualsiasi della superficie e riempie con le sue intricate figure tutto lo spazio disponibile, senza seguire un progetto o uno schizzo preparatorio. Zio Ziegler, classe 1988, è il nuovo enfant prodige della street art californiana, capace di eseguire graffiti di grandi dimensioni in tempi da record, come ha fatto in tutta l’area della Baia di San Francisco, dal Mission District a Sycamore street, fino al quartier generale di Facebook a Menlo Park, ma anche a Los Angeles, Puerto Rico, Cuba, New York e Tokyo. A Milano, in una manciata di giorni, è riuscito a realizzare tre grandi murali: uno alla sede della Cinelli, storico marchio di biciclette; uno, lungo ben cinque metri, nel passante ferroviario di Repubblica (una gigantesca Venere tribale); l’ultimo in galleria, a introdurre i lavori della sua prima mostra personale europea. Già, perché Zio Ziegler non è solo un graffitista, ma anche un artista tout court, di quelli che passano intere giornate a dipingere meditando sulle sorti magnifiche e progressive della pittura.

Zio Ziegler, CENA Cypriani ZZ, 2014, mixed media on panel, 61x45,7 cm

Zio Ziegler, CENA Cypriani ZZ, 2014, mixed media on panel, 61×45,7 cm

Il suo studio di Mill Valley, situato in una villa in cima a una collina nei dintorni di Sausalito, è una specie di Buen Retiro dove passa intere giornate a lavorare senza sosta, lontano dalle distrazioni della città. Lui si definisce un orso, ma gira il mondo come un grafomane globetrotter, sempre pronto a marcare il territorio con le sue immaginifiche visioni, un suggestivo mix di arte tribale e avanguardia cubista, stile pop e primitivismo, prepotentemente dominati dall’horror vacui. I suoi wall painting, eseguiti rigorosamente in bianco e nero, rappresentano bizzarre figure ispirate alla mitologia e alla natura, creature ibride disegnate con un tratto incisivo, quasi brutale, ma modellate tramite un’intricata giustapposizione di motivi grafici e ornamentali.

Zio Ziegler, Wall Painting, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano

Zio Ziegler, Wall Painting, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano

L’uso dei pattern è, infatti, un elemento tipico del suo stile pittorico, teso a creare un effetto di straniamento nell’osservatore e un conseguente slittamento dell’attenzione dalla realtà esteriore a quella interiore. Anche se, proprio il gigantismo e l’impatto ottico sono i punti di forza dei suoi graffiti, popolati da impressionanti animali totemici e ieratiche veneri zoomorfe, in cui sembrano convivere i feticci apotropaici delle società primitive e le muse inquiete dell’immaginario simbolista. Il suo scopo è, infatti, rompere il muro d’indifferenza dei passanti e distoglierne i pensieri dalle preoccupazioni quotidiane, riportandoli alla bellezza del presente. Come succede, ad esempio, con l’oblungo murale intitolato The Venus of Milan, che campeggia nel cuore della metropolitana meneghina, come una sorta di selvaggio carpe diem suburbano.

Zio Ziegler, Untitled, 2014, mixed media on canvas, 152x91 cm

Zio Ziegler, Untitled, 2014, mixed media on canvas, 152×91 cm

Quella di Ziegler è una ricerca gioiosa e vitale, ma anche molto concreta. Lui la definisce “un’arte fisica per un mondo digitale”, anche se, paradossalmente, i suoi lavori hanno conquistato i tycoon della Silicon Valley, personaggi come Sean Parker, fondatore di Napster e primo presidente di Facebook, che gli ha commissionato il murale per la sede di Menlo Park, oppure Shervin Pishevar, direttore di Sherpa Ventures, che da lui si è fatto dipingere la sua lussuosa McLaren. Quello che attrae delle opere di Ziegler è l’incontenibile energia, una specie di furia atletica e agonistica, che esplode in mille colori nei dipinti su tela e nei disegni, simili a grandi patchwork postmoderni, in cui confluiscono tutte le sue passioni artistiche e letterarie.

Zio Ziegler, The Chains of Not Choosing, 2014, mixed media on canvas, 152,4x213,4 cm

Zio Ziegler, The Chains of Not Choosing, 2014, mixed media on canvas, 152,4×213,4 cm

Le sue fonti d’ispirazione sono, infatti, variegate ed eclettiche quanto il suo stile e spaziano dal teatro all’arte, passando per il fumetto, l’illustrazione e la cultura folk. Legge David Foster Wallace, Somerset Maugham e Dostoevskij come i fumetti di Robert Crumb e studia l’arte di Rousseau, Picasso e Leger allo stesso modo di quella dei contemporanei Cy Twombly e Thomas Houseago. Insomma, è informato, veloce, onnivoro e, per di più, maledettamente giovane. Tutte qualità che si traducono in uno spregiudicato uso della pittura, in barba alle tradizioni e alle gerarchie stilistiche che invece appesantiscono i suoi colleghi europei. Per Ziegler, che ha studiato filosofia alla Brown University e poi pittura alla Rhode Island School of Design, l’arte non è una faccenda per pochi eletti, ma un linguaggio universale, fruibile da tutti. Forse per questo in passato ha applicato il suo stile su qualunque tipo di oggetto e superficie, dalle carrozzerie di auto di lusso alle rape per skateboard, alle scarpe da ginnastica. Convinto che l’arte debba essere accessibile a persone appartenenti a tutti i ceti sociali, ha fondato Arte Sempre ™, una società con sede in un’ex-serra di Mill Valley, ribattezzata The Greenhouse, che si occupa di commercializzare immagini originali dei suoi lavori, stampati su capi d’abbigliamento, cappelli, felpe e t-shirt.

Zio Ziegler, Abstracted Sensation, 2014, mixed media on canvas, 101,6x76,2 cm

Zio Ziegler, Abstracted Sensation, 2014, mixed media on canvas, 101,6×76,2 cm

Ora, però, giura di aver accantonato i side-project per dedicarsi esclusivamente alla pittura. I nuovi dipinti mostrano, infatti, una maggiore concentrazione e complessità. Prolifico e velocissimo quando si tratta di eseguire wall painting, Ziegler rivela un carattere più meditativo quando dipinge su tela. Per lui la pratica della pittura è una forma d’indagine personale e, insieme, una disciplina spirituale che si esprime nella forma di un percorso erratico nei meandri dell’inconscio individuale e collettivo. La tensione tra natura e artificio, tra istinto e civiltà, è uno dei suoi temi prediletti. Le sue opere non alludono mai a significati precisi, ma sono piuttosto traduzioni visive di suggestioni e stati d’animo spesso derivati dall’osservazione della realtà.

Et in Arte Ego, progetto realizzato appositamente per la galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea, prende spunto dal motto Et in Arcadia Ego, che appare nei titoli di alcuni dipinti di Nicolas Poussin. La frase, idealmente pronunciata dalla Morte sopra un’iscrizione tombale significa “E anche io (sono) in Arcadia”. È un Memento Mori, un ammonimento sul carattere effimero del piacere, che Ziegler trasforma in una nuova sentenza sul ruolo dell’ego nell’arte. Et In Arte Ego è una riflessione sulla morte creativa, ossia su quel coacervo di dubbi e contraddizioni che spesso impediscono agli artisti di realizzare opere oneste, che non obbediscono al gusto e alle mode del tempo. Secondo Ziegler, “i più grandi dipinti non sono stati realizzati sotto la pressione dello zeitgeist, ma provengono dal vuoto della mente”, cioè da una dimensione creativa che trascende le limitazioni dell’ego. Forse è per questo, che la sua opera appare così eclettica e multiforme, quasi fosse il prodotto di una moltitudine di stili e linguaggi diversi, di una memoria collettiva che l’artista recupera e adatta alle esigenze di un Mondo Liquido – come ama definirlo Zygmunt Bauman – sempre più soggetto a processi di smaterializzazione.

Zio Ziegler, Et in Arcadia Ego, 2014, mixed media on canvas, 182,9x243,8 cm

Zio Ziegler, Et in Arcadia Ego, 2014, mixed media on canvas, 182,9×243,8 cm

Nell’arte di Zio Ziegler convivono, infatti, diverse anime. Se in opere come Figure without Expectations, Her Mystery, The Spring Time e Fate’s Intuition prevale un gusto arcaico memore della lezione del Modernismo europeo, in lavori come Et in Arcadia Ego, The Chains of Not Choosing e Portrait of Her si avvertono addirittura echi d’arte bizantina e preziosismi di marca Seccessionista viennese.

Come un surfista del web, abituato a saccheggiare l’immenso serbatoio iconografico di Google, il giovane artista californiano percorre in lungo e in largo tutta la Storia dell’arte in cerca d’ispirazione. Non è un caso che la sua tendenza ad accostare immagini diverse, richiami proprio la logica del cut & paste digitale, tanto evidente nei dipinti Pattern and Movement, When no Man is King Every Men is King, Wood Zigzag Black with Yellow e Portrait Consumed by Pattern. In fin dei conti, malgrado la sua avversione per le mode e la sua sincera ammirazione per i grandi maestri del passato, Ziegler è, più che mai, figlio del suo tempo. Uno dei pochi ad aver capito che combinare il presente col passato è l’unico modo di approdare a un’arte veramente autentica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Clayton Brothers. From the Cadavre Exquis to Expanded Painting

19 Nov

by Ivan Quaroni

At the start there is always a game, a complicit sharing of rules that lead to a special relationship whose result is always greater than the sum of the parts. The Surrealists adopted a particular one, that of the excellent cadavers, a/k/a cadavres exquis, a creative pastime played with words or images. It works like this: one person creates the first image and passes it to the next participant, but hiding one part of it. The next makes additions, again partially concealing the results, and passes the image on to the next player. A group can play, but also just two people. At the end of the game, an unexpected, surprising image appears, the result of a process of creation and interpretation, which amplifies the contribution of the individuals, incorporating them in a collective graphic plot. It sounds interesting, but we are prone to wondering what is the purpose of such a game. For the Surrealists, with their focus on Freudian psychoanalytical research, the idea was to visually demonstrate the importance of the unconscious imaginary and the automatic processes of human thought. But there is more. Much more prosaically, the game of the cadavre exquis is – like all games – an experience of sharing applied to the field of creativity. Its legacy has been picked up by many conceptual art duos, like Gilbert & George, Ilya and Emilia Kabakov, Christo and Jeanne-Claude, Marina Abramovic and Ulay, Jake & Dinos Chapman, but much less often by duos of painters. The Claytons, then, represent a rarity on the contemporary art scene. Not just because they are two painters, but also because unlike the above-mentioned artistic couples, they are brothers who have demonstrated their ability to extend their natural link of shared parentage in the creative sphere as well.

For Rob and Christian – born respectively in Dayton, Ohio in 1963 and Denver, Colorado in 1967, both with degrees from the Art Center College of Design of Pasadena (California) – collaboration is something more than just a process. It is more like the result of a creative symbiosis that consists in constructing intuitive narratives, often without a pre-set plot. The Clayton Bros paint at the same time, in fact, taking turns intervening on the works through a method that leaves plenty of room for improvisation and the imagination of both.

The process of the making of our works is never the same,” the Claytons say, “because we let our characters construct themselves day by day, exactly as happens in relationships that are built over time.” In their works they transfer individual experiences into the collective and global dimension, thus offering a faithful image of contemporary society. “We see these images as a reflection of ourselves,” Rob and Chris explain, “but also of our neighbors, our friends and families; in short, they are a reflection of the world around us.

Cheapjack

Cheapjack

Curiously enough, the Claytons represent a missing link between the Surrealist experiments of the 20th century and the fresh, immediate approach of Pop Surrealism, one of the most interesting American movements to emerge in the delicate passage between the old and the new millennium. A movement, to be honest, that is so large, varied and in continuous evolution as to even become contradictory, in which Rob and Chris have found themselves immersed, almost against their will. The two do not like definitions, in fact, and they hate being boxed into a specific stylistic or disciplinary niche, even if it is that of Pop Surrealism, to which they owe some portion of their success.

Instead, were we to set out to map their artistic influences, we would have to operate at a hypothetical crossroads between Post-Expressionism, Folk Art and Pop Art, with input ranging from the left wing of the Neue Sachlichkeit (Otto Dix in primis) to the plastic experimentation of Ed Kienholz, passing through the simultaneous, multicentric visions of Robert Williams, the true founding father of the Pop Surrealist galaxy. Yet defining the pictorial style of the Clayton Bros in these terms would be a reductive operation, because it would not sufficiently underline the most original aspect of their research, which lies instead in the ability to integrate the experiences of everyday life, the true motor of their process of sharing, into art.

Quack,-Cackle, Squawk

Quack,-Cackle, Squawk

Of course, Rob and Christian are the first to admit the importance, for their visual culture, of punk rock, surf and skate culture, street art, tattoos and illustration, but this could be said more or less for all the artists of the Lowbrow area. The most original feature of their work, instead, is the ability to transfer into the language of art the impressions of day-to-day existence. The starting point for a work can be a word, a phrase, a circumstance or an impression gleaned during a trip abroad or a walk in their neighborhood. Life, with its infinite facets, is a much more powerful immersive reality, for them, than any environment of graphic or digital simulation. This is why the Claytons have invented such an exuberant, overwhelming chromatic and narrative language. In practice, they try to surpass or at least equal the complexity of human experience, with a kind of painting capable of stimulating the observer to reconsider doubts, to reformulate the questions to which every human being must respond.

We can safely say that the art of the Clayton Brothers – which they define with the term “Abstract Narrative” – represents a reformulation of the existentialist positions of Post-Expressionism, bent on wedding the individual and authorial viewpoint with the universal, polycentric viewpoint of collective experience. Like Robert Williams, the Claytons also raise the issue of the representation of reality as a synthesis of a multiplicity of experiences and interpretations, but they do it “intuitively,” so to speak, i.e. without calling into play subatomic physics, Einstein’s Theory of Relativity or Heisenberg’s Uncertainty Principle.

With respect to the revered founder of Lowbrow Art, the Claytons have a less theoretical, more practical approach. In the end, their very modus operandi, which consists in a progressive layering of pictorial levels, made of continuous revisions, changes of perspective and overlapping of styles, represents an empirical demonstration of that multiplicity of gazes mentioned above. Furthermore, the importance the Claytons attribute to the role of the observer demonstrates that their work is truly the offspring of its time. A time in which author and viewer increasingly interact through forms of digital co-creation, such as forums and social networks. So the work of the Clayton Brothers calls for “participation” not just because the two authors make it in the form of a “duet,” but also because they see its viewing as a sort of final “fulfillment” and “completion.”

