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6 Visioni / 6 Visions

30 Nov

 

di Ivan Quaroni

La retina rende tutto contemporaneo”
(Paul Valéry)

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Silvia Argiolas, senza titolo, 2015

Nessuno sa che cosa sia esattamente l’arte contemporanea. Convenzionalmente, si ritiene che tale definizione si riferisca alle espressioni artistiche emerse tra la nascita delle Avanguardie storiche e i nostri giorni, ma è evidente che tale periodizzazione dovrà alla fine concludersi. E allora, che cosa ci sarà dopo? Un’arte post-contemporanea? La definizione è ambigua e problematica per costituzione, innanzitutto perché comprende una pletora variegatissima di tendenze, espressioni, modi e mezzi antitetici. Ha il difetto di non designare una linea di pensiero dominante e, inoltre, non convince quell’aggettivo, “contemporanea”, che allude alla presenza simultanea di molti fattori, ma che lascia sostanzialmente irrisolto il problema di stabilire (se c’è) una qualità specifica. Tutta l’arte, in ogni epoca, è stata a un certo punto “contemporanea”, cioè coeva ai suoi primi fruitori. E, dopotutto, contemporanea è, oggi, tanto l’arte del presente quanto quella del passato, giacché possiamo ancora fruirne, anche se gli artisti che l’hanno creata sono estinti. Le opere di Leonardo, Raffaello, Michelangelo, o almeno quanto ci è pervenuto della loro produzione, sono disponibili tanto quanto quelle di Jeff Koons, Maurizio Cattelan o Matthew Barney. Sono tutte presenti, qui, contemporaneamente, per essere viste (ed esperite) dalla platea dei visitatori di questa epoca. Forse ha ragione Vittorio Sgarbi, quando, fuori dai comuni schemi di lettura del sistema dell’arte, sostiene che essa è tutta contemporanea: quella antica, quella medievale, quella moderna e quella presente. È una questione delicata, che la storiografia artistica ufficiale dovrà risolvere. Ma, intanto, noi possiamo interessarci alle ricerche odierne, consapevoli che le limitazioni terminologiche ci obbligano a vagliare la qualità del lavoro sulla base della loro maggiore o minore attinenza alle condizioni storiche, economiche, sociali e politiche attuali, tenendo conto che i valori dell’artista e quelli della collettività possono coincidere oppure – come più spesso accade – confliggere.

Perroquet, tecnica mista su carta, 2015, cm 160x120

Elena Monzo, Perroquet, 2015

Nel momento in cui Leonardvs Bottega d’Arte si confronta, per la prima volta, con l’ambito delle ricerche di artisti di età inferiore ai quarant’anni, non possiamo che costatare come la giovane arte italiana non abbia un unico volto, ma piuttosto si muova lungo molteplici direttive, spostandosi in avanti, verso il futuro, e indietro, verso il passato, avendo come base di partenza soltanto il presente. Sarebbe infruttuoso stabilire una scala di valori in cui le espressioni formalmente più audaci siano collocate alla sommità e quelle nostalgiche alla base. Non è infrequente, infatti, che certe sperimentazioni formali si dimostrino sterili, laddove certe riletture del passato danno prova di una grande adesione al presente. Per usare una felice espressione di Jean Clair, la varietà linguistica della giovane arte italiana, riflette le disjecta membra[1]della realtà, denota la natura frammentaria e parcellizzata del flusso temporale entro cui siamo tutti, inevitabilmente, immersi. L’arte è un sistema di segni in continua evoluzione, che cambia al mutare dei tempi. Dedicarsi all’arte oggi significa intraprendere un viaggio d’indagine e analisi in grado di svelare nuove, e forse più adatte, scelte espressive. Ciò che conta è la capacità dell’artista di trovare soluzioni e prospettive adeguate allo spirito dei tempi. In fin dei conti, l’arte, nel suo complesso, è un patchwork di umori, atmosfere, intuizioni capaci di riflettere solo una porzione assai limitata del mondo contemporaneo.

La sfida rappresentata da questa mostra, che speriamo costituisca il primo capitolo di una fruttuosa documentazione delle forze vitali ed emergenti dell’arte italiana, consiste nel mettere insieme un campione delle varigate e contrastanti esperienze che compongono la scena contemporanea. E, infatti, i sei artisti qui presentati non potrebbero essere più diversi tra loro. Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), Elena Monzo (Brescia, 1981), Carlo Alberto Rastelli (Parma, 1986) e Tommaso Santucci (Pisa, 1981) si muovono nell’ambito della pittura, Ester Pasqualoni (Roma, 1980) si dedica a scultura e installazione, mentre Serena Zanardi (Genova, 1978) affianca ai linguaggi tridimensionali anche il video e la fotografia.

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Silvia Argiolas, Famiglia, 2015

Nasce dalla disamina di stati emotivi e, quindi, da un’originale percezione delle esperienze individuali, la ricerca di Silvia Argiolas, caratterizzata da un’intensa espressività che sa conciliare la struttura del racconto episodico con l’impulso a liberare le energie del segno, della traccia, della materia, anche nell’uso promiscuo di diverse tecniche pittoriche. Attraverso una serie di autoritratti, sovente immersi in una natura selvaggia e umbratile, Argiolas denuncia la fragilità dell’essere umano e mette a nudo istinti e pulsioni che la società civile vorrebbe reprimere, o contenere, in atteggiamenti falsamente pudici. Invece, nei lavori dell’artista assistiamo all’emancipazione delle forze più profonde (e oscure) della natura umana, attraverso una sorta di catarsi liberatoria di emozioni ed energie primordiali. Diversa per linguaggio e stile dall’arte di Carol Rama, eppure straordinariamente affine nell’urgenza dei contenuti, la pittura di Silvia Argiolas ricopre oggi un ruolo unico e dissonante nel panorama dell’arte italiana femminile.

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Tommaso Santucci, Chi è che mi ha buttato nell’ortica?

È una forma di scrittura visiva, che contiene frasi e notazioni grafiche e pittoriche, quella di Tommaso Santucci, un’arte strettamente correlata alla vita quotidiana in ogni suo aspetto. L’artista usa penne a sfera, pennelli e pennarelli, ma anche pigmenti, per registrare il proprio vissuto sui più diversi supporti: scotch di carta, pezzi di cartone, tele e materiali di recupero. Di fatto, le sue opere sono composizioni, assemblaggi che denotano un gusto per l’accumulo e la stratificazione, ma anche per una fertile, originale combinazione di stili e linguaggi. A emergere è soprattutto l’immediatezza di una grammatica che tenta di restituire la fragranza del momento e insieme, l’irripetibilità dell’esperienza vitale attraverso lacerti di scrittura, scarabocchi, disegni, macchie di colore oppure marchi, simboli e insegne dipinte secondo una logica associativa che rimanda tanto alle sperimentazioni dadaiste e surrealiste, quanto all’istintiva spontaneità del graffitismo urbano.

Les bagnantes (deposizione) (2015), olio, acrilico, foglia d'oro e inserto in carta su tavola, 50x50 cm - mail

Carlo Alberto Rastelli, Les bagnantes (deposizione), 2015

Meditata e progettata è la pittura di Carlo Alberto Rastelli, tutta intesa a rileggere i generi del ritratto e del paesaggio con una sensibilità attenta al dettaglio realistico, ma anche alla costruzione di pattern geometrici e tessiture astratte. In particolare nei ritratti, l’attitudine mimetica, quasi iperrealistica, s’intreccia con il gusto caricaturale per l’ipertrofia e la deformazione, che traduce le fisionomie di amici e conoscenti in un’allucinata galleria di tipologie caratteriali dove è lecito scorgere l’amore dell’artista per i corpi tumefatti di Lucian Freud e per le anatomie irregolari di John Currin, ma anche per gli anti eroi dei romanzi di Irvin Welsh e Bret Easton Ellis. Un elemento che ricollega il lavoro di Rastelli con le esperienze neofigurative italiane dello scorso ventennio è, invece, rintracciabile nell’influenza che i cartoni animati e il cinema di fantascienza hanno esercitato sul suo modo di concepire la rappresentazione. Soprattutto nei paesaggi, anch’essi segnati da inquadrature grandangolari, si avverte la predilezione per una natura apocalittica (e catastrofica) che sta all’incrocio tra le visioni distopiche di Philip Dick o James Ballard e i sublimi scenari naturali di Caspar David Friedrich.

