Archivio | novembre, 2015

6 Visioni / 6 Visions

30 Nov

di Ivan Quaroni

La retina rende tutto contemporaneo”
(Paul Valéry)

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Silvia Argiolas, senza titolo, 2015

Nessuno sa che cosa sia esattamente l’arte contemporanea. Convenzionalmente, si ritiene che tale definizione si riferisca alle espressioni artistiche emerse tra la nascita delle Avanguardie storiche e i nostri giorni, ma è evidente che tale periodizzazione dovrà alla fine concludersi. E allora, che cosa ci sarà dopo? Un’arte post-contemporanea? La definizione è ambigua e problematica per costituzione, innanzitutto perché comprende una pletora variegatissima di tendenze, espressioni, modi e mezzi antitetici. Ha il difetto di non designare una linea di pensiero dominante e, inoltre, non convince quell’aggettivo, “contemporanea”, che allude alla presenza simultanea di molti fattori, ma che lascia sostanzialmente irrisolto il problema di stabilire (se c’è) una qualità specifica. Tutta l’arte, in ogni epoca, è stata a un certo punto “contemporanea”, cioè coeva ai suoi primi fruitori. E, dopotutto, contemporanea è, oggi, tanto l’arte del presente quanto quella del passato, giacché possiamo ancora fruirne, anche se gli artisti che l’hanno creata sono estinti. Le opere di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, o almeno quanto ci è pervenuto della loro produzione, sono disponibili tanto quanto quelle di Jeff Koons, Maurizio Cattelan o Matthew Barney. Sono tutte presenti, qui, contemporaneamente, per essere viste (ed esperite) dalla platea dei visitatori di questa epoca. Forse ha ragione Vittorio Sgarbi, quando, fuori dai comuni schemi di lettura del sistema dell’arte, sostiene che essa è tutta contemporanea: quella antica, quella medievale, quella moderna e quella presente. È una questione delicata, che la storiografia artistica ufficiale dovrà risolvere. Ma, intanto, noi possiamo interessarci alle ricerche odierne, consapevoli che le limitazioni terminologiche ci obbligano a vagliare la qualità del lavoro sulla base della loro maggiore o minore attinenza alle condizioni storiche, economiche, sociali e politiche attuali, tenendo conto che i valori dell’artista e quelli della collettività possono coincidere oppure – come più spesso accade – confliggere.

Perroquet, tecnica mista su carta, 2015, cm 160x120

Elena Monzo, Perroquet, 2015

Nel momento in cui Leonardvs Bottega d’Arte si confronta, per la prima volta, con l’ambito delle ricerche di artisti di età inferiore ai quarant’anni, non possiamo che costatare come la giovane arte italiana non abbia un unico volto, ma piuttosto si muova lungo molteplici direttive, spostandosi in avanti, verso il futuro, e indietro, verso il passato, avendo come base di partenza soltanto il presente. Sarebbe infruttuoso stabilire una scala di valori in cui le espressioni formalmente più audaci siano collocate alla sommità e quelle nostalgiche alla base. Non è infrequente, infatti, che certe sperimentazioni formali si dimostrino sterili, laddove certe riletture del passato danno prova di una grande adesione al presente. Per usare una felice espressione di Jean Clair, la varietà linguistica della giovane arte italiana, riflette le disjecta membra[1]della realtà, denota la natura frammentaria e parcellizzata del flusso temporale entro cui siamo tutti, inevitabilmente, immersi. L’arte è un sistema di segni in continua evoluzione, che cambia al mutare dei tempi. Dedicarsi all’arte oggi significa intraprendere un viaggio d’indagine e analisi in grado di svelare nuove, e forse più adatte, scelte espressive. Ciò che conta è la capacità dell’artista di trovare soluzioni e prospettive adeguate allo spirito dei tempi. In fin dei conti, l’arte, nel suo complesso, è un patchwork di umori, atmosfere, intuizioni capaci di riflettere solo una porzione assai limitata del mondo contemporaneo.

La sfida rappresentata da questa mostra, che speriamo costituisca il primo capitolo di una fruttuosa documentazione delle forze vitali ed emergenti dell’arte italiana, consiste nel mettere insieme un campione delle varigate e contrastanti esperienze che compongono la scena contemporanea. E, infatti, i sei artisti qui presentati non potrebbero essere più diversi tra loro. Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), Elena Monzo (Brescia, 1981), Carlo Alberto Rastelli (Parma, 1986) e Tommaso Santucci (Pisa, 1981) si muovono nell’ambito della pittura, Ester Pasqualoni (Roma, 1980) si dedica a scultura e installazione, mentre Serena Zanardi (Genova, 1978) affianca ai linguaggi tridimensionali anche il video e la fotografia.

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Silvia Argiolas, Famiglia, 2015

Nasce dalla disamina di stati emotivi e, quindi, da un’originale percezione delle esperienze individuali, la ricerca di Silvia Argiolas, caratterizzata da un’intensa espressività che sa conciliare la struttura del racconto episodico con l’impulso a liberare le energie del segno, della traccia, della materia, anche nell’uso promiscuo di diverse tecniche pittoriche. Attraverso una serie di autoritratti, sovente immersi in una natura selvaggia e umbratile, Argiolas denuncia la fragilità dell’essere umano e mette a nudo istinti e pulsioni che la società civile vorrebbe reprimere, o contenere, in atteggiamenti falsamente pudici. Invece, nei lavori dell’artista assistiamo all’emancipazione delle forze più profonde (e oscure) della natura umana, attraverso una sorta di catarsi liberatoria di emozioni ed energie primordiali. Diversa per linguaggio e stile dall’arte di Carol Rama, eppure straordinariamente affine nell’urgenza dei contenuti, la pittura di Silvia Argiolas ricopre oggi un ruolo unico e dissonante nel panorama dell’arte italiana femminile.