It is no coincidence that the latest set of works, titled “I’m OK,” focuses on analysis of the work-viewer relationship. “With this new body of works,” they say, “we want to present a vast group of fragmented images, simultaneously abstract and narrative.” Their objective is to trigger reflection in the viewer on the meaning of a rather common question – “How are you?” – to which we usually respond with an automatic “I’m OK”, shifting the observer’s focus from external to internal images. The paintings, drawings and sculptures of the Claytons set out to stimulate this mechanism of identification because it represents a preliminary condition for the formulation of possible responses.If it is true that contemporary art – as we often hear it said – raises questions without offering solutions, the act of observing becomes a cognitive process in which the observer is stimulated to find his or her own answers. In fact, Rob and Chris warn us that no one certain method exists to decipher their works, no one interpretation, because each observer is expected to reconstruct a meaning, starting with their own emotional state.

I’m OK” presents an array of characters and situations that offer not only a myriad of narrative impulses, but also countless optical, retinal suggestions. They are images of pure energy, where the impressions of everyday life explode in a dizzying vortex of bright and psychedelic colors, where the space seems to splay open in all directions, breaking the rules of perspective and solid geometry, even fragmenting the psychological dimension of the individual, through the repetition of hypertrophic physiognomies with wild expressions.

Time to Come Clean

Time to Come Clean

Like the painters of the Neue Leipziger Schule, from Tilo Baumgärtel to Matthias Weischer, David Schnell to Christoph Ruckhäberle, the Clayton Brothers are the standard bearers of a neurotic, disjointed art that sacrifices the formal values of balance and harmony to become the eyewitness of a socially fragmented, culturally polycentric epoch. This is why they make use of an “expanded painting” far from traditional canons, open to contaminations with photography, sculpture and installation. Good examples include works like Over the Moon, Pull and Pick and Wallop and Clobber, where the painting flirts with the plastic dimension of the object and the fetish, or like Can you Spare a Duck? and I Understand, which constitute an interesting mixture of sculpture and photography, and finally paintings like Greeter Hello, Greeter Goodbye and Orange Crutch, which extend the boundaries of the painting with long vertical offshoots.

Over the Moon

Over the Moon

The quality not found in many recent entries to the Pop Surrealist sphere, but which is clearly visible in the research of Rob and Chris, is a vivid interest in formal and linguistic issues, leading to experimentation with new solutions in a multidisciplinary outlook, making them an exception in a movement that seems to be increasingly losing its grip on its own cultural specificity, retreating into the solutions of a “school” it would be euphemistic to define as “academic.” Unlike many purveyors of fantastic and surreal imagery, the Claytons never lose touch with reality. Their art is firmly rooted in the present, springing from the apparently conventional folds of everyday life, and striving for the universal dimension of art thanks to the alchemical collaboration of two special individuals capable of shifting experiences lived in a familiar and relational microcosm into a wider context that coincides with a clear and at the same time dynamic fresco of contemporary America.

Clayton Brothers – I’m OK
curated by Ivan Quaroni
WHEN: 21 November 2013 -1st February 2014;
OPENING: 21 November 2013h. 18:30 – 21:30
WHERE: Antonio Colombo Arte Contemporanea, Via Solferino 44, 20121 Milan (Italy)
CONTACTS:
http://www.colomboarte.com; E-mail: info@colomboarte.com; Phone: +39 0229060171
 
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ITALIAN TEXT
 

Clayton Bros. Dai Cadavre exquis all’Expanded Painting.

di Ivan Quaroni

All’inizio c’è sempre un gioco, una complice condivisione di regole che conducono a una relazione speciale, il cui risultato è sempre superiore alla somma delle parti. I Surrealisti ne avevano adottato uno particolare, quello dei cadaveri eccellenti, detto anche cadavre exquis, un passatempo creativo che si può giocare con parole o immagini. Funziona così: uno crea la prima immagine e la passa al partecipante successivo, celandone, però, una parte. Quest’ultimo la arricchisce con nuove aggiunte, a sua volta celandola parzialmente, prima di passarla al giocatore seguente. Si può giocare in gruppo, ma bastano anche solo due persone.

Alla fine del gioco, si ottiene un’immagine inaspettata, sorprendente, frutto di un processo insieme creativo e interpretativo, che amplifica l’apporto dei singoli, inglobandoli in una trama grafica collettiva.Sembra interessante, ma viene da chiedersi quale sia lo scopo del gioco.Per i Surrealisti, interessati alle ricerche psicanalitiche freudiane, si trattava di dimostrare visivamente l’importanza dell’immaginario inconscio e dei processi automatici del pensiero umano. Ma c’è dell’altro. Molto più prosaicamente, il gioco del cadavre exquis è – come tutti i giochi – un’esperienza di condivisione applicata al campo della creatività.

Gleaming Crystal Gazer

Gleaming Crystal Gazer

La sua eredità è stata raccolta da molte coppie dell’arte concettuale, come Gilbert & George, Ylia ed Emilia Kabakov, Christo e Jeanne Claude, Marina Abramovic e Ulay, Jake & Dinos Chapman, ma assai più raramente da coppie di pittori. I Clayton, quindi, rappresentano una rarità nel panorama artistico contemporaneo. Non solo perché sono due pittori, ma anche perché, a differenza delle succitate coppie artistiche, sono fratelli, che hanno dimostrato di saper estendere il loro naturale legame di condivisione parentale anche all’ambito creativo.Per Rob e Christian – nati rispettivamente a Dayton, Ohio nel 1963 e a Denver, Colorado, nel 1967 -, entrambi laureatosi a pieni voti all’Art Center College of Design di Pasadena (California), collaborare è qualcosa di più di un semplice processo. È, piuttosto, il risultato di una simbiosi creativa, che consiste nel costruire narrazioni intuitive, spesso prive di un canovaccio precostituito. I Clayton Brothers dipingono, infatti, contemporaneamente, intervenendo a turno sulle opere attraverso un metodo che lascia ampio spazio all’improvvisazione e all’immaginazione di entrambi.“Il processo di realizzazione dei nostri lavori non è mai lo stesso”, affermano i Clayton, “perché permettiamo ai nostri personaggi di costruirsi giorno per giorno, esattamente come accade nelle relazioni che si costruiscono nel tempo”. Nelle loro opere, trasferiscono le esperienze individuali nella dimensione collettiva e globale, offrendo così un’immagine fedele della società contemporanea. “Vediamo queste immagini come un riflesso di noi stessi”, dicono Rob e Chris, “ma anche dei nostri vicini, dei nostri amici e delle nostre famiglie, insomma sono un riflesso del mondo intorno a noi”.

Hello Jack

Hello Jack

È curioso come i Clayton rappresentino un anello di congiunzione tra gli esperimenti Surrealisti del Novecento e l’approccio fresco e immediato del Pop Surrealismo, uno dei movimenti americani più interessanti emersi nel delicato passaggio tra il vecchio e il nuovo millennio. Un movimento, per la verità, talmente ampio, variegato e in continua evoluzione da essere perfino contraddittorio, in cui i due Rob e Cris si sono ritrovati immersi quasi loro malgrado. Rob e Christian, infatti, non amano le definizioni e detestano essere confinati in uno specifico recinto stilistico e disciplinare, sia pure quello del movimento pop surrealista, cui devono parte del loro successo. Piuttosto, se volessimo tentare una mappatura delle loro influenze artistiche, saremmo costretti a ubicarla in un ipotetico crocevia tra il Post-Espressionismo, l’arte Folk e la Pop Art, con influenze che spaziano dall’ala sinistra della Neue Sachlickeit (Otto Dix in primis) alle sperimentazioni plastiche di Ed Kienholz, passando per le visioni simultanee e multicentriche di Robert Williams, vero padre fondatore della galassia Pop Surrealista.

Pull and Pick

Pull and Pick

Eppure, definire lo stile pittorico dei Clayton Bros in questi termini sarebbe un’operazione riduttiva, perché non sottolineerebbe abbastanza l’aspetto più originale della loro ricerca, che risiede, invece, nella capacità di integrare nell’arte le esperienze della vita quotidiana, vero motore del loro processo di condivisione.Certo, Rob e Christian sono i primi ad ammettere quanta importanza hanno avuto su di loro le culture visive del punk rock, del surf, dello skate, della Street Art, del tatuaggio e dell’illustrazione, ma questo vale, più o meno, per tutti gli artisti di area Lowbrow. L’aspetto più originale del loro lavoro consiste, invece, nella capacità di trasferire nel linguaggio dell’arte le impressioni della vita di tutti i giorni. Il punto di partenza di una loro opera può essere una parola, una frase, una circostanza o un’impressione ricevuta durante un viaggio all’estero o una passeggiata nel loro quartiere. La vita con le sue infinite sfaccettature è per loro una realtà immersiva molto più potente di qualsiasi ambiente di simulazione grafica o digitale. Per questo i Clayton hanno inventato un linguaggio così esuberante e travolgente dal punto di vista cromatico e narrativo. In pratica, cercano di superare o almeno eguagliare la complessità dell’esperienza umana, con una pittura capace di stimolare l’osservatore a prendere in considerazione i dubbi e a riformulare quelle domande a cui ogni essere umano è chiamato a rispondere. Si può tranquillamente affermare che l’arte dei Clayton Bros – da loro definita col termine di “Abstract Narrative” – rappresenta una riformulazione delle istanze esistenzialiste del post-espressionismo, intesa a coniugare il punto di vista individuale e autoriale con quello universale e policentrico della collettività.

Your OK

Your OK

Come Robert Williams, anche i Clayton si pongono il problema della rappresentazione della realtà come sintesi di una pluralità di esperienze e interpretazioni, ma lo fanno, per così dire “intuitivamente”, cioè senza scomodare la fisica sub-atomica, la Teoria della Relatività di Einstein o il Principio di Indeterminazione di Heisenberg.Diversamente dal venerando fondatore della Lowbrow Art, i Clayton hanno un approccio meno teorico e più pratico. In fondo, il loro stesso modus operandi, che consiste in una progressiva stratificazione di livelli pittorici, fatta di continui ripensamenti, cambiamenti di prospettiva e sovrapposizioni di stili, rappresenta una dimostrazione empirica di quella pluralità di sguardi cui accennavo. Inoltre, il rilievo che i Clayton danno al ruolo dell’osservatore, dimostra come davvero la loro opera sia figlia del nostro tempo. Un tempo, appunto, in cui l’autore e il fruitore interagiscono sempre di più attraverso forme di co-creazione digitale come i forum e i social network. Quella dei Clayton Brothers è quindi un’opera “partecipata” non solo perché i due autori la eseguono “a quattro mani”, ma anche perché ne considerano la fruizione come una sorta di “compimento” e “completamento” finali.Non è un caso che l’ultima serie di opere, intitolata “I’m Ok”, sia tutta incentrata sull’analisi del rapporto tra opera e osservatore. “Con questo nuovo corpus di opere”, affermano, “vogliamo presentare un vasto gruppo d’immagini frammentate, insieme astratte e narrative”. Il loro scopo è innescare nello spettatore una riflessione sul significato di una domanda piuttosto comune, “How are you?” (Come stai?), cui, di solito, rispondiamo in modo automatico “I’m Ok” (Sto bene), così da spostare la sua attenzione dalle immagini esterne a quelle interne.

Waxing Crescent Mood

Waxing Crescent Mood

I dipinti, i disegni e le sculture dei Clayton intendono stimolare questo meccanismo identificativo perché esso rappresenta una condizione preliminare per l’elaborazione di eventuali risposte.Se è vero che – come spesso si sente dire – l’arte contemporanea pone questioni, senza offrire soluzioni, allora l’atto di osservare diventa un processo cognitivo in cui l’osservatore è stimolato a trovare le proprie risposte. Infatti, Rob e Chris ci avvertono che non esiste alcun metodo certo per decifrare i loro lavori, né un’unica interpretazione, poiché ogni osservatore è chiamato a ricostruire un significato a partire dal proprio stato emotivo.“I’m Ok” presenta una carrellata di personaggi e situazioni che offrono non solo una miriade di spunti narrativi, ma anche innumerevoli suggestioni ottiche, retiniche. Sono immagini di pura energia, dove le impressioni della vita quotidiana esplodono in un turbinoso vortice di colori brillanti e psichedelici e dove lo spazio sembra squadernarsi e divaricarsi in ogni direzione, infrangendo le regole della prospettiva e della geometria solida e frammentando perfino la dimensione psicologica dell’individuo, attraverso la reiterazione di fisionomie ipertrofiche dalle espressioni allucinate.

Come i pittori della Neue Leipziger Schule, da Tilo Baumgärtel a Matthias Weischer, da David Schnell a Christoph Ruckhäberle, i Clayton Brothers sono i portabandiera di un’arte nevrotica e disarticolata, che ha rinunciato ai valori formali dell’equilibrio e dell’armonia, per farsi testimone oculare di un’epoca socialmente frammentata e culturalmente policentrica. Per questo ricorrono a una “pittura espansa” (expanded painting), lontana dai canoni tradizionali e aperta alle contaminazioni con la fotografia, la scultura e l’installazione. Ne sono un esempio opere come Over the Moon, Pull and Pick e Wallop and Clobber, dove la pittura flirta con la dimensione plastica dell’oggetto e del feticcio, oppure lavori come Can you Spare a Duck? e I Understand, che costituiscono un interessante mix di scultura e fotografia e, infine, dipinti come Greeter Hello, Greeter Goodbay e Orange Crutch, che estendono i confini del quadro con lunghe propaggini verticali.

La qualità che non si trova in molti artisti Pop Surrealisti dell’ultima ora e che invece caratterizza la ricerca di Rob e Chris è lo spiccato interesse per la questione formale e linguistica, che li porta a sperimentare nuove soluzioni in un’ottica multidisciplinare e che fa di loro un’eccezione nell’ambito di un movimento che pare sempre di più smarrire la propria specificità culturale e appiattirsi su soluzioni di “scuola” che sarebbe un eufemismo definire “accademiche”. Al contrario di molti latori di un immaginario fantastico e surreale, i Clayton non perdono mai il contatto con la realtà. La loro, è un’arte saldamente radicata nel presente, che nasce tra le pieghe apparentemente convenzionali del quotidiano e assurge alla dimensione universale dell’arte grazie alla collaborazione alchemica di due individui speciali, capaci di traslare le esperienze vissute nel microcosmo familiare e relazionale in un contesto più ampio, che coincide con l’affresco, insieme nitido e dinamico, dell’America contemporanea.