Leonardvs Monzo

Elena Monzo, Bo & Bo, 2014

La ricerca di Elena Monzo è ancorata a una solida base disegnativa e sviluppa il gusto lineare del Secessionismo viennese e dell’Orientalismo fin de siecle in direzione di un espressionismo estremo. L’approccio sperimentale dell’artista, evidente negli innesti materici di carte metalliche, imballaggi di cartone, veline, garze, pizzi, unghie finte e fiocchi, si accompagna all’interesse, quasi esclusivo, per un’iconografia femminile perturbante composta di caratteri folli e diabolici. Le sue Dee, cortigiane, contorsioniste, prostitute, geishe – donne più fatali che letali -, sono impegnate in azioni ambigue ed equivoche e hanno spesso posture contorte, spasmodiche che alludono alle convulsioni provocate da un dolore lancinante o da un’irrefrenabile pulsione erotica. Elena Monzo è riuscita a inventare un universo sulfureo e inquietante che piacerebbe a David Lynch e a Peter Greenway, un mondo fatto di eroine psicotiche e allucinate, violente e instabili, ma anche magnificamente emancipate e perversamente moderne.

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Serena Zanardi, Carezza al lago, 2013

Artista multidisciplinare, che spazia dalla fotografia al video all’installazione, Serena Zanardi si è recentemente concentrata sulla produzione di opere in terracotta e ceramica. Le sue sculture sono il prodotto di un processo di rielaborazione di ricordi personali e di fotografie tratte da album di famiglia o recuperate nei mercatini dell’antiquariato. Zanardi cerca di ridare vita a immagini anonime, la cui memoria è stata cancellata dal passaggio del tempo, fornendo loro una nuova identità plastica. La riproduzione fedele e mimetica di soggetti fotografici in forme monumentali passa attraverso un’operazione di replacement ambientale, che rivitalizza le immagini, collocandole in un nuovo contesto. Ad esempio, in Pic Nic (2013) il petit dejeuner si svolge ironicamente sullo sfondo di un cestino per vivande in scala reale, mentre le educande di Un grand sommeil noir (2012) sono sdraiate su un immaginario tappeto d’erba che, però, ogni volta assume i connotati della superficie su cui la scultura è posata. Più spesso, come si vede in Carezze al lago (2013) e in Be Forest #1 (2014), a dominare le opere di Serena Zanardi è l’atmosfera malinconica e un po’ fané dei vecchi dagherrotipi o dei ricordi in bianco e nero.

NERO ASSOLUTO, 2015 – materie plastiche e plexiglas – 15x15x15 cm

Ester Pasqualoni, Nero assoluto, 2015

In bilico tra scultura e design, la ricerca di Ester Pasqualoni è, invece, tesa alla costruzione di volumi essenziali, geometricamente scanditi da ordinate linee e contorni nitidi. Sono oggetti di alluminio e plexiglas, per lo più quadrati o cubici, concepiti come contenitori o espositori di un campionario di frammenti oggettuali. Si tratta prevalentemente di brandelli di plastiche recuperate, usate per il packaging di prodotti di largo consumo, di cui l’artista valorizza le qualità di lucentezza, trasparenza, texture, colore e consistenza. Una volta trattati e suddivisi in diverse tonalità cromatiche, i frammenti plastici sono inseriti all’interno dei contenitori in comparti regolari, oppure sono sospesi su linee parallele di fili di nylon a formare una fitta griglia tridimensionale. L’obiettivo dell’artista è di far dialogare le sue strutture geometriche (e pensili), incarnazioni plastiche dell’immaginario della pittura astratta, con la luce e con lo spazio. A differenza, però degli artisti ottici e analitici degli anni Sessanta, Ester Pasqualoni non è interessata solo all’analisi dei meccanismi percettivi e dei fenomeni luministici, ma anche alla trasmissione di nuovi valori etici ed estetici.

[1] Jean Clear, Critica della modernità, p. 14, Umberto Allimandi & C., 1984, Turin.


Six overviews on the present

by Ivan Quaroni

“La rétine fait toutes choses contemporaines”
(Paul Valéry)

 

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Serena Zanardi, Un grand sommeil noir, 2012 (part.)

Nobody knows exactly what contemporary art is. Conventionally, it refers to artistic expressions dating from the birth of the historical Avant-garde to the present. However, such periodisation will have to come to an end. What will come next? Post-contemporary art? The definition of contemporary art itself is ambiguous and problematic. First of all it involves a highly varied plethora of antithetical trends, expressions, ways and means. Secondly, it does not denote a leading line of thought. Thirdly, the adjective “contemporary” is not convincing, for it refers to the simultaneous presence of many factors, without solving the problem of a specific quality. After all, the art of every period has been “contemporary” at a given moment, that is, coeval to its first users. Furthermore, the art of the present is as contemporary as the art of the past since we can still enjoy it even if the artists who created it are dead. The works of Leonardo, Raffaello, Michelangelo, or at least what we have of their production, are as available as the works of Jeff Koons, Maurizio Cattelan or Matthew Barney. All these works are here, contemporary, to be seen (and experienced) by the audience of the present age. Maybe Vittorio Sgarbi is right when, far from common interpretations of art, claims that all art is contemporary: ancient, medieval, modern and current art. It is indeed a difficult matter to be solved by official art historiography. Meanwhile, we can look at current works being aware of terminology restrictions which force us to consider its quality according to its relevance to current historical, economic, social and political conditions, bearing in mind that the artist’s values and the community’s values can either fit together or, as it often happens, collide.

Take shalter (2015), olio e acrilico su tavola, 51x68 cm - mail

Carlo Alberto Rastelli, Take Shelter, 2015

For the first time, Leonardvs Bottega d’Arte is dealing with the research of artists under forty, showing us that young Italian artists do not have one face but many faces, moving forward, to the future, backwards, to the past, but keeping the present as their starting point. It would be useless to establish a scale of values with the most formally daring works placed at the top and the most nostalgic ones at the bottom. In fact, some formal experiments may be unfruitful, while a new interpretation of the past can be incredibly up-to-date. Borrowing the words of Jean Clair, the linguistic variety of the young Italian art reflects the disjecta membra[1] of reality, it shows the fragmentary nature of the flow of time we inevitably live in. Art is a constantly changing system of signs, which changes with the times. Being into art today means to set off a journey of reseach and analysis which may reveal new and even more suitable expressive choices. What really matters is the artist’s ability to find solutions and perspectives suitable to the spirit of the times. Ultimately, art itself is a patchwork of moods, atmospheres and intuitions which can show us just a limited part of the contemporary world.

The challenge of the present exhibition is to bring together samples of the varied and contrasting Italian contemporary scene – and we hope this is only the first step. In fact, the six artists presented here could not differ more from each other. Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), Elena Monzo (Brescia, 1981), Carlo Alberto Rastelli (Parma, 1986) and Tommaso Santucci (Pisa, 1981) work in the painting field, Ester Pasqualoni (Roma, 1980) focuses on sculpture and installation art, while Serena Zanardi (Genoa, 1978) works with three-dimensional forms, video and photography.