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Tommaso Santucci, Chi è che mi ha buttato nell’ortica?

È una forma di scrittura visiva, che contiene frasi e notazioni grafiche e pittoriche, quella di Tommaso Santucci, un’arte strettamente correlata alla vita quotidiana in ogni suo aspetto. L’artista usa penne a sfera, pennelli e pennarelli, ma anche pigmenti, per registrare il proprio vissuto sui più diversi supporti: scotch di carta, pezzi di cartone, tele e materiali di recupero. Di fatto, le sue opere sono composizioni, assemblaggi che denotano un gusto per l’accumulo e la stratificazione, ma anche per una fertile, originale combinazione di stili e linguaggi. A emergere è soprattutto l’immediatezza di una grammatica che tenta di restituire la fragranza del momento e insieme, l’irripetibilità dell’esperienza vitale attraverso lacerti di scrittura, scarabocchi, disegni, macchie di colore oppure marchi, simboli e insegne dipinte secondo una logica associativa che rimanda tanto alle sperimentazioni dadaiste e surrealiste, quanto all’istintiva spontaneità del graffitismo urbano.

Les bagnantes (deposizione) (2015), olio, acrilico, foglia d'oro e inserto in carta su tavola, 50x50 cm - mail

Carlo Alberto Rastelli, Les bagnantes (deposizione), 2015

Meditata e progettata è la pittura di Carlo Alberto Rastelli, tutta intesa a rileggere i generi del ritratto e del paesaggio con una sensibilità attenta al dettaglio realistico, ma anche alla costruzione di pattern geometrici e tessiture astratte. In particolare nei ritratti, l’attitudine mimetica, quasi iperrealistica, s’intreccia con il gusto caricaturale per l’ipertrofia e la deformazione, che traduce le fisionomie di amici e conoscenti in un’allucinata galleria di tipologie caratteriali dove è lecito scorgere l’amore dell’artista per i corpi tumefatti di Lucian Freud e per le anatomie irregolari di John Currin, ma anche per gli anti eroi dei romanzi di Irvin Welsh e Bret Easton Ellis. Un elemento che ricollega il lavoro di Rastelli con le esperienze neofigurative italiane dello scorso ventennio è, invece, rintracciabile nell’influenza che i cartoni animati e il cinema di fantascienza hanno esercitato sul suo modo di concepire la rappresentazione. Soprattutto nei paesaggi, anch’essi segnati da inquadrature grandangolari, si avverte la predilezione per una natura apocalittica (e catastrofica) che sta all’incrocio tra le visioni distopiche di Philip Dick o James Ballard e i sublimi scenari naturali di Caspar David Friedrich.

La ricerca di Elena Monzo è ancorata a una solida base disegnativa e sviluppa il gusto lineare del Secessionismo viennese e dell’Orientalismo fin de siecle in direzione di un espressionismo estremo. L’approccio sperimentale dell’artista, evidente negli innesti materici di carte metalliche, imballaggi di cartone, veline, garze, pizzi, unghie finte e fiocchi, si accompagna all’interesse, quasi esclusivo, per un’iconografia femminile perturbante composta di caratteri folli e diabolici. Le sue Dee, cortigiane, contorsioniste, prostitute, geishe – donne più fatali che letali -, sono impegnate in azioni ambigue ed equivoche e hanno spesso posture contorte, spasmodiche che alludono alle convulsioni provocate da un dolore lancinante o da un’irrefrenabile pulsione erotica. Elena Monzo è riuscita a inventare un universo sulfureo e inquietante che piacerebbe a David Lynch e a Peter Greenway, un mondo fatto di eroine psicotiche e allucinate, violente e instabili, ma anche magnificamente emancipate e perversamente moderne.

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Serena Zanardi, Carezza al lago, 2013

Artista multidisciplinare, che spazia dalla fotografia al video all’installazione, Serena Zanardi si è recentemente concentrata sulla produzione di opere in terracotta e ceramica. Le sue sculture sono il prodotto di un processo di rielaborazione di ricordi personali e di fotografie tratte da album di famiglia o recuperate nei mercatini dell’antiquariato. Zanardi cerca di ridare vita a immagini anonime, la cui memoria è stata cancellata dal passaggio del tempo, fornendo loro una nuova identità plastica. La riproduzione fedele e mimetica di soggetti fotografici in forme monumentali passa attraverso un’operazione di replacement ambientale, che rivitalizza le immagini, collocandole in un nuovo contesto. Ad esempio, in Pic Nic (2013) il petit dejeuner si svolge ironicamente sullo sfondo di un cestino per vivande in scala reale, mentre le educande di Un grand sommeil noir (2012) sono sdraiate su un immaginario tappeto d’erba che, però, ogni volta assume i connotati della superficie su cui la scultura è posata. Più spesso, come si vede in Carezze al lago (2013) e in Be Forest #1 (2014), a dominare le opere di Serena Zanardi è l’atmosfera malinconica e un po’ fané dei vecchi dagherrotipi o dei ricordi in bianco e nero.