Mending Cooing Clusters

Mending Cooing Clusters

Clayton Brothers – I’m OK

a cura di Ivan Quaroni
QUANDO: 21 Novembre 2013 – 1 Febbraio 2014

INAUGURAZIONE: 21 Novembre 2013; h. 18:30 – 21:30

DOVE: Antonio Colombo Arte Contemporanea, Via Solferino 44, 20121 Milan (Italy)
CONTATTI: www.colomboarte.com; E-mail: info@colomboarte.com; Phone: +39 0229060171

Il mondo urbano e stralunato di Jeremyville

15 Ott

 

Architetto di formazione e collezionista per passione, Jeremyville è un illustratore, designer, fumettista e pittore tra i più prolifici al mondo. La sua creatività nasce da una vera passione per il disegno, applicato ai più svariati ambiti, dalla produzione di giocattoli, adesivi e T-shirt alla realizzazione e customizzazione di tavole da skate e sneaker, dalla  creazione di animazioni per la TV fino alla divulgazione di illustrazioni e fumetti. Senza dimenticare la pubblicazione di libri come Vinyl will kill you, il primo a documentare la scena dei Designer Toy, e Jeremyville Sessions, sulle sue collaborazioni con grandi gruppi come Adidas, Lego, Converse, Sony, Diesel, MTV, ma anche con artisti come Gary Baseman, Miss Van, Friends with you, Geoff McFetridge, Tim Biskup e centinaia di altri. Jeremyville è il fautore di un’arte totale, non relegata solo al ristretto circuito delle gallerie, ma capace di invadere la vita quotidiana in ogni sua forma. Jeremyville , allo stesso tempo, un artista, un brand e un progetto inteso ad ampliare il raggio d’azione della creatività attraverso un processo di scambi e interazioni con diverse realtà artistiche e produttive.

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INTERVISTA

Jeremy, la prima cosa che m’interessa sapere è perché hai trasformato il tuo nome in un luogo? Che cos’è Jeremyville?

L’idea di Jeremyville è di creare un luogo online per coloro che riescono a capire il concetto totale. È un luogo non limitato ad una nazione, un luogo che chiunque può visitare per sperimentare una parte di Jeremyville. Siamo uno studio che si fonda sul progetto, scegliamo di esplorare qualsiasi media catturi il nostro interesse. Ogni progetto cui il nostro studio sceglie di partecipare deve entusiasmarci e rappresentare una sfida. E vogliamo che il nostro entusiasmo si trasmetta anche al nostro pubblico, per forzare sempre più i limiti di ciò che il pubblico si aspetta da noi. Alcuni approdano a Jeremyville per collaborare, artisti , o aziende che rispettiamo. Penso che Jeremyville sia un nuovo concetto iconoclastico di studio d’arte e design per il nuovo secolo. Diciamo no a molte offerte commerciali , accettiamo solo quelle che ci entusiasmano realmente, come la creazione di Toys per Kidrobot, il design di una calzatura per Converse, uno snowboard per Rossignol, un invito dalla galleria Area B, una linea di t-shirts per 2K a Los Angeles, una mostra collettiva da Colette a Parigi. O l’invito ad unirmi alla mostra collettiva Vader all’Andy Warhol Museum di Pittsburg.

I confini nazionali sono stati abbattuti da internet, il nuovo linguaggio mondiale è fatto di icone, immagini, simboli e segni grafici. Ma anche emozione ed intimità sono universali. È per questo che ho sviluppato le mie silenziose storie a fumetti, pensando che chiunque sulla terra possa capirne la trama, non solo coloro che conoscono l’inglese. I simboli dei fumetti raccontano una storia universale, con una conclusione tanto aperta da permettere ad altri di aggiungervi la propria interpretazione. Per me sono allo stesso tempo molto personali, ed ugualmente molto universali. Questo è il fine ultimo di ogni progetto di Jeremyville : connettersi con gli altri ad un livello molto personale, ma anche raggiungere il maggior numero di persone, universalmente. Unione, anima, ed un messaggio in ciò che facciamo,è tutto.

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Una parte molto importante della tua attività di artista e designer è dedicata alla collaborazione con grandi brand, ma anche con singoli artisti. Il tuo libro Jeremyville Sessions, pubblicato da IdN, ne è una importante testimonianza. Che differenza c’è tra la collaborazione con un’azienda e quella con un artista? Quale preferisci?

Lavoriamo solo con artisti ed aziende che ammiriamo e rispettiamo. A dire il vero molto spesso rifiutiamo gentilmente proposte da realtà che pensiamo siano troppo distanti dall’estetica di Jeremyville, ma ancora più spesso, le realtà che ci interessano davvero, arrivano a noi per ciò che offriamo, sta diventando quindi sempre più semplice capire quali sono le aziende con le quali vogliamo lavorare , che realmente capiscono ciò che facciamo. E quando l’intesa è quella giusta , è fantastico, ed è un processo molto semplice. Se invece manca, il processo può diventare molto difficile. Personalmente amo lavorare sia con gli artisti che con le aziende, ognuno ha i propri parametri. Abbiamo sviluppato il progetto “sketchel custom bag “    per creare una piattaforma che coinvolgesse molti artisti. Il nostro studio collabora anche con numerose realtà a diversi livelli, animazione, illustrazione, conferenze, progetti editoriali, design d’abbigliamento o di toys.

Il mio approccio generale, grazie ai miei studi di architettura , è quello di considerare la soluzione totale, infatti , quando progetto qualcosa, non considero solo l’idea, ma anche il modo in cui l’idea si potrà manifestare nella costruzione finale, e quali cambiamenti si debbano fare durante la strada. Durante il design dei toys, il concetto iniziale può cambiare molte volte per ragioni di produzione o limiti di budget. Oggi devi essere un designer flessibile per lavorare con aziende diverse in campi diversi, dall’abbigliamento ai toys ai libri. Ecco perché mi piace collaborare con grandi marchi come Converse dove la vera sfida è mantenere l’idea iniziale più a lungo possibile, continuando a lavorare entro vincoli produttivi. Trovo questo esercizio tanto affascinante quanto parte dell’arte, come l’arte stessa.

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Con la pubblicazione del libro Vinyl will kill you (a proposito a quando una nuova edizione? In Italia è introvabile) tu sei stato il primo a fare il punto sulla scena dei Designer Toys, contribuendo a far crescere l’interesse per questo fenomeno. Pensi che si possa parlare oggi di un vero e proprio movimento artistico legato alla produzione di Vinyl Toys?

Ho scritto e prodotto Vinyl Will Kill you nel 2004, con la Direzione Artistica di Megan Mair, ed è stato il primo libro al mondo sul movimento del toy design. Credo si sia cristallizzato in un movimento, è certamente un nuovo genere d’arte,  come il design di sneakers da parte degli artisti, e la sua valuta è simile a quella di un’edizione di stampe multiple in tiratura di 300 pezzi. Anche i prezzi di toys e stampe sono generalmente simili. Un’acquaforte firmata di Picasso è un’opera d’arte tanto quanto uno dei suoi dipinti , anche se molto più accessibile, ma sempre adatta ad un’asta. Questo principio generale si applica anche ai toys. Un toy firmato da uno dei tuoi artisti preferiti ha tanto valore quanto una sua stampa firmata, e merita di essere visto come una forma d’arte legittima, ed una parte dell’oeuvre dell’artista.

In tutto il mondo si stanno affermando forme d’arte dirette ad un pubblico più vasto di quello tradizionalmente interessato all’arte. Penso al Pop Surrealism americano, al Superflat giapponese, al Graffitismo e alla Street Art e, certo, anche al fenomeno dei Designer Toys. Non credi che sia in atto un salutare processo di democratizzazione dell’arte e che, contemporaneamente, nei circuiti tradizionali si stia radicalizzando l’idea di un’arte elitaria, diretta ad un pubblico ristretto e ad un collezionismo privilegiato?

Assolutamente si, e la tua citazione del Superflat è molto importante. L’anno scorso ero  alla mostra di Murakami  al MOCA di Los Angeles, ed è stato molto interessante vedere una quantità di suoi lavori “autorizzati” nelle loro nicchie illuminate , elevati quasi a degli assemblaggi di Damien Hirst , ai suoi “medicine cabinets”. I prodotti, le t-shirts di Murakami, le sue spillette, gli adesivi, i toys, erano elevati al livello di manufatti d’arte , balocchi rispetto alla sua produzione globale, ma comunque parte della totalità del suo lavoro, come il disegno per tessuti creato per LVMH. Tutti questi oggetti non erano venduti nello shop della galleria, ma facevano parte della mostra stessa, e  il tessuto di LVMH era incorniciato e venduto come opera d’arte.

É proprio questa democratizzazione dell’arte, quest’accessibilità al lavoro dell’artista per il grande pubblico, che ha sorpassato la tradizionale impostazione di galleria ed ha aperto la definizione di arte a nuove e maggiori possibilità. Duchamp lo ha fatto con i suoi readymades. Dalì lo ha fatto rendendo se stesso un’opera d’arte tanto quanto i suoi dipinti o le sue sculture. Warhol lo ha fatto con i suoi multipli , rimuovendo la mano dell’artista dall’opera d’arte. Murakami costruisce su questa tradizione. Fanno lo stesso KAWS, Sheperd Fairey, Bansky, Koons, Hirst. Questi artisti mi entusiasmano perché ognuno di loro è abbastanza coraggioso da sfidare la definizione di ciò che costituisce l’arte e di come viene rappresentata. Il recente superamento del contesto di galleria da parte di Hirst ed il suo approccio “direttamente all’asta” sono un interessante precedente.

Il mio obiettivo è di accorciare la distanza fra “prodotto” e “arte”, e di infondere in ogni oggetto che creo , sia esso un toy o un dipinto, lo stesso livello di pensiero ed attenzione al dettaglio ed al messaggio. Una t-shirt o un toy sono per me un “multiplo” come lo sono una stampa o un’acquaforte, ed altrettanto parte della produzione dell’artista quanto lo è un grande dipinto. È un momento entusiasmante della ridefinizione di cosa costituisce arte.

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Jeremyville è a tutti gli effetti un’azienda. Mi spieghi com’è strutturata?

Siamo uno studio di design operativo, abbiamo una divisione per i prodotti con agenti a Los Angeles , New York ed in Europa.  Portiamo inoltre avanti i nostri progetti , i dipinti, le animazioni, i toys, il progetto “sketchel custom bag”, le storie a fumetti, l’abbigliamento per il nostro store online, così come progetti commissionati direttamente dalle aziende . Partecipiamo solo ai progetti che catturano il nostro interesse e che possiamo portare a termine con grande creatività e professionalmente. Il nucleo principale dello studio è composto da Neil, Megan e me, lavoriamo con molti designers e fornitori, su  progetti specifici presso il nostro studio , sia presso le loro sedi. Siamo uno studio molto flessibile, io e Megan lavoriamo normalmente dal nostro studio a New York, e con i nostri portatili siamo pienamente operativi tre ore dopo l’atterraggio aereo. Disegno molto quando volo, non si perde tempo durante il viaggio.

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Parliamo nello specifico del tuo lavoro. Com’è nato il tuo linguaggio artistico? Intendo dire lo stile inconfondibile di Jeremyville?

Disegno ogni giorno ed ogni notte. Cerco di inventare una nuova iconografia, nuovi personaggi ed espressioni e storie. Facendo questo il tuo stile naturale evolve e diventa una parte di te, un vero specchio delle tue idee. È l’unico modo che conosco, non esiste una soluzione facile nello sviluppo di un nuovo stile. Ci vuole tempo e per me va bene così. Trovo affascinante il viaggio per approdare ad uno stile, perché a volte disegni un volto in un certo modo, o dei capelli, e sai subito che è solo la prima di molte volte in cui lo disegnerai così, perchè è nuovo, e giusto.

Quella sensazione di novità e di giustezza è ciò che cerco quando disegno, è quella connessione con qualcosa dentro di te, con quella sorta di verità che sta al di sopra di quello che sei. Sento che anche gli altri vi si possono identificare creando quella connessione. Il legame con il pubblico è tutto per me, senza opinione e senza connessioni, il processo dell’arte è alquanto vuoto.  Per questo mi piace parlare con le persone che amano il mio lavoro, su Facebook (4.500 amici) , o su Myspace (15.000 amici) , è quell’ “intimità universale” che sta al centro di ciò che cerco di fare con il mio lavoro, ed internet è il modo migliore per divulgare la mia arte. Penso che la mia arte sia parte del nostro tempo, penso parli un linguaggio capace di connettere fra loro molte persone. Non è un caso, questo è sempre stato uno degli obiettivi da raggiungere con la mia arte. Ero un bambino molto solitario, non avevo amici e non giocavo con nessuno, ora mi sto rifacendo su Facebook! Gli amici di internet sono i migliori! Certo ho un gruppo di amici adulti, da piccolo non ne avevo, ma non mi sono mai sentito solo. Disegnavo, giocavo con i Lego, facevo modellini di aeroplani, giocavo con i Puffi, guardavo un sacco di TV e cartoni! Ero sempre occupato e non mi annoiavo mai. Ricordo che ad ogni inizio di vacanza scolastica preparavo una lista di cose da fare, come costruire 4 modellini , creare un personaggio animato o costruire un trenino magnetico. Mi sono ricordato solo ora queste cose, mentre scrivo , lo avevo completamente dimenticato. Ancora oggi ogni settimana stilo una lista con quello che farò, dopo uno sguardo più attento direi che quell’abitudine che avevo ad 8 anni  mi stava preparando alle attività “project based” che faccio ora.

In un intervista hai detto: “Un coniglio carino in un trip acido paranoico probabilmente riassume bene il mio stile artistico” (NdR: “A cute rabbit on a paranoid acid trip probably sums up my art style”). Quanto è importante nel tuo lavoro  l’influsso della cultura psichedelica?

Adoro gli anni sessanta. Adoro l’idea di un hippy. Penso di avere dentro di me un hippy che vuole uscire. Ogni tanto provo a farmi crescere la barba ma i miei amici mi fanno notare che è tempo di radermi! Mi relaziono molto con l’era di Robert Crumb, dell’arte psichedelica di Martin Sharp,  dei posters rock e degli  inchiostri  fluo su sfondo nero. L’idea che l’arte potrebbe cambiare il mondo , o almeno liberarti la mente per un attimo. Quando disegno, svuoto la mente e lascio che la penna prenda la sua strada sulla pagina, non uso prima la matita, disegno direttamente sulla pagina ed uso i colori direttamente sulla tela. Spero che questo senso di liberazione che io sento con la mia arte si trasmetta allo spettatore, e che anche lui possa sperimentarlo. Voglio tornare indietro ad un livello molto personale, disegnato a mano, individuale, ma anche radicato nel contesto storico, per avere un senso di familiarità con chi guarda, come se un cartone della Disney fosse esploso sulla sua faccia.