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Silvia Argiolas, L’acrobata, 2015

Silvia Argiolas’s research comes from an accurate examination of emotional states, that is, from an original perception of individual experiences. Her work has an intensive expressiveness which blends the structure of episodic narration into the impulse of freeing the energy contained in signs, hints, matter, and even in the promiscuous use of different pictorial techniques. Through a series of self-portraits, often plunged into a dark and wild nature, Argiolas denounces human frailty and takes the wraps off instincts and drives which civilized society would like to repress or restrain with falsely modest behaviours. Instead, the artist’s works free the deepest (and darkest) forces of human nature through a sort of catharsis of primitive emotions and energies. Silvia Argiolas’s painting is different from Carol Rama’s in language and style, though they share the pressing contents. Today, Argiolas’s work plays a unique and discordant role in the Italian female art scene.

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Tommaso Santucci, Non credo di essere solo… ma a volte capita di sentirmici, 2015

Tommaso Santucci’s art is a form of visual writing, containing sentences, graphic and pictorial signs, with a close link to everyday life. The artist uses ballpoint pens, brushes and felt-tip pens, but also pigments, to convey his life experiences, on different surfaces: paper tape, pieces of carton, recycled cloth and other recycled materials. His works are compositions and assemblages which show, on the one hand, his predilection for piling up and layering and, on the other, a productive and original combination of styles and languages. A structural order comes out, trying to return the freshness of the moment, the uniqueness of vital experience, through chunks of writing, scribbles, drawings, stains of colour, or brands, symbols and signboards painted with an associative logic which recalls both dadaistic and surrealistic experiments and instinctive urban graffiti.

We only come out at night (2014), olio, acrilico, foglia oro e inserto in carta su tela - mail

Carlo Alberto Rastelli, We Only Come Out at Night, 2014

Carlo Alberto Rastelli presents a pondered and planned painting, aiming at revisiting portrayal and landscape genres, with a sensitivity to realistic details and also to the construction of geometric patterns and abstract weavings. In his portraits, in particular, his mimetic aptitude, almost hyperrealistic, meets a caricatural predilection for hypertrophy and deformation, which transforms his friends’ and acquaintances’ physiognomy into a crazed gallery of personality types where we can notice the artist’s love for Lucian Freud’s tumefied bodies and John Currin’s deformed bodies, but also for the anti-heroes of Irvin Welsh’s and Bret Easton Ellis’s novels. Furthermore, one element which links Rastelli’s work to the Italian Neo-figurative experience of the past twenty years can be found in the influence cartoons and science-fiction cinema have on his concept of representation. Particularly in lanscapes, characterised by wide-angle framings, we can see his apocalyptic (and catastrophic) vision of nature, which stands between Philip Dick’s or James Ballard’s dystopic visions and Caspar David Friedrich’s sublime natural settings.

Leonardvs Monzo

Elena Monzo, Moon & Pirate, 2014

Elena Monzo’s research is grounded to a solid drawing base and develops the linear taste of Vienna Secessionist movement and fin-de-siecle Orientalism, towards an extreme expressionism. The artist’s experimental approach, clearly visible in the combination of materials (metallic cards, carton packaging, tissue paper, gauze, lace, artificial fingernails and bows) goes along with her almost exclusive interest for an upsetting female iconography made of crazed and devilish features. Her goddesses, courtesans, contortionists, prostitutes and geishas – femmes fatales more than femmes letáles -, are engaged in ambiguous and equivocal actions and often have twisted, spasmodic postures, which recall the convulsions caused by a piercing pain or an irrepressible erotic impulse. Elena Monzo has been able to create a sulphurous and worrying universe, in line with David Lynch’s and Peter Greenway’s vision, a world of psychotic, crazed, violent, unstable heroines, who are also wonderfully emancipated and perversely modern.

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Serena Zanardi, Be Forest # 1, 2014

Serena Zanardi is a multidisciplinary artist, who works with photography, video and installation. She has recently focused on terracotta and pottery. Her sculptures come from the processing of personal memories and photos taken from family albums or antiques markets. Zanardi tries to revitalise anonymous images, whose memory has been erased by time, giving them a new plastic identity. Faithful and mimetic reproduction of subjects appearing in photographs implies the replacement of their environment, a process which revitalises the images in a new context. For example, in Pic Nic (2013) the petit dejeuner takes place with a real scale picnic basket in the background, while the pupils of Un grand sommeil noir (2012) are lying on an imaginary grass carpet which assumes the characteristics of the surface on which the sculpture is placed. Often, a melancholic, a bit fané, atmosphere dominates Zanardi’s work, as in Carezze al lago (2013) and Be Forest #1 (2014), an atmosphere which belongs to old daguerreotypes or black and white memories.

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Ester Pasqualoni, Studio Blu, 2014

Ester Pasqualoni’s research is in the balance between sculpture and design, aiming at the creation of essential volumes, which are geometrically divided by tidy lines and clear borders. They are objects made of aluminium and plexiglass, mainly squares or cubes, created as containers or displays for a collection of pieces of objects. There are chunks of recycled plastic packaging from convenience goods, whose brightness, transparency, texture, colour and consistency are valorised. Once treated and divided according to colour, these chunks are placed in containers, inside regular spaces, or hanging on parallel nylon threads, forming a dense three-dimensional web. The aim of the artist is to create a dialogue between her geometric (and hanging) structures, plastic embodiment of abstract painting, with light and space. Unlike 60s Optical and Analytical Artists, Ester Pasqualoni is not only interested in the analysis of perceptive mechanisms and optical phenomena, but also in promoting new ethical and aesthetical values.

[1] Jean Clear, Critica della modernità, pag. 14, Umberto Allimandi & C., 1984, Torino.


Info:

6 Visioni
a cura di Ivan Quaroni
Leonardvs Bottega d’Arte
Via Marina di Ponente 1, Sestri Levante (GE)
Opening: Domenica 6 dicembre, ore 17.00
Dal 6 dicembre 2015 al 10 gennaio 2016

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Silvia Argiolas e Adriano Annino – A Day in the Life

3 Ott

di Ivan Quaroni

L’esperienza non è ciò che accade a un uomo,
ma ciò che un uomo fa utilizzando ciò che gli accade.”
(Aldous Huxley, Testi e pretesti, 1932)

Silvia Argiolas, Madre tecnica mista su tela, 30x40 cm., 2014

Silvia Argiolas, Madre tecnica mista su tela, 30×40 cm., 2014

Jackson Pollock sosteneva che “dipingere è un’azione di autoscoperta e che ogni buon artista, in fondo, dipinge ciò che è”. Per Balthus, invece, “dipingere è uscire da se stessi, dimenticare se stessi, preferire l’anonimato e rischiare talvolta di non essere in accordo con il proprio secolo e con i contemporanei”. Naturalmente, hanno ragione entrambi. Quello che, però, i due maestri non dicono è che la pittura è una forma d’interpretazione della realtà e, dunque, l’affermazione di un punto di vista che riflette le peculiarità del soggetto.

Noi siamo tappeto, tecnica mista su tela cm 95x76, 2014

Adriano Annino, Noi siamo tappeto, tecnica mista su tela cm 95×76, 2014

In questo processo di definizione della propria personalità, l’artista deve necessariamente fare i conti con quell’agglomerato di esperienze, impressioni e pregiudizi scaturiti dall’urto con il mondo circostante. Come a dire che la pittura è il prodotto, e insieme la traduzione visiva, di una complicatissima trama di fattori, quali la psicologia e il vissuto personale dell’artista, le condizioni ambientali (favorevoli o avverse), il luogo (centrale o periferico), il tempo (propizio o meno) in cui egli opera. Supporre che l’artista possa dipingere esclusivamente con l’immaginazione significa, infatti, limitare la portata della sua azione. Invece, tutta l’arte davvero significativa intrattiene un rapporto con la realtà del proprio tempo, costituendo, per così dire, una sorta di parziale e opinabile testimonianza. Tuttavia, proprio il carattere soggettivo, e dunque fallibile, della pittura (e, in fondo, di tutte le arti) è il fattore che ci permette di entrare in contatto con il vissuto unico e autentico di ogni artista.