In bilico tra scultura e design, la ricerca di Ester Pasqualoni è, invece, tesa alla costruzione di volumi essenziali, geometricamente scanditi da ordinate linee e contorni nitidi. Sono oggetti di alluminio e plexiglas, per lo più quadrati o cubici, concepiti come contenitori o espositori di un campionario di frammenti oggettuali. Si tratta prevalentemente di brandelli di plastiche recuperate, usate per il packaging di prodotti di largo consumo, di cui l’artista valorizza le qualità di lucentezza, trasparenza, texture, colore e consistenza. Una volta trattati e suddivisi in diverse tonalità cromatiche, i frammenti plastici sono inseriti all’interno dei contenitori in comparti regolari, oppure sono sospesi su linee parallele di fili di nylon a formare una fitta griglia tridimensionale. L’obiettivo dell’artista è di far dialogare le sue strutture geometriche (e pensili), incarnazioni plastiche dell’immaginario della pittura astratta, con la luce e con lo spazio. A differenza, però degli artisti ottici e analitici degli anni Sessanta, Ester Pasqualoni non è interessata solo all’analisi dei meccanismi percettivi e dei fenomeni luministici, ma anche alla trasmissione di nuovi valori etici ed estetici.

[1] Jean Clear, Critica della modernità, p. 14, Umberto Allimandi & C., 1984, Turin.


Six overviews on the present

by Ivan Quaroni

“La rétine fait toutes choses contemporaines”
(Paul Valéry)

Nobody knows exactly what contemporary art is. Conventionally, it refers to artistic expressions dating from the birth of the historical Avant-garde to the present. However, such periodisation will have to come to an end. What will come next? Post-contemporary art? The definition of contemporary art itself is ambiguous and problematic. First of all it involves a highly varied plethora of antithetical trends, expressions, ways and means. Secondly, it does not denote a leading line of thought. Thirdly, the adjective “contemporary” is not convincing, for it refers to the simultaneous presence of many factors, without solving the problem of a specific quality. After all, the art of every period has been “contemporary” at a given moment, that is, coeval to its first users. Furthermore, the art of the present is as contemporary as the art of the past since we can still enjoy it even if the artists who created it are dead. The works of Leonardo, Raffaello, Michelangelo, or at least what we have of their production, are as available as the works of Jeff Koons, Maurizio Cattelan or Matthew Barney. All these works are here, contemporary, to be seen (and experienced) by the audience of the present age. Maybe Vittorio Sgarbi is right when, far from common interpretations of art, claims that all art is contemporary: ancient, medieval, modern and current art. It is indeed a difficult matter to be solved by official art historiography. Meanwhile, we can look at current works being aware of terminology restrictions which force us to consider its quality according to its relevance to current historical, economic, social and political conditions, bearing in mind that the artist’s values and the community’s values can either fit together or, as it often happens, collide.

For the first time, Leonardvs Bottega d’Arte is dealing with the research of artists under forty, showing us that young Italian artists do not have one face but many faces, moving forward, to the future, backwards, to the past, but keeping the present as their starting point. It would be useless to establish a scale of values with the most formally daring works placed at the top and the most nostalgic ones at the bottom. In fact, some formal experiments may be unfruitful, while a new interpretation of the past can be incredibly up-to-date. Borrowing the words of Jean Clair, the linguistic variety of the young Italian art reflects the disjecta membra[1] of reality, it shows the fragmentary nature of the flow of time we inevitably live in. Art is a constantly changing system of signs, which changes with the times. Being into art today means to set off a journey of reseach and analysis which may reveal new and even more suitable expressive choices. What really matters is the artist’s ability to find solutions and perspectives suitable to the spirit of the times. Ultimately, art itself is a patchwork of moods, atmospheres and intuitions which can show us just a limited part of the contemporary world.

The challenge of the present exhibition is to bring together samples of the varied and contrasting Italian contemporary scene – and we hope this is only the first step. In fact, the six artists presented here could not differ more from each other. Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), Elena Monzo (Brescia, 1981), Carlo Alberto Rastelli (Parma, 1986) and Tommaso Santucci (Pisa, 1981) work in the painting field, Ester Pasqualoni (Roma, 1980) focuses on sculpture and installation art, while Serena Zanardi (Genoa, 1978) works with three-dimensional forms, video and photography.

Silvia Argiolas’s research comes from an accurate examination of emotional states, that is, from an original perception of individual experiences. Her work has an intensive expressiveness which blends the structure of episodic narration into the impulse of freeing the energy contained in signs, hints, matter, and even in the promiscuous use of different pictorial techniques. Through a series of self-portraits, often plunged into a dark and wild nature, Argiolas denounces human frailty and takes the wraps off instincts and drives which civilized society would like to repress or restrain with falsely modest behaviours. Instead, the artist’s works free the deepest (and darkest) forces of human nature through a sort of catharsis of primitive emotions and energies. Silvia Argiolas’s painting is different from Carol Rama’s in language and style, though they share the pressing contents. Today, Argiolas’s work plays a unique and discordant role in the Italian female art scene.

Tommaso Santucci’s art is a form of visual writing, containing sentences, graphic and pictorial signs, with a close link to everyday life. The artist uses ballpoint pens, brushes and felt-tip pens, but also pigments, to convey his life experiences, on different surfaces: paper tape, pieces of carton, recycled cloth and other recycled materials. His works are compositions and assemblages which show, on the one hand, his predilection for piling up and layering and, on the other, a productive and original combination of styles and languages. A structural order comes out, trying to return the freshness of the moment, the uniqueness of vital experience, through chunks of writing, scribbles, drawings, stains of colour, or brands, symbols and signboards painted with an associative logic which recalls both dadaistic and surrealistic experiments and instinctive urban graffiti.