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Nel tuo stile c’è una contraddizione tra l’aspetto carino e positivo dei tuoi personaggi e una narrazione dai contenuti talvolta “crudi”. Credi che si tratti di una compensazione tra le forze positive e negative della tua personalità a far si che il tuo lavoro non possa essere descritto come semplicemente “fiabesco”?

La vita è fatta di contraddizioni ed opposti, ed ognuno di essi è bellissimo per me, non solo quello carino e grazioso. La morte può essere bellissima, così come il dolore e la perdita. Tutto è parte della condizione umana. Cerco di lottare con ogni aspetto dell’umanità nel mio lavoro. Così un bel coniglietto può piangere,  una ragazza può abbracciare dolcemente un mostro, è questa la dualità che cerco di catturare, perché la vita non è semplice ne’  logica, la tristezza si mischia all’amore in un istante, e  puoi sentire la malinconia in una giornata stupenda. Amo questa complessa stratificazione della vita.

Ho notato che nei tuoi fumetti c’è spesso una narrazione circolare… insomma, come se l’universo trovasse ogni volta un modo per ristabilire l’equilibrio.

Ottima osservazione, voglio anche che la storia sia quasi senza fine, come un sogno ricorrente, o una canzone che ascolti continuamente fino a quando non vi trovi qualcosa di nuovo : una nuance, una cambio di nota, un nuovo significato nelle parole. Voglio che i miei fumetti siano essenziali , stilisticamente, molto vuoti, ma anche molto ricchi e complessi in un senso narrativo. Abbastanza essenziali da permettere a chi guarda di reclamare il proprio senso narrativo, di riempire i vuoti, di farlo proprio.

La natura ciclica dei fumetti allude anche al fatto che nonostante le cose vadano bene o male, esiste sempre quell’equilibrio universale che trova la giusta misura e fa evolvere le cose. Inoltre, non importa quanto lungo ed accidentato sia il tuo viaggio nel fumetto, troverai sempre la strada di casa o la strada per una qualche conclusione universale, e per la verità. La tua osservazione è perfetta, mi piace che tu abbia colto questo dai miei fumetti, grazie, significa molto per me.

La natura e la città sono gli scenari in cui ambienti le tue brevi e fulminee narrazioni, che spesso toccano tematiche ecologiche. Credi che sia possibile fare politica attraverso l’arte in un modo che non ha nulla a che vedere con gli schieramenti politici?

Si, credo che la mia arte sia molto politica, ma non in un senso scontato. Si tratta più della politica dell’amore, della nostra relazione con la natura e fra noi. Ho sempre voluto che i miei fumetti potessero essere letti fra 200 anni ed essere ancora capaci di far riflettere e toccare le persone. Ecco perché non disegno fumetti d’attualità ed ho scelto di eliminare la lingua inglese, tranne che per i titoli, come “The End” o “The Flower”, che non vanno necessariamente letti per capire la storia raccontata. Voglio che siano piccole vignette della condizione umana, davanti a me ho altre migliaia di fumetti da disegnare, perché la condizione umana è infinita, ma il mio tempo sulla terra non lo è. Cerco di disegnare almeno un fumetto alla settimana, ne ho già molti pronti ma ancora da scansionare e colorare, altri sono solo schizzi , altri ancora solo parole.

Quando disegno un fumetto, penso ad uno stato d’animo, ad un’emozione, e cerco di esprimerla attraverso la narrativa ed uno stile riduttivo lasciandone aperta la fine, così che il lettore possa aggiungere i suoi ingredienti, le sue esperienze di vita, per dare ulteriore risalto alla storia. I personaggi sono spesso solo forme semplici, con solo un sopracciglio incurvato a suggerire preoccupazione, o un occhio chiuso per esprimere malinconia o introspezione. La loro forma non conta, e nemmeno il loro nome, mentre la storia che stanno veicolando è tutto.

La tua arte appare su ogni genere di oggetto, dalla tela ai toys, dalle borse alle T-shirt, fino agli skateboard e alle chitarre e, inoltre pubblichi libri, realizzi animazioni per la televisione, stampi serigrafie e disegni fumetti. Quali sono gli ambiti nei quali vorresti lavorare in futuro?

Quest’anno ho dipinto molto di più. Ho iniziato a dipingere a 17 anni, era la mia principale forma d’arte mentre studiavo architettura all’Università di  Sydney. Ora sono molto più concentrato sul mio stile pittorico, alcuni pezzi saranno rivelati durante questa mostra ad Area B, altri in molte collettive in programma quest’anno. Penso di aver raggiunto ora uno stile unico, chiamo i miei dipinti “Acid Pop” , sono psichedelici, paesaggi di sogno della condizione umana, pervasi da un lucido liquido ambrato che si indurisce per  tenere dentro il pensiero e preservarlo nel tempo. Come gli insetti antichi intrappolati nell’ambra di alberi  preistorici, sono vignette di un momento dimenticato ma fondamentale.

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Pensando a come è strutturata non solo la tua attività, ma anche quella di Takashi Murakami con la sua Kaikai Kiki, mi chiedo se il futuro dell’artista globale sia quello di diventare un’azienda. Che ne pensi?

Penso tu abbia ragione, ma naturalmente spetta ad ogni artista scegliere il proprio percorso. Il bello dell’arte è che può essere reinventata. Credo sia dovere degli artisti reinventarsi continuamente, mettersi alla prova, pur mantenendo un forte senso di ciò che sono, come artisti. L’idea di un’azienda è per me solo uno strumento con cui realizzare delle cose, non è un mezzo fine a se stesso. Dovrebbe sempre servire un proposito più grande, facilitare la diffusione dell’arte e delle idee. Quando ti trovi preso dai meccanismi amministrativi di un’azienda, dimentichi la ragione per cui l’hai creata originariamente. Tempo fa nel nostro studio lavoravano molte più persone, ma ci siamo ora organizzati all’essenziale per gestire tutto. Mi ero accorto che stavo diventando un datore di lavoro, invece di creare. Ho perso molto tempo così. Ci siamo ora strutturati in modo da massimizzare il mio tempo per creare, e minimizzare il tempo dedicato all’amministrazione. C’è un giusto equilibrio. Penso comunque di aver bisogno di una struttura aziendale che mi supporti per fare il mio lavoro al meglio, per me è liberatorio, offre alla mia arte infinite possibilità di evoluzione.

Quali sono i tuoi progetti?

Cerco di mantenere il segreto sulle mie iniziative finché  non diventano pubbliche, ma ora sto lavorando su diversi grandi progetti, molto diversi da ciò che ho già fatto e molto impegnativi per me,e per il nostro studio. Penso sia uno dei miei lavori migliori e, se riuscirà come spero, sarà un progetto davvero speciale.

Whimsical. Primo approccio al Pop Surrealism

25 Set

Ripubblico qui il mio testo per la quarta edizione di ALLARMI (2008). Qualcuno ricorderà che si trattava di una grande mostra nelle sale della Caserma De Cristoforis di Como, a cui partecipavano artisti, gallerie e naturalmente curatori. In quel 2008, pubblicavo “Whimsical”, un testo che prendeva le mosse dai fenomeni del Pop Surrealism e della Lowbrow Art, per introdurre un panorama di giovani artisti italiani, che si muovevano, anche inconsapevolmente, in una direzione affine a quella americana. Oggi molte cose sono cambiate. Gli artisti sono maturati e troverete sorprendente la loro evoluzione, guardando le immagini qui sotto. Altri sono rimasti coerenti con lo stile di allora (ben cinque anni fa) e hanno fatto una discreta carriera. Qualcuno si è immerso in un sotterraneo silenzio. Così, come succede sempre. Prendetelo come un documento curioso e interessante di un periodo.

Ecco testo e immagini:

Whimsical

di Ivan Quaroni

Prima

La civiltà, la cultura e l’arte hanno posseduto nel corso dei secoli due volti, speculari e opposti, emblematicamente cristallizzati nella raffigurazione dello Janus latino. La luce, principio organico e vitalistico che infonde linfa alle epopee eroiche e alle celebrazioni solari delle età auree di ogni tradizione e l’ombra, principio orgiastico, corrente ctonia dei misteri, bacino in cui germinano le sementi del basso e del bestiale, del proibito e del peccaminoso, del contrario e del capovolto. Il Tempo ha accolto i due aspetti con la ritmica delle oscillazioni pendolari, secondo cicli di crescita e di decadimento organico.

Weirdo Deluxe

Weirdo Deluxe

Nell’arte, l’avvicendarsi dei due aspetti si è sovente tradotto sul piano formale con l’alternanza tra classicismi e anticlassicismi, tra iconografie razionali e mitologie moralizzate da un lato, ed espressioni ibride, demoniche o primitive dall’altro. La meccanica è la seguente: una forza sopravanza quando le energie dell’altra sono in via di esaurimento. Così, fisiologicamente, nessun ordine, per quanto stabile, equilibrato e razionale, può resistere all’ineluttabile destino di decadimento. La resistenza è presto vinta dalle forze oscure, che premono ai confini del regno luminoso. “Quando questa stabilità viene alterata, quando le metamorfosi delle forme e dello spirito scatenano la fantasia e l’immaginazione”, scrive lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis, “ecco che ritroviamo il mostro e la bestia…”.[1] Gli esempi nella storia dell’arte sono numerosi. Le mostruose teste con zampe animali, i volti bifronti, gli ibridi zoomorfi oppure le chimere e le altre bestie fantastiche della glittica greco-romana migrano negli infernali capitelli dell’architettura romanica e nelle demoniache raffigurazioni dei grilli gotici, passando poi alle bizzarre figure delle grottesche rinascimentali, ai bizzosi capricci barocchi, culminando, infine, nei più oscuri incubi del romanticismo simbolista e decadente.

Adesso, altrove

Il bizzarro, il deforme, il capriccioso, il grottesco, il mostruoso, l’ibrido, l’irrazionale influenzano in larga misura tutta la produzione pop contemporanea. In termini artistici, tale produzione include un territorio che ingloba un’ampia varietà di generi e sottogeneri iconografici provenienti per lo più dalla contaminazione tra l’arte tradizionale e alcune manifestazioni della cultura di massa. Due sono le espressioni paradigmatiche, sebbene non esclusive, del nuovo genoma pop, quella giapponese, che può essere riassunta nell’esperienza del movimento Superflat di Takashi Murakami e Yoshitomo Nara, incarnazioni rispettivamente dell’anima algida ed emotiva del Poku[2] nipponico. L’altra è la cosiddetta Lowbrow Art, indicata anche col più gradito termine di Pop Surrealism, in cui, per la verità, confluiscono influenze iconografiche molteplici e talora opposte.

Superflat

Superflat

È questa, infatti, una scena artistica cangiante e proteiforme, che accoglie al suo interno suggestioni provenienti dai mondi del tatoo, del surf, dello skate, delle hot rod, dei fumetti, dei cartoni animati, dell’illustrazione, della grafica punk, della poster art, del writing, della tiki culture[3]e dell’advertising d’annata. Entrambi i paradigmi, ossia la galassia pop surrealista occidentale e il mondo superflat orientale, incarnano, con le dovute differenze culturali e stilistiche, forme di figurazione fantastica in cui all’aderenza mimetica tipica dei realismi si sostituisce una tendenza morbosa verso la deformazione e l’ibridazione anatomica e oggettuale.

Ana Bagayan, Butterfly House, stampa giclée, 28x36 cm.

Ana Bagayan, Butterfly House, stampa giclée, 28×36 cm.

Un senso opprimente di orrore e di raccapriccio, d’inquietudine sottesa o palesemente esibita, serpeggia nelle opere di Mark Ryden, Todd Schorr, Marion Peck, Camille Rose Garcia, Elizabeth McGrath, Ana Bagayan, che controbilanciano l’impatto urticante delle loro rappresentazioni con uno stile dettagliato e prezioso, sovente memore della lezione fiamminga. Più affine allo spirito della deformazione grottesca è invece il linguaggio di Big Daddy Roth, Von Franco, Robert Williams e The Pizz, in cui il senso dell’orrido è svuotato d’implicazioni psicologiche a favore di una semplificazione ironica dell’immaginario pop degli hotrodder[4] americani.

Nella cultura pop del contemporaneo Sol Levante, l’orrido e il metamorfico sono inevitabilmente legati al trauma collettivo post-atomico, che ha segnato profondamente, talora con implicazioni drammatiche, l’immaginario del paese. Tuttavia, la cultura visiva giapponese, già storicamente avvezza alle pratiche della deformazione e dell’esasperazione nell’ambito della rappresentazione anatomica (si veda tutta la tradizione erotica degli Shunga e quella dei grandi maestri xilografi come Utamaro, Hiroshige e Hokusai ), ha potenziato questa tendenza nell’evoluzione contemporanea del genere dei manga e degli anime (cartoni animati). In quest’ambito si è andato, infatti, affermando il cosiddetto stile super deformed, un disegno di tipo caricaturale in cui i personaggi assumono le proporzioni anatomiche dei neonati: testa grande, occhi enormi, corpo goffo, ma con forme e lineamenti tondeggianti. Artisti come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Mr., Aya Takano, Chiho Aoshima e molti altri di area superflat, hanno ereditato lo stile ipertrofico e piatto dei mangaka[5]. I personaggi delle loro opere, quando non sono una citazione diretta di quelli disegnati da maestri del calibro di Hayao Miyazaki[6] – ad esempio la Heidi dipinta da Mr. – ne ricalcano comunque lo stile, come nel caso delle sculture My Lonesome Cowboy (1999) e Milk (1998) di Murakami, dove i personaggi hanno organi sessuali esageratamente sproporzionati, sul genere di quelli dei manga hentai.[7] In Yoshitomo Nara, artista stilisticamente meno legato allo stile flat, prevale un tipo di deformazione anatomica e di ibridazione antropo-zoomorfa in cui è dato scorgere l’influsso della cosiddetta cuteness. Il termine deriva dall’aggettivo inglese cute, che indica tutto ciò che è grazioso, carino, tenero.