Silvia Argiolas, Autoritratto con carne più serpenti, olio su tela, 80x80 cm.,  2014

Silvia Argiolas, Autoritratto con carne più serpenti, olio su tela, 80×80 cm., 2014

A Day in the Life – titolo mutuato dal brano finale di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, una delle vette artistiche della produzione di Lennon e McCartney, sorta di saggio del realismo psichedelico della band – mostra due differenti approcci visivi alla realtà, caratterizzati da una tendenza, quasi allucinata, verso la deformazione.

L’indagine pittorica di Adriano Annino è incentrata sulla rielaborazione di momenti di vita quotidiana o di vicende immaginarie, che l’artista rappresenta a posteriori, affidandosi a impressioni e memorie imperfette. Il suo è, infatti, un approccio che non documenta la realtà, ma letteralmente la rifonda, servendosi dei filtri percettivi e mentali come strumenti fondativi di una pittura diaristica, che annota in immagini mobili e dinamiche sensazioni e stati d’animo del proprio vissuto psicologico ed emotivo.

Adriano Annino, Noi siamo piatto, tecnica mista su tela cm 18x24,2014

Adriano Annino, Noi siamo piatto, tecnica mista su tela cm 18×24,2014

Nella pittura di Annino, caratterizzata da un intenso gusto bozzettistico, fatto di segni rapidi e fulminee sintesi grafiche, l’identità dell’artista, insieme soggetto partecipe e testimone distaccato, si esprime attraverso la relazione con ambienti, oggetti e situazioni quotidiane. Il mondo fenomenico, esteriore, diventa, quindi, il pretesto visivo per condurre una profonda disanima interiore, che l’artista registra, come un sensibilissimo sismografo, alternando linee sinuose e macchie di colore che ci restituiscono il senso di una trascrizione urgente e drammatica della realtà. Il suo è uno stile espressionista solo in parte debitore della tradizione delle avanguardie, perché riesce, con rinnovata sensibilità, a combinare le dissonanze cromatiche tipiche del Novecento, con un linearismo guizzante, a tratti aereo, che conferisce alle sue opere un impianto calligrafico di marca quasi orientale.

Il lavoro di Silvia Argiolas si configura, da sempre, come una metabolizzazione pittorica del suo vissuto psicologico ed emotivo, attraverso la reiterazione ossessiva di figure autoreferenziali e autobiografiche. Metamorfiche trasfigurazioni di un corpo martirizzato dalle vicende esistenziali, gli autoritratti dell’artista assumono, di volta in volta, le sembianze di personaggi archetipici, come madonne, madri, amanti, vittime e carnefici di una commedia di quotidiani orrori e infernali delizie.

Anche il paesaggio, costellato di striature dai colori chimici, e popolato d’alberi quasi liquidi e gocciolanti, contribuisce a esasperare la temperie emotiva dei suoi dipinti, enfatizzando il clima di strisciante inquietudine, che è, in fondo, uno dei marchi distintivi del suo stile. Consapevole dell’impossibilità di pervenire a una chiara, oggettiva definizione della realtà, Silvia Argiolas costruisce la sua pittura come una sorta di personalissima e abbacinata trascrizione di sentimenti e stati d’animo irriducibili a ogni tentativo di razionalizzazione.

Nelle carte e nelle tele più recenti, dove il segno sembra pervenire a una sintesi grafica, se possibile, ancora più matura ed efficace, Silvia Argiolas ci fornisce una visione spontanea e istintiva del mondo, non edulcorata da filtri culturali, ma, piuttosto, radicata in una sensibilità indocile e insofferente a ogni forma d’ingiustizia e ipocrisia. Trasformando il proprio ritratto in una figura sacrificale, effige di martirio, ma anche di redenzione, Argiolas trasforma l’analisi psicologica in un atto di denuncia politica e sociale. Qualcosa che, nella storia recente, trova riscontro solo in rare isolate figure d’artista, come Carol Rama e Louise Bourgeois, capaci di assumersi tutto il peso e la responsabilità di una visione autenticamente anticonformista.

Adriano, Annino, Noi siamo parete, tecnica mista su tela cm 18x24

Adriano, Annino, Noi siamo parete, tecnica mista su tela cm 18×24

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Info:

Titolo: A Day in the Life

Luogo: L.E.M. Laboratorio Estetica Moderna, Via Napoli 8, Sassari

Date: 9 ottobre 20149 novembre 2014

Silvia Argiolas, Mi parlano, olio su tela, 18 x24 cm.,  2014

Silvia Argiolas, Mi parlano, olio su tela, 18 x24 cm., 2014

Claudia Haberkern, Kudo Masahide, Brigitta Rossetti: La possibilità di un’isola.

24 Set

di Ivan Quaroni

A good artist should be isolated. If he isn’t isolated, something is wrong.”

(Orson Wells)

Untitled

Nel territorio di Torrone della Colombara, nel vercellese, si coltiva il riso fin dal XV secolo. Ancora oggi, nei periodi in cui i campi sono in sommersione, la Tenuta, proprietà della famiglia Rondolino dal 1935, assume l’aspetto di una vera e propria isola circondata dalle acque e collegata alla strada provinciale solo da una sottile lingua di terra. Questo luogo, che ora ospita una moderna riseria, in cui convivono antiche tecniche di produzione e avanzate tecnologie, fu un tempo popolato dalle famiglie che vi lavoravano. Con le sue abitazioni, i suoi laboratori, la sua scuola e i dormitori per le mondine, la Colombara doveva essere senz’altro meno silente e metafisica di quanto appaia oggi in certe assolate ore meridiane. A ben vedere, nonostante il periodico andirivieni di visitatori, la Colombara sembra un posto adatto a favorire il lavoro e la concentrazione. Arrivandoci in automobile in una tarda mattina d’estate, ho avuto l’impressione che la sua immensa corte quadrata somigliasse a una piazza d’armi deserta, con il corpo centrale occupato dalle camerate e i bracci laterali con le scuderie e la fureria. Invece, è un luogo di pace assoluta, un’isola di quiete operosa, che obbedisce a un ritmo di vita distante anni luce da quello assai più nevrotico e mondano delle città. Ma un’isola, si sa, non è solo un luogo fisico, geografico, caratterizzato da una particolare morfologia, ma anche e soprattutto un topos, una metafora. Da Omero a Thomas Moore, da Daniel Defoe ad Alexandre Dumas, da Robert Louis Stevenson fino a William Golding, la letteratura ha interpretato l’isola, di volta in volta, come un luogo di fuga e di libertà, di detenzione ed esilio, oppure come un paradiso naturale o un laboratorio utopico, in cui è possibile sperimentare nuovi modelli di società. In ogni caso, essa è stata sempre percepita come una singolarità rispetto a ciò che la circonda, una sorta di anomalia, che però conserva con le terre continentali un legame d’intermittenza e discontinuità. In pratica, il carattere precipuo di ogni isola è il suo stato di intrinseca difformità. E in questo la Colombara non fa eccezione. Perché un’isola è, sopra ogni cosa, immagine sintomatica di uno status mentale, di una condizione interiore.

La possibilità di un’isola – titolo pretestuosamente sottratto a un celebre romanzo di Michel Houellebecq – è un progetto voluto da Claudia Haberkern, artista che da venticinque anni vive all’interno della Colombara, per valorizzare e aprire al pubblico gli spazi della tenuta e, al contempo, creare un confronto e un dialogo con gli artisti Kudo Masahide e Brigitta Rossetti.

Figura traslata della solitudine e del distacco, l’isola è un tropo letterario che rimanda necessariamente anche alla condizione creativa, che necessita, appunto, di un ambiente (fisico e mentale) raccolto. La possibilità di un’isola è, dunque, allusione a uno stato necessario d’immersione (e introversione) che consente all’artista di uscire, almeno momentaneamente, dal flusso dei pensieri e delle attività ordinarie.