Carlo Alberto Rastelli presents a pondered and planned painting, aiming at revisiting portrayal and landscape genres, with a sensitivity to realistic details and also to the construction of geometric patterns and abstract weavings. In his portraits, in particular, his mimetic aptitude, almost hyperrealistic, meets a caricatural predilection for hypertrophy and deformation, which transforms his friends’ and acquaintances’ physiognomy into a crazed gallery of personality types where we can notice the artist’s love for Lucian Freud’s tumefied bodies and John Currin’s deformed bodies, but also for the anti-heroes of Irvin Welsh’s and Bret Easton Ellis’s novels. Furthermore, one element which links Rastelli’s work to the Italian Neo-figurative experience of the past twenty years can be found in the influence cartoons and science-fiction cinema have on his concept of representation. Particularly in lanscapes, characterised by wide-angle framings, we can see his apocalyptic (and catastrophic) vision of nature, which stands between Philip Dick’s or James Ballard’s dystopic visions and Caspar David Friedrich’s sublime natural settings.

Elena Monzo’s research is grounded to a solid drawing base and develops the linear taste of Vienna Secessionist movement and fin-de-siecle Orientalism, towards an extreme expressionism. The artist’s experimental approach, clearly visible in the combination of materials (metallic cards, carton packaging, tissue paper, gauze, lace, artificial fingernails and bows) goes along with her almost exclusive interest for an upsetting female iconography made of crazed and devilish features. Her goddesses, courtesans, contortionists, prostitutes and geishas – femmes fatales more than femmes letáles -, are engaged in ambiguous and equivocal actions and often have twisted, spasmodic postures, which recall the convulsions caused by a piercing pain or an irrepressible erotic impulse. Elena Monzo has been able to create a sulphurous and worrying universe, in line with David Lynch’s and Peter Greenway’s vision, a world of psychotic, crazed, violent, unstable heroines, who are also wonderfully emancipated and perversely modern.

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Serena Zanardi, Be Forest # 1, 2014

Serena Zanardi is a multidisciplinary artist, who works with photography, video and installation. She has recently focused on terracotta and pottery. Her sculptures come from the processing of personal memories and photos taken from family albums or antiques markets. Zanardi tries to revitalise anonymous images, whose memory has been erased by time, giving them a new plastic identity. Faithful and mimetic reproduction of subjects appearing in photographs implies the replacement of their environment, a process which revitalises the images in a new context. For example, in Pic Nic (2013) the petit dejeuner takes place with a real scale picnic basket in the background, while the pupils of Un grand sommeil noir (2012) are lying on an imaginary grass carpet which assumes the characteristics of the surface on which the sculpture is placed. Often, a melancholic, a bit fané, atmosphere dominates Zanardi’s work, as in Carezze al lago (2013) and Be Forest #1 (2014), an atmosphere which belongs to old daguerreotypes or black and white memories.

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Ester Pasqualoni, Studio Blu, 2014

Ester Pasqualoni’s research is in the balance between sculpture and design, aiming at the creation of essential volumes, which are geometrically divided by tidy lines and clear borders. They are objects made of aluminium and plexiglass, mainly squares or cubes, created as containers or displays for a collection of pieces of objects. There are chunks of recycled plastic packaging from convenience goods, whose brightness, transparency, texture, colour and consistency are valorised. Once treated and divided according to colour, these chunks are placed in containers, inside regular spaces, or hanging on parallel nylon threads, forming a dense three-dimensional web. The aim of the artist is to create a dialogue between her geometric (and hanging) structures, plastic embodiment of abstract painting, with light and space. Unlike 60s Optical and Analytical Artists, Ester Pasqualoni is not only interested in the analysis of perceptive mechanisms and optical phenomena, but also in promoting new ethical and aesthetical values.

[1] Jean Clear, Critica della modernità, pag. 14, Umberto Allimandi & C., 1984, Torino.


Info:

6 Visioni
a cura di Ivan Quaroni
Leonardvs Bottega d’Arte
Via Marina di Ponente 1, Sestri Levante (GE)
Opening: Domenica 6 dicembre, ore 17.00
Dal 6 dicembre 2015 al 10 gennaio 2016

Matteo Negri. Multiplicity

23 Nov

di Ivan Quaroni

“Può essere artista solo colui che
ha una intuizione dell’infinito.”
(Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel)

“L’architettura della matematica è come quella di una città, i cui sobborghi non cessano di crescere…”
(Nicholas Bourbaki)

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Kamigami Box (green), 2015, ferrocromato, legno, specchio, 67x67x60 cm.

La ricerca plastica e pittorica di Matteo Negri non è mai stata connotata da una scelta linguistica definita, né dall’intenzione di operare entro i confini dell’astrazione, escludendo definitivamente ogni approccio figurativo. L’artista, infatti, appartiene a una generazione esteticamente post-ideologica, cui queste categorie devono apparire vecchie e fruste. E, in effetti, nel suo lavoro, suggestioni iconiche e aniconiche s’intrecciano e si alternano senza soluzione di continuità.

Tony Godfrey, autore del fortunato volume Painting Today (Phaidon Press), forse includerebbe il suo lavoro nella definizione di “Astrazione ambigua”. Eppure, si potrebbe, altrettanto legittimamente, parlare di una “Figurazione ambigua”, in cui suggestioni iconografiche, tensioni analitiche e ambizioni concettuali ricoprono un ruolo egualmente fondante.

Quello che intendo dire è che non è possibile dare una lettura esclusivamente formale e linguistica del lavoro di Negri, perché la sua indagine è piuttosto radicata in un modello operativo che assume, di volta in volta, connotati specifici e che si sviluppa in maniera autonoma e adeguata alle esigenze programmatiche e ideative del momento. Questo non significa, ovviamente, che la ricerca di Negri non abbia nel tempo sviluppato una propria grammatica formale, una logica linguistica, per lo più basata su una solida esperienza artigianale, tecnica e progettuale. Basti considerare che gran parte della sua produzione recente, caratterizzata dall’approfondimento di un’intuizione che risale almeno al 2008, include la reinterpretazione del Lego brick, il mattoncino inventato da Ole Kirk Christiansen e divenuto l’emblema dei kit di montaggio per bambini. Con spirito di détournement, insieme ludico e analitico, Negri ha trasformato il celebre lingotto danese in un lemma plastico funzionale, un modulo che gli consente di articolare un’ampia gamma di applicazioni, in una varietà di materiali che vanno dalla plastica al metallo, dalla resina alla ceramica.