Il significato attuale si è sviluppato in epoca vittoriana, come conseguenza dell’idealizzazione del mondo infantile ed è diventato recentemente un concetto estetico. Cute può essere un bambino, un animale (pet) o anche un oggetto che possiede le caratteristiche di piccolezza, vulnerabilità, incompiutezza, ma anche difformità. Una cosa animata o inanimata è cute se possiede una natura tenera e inferiore, al contempo mostruosa e commuovente, caratteristiche tipiche di gran parte dei personaggi dell’universo manga. In Giappone, il cute o kawai (di cui Hello Kitty[8] e i Pokémon[9] sono la perfetta incarnazione) è diventato un aspetto importante della cultura popolare. Molte aziende e perfino molte istituzioni governative hanno adottato mascotte cute per presentare prodotti e servizi al pubblico. La Nippon Airways possiede tre jet decorati con l’effige di Pikachu[10], mentre la Asahi Bank ha adottato l’immagine di Miffy[11]. Le poste giapponesi hanno inventato un personaggio, Yu-Pack, che è una sorta di casella postale stilizzata e ognuna delle 47 prefetture del paese possiede un personaggio kawai. Gli artisti del movimento Superflat, dunque, non hanno fatto altro che metabolizzare concetti estetici già ampiamente diffusi nella cultura di massa giapponese.

Adesso, qui

Ogniqualvolta ci si trova a trattare argomenti per i quali non esiste una letteratura di lungo corso, come nel caso del Pop contemporaneo che, come ho più volte ribadito ha un legame alquanto labile con la Pop Art storica, ci si imbatte inevitabilmente in una pletora di termini e neologismi, come i già citati poku, otaku, cute, kawai, hot rod, kustom, tiki, che servono a indicare e quindi spiegare le espressioni di nuove tipologie e categorie estetiche. Alla lista bisognerebbe aggiungere anche l’aggettivo anglosassone whimsical, che significa capriccioso, bizzarro, stravagante, strano, eccentrico e che viene spesso applicato a dipinti e illustrazioni in cui prevalgono atmosfere rarefatte e misteriose o ambientazioni folk e favolistiche. Come tutti i termini che definiscono una categoria estetica, whimsical si presta a molteplici interpretazioni, tanto che sotto il suo ombrello sono spesso raccolte espressioni stilisticamente opposte.

Vanni Cuoghi, La Giostra della memoria, acrilico su tela, 120x120 cm, 2008.

Vanni Cuoghi, La Giostra della memoria, acrilico su tela, 120×120 cm, 2008.

Nell’alveo delle germinazioni pop italiane, sono molti gli artisti che potrebbero essere ascritti alla categoria del whimsical. Primo tra tutti, Vanni Cuoghi, che ha fatto della bizzarria l’elemento cardine della sua ricerca, sospesa tra inclinazioni folk e pulsioni pop. Figlio esemplare della cultura postmoderna, l’artista ha inventato uno stile pittorico in cui il passato vivifica il presente attraverso l’innesto delle stilizzazioni di stampo illustrativo su temi e motivi iconografici della tradizione storico-artistica. Nonostante lo stile serafico, peraltro accentuato dal candore latteo dei fondali, la pittura di Cuoghi frequenta abitualmente i territori del grottesco e del capriccioso, offrendo allo spettatore una visione cinica e niente affatto edulcorata dell’infanzia. Tutto ruota sul contrasto tra bellezza e orrore, tra commedia e tragedia, in un’equilibrata miscela di classicismi e popismi che ben si presta alla trasposizione in chiave simbolica e fantastica delle inquietudini contemporanee.

Silvia Argiolas, Senza titolo, 80X100cm., 2008

Silvia Argiolas, Senza titolo, 80X100cm., 2008

Whimsical sono anche le atmosfere evocate dalla pittura di Silvia Argiolas, che ritrae bimbe dagli occhi grandi sullo sfondo d’inquietanti scenari campestri e boschivi. In questi ritratti, influenzati tanto dallo stile super deformed quanto dall’estetica kawai, giocano un ruolo di co-protagonisti i nugoli di coniglietti mutanti, d’insetti ronzanti e minacciosi uccelli notturni, che formano una sorta di bestiario immaginifico e surreale. Con il suo stile gotico-folk, anche l’artista sarda dipana il racconto di un’infanzia ferita e bistrattata, cui non resta che il conforto dei paradisi artificiali offerti dalle droghe e dagli psicofarmaci. Argiolas adotta, quindi, gli stilemi formali della cuteness piegandoli però alle esigenze di una rappresentazione critica della società contemporanea.

Sarah Geraci, Pemba, terracotta policroma, 53X45X40 cm., 2008

Sarah Geraci, Pemba, terracotta policroma, 53X45X40 cm., 2008

All’immaginario dei manga e degli anime nipponici sono evidentemente ispirate le sculture in terracotta policroma di Sarah Geraci, che riproducono con pallide tonalità opalescenti gli abitanti di un immaginario mondo sommerso, a metà tra mito atlantideo e microcosmo disneyano. Occhi smisuratamente grandi ed espressioni da cartone animato, i personaggi della Geraci sono un perfetto esempio di adattamento occidentale dell’estetica kawai.

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Thief in the Night, stampa silkscreen su carta da archivio invecchiata e bruciata a mano, 38x58cm, edizione limitata, P.A.

Lo stesso si potrebbe dire dei personaggi raffigurati nelle due stampe di Elizabeth McGrath, se non fosse per la prossimità con lo stile grafico di Tim Burton[12]. Nata nel 1971 a Hollywood, l’artista lavora principalmente nel campo della scultura e dell’animazione, rappresentando il lato oscuro della vita, tanto da meritarsi l’appellativo di Liz “Bloodbath” McGrath (Liz “bagno di sangue” McGrath). Nei suoi disegni si fondono gli influssi dell’iconografia cattolica, dell’immaginario carnevalesco e dell’estetica punk. La McGrath ha iniziato la sua carriera disegnando la fanzine Censor this ed è diventata, in seguito – oltre che la lead vocalist della band denominata Miss Derringer – una delle voci più originali della scena lowbrow californiana. Insieme a Camille Rose Garcia, l’artista rappresenta, infatti, l’anima più gotica (e critica) della compagine pop surrealista.

Giuliano Sale, Senza titolo, olio su tela, 30X30 cm., 2008

Giuliano Sale, Senza titolo, olio su tela, 30X30 cm., 2008

Connotata da una visione distopica e decadente è la ritrattistica di Giuliano Sale, in cui le suggestioni derivate dalla pittura simbolista assumono le tinte ancor più fosche dell’immaginario gotico dei batavers[13]. Sale dipinge, infatti, personaggi chimerici e perturbanti, creature perniciose che hanno perduto l’innocenza ed ora offrono un’immagine rovesciata e blasfema dell’infanzia, che è, anche in questo caso, il tema iconografico dominante. Quella del pittore sardo si profila come un’indagine sul lato tenebroso della psiche, metaforicamente rappresentata da identità fisiognomiche e anatomiche marcatamente connotate da disturbanti ipertrofie.

Elena Rapa, Lucilla Testagrossa in altalena, 2008

Elena Rapa, Lucilla Testagrossa in altalena, 2008

Similmente, Elena Rapa ricorre alla deformazione anatomica per caratterizzare i suoi personaggi, figli di un suggestivo incrocio tra l’universo immaginifico delle fiabe per bambini e quello antagonista del fumetto underground. La fanciullezza è, infatti, al centro anche della ricerca dell’artista marchigiana, che inventa una pletora di creature ibride, come Lucilla Testagrossa (dal corpo di bimba e dalla testa di palla) o gli esserini vagamente zoomorfi che popolano alcune delle serigrafie in bianco e nero qui esposte. Nell’ambito italiano, il linguaggio di Elena Rapa, artista capace di spaziare dalla pittura al disegno, dalla scultura al fumetto, è forse tra i più affini alle sperimentazioni di marca lowbrow, sebbene conservi, soprattutto nella sua declinazione pittorica, un carattere e un impianto cromatico tipicamente marchigiano.

Paola Sala, Senza titolo, olio su tela, 90x90 cm, 2007

Paola Sala, Senza titolo, olio su tela, 90×90 cm, 2007

Uno stile influenzato dall’arte germanica e fiamminga del Quattrocento è quello elaborato da Paola Sala, la cui pittura è caratterizzata tanto dalle ipertrofie anatomiche tipiche dei manga, quanto dalle atmosfere inquiete di certo Pop Surrealismo colto e raffinato. Anche qui tornano i canoni del super deformed e dunque le ossessioni legate ad un’iconografia che predilige la rappresentazione di corpi macrocefalici e con membra affilate. Sala dipinge le sue enigmatiche muse con sofisticata acribia, disponendole sullo sfondo di paesaggi silvestri, sotto cieli ingombri di minacciose nubi. Le figurine dipinte dall’artista comasca alludono velatamente anche alle immagini votive della tradizione cattolica popolare, con le quali condividono quella sorta di stralunata fissità che le rende simili a bambole inanimate.

Ana Bagayan, Senza titolo, matita su carta melting, 20x15 cm.

Ana Bagayan, Senza titolo, matita su carta melting, 20×15 cm.

Cromaticamente opposte a quelle di Paola Sala sono le opere di Ana Bagayan, artista originaria di Yeveran (Armenia), ma californiana d’elezione. Laureatasi all’Art Center College of Design di Pasadena e svezzata professionalmente dalla galleria La Luz De Jesus di Los Angeles, Ana Bagayan è il tipico prodotto dell’educazione artistica della West Coast. Conosciuta in Italia per aver realizzato l’immagine della locandina del film H2Odio di Alex Infascelli e recentemente anche quella dell’album Un’altra me di Syria, l’artista ha elaborato un linguaggio pittorico caratterizzato da un forte imprinting illustrativo e dominato un impianto cromatico giocato su toni caramellosi e zuccherini. Eppure, il mondo onirico e fiabesco da lei rappresentato è percorso da una vena di sottile inquietudine e da un senso d’incombente minaccia che portano il clima della narrazione in una zona di confine tra incubo e idillio.

Laurina Paperina, Takashi Murakami in love

Laurina Paperina, Takashi Murakami in love, smalti, spray e biro su carta, 35×50 cm, 2008

Animata da una strafottente verve pop è Laurina Paperina, che con il suo stile grafico, in bilico tra fumetto satirico e underground, fa il verso ai Vip dell’arte contemporanea e agli eroi della cultura di massa. La sua ricerca, fondata sulla passione per lo scarabocchio e il disegno infantile, si muove seguendo i precetti di un’irresistibile vena ironica. Protagonisti delle sue bislacche e surreali narrazioni sono di solito rockstar e supereroi dei fumetti, ma in questa occasione l’artista prende di mira il movimento Superflat. Tutto nasce da un aneddoto, il tanto vociferato acquisto da parte di Takashi Murakami, leader indiscusso del pop orientale, di un disegno dell’artista trentina. Così per una sorta di bizzarro contrappasso, Laurina Paperina inserisce al centro della sua installazione di carte una grafica originale della superstar nipponica, quella in cui compaiono Kaikai e Kiki, i due personaggi manga che hanno dato il nome anche alla sua Factory. L’immagine è tra le più emblematiche dell’immaginario Poku e serve da spunto a Laurina per inscenare un’allegra e scollacciata mattanza di artisti giapponesi.

Bassa

Catalina Estrada, Red, stampa giclée, 46×78 cm, edizione limitata 28/100

In parte debitrice dell’estetica manga è la colombiana Catalina Estrada, considerata una delle promesse dell’illustrazione e del graphic design[14]. Trasferitasi a Barcellona nel 1999, l’artista ha collezionato una serie di collaborazioni eccellenti con brand come Coca Cola, Smart e la griffe brasiliana Anunciação. Utilizzando penna ottica e tavoletta grafica la Estrada ha sviluppato uno stile originale, che combina atmosfere favolistiche e nitore high tech nell’allestimento di visioni fantastiche, popolate di fate e principesse iperboree.

Oliver Dorfer, Koi,

Oliver Dorfer, Koi, co su supporto plastico, 200×300 cm, 2007

Una pittura nitida è certamente quella dell’austriaco Oliver Dorfer, che dipinge con vernice acrilica su supporti plastici, al fine di ottenere un effetto rigorosamente flat. Secondo il filosofo e teorico dei media Leo Findeisen i lavori di Dorfer sono “apparecchi visivi”, in cui si fonde la pratica analogica della pittura e l’influsso dell’estetica digitale. Sono apparentemente frammenti rubati ai film d’animazione, ai fumetti, ai videogame quelli che l’artista utilizza come fossero matrici riproducibili ad libitum per le sue sovrapposizioni iconografiche. Come ha scritto il critico Andrea Bruciati, “Oliver Dorfer metabolizza il pervasivo dilagare delle immagini nella dimensione del quotidiano, innervandola nel credo pop secondo una stilizzazione che ricorda i manga giapponesi o certi tag della street art”.

Massimo Gurnari,

Massimo Gurnari, Hot Rod, Fast Sex, tecnica mista su carta intelata, 170×150 cm, 2008

Lowbrow è un termine efficace per descrivere la pittura di Massimo Gurnari, maturata in un contesto di radicali contaminazioni pop, tra tatuaggi, vecchie pubblicità, immaginario hot rod e pin up anni ‘50, elementi che l’artista mescola, senza alcuna logica narrativa, su sfondi disseminati di frasi e scritte estemporanee ed efficaci texture ornamentali. Quelle di Gurnari sono visioni capaci di trasmettere un senso di felice eccitazione poiché costringono lo sguardo a rimbalzare tra immagini sacre e profane, tra stili grafici e pattern geometrici, alla ricerca di un impossibile appagamento visivo. La sua è, in definitiva, una pittura di sovrapposizioni e giustapposizioni iconografiche, una pittura onesta e diretta come un road movie di Tarantino, ma soprattutto una pittura capace di evolvere, di svincolarsi dalla prigione degli stili, servendosi dei più diversi codici espressivi.