La stanza di Claudia Haberkern

La stanza di Claudia Haberkern

Da questa necessità nasce il lavoro di Claudia Haberkern, le cui sculture sono il riflesso di una ricerca della “verità”, scaturita da un’esperienza intima e diretta dei suoi soggetti, sovente connessi al mondo delle forme organiche e naturali. Il suo percorso artistico inizia negli anni Ottanta, nell’ambito delle sperimentazioni attoriali del Living Theater, dove il training proposto agli allievi è basato sulla ricerca e appropriazione di quei sentimenti e quelle sensazioni che rendono più credibile l’interpretazione dei personaggi. Forse proprio questa palestra attoriale, fondata sull’immedesimazione, finisce per influenzare l’approccio artistico di Claudia Haberkern. Nel periodo passato con il Living Theater, infatti, l’artista comprende come il corpo sia, in effetti, un serbatoio di memorie primordiali, un collettore di conoscenze che nulla hanno a che fare con i processi cognitivi intellettuali. “Probabilmente, il fatto che alcune mie sculture appaiano come traduzioni di movimenti corporei”, afferma lei, “è il risultato dell’allenamento fisico di quel periodo”. Ancor prima di visualizzare le proprie opere, l’artista sperimenta una sorta d’identificazione fisica con le forme e i materiali che poi modellerà attraverso un iter lungo e complesso. Claudia Haberkern raramente esegue un disegno preparatorio.

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Claudia Haberkern, Herald of spring (summer’s distillation), tecnica mista con resina, carta, fibre vegetali, 80×58 cm., 2013

Parte, invece, da un piccolo bozzetto in argilla, che viene via via ripreso e talvolta ingrandito. Da questo, ricava uno stampo, un negativo, in cui viene colata la resina. Una volta solidificato in sottili strati trasparenti, il materiale plastico è ulteriormente lavorato con l’aggiunta di carte e fibre vegetali. Il risultato finale è, quindi, la conseguenza di un lento processo in cui le sculture passano attraverso diversi stadi di metamorfosi formale. Si può dire che non solo l’immagine finale contenga allusioni al mondo organico, ma che il procedimento stesso di esecuzione obbedisca a un ritmo trasformativo analogo a quello dei processi naturali. Ad esempio, le sculture pensili della serie Summer’s distillation, in cui è evidente l’allusione al mondo delle forme floreali e vegetali, danno l’impressione di essere costruite con materiali naturali, invece che con resine d’origine industriale. Questi strani fiori (dischiusi per noi sotto cieli più belli[1]), somigliano a trasparenti filigrane trafitte dalla luce, con le corolle di petali leggeri, fluttuanti come le carte di una lanterna cinese.

Riflettono i processi metamorfici dell’ecosistema anche le sculture della serie My Breath goes everyplace, caratterizzate da uno slancio verticale che ricorda ora i fusti e gli steli arborei, ora i gusci di larve e insetti. Sono opere altrettanto aeree, dalle superfici vibranti, innervate d’increspature che suggeriscono un senso di fremente vitalità. Insieme alla luce, impalpabile, eppure fondamentale ingrediente delle sculture dell’artista, il movimento (o la sua illusione) è forse la caratteristica più evidente del suo linguaggio. In particolare, nelle sculture in terracotta intitolate Canzoni in terra – d’amore e di vita, ritornano quelle dinamiche torsioni e quegli avvolgimenti anatomici, che hanno caratterizzato larga parte della sua ricerca e che confermano il ruolo primario che Haberkern conferisce al corpo, quale forma suprema d’intelligenza tattile. “Modellando l’argilla”, racconta, infatti, l’artista tedesca, “faccio un’esperienza che non smette mai di stupirmi: quella delle mani che traducono in un oggetto tangibile emozioni che, altrimenti, non avrebbero forma, colore, consistenza e temperatura”. In definitiva, per Claudia Haberkern la scultura resta un’esperienza vitale, assimilabile per certi versi alla poesia (Gedicht) perché, a differenza della pittura (spesso tendente alla narrazione), essa deve essere capace di condensare tutto, sinesteticamente, in una sola, efficace, intuizione formale.

La stanza di Kudo Masahide

Stanza di Kudo Masahide

È curioso come il corpo sia una questione centrale anche nella concezione artistica di Kudo Masahide, che appartiene a una cultura del tutto diversa da quella europea continentale. Per l’artista giapponese, infatti, dipingere è una pratica essenzialmente fisica, radicata nei movimenti e nei gesti, più che nelle idee. Quest’attitudine, se vogliamo anti-intellettualistica, mira a riconoscere il primato della Natura sulla Cultura, riconducendo l’arte in un ambito più prossimo alle forze primigenie dell’esistenza. Il corpo, con le sue memorie diventa, così, la sorgente dell’espressività pittorica di Masahide, in cui segni gestuali ed elementi figurativi si fondono all’insegna di un’arte che annulla i confini tra subconscio e coscienza vigile. Nelle carte e nelle tele dell’artista rivive, in qualche modo, la fluida impermanenza delle forme naturali e delle metamorfosi organiche, attraverso una congerie di tracce, macchie, segni apparentemente casuali, che poi si organizzano in brandelli anatomici e fisionomie umane.

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Kudo Masahide, The Forest of the Memory II, olio su cotone grezzo, 162×130,3 cm., 2014

Nei suoi lavori più recenti, quelli della serie Forest of the Memory, eseguiti a olio su tela grezza, le figure sembrano affiorare dal magma cromatico e calligrafico del fondo come evanescenti presenze, a testimoniare una vitalità mai sopita. Per Kudo Masahide dipingere con spontaneità, senza premeditazione, significa ricollegarsi alla matrice originaria e dare voce alle forze invisibili che presiedono all’ordine e al funzionamento dell’universo.

Come molti dei grandi maestri cinesi e giapponesi del passato, Kudo Masahide non rappresenta concetti filosofici o costrutti culturali, ma cerca, piuttosto, di tradurre in arte le sue intuizioni più profonde. Il critico Aart van Zoest ha giustamente scritto che “la meditazione è un’abitudine costante nella vita di Masahide Kudo e produce effetti sulla sua arte”, ma a me pare che il suo stesso modo di fare arte sia, in fondo, un modo di meditare. Un modo che limita l’impatto delle produzioni mentali, delle idee e dei pensieri che costituiscono un ostacolo alla comprensione profonda del mondo.

La stanza di Brigitta Rossetti

La stanza di Brigitta Rossetti

Brigitta Rossetti indaga, con sguardo lirico e partecipe, i complessi rapporti di corrispondenza tra uomo e ambiente. Per l’artista, che lavora in un ex fienile immerso nella campagna piacentina, il paesaggio, con la sua infinita varietà di forme, costituisce la principale fonte d’ispirazione per creare progetti che spaziano dalla pittura alla scultura, dall’installazione al ready made. Lontana da stilemi mimetici e descrittivi, l’artista sembra piuttosto filtrare la visione e l’esperienza della natura attraverso un approccio poetico, che esalta la bellezza e l’etica delle forme naturali, evidenziandone, al contempo, l’estrema fragilità e precarietà. I suoi giganteschi fiori, dipinti con una pittura densa e stratificata, invitano lo spettatore a riflettere sull’odierna condizione di alienazione dell’uomo rispetto all’ambiente, insinuando, allo stesso tempo, un forte sentimento di nostalgia per l’equilibrio perduto. I monumentali dipinti della serie Children’s Gardens, con le piccole sedute poste davanti alle grandi tele, offrono allo sguardo innocente dei bambini la visione della semplice maestosità della natura. Lavori come Fiori della coscienza, Fiori di Arlecchino e Fiori di creta, sono, a tutti gli effetti, dei veri e propri envirnoment, delle ambientazioni avvolgenti, che sembrano dilatare virtualmente lo spazio pittorico per annullare la distanza tra spettatore e opera.