I Kamigami box rappresentano l’ultima evoluzione in chiave sperimentale di questo concetto e introducono, rispetto alle formulazioni precedenti, un nuovo schema percettivo, dove il modello compositivo ispirato alle strutture ortogonali di Piet Mondrian è replicato all’infinito attraverso l’inserzione di pareti specchianti. Il lavoro scultoreo è concentrato principalmente sulla pianta quadrata e si sviluppa plasticamente nell’alzato. Lungo i lati della base sono erette quattro pareti lignee di diverse altezze e dalle superfici interne riflettenti. Il Kamigami box diventa quindi un recipiente d’illusioni prospettiche che reiterano il pattern plastico collocato sul fondo del contenitore. L’immagine virtuale, generata dalla riflessione multipla e ridondante degli specchi, suggerisce l’idea di un reticolo urbano colto a volo d’uccello, lo stradario sconfinato di una metropoli costruita da bambini e pensata come una sequenza illimitata di blocchi colorati. La città infinita, smisurata e tentacolare è una delle invenzioni tipiche della fantascienza distopica, ma in questo caso, essa rappresenta più che altro l’epitome visiva dei concetti di “ripetizione” e “differenza”.

Secondo Gilles Deleuze, il modo in cui noi occidentali intendiamo i concetti di ripetizione e differenza, ha finito per cristallizzare la visione dell’essere come rappresentazione. Cioè siamo capaci di cogliere un fenomeno solo attraverso la sua ripetizione in modi e circostanze differenti. Nel concetto di ripetizione differente i due termini sono strettamente correlati e l’uno è assoggettato all’altro. Invece, nelle filosofie orientali, come il Taoismo, il Buddismo o il Confucianesimo, esiste una forza immanente che unifica tutte le manifestazioni del molteplice. Non c’è alcuna antitesi tra il principio unificate e le sue espressioni differenziate. Il Tao, ad esempio, è un principio che unifica il Molteplice. Il problema dell’antitesi, tutta occidentale, tra Uno e Molteplice ha, naturalmente, una ricaduta nell’ambito delle espressioni artistiche. Recuperando, concettualmente, un termine della lingua giapponese (Kamigami) che indica la divinità (o lo spirito) nelle sue accezioni di pluralità, ripetizione, infinitezza, Matteo Negri perviene a un modello di rappresentazione iterativa che ricorda i diagrammi mantraici e mandalici o le geometrie replicative dei frattali. I Kamigami box sono, dunque, un tentativo di sintesi e composizione di un problema percettivo complesso, che sta alla base delle sostanziali difformità tra l’arte orientale e quella occidentale. Essi segnano anche un rinnovato interesse per le sperimentazioni ottiche condotte in Europa negli anni Sessanta e per l’analisi delle dinamiche di fruizione estetica. Oltre a essere oggetti tridimensionali, questi poliedri irregolari, dalle superfici dipinte in colori pastello, sono dispositivi di rifrazione ottica che richiedono la partecipazione attiva e motoria dell’osservatore. La visione delle strutture interne, reiterate ad libitum, infatti, varia secondo la posizione del punto d’osservazione. Una casistica parziale di tali immagini si ritrova nei lavori bidimensionali: stampe di foto scattate con una macchina Polaroid all’interno dei Kamigami box, che poi vengono digitalmente rielaborate attraverso la reduplicazione simmetrica dei soggetti.

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Greenlight, 2015, stampa flatbed su alluminio e tecnica mista, 100x80x6 cm.

Tutte le fotografie sono stampate su supporti di alluminio per riprodurre la qualità luministica delle superfici specchianti dei cubi. Negri, tuttavia, adopera un processo di stampa che esclude il bianco e che, quindi, radicalizza i contrasti cromatici, così da intervenire pittoricamente su ogni foto con colori solitamente usati per dipingere lastre e oggetti di vetro. I colori per vetro, posti a contatto con la lastra metallica, esasperano gli effetti di luce, senza peraltro alterare la struttura dell’immagine, che continua a dare l’impressione di un paesaggio urbano caleidoscopico e moltiplicato che, tuttavia, non ha più nulla dell’atmosfera ludica e infantile riflessa all’interno delle sue scatole.

Paradossalmente, proprio in questo ciclo di opere emerge l’indole occidentale del lavoro di Negri, artista costantemente in dialogo con l’immaginario pop della cultura di massa. Le città immense, debordanti verso un orizzonte irraggiungibile, così simili, nella struttura, agli schemi dei circuiti elettronici, rimandano inevitabilmente alle utopie negative del cinema e della letteratura cyberpunk. I conglomerati metropolitani di Negri, infatti, racchiudono l’infinito in una trama dispotica di linee cartesiane, di geometrie innumeri, eternamente replicanti, che avvolgono, innervandola, la struttura stessa della realtà. La ripetizione infinita e lo spirito plurale possono, allora, assumere due aspetti antitetici, uno positivo, l’altro rovesciato. Il primo, benevolo, si chiama Kamigami, il secondo, senza nome, somiglia terribilmente alla Matrix immaginata dai fratelli Wachowski.