Spider, California, tecnica mista su tavola, 71x112,5 cm., 2007

Spider, California, tecnica mista su tavola, 71×112,5 cm., 2007

Ora, mentre in Italia l’interesse per il variegato sottobosco artistico lowbrow, basato sul mescolamento dei generi e degli stili si è sviluppato solo di recente, giò da un decennio, Daniele Melani, meglio conosciuto come Spider, conduce in totale autonomia una ricerca che ha più di un elemento in comune con l’estetica Pop Surrealista. Già a partire dal 1995, nelle sue tavole di legno incise e dipinte, Spider dimostrava di aver metabolizzato lo stile di tanti cartoon d’annata americani, dalla Betty Boop dei mitici fratelli Fleischer al Braccio di ferro di Elzie Crisler Segar, fino al lupo cattivo dei Tre Porcellini delle Silly Symphonies disneyane. Da sempre, poi, accanto all’elemento fumettistico si avverte una grande passione per il lettering, per la calligrafia, per il logotipo. Nei suo dipinti compaiono, infatti, scritte vintage, caratteri western, corsivi infantili, stampatelli futuristi di grande forza evocativa. Le frasi che l’artista intaglia o dipinge sulla tavola non sempre sono collegate al senso dell’immagine, ma hanno, talvolta, un valore puramente grafico, come nel caso dei molti emblemi reiterati dall’artista, dal teschio al lupo, ai fiori antropomorfi.

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Michael Rotondi, Felicità, plotter su carta colorata a mano, 20×30 cm, 2008

Con uno stile sporco, di ascendenza punk e underground, Michael Rotondi imbastisce narrazioni bizzarre, dove spunti biografici sono mescolati a elementi dell’immaginario pop. Quello rappresentato dall’artista livornese è, quindi, un mondo sospeso realtà e immaginazione, miti collettivi e impressioni private, in cui convivono eroi dei cartoni animati, star del rock and roll e personaggi della vita quotidiana. Un esempio tipico della sua inclinazione all’ibridazione iconografica è il mausoleo di ricordi pop allestito per l’occasione, in cui l’artista ripercorre, trasfigurandoli, gli eventi dell’estate 1994, quella dei mondiali di calcio statunitensi e della musica dei Nirvana e dei NOFX. In questa sorta di racconto generazionale, Rotondi traccia la mappa culturale e sociale di un’epoca e insieme compila il racconto della sua iniziazione alla vita.

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Uno stile conciso e raffinato è quello di Elena Monzo, che dipinge figure caratterizzate da una fisicità drammatica, da una corporeità estrema ravvisabile nelle posture complicate e contorte. Protagoniste delle sue opere, eseguite su carte da plotter, spesso con l’ausilio di pennarelli e sticker, sono figure antitetiche rispetto a quelle delle riviste patinate di moda. I suoi personaggi, infatti, sono quasi sempre donne con malformazioni o mutilazioni o addirittura ibridate e confuse in nuove entità organiche. Interessata al tema dei rapporti di dipendenza che uniscono le persone, l’artista stabilisce tra i personaggi che abitano lo spazio lindo e asettico dei suoi lavori una sorta di connessione, un legame di ordine fisico (quasi un cordone ombelicale) che li avvince in una stretta morsa.

Giuseppe Veneziano, Biancaneve allo specchio, 2007

Giuseppe Veneziano, Biancaneve allo specchio, 2007

Di tutt’altro genere, infine, sono le deformazioni e le ibridazioni messe in campo da Giuseppe Veneziano, che interessano soprattutto i meccanismi legati alla percezione d’immagini e informazioni. L’artista siciliano adotta uno stile piatto e semplice, immediatamente comprensibile, per indagare l’ambigua soglia tra verità e finzione. Nel perseguire questo scopo, Veneziano sfrutta gli automatismi tipici dell’informazione, della pubblicità, ma anche della satira, per elaborare immagini scomode e disturbanti, che denunciano la natura psicologicamente morbosa dell’uomo medio contemporaneo. Oltre a questo aspetto della sua ricerca, Veneziano insiste anche sul tema classico della contaminazione tra registri alti e bassi, tra citazionismo colto e triviale, come dimostra l’insistita presenza nelle sue tele di icone celebri dei cartoni animati, dello show business, della politica e dello Star System. Nell’installazione intitolata Biancaneve allo specchio, citazione in salsa erotico-favolistica della celebre Venere allo specchio di Velasquez, Veneziano congiunge entrambi gli aspetti della sua indagine, quello sociologico (l’indicazione della morbosità congenita della società odierna) e quello culturale (l’inevitabile, postmoderna, confusione intellettuale tra alto e basso).


[1] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo Fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, pag 43, Adelphi, 1997, Milano.
 
[2] Poku è un neologismo originato dalla crasi dei termini Pop e Otaku. Quest’ultimo era originariamente un pronome onorifico usato per indicare la famiglia o la casa altrui. Oggi otaku è utilizzato per designare negativamente un individuo ossessivamente interessato a qualcosa, come ad esempio un appassionato maniacale di manga e anime. L’accezione moderna del termine compare negli anni Ottanta grazie all’umorista Akio Nakammori, che si accorse che il pronome onorifico non era generalmente usato dai nerds.
[3] Tiki, dal nome di una divinità del pantheon polinesiano, è l’appellativo che ha assunto a partire dagli anni ’40 negli Stati Uniti lo stile in cui erano arredati alcuni ristoranti ispirati appunto all’arte della Polinesia. La cultura Tiki ha ricevuto una spinta maggiore quando, finita la Seconda Guerra Mondiale, i soldati americani di ritorno dal fronte riportarono storie, aneddoti e souvenir dalle isole del Sud Pacifico. Col tempo il Tiki Style ha permeato molti aspetti della cultura pop americana, divenendo un genere artistico autonomo, svincolato dall’arte polinesiana originaria.
[4] Con Hot Rod, letteralmente Bielle Roventi, sono indicate le auto modificate sia nella carrozzeria che nelle parti meccaniche al fine di aumentarne le prestazioni in termini di potenza e velocità, che l’aspetto, in termini d’impatto estetico. Negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’50 il termine veniva usato in senso dispregiativo per indicare vetture diverse da quelle prodotte in serie. Col tempo i bolidi Hot Rod sono diventati un fenomeno tipico della cultura americana, chiamata Kustom culture (la cultura delle customizzazioni automobilistiche), in seno alla quale si è sviluppata anche una Kustom Art, legata alla decorazione di auto, moto, caschi e altri accessori.
[5] Disegnatori di fumetti manga.
[6] Celebre autore di fumetti, animatore, sceneggiatore e regista giapponese. Sono suoi i progetti e le scene di famose serie animate come Heidi e Anna dai capelli rossi. Come regista ha realizzato, tra gli altri, i film animati La città incantata e Il Castello errante di Howl.
[7] Sono così chiamati in Giappone i fumetti e i cartoni animati pornografici.
[8] Hello Kitty è una gattina con un fiocco rosso sull’orecchio sinistro, un personaggio inventato nel 1974 a Tokyo e commercializzato dall’azienda giapponese Sanrio. Oggi un marchio che genera un fatturato di miliardi di dollari attraverso un merchandising che comprende accessori, abbigliamento, giocattoli, cartoni animati, biglietti di auguri e molto altro. Dal 1983 è ambasciatrice dei bambini per l’Unicef.
[9] I Pokémon nascono come personaggi dei videogiochi per Game Boy nel 1996 e diventano cartoni animati a partire dal 1997.
[10] Personaggio dei Pokémon.
[11] Miffy è la piccola coniglietta dei libri per bambini, creata nel 1955 dall’olandese Dick Bruna.
[12] Vedi Tim Burton, Morte malinconica del bambino ostrica, Einaudi, Torino.
[13] Venivano così chiamati i frequentatori del Batcave, famoso locale londinese attivo a Soho dal 1982 e divenuto, in seguito, il tempio del gothic rock.
[14] Alcuni suoi lavori sono pubblicati nel secondo volume di Illustration Now, curato da Julius Wiedemann per l’editore Taschen.

Gary Baseman e l’allegoria della commedia umana

21 Mag

di Ivan Quaroni

Vicious
You hit me with a flower
You do it every hour
Oh, baby you’re so vicious

(Lou Reed)

Gary Baseman non ama le etichette, nemmeno quelle fortunate come Lowbrow Art o Pop Surrealism, che in fondo hanno il merito di aver fatto conoscere al grande pubblico il lavoro di una schiera di artisti californiani che hanno dato il via a un movimento internazionale basato sulla contaminazione tra arte, illustrazione, fumetto, graphic e fashion design, skate culture, punk e graffiti. Riferendosi a quella straordinaria galassia di artisti, Baseman ha usato la definizione di “Underground L.A. artists”, che include personaggi come Mark Ryden, Camille Rose Garcia, i Clayton Brothers e Tim Biskup. Insomma, gente che ha infranto in ogni modo le barriere tra arte commerciale e fine arts, compiendo incursioni in ogni ambito della creatività, con l’intento di raggiungere un pubblico molto più vasto di quello tradizionalmente interessato all’arte contemporanea. Non a caso, Baseman ha dichiarato più volte di essere un “artista pervasivo”, in grado di lavorare contemporaneamente su più fronti, dalla pittura all’installazione, dalla performance alla moda, passando anche attraverso la creazione di cartoni animati e videoclip musicali, la produzione di giochi da tavolo e pupazzi in vinile e perfino l’organizzazione di eventi come La Noche de la Fusión, un performing art festival dedicato all’ibridazione dei generi e alla celebrazione del gusto agrodolce dell’esistenza.

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Gary Baseman, Birth of the Domesticated, acrilico su tela, 122X183 cm., 2012. Courtesy Antonio Colombo Arte Contemporanea

Artista poliedrico e autore del famoso cartoon della Disney, Teacher’s Pet, vincitore di ben tre Emmy Awards, Gary Baseman è senza dubbio una delle figure di spicco della nuova arte fantastica, influenzata dall’immaginario pop e dalla cultura di massa. La sua carriera inizia tra gli anni Ottanta e Novanta a New York, dove collabora con prestigiose riviste come il New Yorker, il New York Times, il Time e Rolling Stone, collezionando i premi e i riconoscimenti dell’American Illustration e l’Art Directors Club. Tornato in California, Baseman si concentra sulla pittura ed elabora una sua personalissima visione estetica, in cui lo stile dei cartoni animati d’ante-guerra della Disney e della Warner Bros, convive con l’attitudine critica e concettuale dell’arte underground. Il risultato si concretizza nella creazione di un universo fantastico, popolato da bizzarre creature come Toby, Dumb Luck, ChouChou, e Hotchachacha, incarnazioni dei diversi aspetti del carattere dell’artista e, allo stesso tempo, personificazioni archetipiche di sentimenti, emozioni e pulsioni presenti in ogni uomo. Se Toby, il personaggio più famoso di Baseman, è il custode di inconfessabili segreti, una sorta di feticcio della cattiva coscienza dell’artista, Dumb Luck, il sorridente coniglio storpio con la gamba amputata in mano, è l’epitome dell’idiozia. Chouchou è, invece, una creatura che assorbe l’energia femminile negativa e la trasforma in una densa crema bianca che fuoriesce dal suo ombelico, mentre HotChaChaCha è un piccolo demone, che rende gli angeli impuri, privandoli dell’aureola. Ma protagoniste dei dipinti di Baseman sono soprattutto le figure femminili, eroine come Venison, Skeleton Girl, Butterfly Girl, Igneous e Hickey Bat Girl, che con i loro compagni maschili prendono parte all’eterno conflitto tra bene e male, tra gioia e dolore, tra amore e morte.

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Gary Baseman, Bloody Smiles in Heaven, acrilico su tela, 91X244 cm., 2012. Courtesy Antonio Colombo Arte Contemporanea

L’opera di Gary Baseman è, infatti, simile al tableau vivant di un sovversivo dramma dadaista o di una commedia degli equivoci dove i personaggi interagiscono tra loro inscenando una folle e tragicomica pantomima della realtà. L’artista parla del suo lavoro come di un luogo in cui s’incontrano genio e stupidità, uno spazio misterioso e inafferrabile, in cui gli opposti convivono. In fondo, La Noche de la Fusión, il festival estivo organizzato da Baseman a Culver City, è una sorta di collettivo rito di accettazione della complessità esistenziale, una glorificazione del lato oscuro e dionisiaco della vita. Elemento che affiora anche nella sua pittura, la quale procede per serie di lavori che ogni volta esplorano temi e argomenti diversi, arricchendo, così, il suo immaginario fantastico con personaggi e situazioni nuove.

Baseman è un artista introspettivo, che traduce temi fondamentali come la bellezza e l’ambiguità dell’esistenza in un linguaggio pittorico semplice e comprensibile. “Il tema pregnante della mia arte” – afferma l’artista – “generalmente ha a che fare con l’amarezza della vita. Il bene e il male mixati insieme. L’amore e la morte. L’estasi e lo smarrimento. La condizione umana. Ma lo faccio in maniera molto giocosa. Molto dolce e un po’ sporcacciona[1]. In modo a volte allusivo e a volte esplicito, il sesso ricopre sempre un ruolo centrale nei dipinti dell’artista. La polarità tra maschile e femminile è, infatti, il motore del racconto, il cuore pulsante della commedia basemaniana, sempre imperniata sulla raffigurazione d’impulsi e istinti primordiali.

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Gary Baseman, Delirium Red, acrilico su tela, 51X41 cm., 2012. Courtesy Antonio Colombo Arte Contemporanea.

Vicious  rappresenta, in ordine di tempo, l’ultimo episodio di questa progressiva narrazione. Come altre serie precedenti, essa possiede un proprio mood, determinato dalla tensione quasi elettrica tra i personaggi e da un senso di eccitazione inquieta, che assume le forme di un gioco ambiguo e pericoloso. Quasi sempre, quelle dipinte da Baseman sono immagini inafferrabili, che descrivono situazioni e circostanze enigmatiche, aperte a molteplici interpretazioni. È cosi anche per i nuovi lavori, realizzati su tele, su copertine di liberi antichi e su vecchie tavole anatomiche, ma tutti caratterizzati da toni cupi e crepuscolari, quasi dimentichi della felicità cromatica degli esordi. Qui l’artista affronta per la prima volta il tema della “fame”, impulso primario personificato da una congerie di creature pelose e artigliate, incapaci di contenere i propri appetiti. “In fondo” – spiega l’artista – “esse non cercano altro che amore e affetto, ma la loro fame è tanto grande da trasformarsi in ferocia”.

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Gary Baseman, Delirium Gold, acrilico su tela, 41X51 cm., 2012. Courtesy Antonio Colombo Arte Contemporanea.

Vicious è, appunto, l’istinto che porta l’animale a diventare aggressivo, ma è evidente che l’animale cui Baseman allude è l’uomo, di volta in volta raffigurato da uno dei suoi personaggi feticcio. Se non fosse per l’aspetto sognante, da cartone animato d’antan, la pittura di Gary Baseman potrebbe essere considerata come un’evoluzione junghiana del surrealismo. Con personaggi come Toby, Dumb LuckVenison e, l’ultimo nato, Ahwroo, di fatto l’artista riformula la teoria degli archetipi in una moderna chiave pop. E così, pur muovendo da esperienze e intuizioni personali, finisce per tracciare una specie di storia a puntate dell’inconscio collettivo, un affresco corale della commedia umana, in cui ognuno di noi può riconoscersi. Ed è questa capacità di trascendere la dimensione individuale a rendere l’opera dell’artista californiano una delle più universali e autenticamente “pervasive” del nuovo millennio.