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Brigitta Rossetti, Fiori di Arlecchino, acrilico su tela montata su legno e supporto in ferro,-pigmenti e-seggiola in legno, 153×275-cm., 2013

Per Brigitta Rossetti, infatti, la natura è uno spazio transazionale, di relazione, che richiede sempre un rapporto di mutuo scambio. Per questo, molte delle sue opere sembrano quasi eludere gli schemi della rappresentazione bidimensionale, configurandosi come installazioni. È il caso di Albero immortale, Nudità e Paesaggio quasi bianco, in cui i dipinti sono montati su vecchie scale di recupero, a suggerire quasi l’idea di un’ascensione, di uno sforzo di elevazione spirituale da compiersi nell’atto contemplativo della natura. Libro di quattro pagine è invece una pitto-scultura in forma di messale, che lo spettatore può consultare per celebrare una sorta d’intimo rito di riappacificazione con le forze del creato.

Chiude idealmente la mostra, l’opera intitolata Ipotesi di un’isola, una primitiva imbarcazione, assemblata con materiali poveri come legno, ferro e pietre di recupero, quasi a suggerire uno stato di precario galleggiamento esistenziale. La possibilità di un’isola è, appunto, un’ipotesi di vita, un’eventualità di scelta nella miriade di opzioni che il mondo ci offre. Ma è forse una delle più impervie nella ricerca della verità. Soprattutto perché, come scriveva Marguerite Yourcenar, “c’è il momento in cui ogni scelta diventa irreversibile”.[2]

Info:

Mostra realizzata in collaborazione con:

ACQUARELLO. IL RISO

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Inaugurazione domenica 28 settembre, dalle ore 14.30

In mostra dal 28 settembre al 26 ottobre 2014

Orari: lunedì, giovedì e venerdì dalle 14.30 alle 16.30; sabato e domenica dalle 11.00 alle 17.00 o su prenotazione

Tenuta Colombara, Livorno Ferraris (VC)

colombarahul01@colombara-hulls.eu,

Tel. 0161 477832

Cell. 348 7609980

Informazioni stradali

Autostrada A4: uscita Borgo d’Ale, seguire le indicazioni per Bianzè-Livorno Ferraris, direzione Trino

Autostrada A26: uscita Vercelli Ovest, seguire le indicazioni per Crescentino, alla rotonda della Frazione Castell’Apertole svoltare a destra e proseguire per 1km

Google Maps: La Colombara (Livorno Ferraris) Latitudine : 45.281729 | Longitudine : 8.084918

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[1] Charles Baudelaire, La morte degli amanti, in I fiori del male, traduzione di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti, 2006.

[2] Marguerite Yourcenar, Archivi del Nord, Traduzione di Graziella Cillario, Einaudi, Torino, 1982.

Alberto Biasi. Dinamismo virtuale.

16 Set

di Ivan Quaroni

“Nella fisica moderna, l’universo appare come un tutto dinamico,
inseparabile, che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale.”
(Fritjof Capra, Il Tao della fisica, 1975)

A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, si assiste, in Europa, a una straordinaria, quasi simultanea, fioritura di gruppi, impegnati nel campo delle ricerche ottiche, cinetiche e programmate. Le esperienze del Gruppo Zero di Düsseldorf (1957), del Gruppo T e della rivista Azimut a Milano (1959), del Gruppo N di Padova (1960), di Dvizenie a Mosca (1962) e del Groupe de Recherche d’Art Visuelle di Parigi (1960) erano accomunate dall’uso di un linguaggio nuovo, incentrato sull’analisi dei meccanismi di percezione del movimento e dello spazio nell’ambito delle arti visive. Un linguaggio, in qualche modo, slegato dalla storia e dalle eredità culturali dei singoli paesi di provenienza dei gruppi, che formava una sorta di koinè sovranazionale, costruita attraverso una serie d’intensi scambi e confronti tra gli artisti. Il lavoro di Alberto Biasi contribuisce, fin da subito, a creare questo rinnovato clima artistico, caratterizzato da un’inedita attenzione verso gli ultimi esiti delle ricerche nel campo delle scienze e della psicologia della percezione, e segnato da un forte desiderio di recuperare un rapporto fattivo e costruttivo con la società.

Un nodo centrale di queste nuove pratiche era costituito dal ruolo dell’individuo e, segnatamente, del fruitore delle opere, cui veniva attribuita una funzione di primo piano. Se, in passato, il destinatario delle opere era, al più, testimone o interprete di un messaggio strettamente connesso alla cultura del tempo, con l’avvento dei linguaggi cinetici, egli diventava il recettore di una serie di stimoli ottici. L’opera, spogliata della sua sacralità e liberata da ogni contenuto simbolico e allusivo, si trasformava, così, in una sorta di dispositivo, di emittente di sollecitazioni retiniche, che “entrava in funzione” solo alla presenza di un soggetto percepente. Per la prima volta nella storia, il messaggio dell’opera richiedeva, infatti, la partecipazione attiva del fruitore, che, attraverso la propria fisiologia, processava e creava l’informazione in essa contenuta.

Gran parte delle ricerche ottico-cinetiche, compresa quella del Gruppo N – fondato da Alberto Biasi e Manfredo Massironi nel dicembre 1960, cui aderirono Ennio Chiggio, Toni Costa e Edoardo Landi -, erano finalizzate alla creazione di oggetti o di environment capaci di attivare la psicologia percettiva dello spettatore. La condizione necessaria delle opere di questi artisti era, dunque, la creazione di un rapporto di mutualità tra il manufatto e l’osservatore. Rapporto che, in un certo senso, richiamava alcune scoperte della fisica quantistica riguardanti l’influenza dell’osservatore (in questo caso lo scienziato) durante gli esperimenti condotti sulle particelle subatomiche. Gli studi di Thomas Young sul comportamento dei fotoni che erano all’origine del dualismo particella-onda, uno dei paradigmi della meccanica quantistica, furono ripetuti proprio nel 1961, anno in cui, peraltro fu redatto il Manifesto del Gruppo N. Questa coincidenza ci conduce a individuare un parallelismo tra le conclusioni di John von Neumann a proposito dell’influenza della coscienza umana sul mondo subatomico, e le intuizioni degli artisti cinetici sul fondamentale contributo dell’osservatore quale effettivo creatore delle immagini dinamiche stimolate dai loro artefatti.

Curiosamente, Biasi e gli altri artisti del Gruppo N, che allora si consideravano un manipolo di disegnatori sperimentali uniti dall’esigenza di compiere una ricerca collettiva, intendevano limitare il ruolo dell’individuo. Nel Manifesto del 1961, essi non solo rifiutavano l’individuo, come elemento decisivo della storia, ma reputavano le correnti artistiche immediatamente precedenti, in particolare il Tachismo, l’Informale e l’Espressionismo, come inutili soggettivismi. Fino al 1964, le opere furono, infatti, firmate con la sigla del Gruppo, per rimarcare il carattere collettivo delle loro ricerche. Le prime sperimentazioni visive di Alberto Biasi, dalle Trame (1959-1961) ai Rilievi ottico-dinamici (dal 1960 agli anni Novanta e poi, sporadicamente anche nel decennio successivo), fino alle Torsioni (1961-1969) e a buona parte degli Ambienti e dei Cinetismi, come, ad esempio, Proiezione di luce e ombra (1961), Finestra Arcobaleno (1962-1965), Light Prism n. 2 (1962) e Cinoreticolo spettrale n. 1 (1962), appartengono a quella fase d’indagine, caratterizzata da un radicale rifiuto del principio di autorialità.