Matteo Negri – Multiplicity
a cura di Ivan Quaroni
ABC-ARTE for Maryling 
piazza Gae Aulenti 1, Milano
Dal 27 Novembre 2015 al 29 Dicembre 2015
Vernissage, mercoledi 2 Dicembre 2015 ore 19.00-23.00
ABC-ARTE
Via XX Settembre 11A,
16121 Genova – Italia
e-mail: info@abc-arte.com
T. +39 010 86.83.884
F. +39 010 86.31.680

by Ivan Quaroni

“Only he who possesses an original view of infinity

can be an artist”
(Karl Wilhelm Fredrich von Schlegel)

“Mathematics is like a big city, whose outlying districts encroach incessantly…”
(Nicholas Bourbaki)

Matteo Negri’s sculptural and pictorial research has never been underlined by a specific choice of language or the intention to work into abstraction, with the consequent exclusion of any figurative approach. This artist belongs to a aesthetically post-ideological generation. These categories appear old and thrashed to him. Indeed, he interchanges and mixes iconic and aniconic sources of inspiration. Tony Godfrey, author of the well-received Painting Today (Phaidon Press), perhaps would include Negri’s work under the “Ambiguous abstraction” definition. On the other hand, I would mention an “Ambiguous Representation”, where iconic references, analytical tensions and conceptual ambitions share the same basic importance.  It is impossible to look at Negri’s work exclusively through formal and linguistic tools. His research is based on an operation model which changes its characteristics every time. It grows and develops independently and easily adapts to the present needings and ideas. This does not mean Negri hasn’t developed his formal artistic language and logic during his career. These are based on solid artisan, practical and planning experience. Most of his recent production, based on his 2008 intuition, includes the re-interpretation of the Lego brick, invented by Ole Kirk Christiansen and symbol of the assembly-kit for kids. Animated by detournement spirit and supported by an analytical vision, Negri transformed the famous Danish brick into a functional plastic lemma. This module allows him to build a wide selection of combinations, using many different textures such as plastic, metal, resin and ceramic.

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Kamigami Box (Yellow), 2015, ferrocromato, legno, specchio, 88x88x115 cm.

The Kamigami box represent the newest experimental evolution of this concept. Differently from the past, a new perceptive scheme is introduced here. The model, inspired by Piet Mondran’s orthogonal structures, is repeated an infinity of times, thanks to the use of mirroring walls. The sculptural work is focused on the squared structure and is mainly developed through elevation. Along the sides at the base, there are four wooden walls of different heights which reflect the internal surfaces. The Kamigami box becomes the container of perspective illusions replayed by the plastic pattern on its bottom. This virtual image, created by the multiple and overloaded reflection, suggests the idea of an urban street-web seen as from a bird’s point-of-view, endless streets cross over the metropolis built by kids and conceived as an infinite sequence of coloured blocks. This limitless, vast and tentacular city is a typical invention from dystopic science fiction. It symbolizes here the visual paradigm of the concept of “repetition” and “difference”.

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Kamigami Box (Rose), 2014, ferrocromato, legno, specchio, 96x96x86 cm.

By Gilles Deleuze, the way Western people used to think of the concepts of repetition and difference has cristallized the vision of existence as representation. We are able to catch a phenomenon only through its repetition in different ways and contexts. In the concept of different repetition , these two words are strictly connected and depend on each other. Instead, Eastern philosophies like Taoism, Buddhism, Confucianism include an immanent force which unites every manifestation of the multiplicity. There is no antithesis between the unifying principle and its different expressions. Tao, for instance, is a principle unifying the Multiplicity. The Western problem of anthitesis between One and Multiplicity shows its repercussions on artistic expressions. Using the Japanese word (Kamigami) for divinity or spirit in its own meaning as plurality, repetition, infinity, Matteo Negri builds a model of iterative representation, similar to Mantra, Mandalic diagrams or the Frattal geometries. Kamigami box are the attempt to synthesize and settle a complex perceptive problem at the base of the difference between Estern and Western art. It is also evident the artist’s renewed interest for the dynamics of aesthetic fruition and the European optical experimentations of the Sixties. These irregular polyhedra, with surfaces painted in bright colours, are three dimensional objects and devices of optical refraction, which need the active and dynamic participation of the observer. The internal structures are repeated ad libitum, while their vision depends on the observer’s position. Some of these images can be found in the bidimensional pictures: Polaroid photo prints inside the Kamigami box are then re-worked in a digital way through the symmetrical reproduction of the images.

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Matogrosso, 2015, stampa flatbed su alluminio e tecnica mista, 100x80x6 cm.

All photographs are printed on aluminium supports to enhance the brighting quality of the cubes’ mirroring surfaces. Though, Negri excludes the white colour from the printing process to polarize the chromatic contrasts. He paints on the photos with colours used for objects and surfaces made by glass. These colours are applied on metal sheets and intensify the light effects, without modifying the image’s structure. It does still give the impression of a kaleidoscopic and multplied urban landscape, but it’s got nothing to share with the playful and childish atmosphere inside the boxes. Ironically, Negri’s Western attitude emerges as an artist in constant connection with the pop imaginary of mass culture through this series of work.

These immense cities trespass any unreachable horizon. Their structure, so similar to electronic circuits, reminds us of the negative utopia in cinema and cyberpunk literature. Negri’s metropolitan conglomerations hold the infinite in an authoritarian web of Cartesian lines and innumerable geometries, they forever replay and envelop the structure of reality. The endless repetition and the plural spirit may assume two antithetical aspects: positive and reversed. The first is good and is called Kamigami; the second, nameless, evokes the Matrix imagined by the Wachowski brothers.