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Gary Baseman, Arch of Aorta Page 471, pastelli su carta, 25X17 cm., 2012. Courtesy Antonio Colombo Arte Contemporanea


[1] Daniela Petkovic, Interviewing Gary Baseman, This Is So Contemporary, venerdi 21 novembre 2008, http://tiscoart.blogspot.com/.

Italian Newbrow. Cattive compagnie (seconda parte)

16 Mag

Il problema del male. Cattive compagnie

A proposito dell’intensa vitalità e della spinta fondamentalmente pulsionale, erotica, emotiva e psicologica che accomuna le opere degli artisti di  Italian Newbrow, avevo accennato nel libro edito da Politi Editore[1], citando uno scritto di Franco Bolelli (Cartesio non balla, Garzanti, 2007, Milano) sulla superiorità della cultura pop, in cui affermava che le grandi opere, come le grandi imprese che segnano a fondo l’immaginario collettivo, nascono sempre da un esubero energetico, da un’abbondanza che si traduce in slancio. Più avanti introducevo il tema del ritorno a una sensibilità gotica, legata alla rappresentazione del lato oscuro e delle zone d’ombra della società contemporanea, mediati attraverso i filtri dell’ironia, del paradosso, dell’ambiguità e dell’affabulazione, ma non sottolineavo abbastanza quanto sia dinamico, necessario, vitale, per gli artisti, questo processo di confronto con il tema della negatività. Argomento che, in fin dei conti, ha caratterizzato tutta la storia dell’arte e non solo, come affermava Baltruišaitis, i periodi in cui era alterata la stabilità sociale[2]. Il problema del male e della sua evidenza è uno dei più dibattuti dai teologi, filosofi e letterati d’ogni epoca. Si tratta di una questione che coinvolge l’esistenza stessa dell’uomo e dunque, inevitabilmente, anche la sua rappresentazione attraverso l’arte.

Nel trattato intitolato Piccola metafisica dell’omicidio, la scrittrice francese Eliette Abécassis scrive che “L’arte intrattiene con il male dei rapporti intimi. Il male è la sua forza, il suo soggetto, la sua ragion d’essere “.[3] Esso costituisce, di fatto, la premessa di ogni di ogni forma d’arte, la sua conditio sine qua non. Solo là, dove il male si manifesta, esiste una storia da raccontare. Che cosa sarebbero la Letteratura, il Cinema, il Teatro, il Fumetto, la Danza, la Musica e l’Arte senza una storia da raccontare?

Come afferma la Abécassis, “Perché l’arte, se non per esprimere il delitto nella società?  L’arte, contestatrice nella sua essenza, c’è unicamente per denunciare, per vomitare il mondo. Non per lavarlo, non per descriverlo, non per dare un senso a un mondo assurdo, non per gratificare, appagare, non per evadere dal mondo: non per criticarlo, ma per vomitarlo”.[4] L’arte è quindi un conatus, un rigurgito che restituisce al mondo i suoi squilibri in forma di rappresentazione, ma è anche, e soprattutto, un antidoto, una cura omeopatica, una forma di catarsi che l’artista vive da eterno convalescente, sempre teso verso un’impossibile guarigione. Il metabolismo dell’arte aggredisce il male con i suoi anticorpi poiché, come affermava Sheldon Kopp, “Tutto il male costituisce una vitalità potenziale bisognosa di trasformazione[5].

È un processo intensamente vitale, che gli artisti di Italian Newbrow hanno assimilato attraverso scelte linguistiche che escludono la tautologia e l’autoreferenzialità, a favore della narrazione e della rappresentazione. Se, infatti, è vero che dove c’è il male, c’è una storia da raccontare, è altrettanto vero che dove c’è una narrazione, affiorano direttamente o indirettamente, i temi dello squilibrio, del caos e del disordine, dell’oscurità e del buio, della crudeltà e del peccato, dell’ignoranza e della stupidità e, infine, dell’eterno scontro tra le forze positive e negative dell’esistenza. Difficile è, piuttosto, stabilire una precisa iconografia del negativo, tracciarne dei confini netti, dal momento che Italian Newbrow raccoglie una pletora di artisti diversi, ognuno dei quali affronta il problema da una prospettiva particolare.

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Giuspeppe Veneziano

Nella sua reiterata e pendolare oscillazione tra realtà e finzione, la pittura di Giuseppe Veneziano affronta il tema del male sotto il profilo dell’ambiguità e del travestimento. La maschera delle apparenze, come codice comunicativo che adombra la menzogna e la violenza, è un soggetto centrale in molte sue opere, a cominciare dall’inquietante ritratto di Pogo the clown – vero nome John Wayne Gacy –, famigerato pluriomicida, noto per aver intrattenuto i bambini ad alcune feste con un costume e un trucco da pagliaccio. Quest’opera, insieme alla scultura bronzea intitolata David’s Reinassence e al dipinto Electric Joker, si inserisce nella tradizione della coulrofobia, nota come “paura del clown”, che trova un illustre predecessore letterario nel Pennywise di “It”, il capolavoro assoluto di Stephen King che ha reso la figura del clown un simbolo del male assoluto. La sequenza iconografica rappresentata da Pogo the clown, David’s Reinassence e Joker disegna anche una progressiva escalation dal mondo reale (Pogo), a quello ambiguo del mito, in cui si mescolano verità e finzione (il clown decapitato), fino a quello del fumetto e dunque della pura immaginazione (Joker), in cui Veneziano compie innumerevoli incursioni. Lo dimostrano non solo i ritratti di personaggi negativi o politicamente scorretti dei cartoni animati, da Telespalla Bob dei Simpson a Cartman di South Park, da Bender di Futurama a Stewie dei Griffin, ma anche le opere in cui l’artista mette in luce il potenziale lato oscuro di eroi ed eroine da fiaba. In Indignados e La strage degli innocenti, Veneziano usa l’universale iconografia dei cartoon della Disney e della Dreamworks come metafora per descrivere una realtà instabile, violenta e contraddittoria. Una realtà che, in tempi di crisi, estende l’ombra lunga del male anche ai regni della fantasia e dell’immaginazione.

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Massimiliano Pelletti

Attraverso un video, un light box e una serie di sculture racchiuse in piccole teche di plexiglas, Massimiliano Pelletti ricostruisce scene di ordinaria follia, ispirate alla vita quotidiana e a fatti di cronaca. “Contiene parti ingeribili” è il titolo di questa serie di lavori, che allude alle tassative avvertenze contenute nelle istruzioni dei giocattoli per bambini. E infatti, ogni opera è fabbricata manipolando esemplari di Playmobil, attraverso interventi di microscultura che plasmano le espressioni, aggiungono dettagli e ridisegnano il contesto entro cui si svolge l’azione di questi popolari omini di plastica. L’artista usa un linguaggio volutamente pop, che fa leva su meccanismi d’immediata riconoscibilità, per trattare temi assai meno pacificanti, come la morte, la violenza e il cinismo della società contemporanea. Mentre il light box intitolato  P.G.R – Per Grazia Ricevuta si limita a ironizzare sull’iconografia popolare degli ex voto, le sculture Festa della Mamma e Del Maiale non si butta via niente vanno meno per il sottile e affrontano il problema dell’informazione giornalistica, che asseconda il gusto collettivo per le atmosfere morbose e patologiche della cronaca nera. Cinica e spietata come una lucida analisi sociale è invece l’opera Il profumo della vita, dove l’atmosfera mesta e compunta di un funerale è interrotta dal dettaglio triviale di un corteggiamento canino. Ma l’ironia trionfa soprattutto nel video Rapina Funky, realizzato con la tecnica dello stop motion, che ci precipita improvvisamente nell’effervescente clima pulp di una sequenza di Tarantino.

Michael Rotondi, My Kim

Michael Rotondi

Attraverso il suo stile rapido e bozzettistico, che pone l’accento sugli elementi espressivi dell’immagine, Michael Rotondi approccia il tema del male recuperando iconografie del folclore religioso e popolare e figure emblematiche della storia. L’artista concepisce il racconto come una struttura aperta, formata da accumuli e affastellamenti di tele e carte che tracciano una sottile rete di analogie e rimandi all’interno delle sue installazioni. L’elemento negativo, ma anche vitale e catartico, del linguaggio di Rotondi è evidente soprattutto nella furia iconoclasta di My Kim e Con lo smalto nero sulle unghie posso solo urlarti una canzone, memori della lezione dei neoespressionisti tedeschi, mentre le carte sembrano piuttosto dominate da una più quieta vena memoriale. In Kill your idols landscape Rotondi presenta, infatti, due incarnazioni storiche del male (Stalin a Lenin) e un animale simbolo del peccato (la rana rovesciata), desunto direttamente da una celebre tela del Bramantino. Ma il male cui l’artista si riferisce è anche quello biblico della possessione demoniaca, tema del dipinto Vai via!!, ispirato a un antico casellario spagnolo, e, infine, quello metafisico, contro cui si batte il bellicoso San Michele Arcangelo di Autoritratto.

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Vanni Cuoghi

Inventa una nuova cosmogonia, sospesa tra fiaba e mito, Vanni Cuoghi, le cui immaginifiche visioni rinnovano il racconto dell’eterna lotta tra angeli e demoni, introducendo elementi di ambiguità che riguardano sia l’identità di genere dei suoi personaggi, che e le loro accezioni simboliche. Come Henry Darger, il visionario artista autodidatta autore di The Realm of Unreal, Vanni Cuoghi immagina un universo alternativo, dove il primigenio conflitto tra uomini e donne assume connotati epici. Le sue streghe, abbigliate come aristocratiche dame vittoriane, sono, infatti, protagoniste di una guerra senza esclusione di colpi con le forze maschili, spesso incarnate da schiere di demoni e altri esseri ultraterreni. Mescolando pittura, collage e psaligrafia (arte antica del ritaglio di carta), l’artista costruisce affascinanti diorami tridimensionali, racchiusi in preziose scatole di plexiglas. Ogni diorama rappresenta un evento particolare, diciamo pure un episodio dell’immaginifica saga di Cuoghi, in cui le streghe recitano il ruolo delle eroine di una rivoluzione proto-femminista che, metaforicamente, allude a conflitti di ben altra portata. Conflitti che attengono alla sfera immaginifica dell’inconscio individuale e collettivo, dove si allignano figure incerte e simboli ambigui, che rendono opaco e indeterminato il confine ontologico tra il bene e il male.

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Diego Dutto

Diego Dutto trasferisce l’ambiguità sul piano biologico, aprendo una riflessione sulle future (e nemmeno troppo lontane) possibilità d’innesto tra organismi naturali e parti robotiche. Quelle plasmate dall’artista torinese sono, infatti, entità ibride, le quali assimilano forme umane, animali o vegetali e strutture sintetiche che richiamano il nitore di manufatti altamente tecnologici. Pnèymon, ad esempio, è un macabro trofeo, una sorta di cuore meccanomorfo, da cui fuoriescono due canne metalliche, simili ai tubi di scappamento delle automobili. Nonmama è una scultura da giardino che rappresenta un grande fiore biotech, degno de La piccola bottega degli orrori di Roger Corman. Ma Dutto non risparmia nemmeno il mondo animale e, così, ridisegna il guscio delle sue tartarughe fino a farlo somigliare a una corazza da combattimento in kevlar, decorata con preziose finiture cromate. Allucinata, con le sue plastiche forme sintetiche sembra, infine, l’insetto di un cartone animato della Pixar. Il mondo post-umano di Diego Dutto è, dunque, il prodotto di una sensibilità ultracontemporanea, sviluppatasi all’incrocio tra il design, la tecnologia e la computer grafica.

Paolo De Biasi, Ephemeral Painting 5, acrilico su tela, 50x40 cm., 2012

Paolo De Biasi

L’elemento provocatoriamente negativo della pittura di Paolo De Biasi è rappresentato dalle fonti iconografiche, che non riflettono la tendenza autoreferenziale di larga parte dell’arte contemporanea. Per De Biasi le cattive compagnie sono le frequentazioni culturali che hanno formato il suo gusto e la sua sensibilità, maturate per lo più al di fuori dell’ambiente artistico. Le immagini delle riviste degli anni Sessanta, le copertine dei dischi degli Smiths, l’architettura razionalista del secondo Novecento hanno contribuito alla formazione della sua attitudine pop e fondamentalmente anti-concettuale. “La pittura che parla di pittura”, afferma De Biasi, “si riduce a una tautologia o, nella migliore delle ipotesi, a un sistema di specchi opposti, che riflettono la propria immagine distorcendo la realtà, senza creare alcun significato ulteriore”. De Biasi definisce la sua ricerca come una sorta di beta test, cioè la versione provvisoria di un programma, spesso realizzata per saggiare la validità del prodotto prima del suo definitivo lancio sul mercato. Per l’artista pensare la pittura come una fase beta permanente, significa quindi sperimentare la possibilità di ripensare la realtà. Come afferma Gianni Canova, “Il problema del nostro tempo è capire se siamo ancora capaci di pensare a quello che vediamo o se vediamo sempre e solo ciò che già pensiamo”. Opere dalla struttura frammentaria e quasi centrifuga come Code of conduct, Back to the Old House e Doppelgänger incarnano, di fatto, questa possibilità di ricostruzione fenomenologica del mondo, fondata non più gerarchie logiche e spaziali, ma semmai su un nuovo assetto pulsionale, aperto e multicentrico.

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Giuliano Sale

Una pittura viscerale, ma disciplinata da un severo controllo formale, è quella di Giuliano Sale, che declina in immagini equivoche e misteriose le pulsioni più ineffabili dell’essere umano. Con il suo stile fitto di rimandi alle atmosfere del Simbolismo e della Neue Sachlickeit, l’artista è riuscito a sviluppare una personale sigla linguistica, che gli consente di esplorare i meandri dell’inconscio senza rinunciare alla narrazione. La sua indagine si appoggia ai generi tradizionali del paesaggio e del ritratto per dare corpo e solidità a una materia psicologica sfuggente e inafferrabile quanto un incubo narcotico. Sale descrive  un universo metafisico, fatto di crepuscolari arcadie e paesaggi d’ombra, dove balenano spettrali figure e temibili apparizioni. Ma è soprattutto nei ritratti, un singolare repertorio di fisionomie e anatomie anomale, che affiora con evidenza il tema del male. Sale lo affronta illustrando quel connubio tra abiezioni organiche e morali, che è il segno distintivo dei suoi personaggi, ma che, in qualche modo, riecheggia anche nella morfologia allusiva dei suoi paesaggi, costellati di anfratti bui e inquietanti distese d’acqua scura. Quello dipinto da Sale è, dunque, un mondo di rovinosa decadenza, un’immaginifica apoteosi del mal di vivere, dove il vizio e la corruzione che albergano nel cuore degli uomini, riecheggiano nelle lande di una natura afflitta e desolata.