In quel periodo, il lavoro di Alberto Biasi, che con Manfredo Massironi, animò le varie sigle padovane (EnneA, N, Enne65) – aderiva, dunque, all’indirizzo collegiale del Gruppo che, attraverso la verifica collettiva, intendeva eliminare l’eventualità di scelte arbitrarie da parte dei singoli artisti. Nel Gruppo N, così come nel Gruppo Zero di Düsseldorf, le ricerche erano individuali, anche se dovevano rispondere a rigorosi codici metodologici condivisi da tutti i membri. La serie delle Trame, conclusa nel 1960 e composta di carte forate e sovrapposte per creare particolari effetti di luce, rappresenta il primo approccio di Biasi nell’ambito delle ricerche ottiche. Tuttavia, è soprattutto con il ciclo dei Rilievi ottico-dinamici che l’artista entra nel vivo dell’indagine sui meccanismi percettivi. I lavori realizzati tra il 1960 e il 1967, su cui l’artista torna a più riprese anche negli anni successivi, introducono per la prima volta la questione del ruolo dell’osservatore. Si tratta, per lo più, di opere composte di due piani sovrapposti e distanziati di alcuni centimetri, dove il livello sottostante è generalmente costituito da una tavola dipinta, mentre quello sovrastante è costruito come un pattern di strisce (o lamelle) di PVC. L’interferenza tra i due piani crea quell’effetto ottico di movimento che Biasi chiama “dinamismo virtuale”. Quel che accade, infatti, è che l’opera, perfettamente immobile, riesce a generare nel fruitore un’impressione di vibrante motilità. In realtà, è l’attività retinica e cognitiva dello spettatore a costruire quei movimenti, che sono appunto virtuali, e non fisici.

Guardando alcuni dei Rilievi ottico-dinamici esposti in questa mostra – ad esempio l’opera intitolata Ti guardano, del 1990 – diventa immediatamente comprensibile che cosa intende Biasi quando afferma che “l’occhio diventa motore e creatore di forme”. D’altra parte, già nel lontano 1967, Giulio Carlo Argan notava che “Chi compie l’atto estetico è sempre e soltanto il fruitore: l’artista o colui che predispone e mette in opera apparati emittenti di stimoli non è che una guida o, essendo l’attività estetica formativa, un educatore”.[1] Tra il 1961 e il 1969, ma anche in seguito, Biasi approfondisce alcune delle intuizioni dei Rilievi ottico-dinamici nelle cosiddette Dinamiche visive, in cui torce e sovrappone le lamelle di PVC, per costruire forme circolari, ellittiche, triangolari e poligonali percorse da striature concentriche. Come dimostrano le opere Dinamica in prospettiva (1962-75) e Dinamica in rosso (1971), le torsioni lamellari in rilievo producono una distorsione luministica e spaziale che intensifica l’illusione di movimento. In sintonia con gli intenti formativi del Gruppo N, Biasi cerca di dimostrare, attraverso queste opere, la stretta correlazione tra percezione e immaginazione.

Negli anni successivi, la peculiarità della ricerca di Biasi diventa via via più evidente. Pur mantenendo intatte le caratteristiche dell’oggetto, quale emittente di stimoli ottici e cinetici, Biasi intuisce che la missione didattica e formativa della sua ricerca deve mettere l’osservatore in condizione di comprendere come i processi percettivi si colleghino con le facoltà creative e immaginative.

In assemblaggi come Su e giù (1990), ma anche in molte opere della serie Unica Tela eseguite tra gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio, Biasi trova un equilibrio tra piacevolezza estetica e rigore scientifico. Ciò che, infatti, distingue Biasi dagli altri membri del gruppo padovano, è la consapevolezza che l’interazione tra opera e pubblico non può limitarsi alla mera constatazione di un meccanismo di funzionamento percettivo e fenomenologico. Grazie all’introduzione di elementi eccentrici, che alterano l’ordine formale e costruttivo delle sue opere, l’artista riesce, infatti, a liberare il fruitore dalla rigidità dei processi percettivi, stimolandolo a utilizzare l’immaginazione e dunque a “costruire” l’immagine con modalità proprie. Fatte salve le scoperte della fisica dei quanti, secondo cui l’osservatore determina il fenomeno osservato, Biasi sembra intuire che anche le condizioni particolari del soggetto influiscono sui meccanismi di percezione: non solo, dunque, la posizione spaziale del riguardante rispetto all’opera, la durata temporale della visione o le condizioni ambientali di luce, ma anche, a questo punto, le peculiarità psicologiche e – perché no? – culturali dell’individuo. Osservando oggi il percorso compiuto da Alberto Biasi in oltre cinquant’anni di ricerca, si ha l’impressione che egli abbia compiuto un lento, ma costante percorso di reintegrazione della totalità dell’uomo nell’analisi dei processi percettivi. Un processo che all’inizio, col Gruppo N, si limitava alla sola considerazione dell’individuo come aggregato psico-fisiologico e che poi, nella fruttuosa esperienza “solista”, si estende alla comprensione della complessità e unicità delle sue esperienze estetiche. Un percorso che, ancora una volta, mostra strette analogie con quello della scienza, se lo si osserva in quell’affascinante prospettiva che dalle prime sperimentazioni di Niels Bohr, ci conduce alla formulazione del Principio Antropico. Secondo questa tesi, infatti, l’individuo non solo partecipa alla definizione dell’universo, ma ne garantisce l’esistenza stessa. Come a dire che, senza la presenza di un osservatore, di una coscienza formativa, l’arte, e la realtà tutta, non esisterebbero affatto.

Note

[1] Giulio Carlo Argan, Grupa N, catalogo della mostra al Muzeum Sztuki di Lodz, 1967, Varsavia.


Info:

Alberto Biasi – Attraverso la simmetria
Galleria d’arte L’Incontro, via XXVI aprile 38, Chiari (Brescia)
Opening: sabato 4 ottobre, ore 17.00
Catalogo con testo di Ivan Quaroni


Contro Parmenide

15 Set

di Ivan Quaroni

controparmenideinvito

La motilità e cangianza delle forme, cui corrispondono la mutevolezza di pensiero e stati d’animo, non sono che illusioni del mondo fisico. Così la pensava Parmenide, fondatore della scuola di Elea, secondo cui la fallace impressione di movimento prodotta dai sensi contrastava, logicamente, con l’essenza della realtà, paragonabile a una sfera perfetta, statica e uguale in ogni parte, e dunque finita e conclusa. Per il filosofo greco, la vera conoscenza non era, infatti, fondata sui sensi, ma sulla ragione, sul pensiero logico, il quale non poteva ammettere la coesistenza simultanea di essere e non essere e, dunque, la modificazione dell’essere in altro da sé, attraverso il movimento apparente delle forme. La sua teoria si contrapponeva al pensiero di Eraclito, basato interamente sulla conoscenza sensibile, come pure all’atomismo democriteo, che ipotizzava il movimento degli atomi in uno spazio vuoto. Lontano anni luce dalle idee di Parmenide, il pensiero prevalente della contemporaneità è, invece, largamente radicato nell’esperienza sensibile, sia essa di natura analogica o virtuale.

Agostino Bergamaschi, Intuizione per una forma

Agostino Bergamaschi, Intuizione per una forma

Tutta l’arte contemporanea, o perlomeno gran parte di essa, può essere descritta come una teoria di tentativi di interpretare la realtà fenomenica, nelle sue variegate accezioni politiche, culturali, sociali, antropologiche. Essa è, in definitiva, una pratica intimamente connessa alla percezione del cambiamento, soprattutto in un’epoca, quale quella odierna, contraddistinta da una mobilità rapida delle strutture sociali e politiche, delle tecnologie, delle abitudini comportamentali. Quella che il sociologo Zygmunt Bauman definisce modernità liquida – in opposizione a quella solida, tipica dello sviluppo industriale – è una società caratterizzata da un’inedita accelerazione delle trasformazioni, che produce una condizione di permanente instabilità e incertezza. Con Bauman, il divenire illusorio di Parmenide assume le fattezze, tragicamente concrete, della globalizzazione e del consumismo, della rapida obsolescenza dei sistemi produttivi e tecnologici, che portano allo smantellamento delle certezze e alla formazione di uno stato di paura diffusa. La paura liquida induce, forse indirettamente, gli artisti a ragionare attorno ai fenomeni di variazione, a interrogarsi sulla natura instabile della realtà, percepita come il campo d’azione e di prova delle speculazioni correnti.