Matteo Negri – Multiplicity
curated by Ivan Quaroni
ABC-ARTE for Maryling 
piazza Gae Aulenti 1, Milan (Italy)
From 27 November to 29 December 2015
Opening, Wednsday 2 December 2015; h 7.00-11.00 p.m.
ABC-ARTE
Via XX Settembre 11A,
16121 Genua – Italy
e-mail: info@abc-arte.com
T. +39 010 86.83.884
F. +39 010 86.31.680

 

Giovanni Motta. When We Were Younger

19 Nov

di Ivan Quaroni

 

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Deep Deep

Tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con maraviglia, tutto come per la prima volta.” (Giovanni Pascoli, Il fanciullino)

Potete scegliere di cambiare e permettere ai miracoli di farsi avanti nella vostra vita.” (Joe Vitale, Expect Miracles)

 

La creatività non è periferico-dipendente” sostiene Bruce Mau, un innovativo designer canadese impegnato nell’applicazione dei principi di progettazione ai più disparati campi della salute, dell’educazione e della sicurezza. Secondo Mau, infatti, per creare è necessario dimenticarsi della tecnologia, evitando i software che sono ormai a disposizione di tutti, e cercando di pensare con la propria testa. Uno dei più fatali errori in arte consiste nel confondere l’innovazione con la mera novità, ma è un errore che Giovanni Motta non ha mai fatto.

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How to Capture the Essence in an Afternoon Sleep

La sua ricerca artistica si avvale della tecnologia in modo sensibile, peraltro senza mai prendere il sopravvento sull’aspetto creativo e fantastico o sul contenuto puramente artigianale del lavoro. La tecnologia è semplicemente uno strumento che abbrevia i tempi di realizzazione, ma non necessariamente quelli di progettazione, e che aiuta l’artista ad accorciare il percorso tra l’idea e il manufatto che la rappresenta. A Bruno Munari piacerebbe il modo con cui Giovanni Motta risolve i problemi connessi allo sviluppo di un pensiero e alla sua relativa concretizzazione fisica perché, sono certo, che il suo iter sia la messa in opera dei concetti e delle intuizioni che il famoso designer italiano ha fissato nelle pagine di Da cosa nasce cosa, il manuale di progettazione che tutti gli artisti dovrebbero conoscere.

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One Hundred Small Players

Lo studio di Giovanni Motta somiglia a un laboratorio tecnologico perché per realizzare le sue sculture, l’artista si avvale di strumenti sofisticati, come scalpelli e stampanti 3D. Questo non significa, però, che l’intero processo sia automatizzato. Tutt’altro. L’artigianalità della modellazione in scultura, come pure l’acribia tecnica della miniatura (e della serigrafia) in campo pittorico sono quelli tradizionali. La sua è una ricerca profondamente umanistica, in cui la fusione di arte e tecnica conduce a risultati strabilianti, ma di cui, fatalmente, o forse fortunatamente, l’osservatore non può accorgersi. Qualcosa di simile accade nelle opere di Takashi Murakami o di Jeff Koons, in cui l’impatto iconico sovrasta, e anzi obnubila, i dettagli tecnici della produzione. In sostanza, la forma finale cancella l’iter e libera l’oggetto dai presupposti ideativi, concettuali e strutturali che presiedono alla sua creazione, per lasciar prevalere lo stupore e la meraviglia delle immagini, elementi chiave del suo modo d’intendere l’arte.

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The Undesired Effect of a Prohibited Stroke

Tutto il lavoro di Giovanni Motta ruota, infatti, attorno alla natura prodigiosa dell’esistenza umana, alla qualità portentosa, e a tratti terrificante, della vita stessa, a quella particolare energia che nell’età adulta sembra opacizzarsi e depotenziarsi drasticamente, ma che è, invece, vivida e pulsante durante i periodi dell’infanzia e della pre-adolescenza. Si tratta di un tema che vanta una pubblicistica sconfinata e che parte virtualmente dalle formulazioni mitologiche del puer aeternus e arriva fino alle recenti teorie sui Bambini Indaco. In mezzo c’è ovviamente gran parte della letteratura fantastica occidentale – dal Piccolo Principe di Saint-Exupéry all’Alice di Carroll e al Peter Pan di Barrie – ma anche dell’immensa produzione di manga e anime giapponesi, che ha praticamente ridefinito l’identità fisica e psicologica dell’infanzia nell’era post-atomica.

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Johnny Boy

L’universo artistico e visivo di Giovanni Motta è, direttamente e indirettamente, suggestionato da questi riferimenti culturali, come si può evincere dalla fisionomia dei suoi mostri e dei suoi bambini, debitori dell’immaginario fantastico e avveniristico dei cartoni animati di Go Nagai e soprattutto dei film di Hayao Miyazaki. Eppure, non è il linguaggio formale dei manga il vero movente della sua ricerca, quello, per intenderci, che ha ampiamente plasmato il lavoro di tanti artisti contemporanei, non solo quelli orbitanti intorno alla Kaikai Kiki, la factory del fondatore del movimento Superflat, ma anche quelli che ingrossano le fila di alcune frange del cosiddetto Pop Surrealism americano.

Come la tecnologia, anche il linguaggio scelto dall’artista veronese è soprattutto uno strumento, un pretesto espressivo, per indagare a fondo (e in maniera comprensibile a tutti) il miracolo dell’innocenza e il suo carattere potenzialmente esplosivo. Ecco perché l’iconografia dei suoi dipinti e delle sue sculture pullula di mostri e chimere, esseri deformi e creature ibride che incarnano aspetti inquietanti oppure straordinari dell’esperienza infantile. Giovanni Motta è interessato al recupero di stati emozionali, di attimi che si fissano nella memoria in forma di ricordi indelebili soprattutto nell’infanzia e nella pubertà, quando anche i più piccoli accadimenti sono vissuti con una grande intensità. Il mostro diventa allora la trascrizione visiva e immaginifica di una magia emozionale, di un picco energetico nel diagramma dei sentimenti quotidiani. La parola monstrum in latino indica il manifestarsi di un portento che sovverte l’ordine naturale delle cose. Secondo gli antichi, il mostro aveva anche il valore di un avvertimento, di un monito divino. Prodigiosa invece, per l’artista, è piuttosto la possibilità di plasmare un ricordo, di dargli corpo e sostanza in una forma eloquente, che è poi quello che fanno i bambini quando disegnano le proprie emozioni.