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Silvia Argiolas

L’arte di Sivia Argiolas è la più compiuta espressione del conatus di cui parla Eliette Abécassis, di quel rigurgito espressivo che è, appunto, una forma di metabolica trasformazione e sublimazione della negatività, compiuta attraverso gli strumenti della rappresentazione pittorica. L’artista materializza sulle sue tele una cosmogonia paranoica, di puro delirio e lucida alienazione, in cui le manie e le ossessioni personali vengono sublimate attraverso la mise en scene di imperscrutabili liturgie catartiche. Nella sua folle visione, la dimensione aleatoria della psiche si trasforma in un palcoscenico affollato di autoritratti, dove le più diverse incarnazioni della sua personalità entrano in contatto con le forze primigenie della vita in forma di animali totemici e ombre spettrali. La pittura espressionista di Silvia Argiolas, fatta d’interventi gestuali e accumuli materici, assume la natura come ambientazione, facendone il teatro di una pletora di narrazioni drammatiche. Ma il suo è, piuttosto, un Eden capovolto, un inferno arboreo disseminato di proiezioni lisergiche e presenze ctonie.


[1] Ivan Quaroni, Italian Newbrow, Giancarlo Politi Editore, 2010, Milano.

[2] Jurgis Baltruišaitis, Il medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, 1997, Milano.

[3] Eliette Abécassis, Piccola metafisica dell’omicidio, 2004, Il Nuovo Melangolo, Genova.

[4] Ibidem.

[5] Sheldon B. Kopp, Se incontri il Buddha per strada uccidilo, Astrolabio Ubaldini Editore, 1975, Roma.

Italian Newbrow. Cattive compagnie (Prima parte)

15 Mag

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Nessun artista tollera la realtà”.

(Friederich Nietzsche)

 Newbrow versus Lowbrow. Una definitiva precisazione.

Mi sono chiesto spesso se possa esistere una via italiana, anzi europea, a quel variegato e complesso fenomeno chiamato Lowbrow Art (o Pop Surrealism), tutto giocato sull’orgogliosa rivendicazione di un approccio figurativo, narrativo, ironico e fondamentalmente popolare al problema della rappresentazione. Ho avuto la sensazione, poi avvalorata da molteplici letture ed esperienze di visione diretta delle opere, che quello del Lowbrow è un modo intimamente americano di affrontare il problema, un modo che affonda le radici nel crogiuolo delle sottoculture di quel paese e che non può essere esportato senza dare vita a espressioni derivative o imitative. L’artista europeo può davvero condividere le esperienze maturate nella West Coast Californiana, dal fenomeno delle Hot Rod alla Kustom Kulture, dagli stili di vita del surf e dello skate, fino alla rilevanza sociale del fumetto underground e dell’immaginario psichedelico? Lowbrow è, in fondo, un termine che descrive il coagulo delle esperienze della cultura popolare americana degli ultimi sessant’anni. Dentro c’è di tutto: l’architettura cheap dei rivenditori di hot dog e di donut, le roadhouse e le sale da Bowling affollate, Disneyland e i Monster Movie proiettati nei drive-in, i ristoranti Tiki colmi di paccottiglia hawaiana, i poster lisergici della Summer of Love, la mitologia Beat, il mito dei bolidi truccati e delle gare illegali nelle piane desertificate della California, la fantascienza retro-futurista dei Jetson, il rock and roll e il Be Bop, le bande di teppisti e teddy boy, l’estetica da centauri degli easy rider, il punk e i graffiti, la nostalgia dei vecchi cartoon della Warner Bros, Norman Rockwell e Robert Crumb, i tatuaggi, le pin up, le vecchie insegne dei sideshow, la musica country e l’arte folk, i cowboy e il Ku Klux Klan, le bandiere degli Stati Confederati, la solitudine della provincia e lo spirito di frontiera. L’America, insomma. Nel bene e nel male. Italian Newbrow è tutt’altro. Un fenomeno che affonda le radici nel nostro background e, semmai, in quello della cultura continentale comunitaria e che, in genere, assorbe suggestioni dell’immaginario globale, senza per questo appiattirsi su posizioni di mera derivazione linguistica. L’universo fantastico della Lowbrow Art è, per noi italiani, alla più una curiosità d’oltreoceano, un’eccitante novità pervenutaci attraverso la diffusione planetaria di Juxtapoz, la rivista portabandiera del Movimento, e tramite gli stimoli di certo cinema pulp, così come l’abbiamo vissuto attraverso la visione della filmografia di Quentin Tarantino, di Robert Rodriguez e, naturalmente, di Tim Burton. Qualcosa, insomma, che abbiamo vissuto di rimando, dunque per lo più indirettamente, osservando le capricciose immagini di Robert Williams, Mark Ryden o Gary Baseman in qualche rara mostra italiana oppure, il più delle volte sulle pagine di riviste di largo consumo. Italian Newbrow, dicevo, è tutt’altro. È un fenomeno che cresce e si sviluppa nel tessuto connettivo dell’arte italiana contemporanea, funestata da un pluriennale dibattito tra l’arte colta, di matrice post-concettuale, e l’arte figurativa, tornata ad affermare le necessità del racconto, della rappresentazione e dell’espressione, talvolta (ma solo talvolta) tramite pratiche di saccheggio di quell’immenso serbatoio iconografico che è la cultura di massa. Se esiste un’analogia tra il Pop Surrealismo americano e il Newbrow Italiano è solo sul piano dell’eterna diatriba tra l’arte “alta” delle gallerie “mainstream” e quella “popolare” delle nuove forme di figurazione. Un’ultima analogia consiste forse nell’ampio uso che entrambi gli scenari, quello statunitense e quello italiano, fanno delle fonti iconografiche derivate dal web, nella confidenza che gli artisti della Google Generation hanno sviluppato nei confronti dei tool digitali. Ma si tratta di una questione di portata globale, valida tanto per gli artisti europei, quanto per quelli indiani, cinesi, russi o mediorientali. Le analogie finiscono qui. Ogni altra forma di parentela, filiazione o debito è relegabile all’ambito dell’ispirazione diretta o, peggio, dell’imitazione pedissequa. Italian Newbrow non è mai stata (ne sarà mai) una forma di Italian Pop Surrealism, termine peregrino che qualcuno ha già iniziato a utilizzare.

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Le origini culturali. Il background italiano.

Italian Newbrow è, in larga parte, uno scenario – e non un movimento, come ho più volte ribadito -che si è sviluppato nel contesto artistico italiano, sulla scia di precedenti esperienze critiche, che documentavano l’insorgere di una nuova sensibilità, orientata al recupero della cultura popolare e di massa e alla rivalutazione della pittura e della scultura, per lungo tempo sottovalutate e considerate da una parte del sistema dominante alla stregua di pratiche obsolete, se non addirittura retrive. In tal senso, in Italia, un ruolo molto importante è stato ricoperto dalla Transavanguardia di Achille Bonito Oliva, che ha avuto il merito non solo di riportare la pittura al centro del dibattito artistico, ma anche di riaffermarne con orgoglio la spinta pulsionale e libidica. Durante tutti gli anni Ottanta, nel nostro paese si assiste a una rigogliosa fioritura di gruppi, scuole, movimenti e individui che, lasciandosi definitivamente alle spalle il clima plumbeo del decennio precedente, dominato dai concettualismi e dagli ideologismi barricadieri, riscoprono attraverso la pittura e la scultura il valore della manualità e della Storia. Basti pensare ai Nuovi Nuovi di Renato Barilli, Francesca Alinovi e Roberto Daoglio, agli Anacronisti di Maurizio Calvesi, ai Nuovi Futuristi di Luciano Inga Pin, ma anche, e soprattutto, ad artisti trasversali, spesso inclusi in una generica area espressionista, come Mimmo Germanà, Nino Longobardi, Ernesto Tatafiore, Arcangelo, Marco Del Re e Sabina Mirri. Negli anni Novanta, accanto alle esperienze degli artisti post-concettuali milanesi che ruotano attorno alla figura di Corrado Levi e che in parte confluiscono nella mostra La scena emergente del Museo Pecci di Prato, ci sono i Medialisti capitanati da Gabriele Perretta, L’Officina Milanese di Alessandro Riva, il Nuovo Quadro Contemporaneo di Gianluca Marziani e il tentativo di crossorver tra arte e letteratura Cannibale di Luca Beatrice in Stesso Sangue. Tutte esperienze che precedono la sensibilità indeterminata e inclusiva della cosiddetta Nuova Figurazione, che si presenterà come una sorta di “sensibilità” quanto mai variegata in termini di linguaggio e stile e soprattutto interessata al confronto tra Arte e Nuovi Media e tra Arte e Fumetto, Cinema e Letteratura. Con l’inizio del nuovo millennio, il dialogo dell’arte con la cultura di massa si fa ancora più serrato. Nel 2000 Alessandro Riva inaugura al PAC di Milano la mostra Sui Generis, che insiste sulla ridefinizione dei generi della nuova arte italiana e che include, accanto al ritratto e alla natura morta, la fantascienza, il giallo, l’erotismo, la contaminazione e la moda. Un anno dopo, Gianluca Marziani pubblica Melting Pop (Castelvecchi editore), un libro, seguito da una serie di mostre, che pone l’accento sulla contaminazione e sulla combinazione tra arte e tecnologia e sulla necessità di un approccio creativo trasversale, multidisciplinare e aperto. Parallelamente, prima con la mostra La linea dolce della Nuova Figurazione (2001) e successivamente con Ars in fabula (2006), Maurizio Sciaccaluga documenta il carattere ironico e, allo stesso tempo, languido e trasognato della giovane arte italiana. Sono anni in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche all’attenzione delle riviste di settore e al costante monitoraggio dei premi nazionali e delle grandi rassegne pubbliche. Rassegne che culminano nel 2007 con le mostre Arte Italiana 1968-2007, a cura di Vittorio Sgarbi (Palazzo Reale, Milano), e La Nuova Figurazione Italiana – To Be Continued…, a cura di Chiara Canali (Fabbrica Borroni, Bollate), cui partecipano, peraltro, anche artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Fulvia Mendini, Elena Rapa e Eloisa Gobbo, che poi formeranno il nucleo centrale della nascente sensibilità Newbrow. Proprio in questo brodo di coltura si sviluppano i primi germi del nuovo scenario artistico e, segnatamente, nel ritrovato valore di un’arte eloquente, diretta, capace di raccontare e “suggestionare” il pubblico attraverso immagini immediate e di forte impatto. La tensione comunicativa e l’apertura a una platea più vasta di quella tradizionalmente interessata all’arte, diventano questioni centrali per le generazioni che hanno sperimentato il potenziale mediatico di internet. E in tal senso, il saccheggio da parte degli artisti dell’immaginario di massa gioca un ruolo fondamentale.

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Se ne accorge anche Gianni Canova, che in un articolo su Il Fatto Quotidiano scrive: “Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv e il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paiste digitale (che è poi l’evoluzione del collage cubo-futurista) [1]. Ma non si tratta solo di questo. Oltre alle suggestioni dell’iconografia pop, Italian Newbrow registra anche le ansie e le inquietudini della moderna società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman. L’articolo di Canova associa le atmosfere del film I Soliti Idioti (di Enrico Lando, con Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli) all’estetica newbrow: “Piaccia o no ai suoi arcigni e sgomenti censori”, scrive il critico, “I Soliti Idioti ha gli stessi colori saturi del movimento newbrow e del quadro che assume a emblema del movimento [Alter Ego di Paolo De Biasi]: è un film molto più scuro e invaso da zone d’ombra…”. Con la promessa di un’impossibile catarsi comica, dietro la facciata ridanciana e sboccata del film, striscia il verme del malessere sociale, con il suo inevitabile corredo di tic, manie, ossessioni e disagi. La stessa cosa avviene nelle opere degli artisti newbrow, che spaziando tra differenti registri espressivi documentano il lato oscuro della civiltà contemporanea attraverso il saccheggio dell’immaginario di massa e la rappresentazione, spesso metaforica, dei turbamenti individuali e collettivi del nostro tempo. Così, se Giuseppe Veneziano si avvale di una figurazione semplice e immediata, popolata di personaggi e icone universalmente riconoscibili, per affrontare questioni legate all’ambiguità e all’indeterminatezza della comunicazione visiva, sovente carica d’implicazioni politiche e sociali, Vanni Cuoghi ricorre all’armamentario classico della fiaba e del folclore con l’intento di trasfigurare, in chiave surreale, gli impulsi negativi latenti nell’immaginario fantastico. Analogamente, Massimiliano Pelletti modifica giocattoli di largo consumo per inscenare situazioni disturbanti, in bilico tra quotidianità e cronaca nera, mentre Silvia Argiolas tratta il problema del “male di vivere” costruendo un personalissimo universo parallelo, in cui proietta visioni paranoiche e allucinate che sfiorano il parossismo. Sembrano originati dall’inconscio anche i paesaggi e i ritratti di Giuliano Sale, artista che descrive il turbamento esistenziale con un realismo quasi carnale, non privo di sottintesi allusivi e simbolici. Più freddo è, invece, l’approccio di Paolo De Biasi, che destruttura lo spazio della rappresentazione pittorica, interpretando la realtà come un simultaneo affastellamento di luoghi ed episodi narrativi, i quali ci restituiscono il senso d’urgenza e vitalità dell’esperienza umana. Esperienza che Michael Rotondi affronta da un’angolatura autobiografica, dipingendo immagini che sono l’equivalente di un ipotetico diario visivo, fatto di esperienze, impressioni e tracce che si sovrappongono al “vissuto collettivo” della sua generazione. In ultimo, Diego Dutto opera, con la scultura, sul crinale ambiguo che separa la biologia dalla tecnologia e ipotizza un futuro distopico e post-umano, popolato di organismi meccanicamente modificati.


[1] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», Venerdì 11 novembre.