Non è un caso che i capostipiti dei tanti mostri di Giovanni Motta, Blue Julian e Red Atomic, siano nati dalla fantasia dei suoi figli, in foggia di piccole statuette di pongo. Questo aneddoto chiarisce come spesso le sue opere nascano da un rapporto stringente tra immaginazione e realtà. E, infatti, ogni scultura è, in qualche modo, collegata a un episodio presente o passato, a un ricordo che l’artista traduce nella grammatica allegorica e metaforica della creta modellata e della resina stratificata con la tecnologia della stampa 3D.

Presi tutti insieme, come ad esempio nell’installazione One Hundred Small Players, i suoi luccicanti e levigatissimi mostri compongono un esercito silente e variegato di memorie, un campionario che sviscera le casistiche emozionali dell’infanzia alla maniera di un bestiario fantastico e futuribile. Non ci sono repliche: i mostri sono tutti diversi. Ognuno di essi allude a una storia cui possiamo risalire solo decifrandone gli attributi specifici (corna, spine, tentacoli, guanti di gomma e cuori pulsanti) come fossero indizi di una memoria labile e imprecisa, che l’immaginazione beffarda ricompone a suo piacimento. Sono animelle dai contorni mobili con una fisionomia instabile, approssimativa e incompleta come quella dei fantasmi e dei poltergeist. Non somigliano ai graziosi mostriciattoli che i giapponesi includono nell’estetica kawaii, il tipo di cuteness che caratterizza celebri personaggi come Hello Kitty o Miffy, dai tratti nitidi, lineari, facilmente riproducibili e che servono a suscitare sentimenti di tenerezza.

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Four Hours ‘Till the Bell Rings

I mostri di Motta non sono cuccioli, sono prodigi, solidificazioni di una magia potente e magmatica, per natura destabilizzante. Perfino nei dipinti, eseguiti con una tecnica che sfiora la perfezione della stampa digitale, i suoi mostri sembrano formare una marea ribollente e caotica, che somiglia solo superficialmente a un pattern grafico. Dentro ogni quadro, per quanto possa apparire simile a una texture dai colori intensi e vibranti, questi esseri fluttuano trascinati da un’invisibile corrente, irresistibile e violenta quanto le spirali di un maelstrom. “L’infanzia è un incubo”, scriveva Sheldon Kopp[1], ma la sua era ovviamente la prospettiva dello psicanalista alle prese con le conseguenze dei danni provocati dagli adulti sulla psiche dei bambini, quegli stessi che, a distanza di anni, sarebbero diventati suoi pazienti. Eppure, l’esperienza del trauma è intimamente connessa all’infanzia, a prescindere dal contributo degli adulti. Quando non è di tipo fisico e organico, il trauma si riferisce all’irrompere di un’emozione improvvisa e violenta, capace di provocare un’alterazione nell’attività psichica. Si tratta, quindi, di un evento inevitabile nel processo di crescita di ognuno. Giovanni Motta ha intuito la similitudine tra il traumatico e il mostruoso e ne ha fatto l’oggetto della sua ricerca individuando, nell’arco temporale tra i sette e i dodici anni di vita, il periodo di massima turbolenza emotiva.

La sua prospettiva è, però, quella del bambino, o meglio del fanciullo interiore, che incarna l’unica possibilità di riscatto per l’uomo. Per Giacomo Leopardi era una voce nascosta nel profondo di ogni individuo, un impulso che sfugge ai sensi e alla ragione, ma è capace di entrare in contatto col mondo attraverso l’immaginazione. Per Giovanni Motta è, invece, la facoltà di recuperare il senso magico dell’esistenza, di riallinearsi con le forze primigenie e soprannaturali che producono ogni vera esperienza vitale.

Tra i lavori dell’artista ci sono immagini che esprimono emblematicamente questa facoltà come, ad esempio, How to Capture the Essence in an Afternoon Sleep, un dipinto che rappresenta un bambino addormentato, mentre precipita, metaforicamente, nel vuoto pneumatico di un sogno popolato di mostri, epifenomeni, ancora una volta, di chissà quali oscuri tripudi e segreti palpiti dell’anima. Quello che colpisce, però, in questo dipinto così come nel trittico plastico in cui compare il medesimo bambino, è l’innocenza stessa, quella disarmante purezza di spirito che è forse la più alta forma di energia e di potere dell’universo. Qualcosa che ci fa pensare a quando eravamo più giovani, al modo in cui tutto ci sembrava più vivido, e che ora avvertiamo come una nostalgica, salvifica tensione verso la miracolosa autenticità dell’infanzia.

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Converging to Finite Thinking


Note:

[1] Sheldon Kopp, Se incontri il Budda per strada uccidilo. Il pellegrinaggio del paziente nella psicoterapia, Astrolabio, Roma, 1978.


Info:
Giovanni Motta - When We Were Younger
a cura di Ivan Quaroni
Galleria Doppia V
Via Moncucco 3, Lugano (Svizzera)
Opening venerdì 27 novembre, ore 6 pm
Dal 27 novembre 2015  al 30 gennaio 2016