Francesca Schgor, Love Addicted

Francesca Schgor, Love Addicted

Francesca Schgor, Agostino Bergamaschi e Andrea Bruschi affrontano, ognuno con un approccio personale, il tema della variazione percettiva delle immagini, del movimento delle forme e del conseguente adattamento cognitivo, attraverso opere che spaziano dalla scultura all’installazione, dalla pittura alla fotografia. Questi tre artisti rappresentano, anche anagraficamente, la generazione Y, quella dei Millenials o Echo Boomers nati tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila, all’apice della modernità liquida. Si tratta di una generazione cresciuta simmetricamente all’espansione di massa della comunicazione istantanea (internet, telefonia cellulare, social network), una generazione che, quasi per necessità, è stata nutrita, ma anche travolta, dal costante flusso d’informazioni dell’era digitale. Dentro questo flusso, questo magma informazionale, più che mai si avverte l’esigenza di recuperare il senso dell’esperienza diretta, non mediata, dei fenomeni. Forse per questo Andrea Bruschi, Agostino Bergamaschi e Francesca Schgor sembrano concentrare la loro attenzione su semplici meccanismi percettivi, indagando, con occhio nuovo, o con rinnovato stupore, la relazione tra forma, immagine e interpretazione.

Andrea Bruschi, Cosenz54

Andrea Bruschi, Cosenz54

Agostino Bergamaschi considera l’opera come un dispositivo sensibile, capace di attivare nell’osservatore la memoria d’intuizioni e sensazioni scaturite dall’esperienza. Attraverso i suoi lavori, innesca, infatti, un rapporto di mutua corrispondenza col fruitore, il quale è chiamato a interpretare e completare il messaggio dell’immagine. Ad esempio, la scultura Aspettando il buio, composta di tre strisce di marmo di diverso colore, sembra quasi avvolgere il riguardante, grazie all’inclinazione in avanti della sommità superiore. Avvicinandosi alla lastra, tripartita a scandire il passaggio dal crepuscolo alla notte secondo un andamento ascensionale, si possono notare piccoli segni, che suggeriscono il lento affiorare delle costellazioni nella volta celeste. Il tema della variazione luministica è anche il soggetto dell’installazione Aspettando il buio II, un recipiente di vetro verticale riempito d’acqua, in cui l’artista aggiunge periodicamente un pigmento scuro. Si tratta di un lavoro in divenire, per natura instabile, che durante l’arco temporale dell’esposizione, ricalca la transizione dal chiarore diurno alle ombre serotine. La luce è elemento centrale anche nelle fotografie intitolate La sorgente dell’oblio e Prima di essere sole, entrambe basate su effetti di ambiguità semantica e percettiva. La prima è una doppia esposizione di un paesaggio lacustre, fotografato dalla medesima posizione, ma in momenti diversi. Anche qui, l’acqua gioca un ruolo fondamentale, generando un’ambiguità tra il paesaggio reale e quello riflesso sulla superficie del lago, due immagini speculari, identiche nella morfologia, ma diverse nella caratterizzazione luministica e ambientale. Prima di essere sole è, invece, una foto della cupola del Pantheon di Roma scattata dall’interno, in cui la cavità circolare sulla sommità del tempio diventa massa e volume. Bergamaschi, invertendo i rapporti di luce e ombra, evidenzia, ancora una volta, la vocazione enigmatica delle sue immagini. In questo caso, l’oculo del Pantheon sembra tramutarsi nell’immagine di due pianeti sovrapposti come in un’eclissi, ma l’illusione svanisce non appena scorgiamo il particolare architettonico della volta a cassettoni.

Agostino Bergamaschi, Prima di essere sole

Agostino Bergamaschi, Prima di essere sole

Andrea Brusci concepisce la pittura come un tentativo di appropriazione delle forme e delle immagini che caratterizzano il flusso dinamico della realtà, filtrate attraverso un linguaggio che alterna segni astratti e gesti informali con elementi grafici e lineari. Una volta inserite nello spazio pittorico, dominio operativo di accadimenti imprevedibili, le forme nitide e scandite del mondo fenomenico diventano incerte, quasi indecifrabili. Bruschi è consapevole del fatto che la pittura è, di per sé, una forma d’interpretazione, un territorio in cui realtà oggettiva e dimensione individuale collidono, generando incidenti ed errori affascinanti. Per l’artista, la pittura è, essenzialmente, una pratica cognitiva, che consente una diversa e forse più autentica elaborazione dei dati sensibili. Ad esempio, l’installazione intitolata Cosenz 54, che prende spunto dall’indicazione topografica di un cantiere edile della periferia di Milano, affronta il tema del mutamento e della variazione. Si tratta di un polittico di tele quadrate, d’identiche dimensioni, che riproduce la struttura a griglia di un calendario digitale. Ogni giorno (e quindi ogni tela) documenta un momento diverso dell’attività del cantiere, che trasfigura i movimenti della gru, attraverso le forme e i materiali sensibili della pittura, dando luogo a un inedito campionario d’immagini astratte. Anche i dipinti della serie Lux, eseguiti a olio e resina su fodere per aumentare gli effetti di trasparenza e i contrasti tra superfici lucide e opache, indagano i fenomeni di percezione luministica. Sono lavori monocromi, giocati su sottili gradazioni di tono, in cui l’artista verifica l’interazione tra le immagini reali, come la proiezione dell’ombra di una finestra, e il linguaggio autonomo della pittura, fatto di segni gestuali e macchie di colore.

Andrea Bruschi, cosenz54

Andrea Bruschi, cosenz54

D’impronta chiaramente concettuale appare il lavoro di Francesca Schgor, che analizza i fenomeni percettivi, manifestando un particolare interesse verso l’analisi di esperienze e abitudini di dipendenza e assuefazione nella società contemporanea. La sua ricerca spazia tra fotografia, disegno e installazione, ordinandosi in serie tematiche, come Challenge 21, Love Addicted e Distortion, ognuna caratterizzata da un differente approccio d’indagine, ma tutte facenti capo un unico progetto, intitolato The Age of Addiction, che affronta il tema delle dipendenze fisiche, psicologiche, affettive, comportamentali. Distorsion, ad esempio, è un work in progress fotografico, in cui l’artista cattura gli effetti distorsivi prodotti dalle superfici riflettenti dei grattaceli. Queste C-prints mostrano un panorama urbano segmentato, fatto di cantieri e scorci architettonici, in cui l’uomo appare come una presenza labile e transitoria. La dipendenza, in questo caso, è di ordine visivo. Più esplicito, invece, è Challenge 21, insieme di grafici, notazioni o, se vogliamo, mappe mentali, su carta millimetrata, che indagano i fattori di dipendenza da un punto di vista analitico, come se si trattasse di incognite risolvibili attraverso diagrammi e formule matematiche. Anche l’installazione Love Addicted, composta di fili rossi e fogli di carta, è una sorta di diagramma, una sintesi grafica che illustra l’andamento di una relazione amorosa come il progressivo avvicendamento di due linee, cui segue il loro intrecciarsi in un caotico garbuglio (anch’esso prodotto di una anomalia distortiva) e, infine, il loro definitivo estraniamento, con la ripresa di un percorso individuale distinto, ma parallelo.

Francesca Schgor, Il ragno

Francesca Schgor, Il ragno

La mostra viene presentata nell’ambito del circuito START GENOVA, che quest’anno propone visite guidate, in collaborazione con LUOGHI D’ARTE.
Catalogo bilingue, italiano ed inglese, edizioni ABC-ARTE.

UFFICIO STAMPA:
ABC-ARTE info@abc-arte.com
+39 010.8683884
via xx settembre 11A, Genova http://www.abc-arte.com

Pino Deodato. Certo, certissimo, anzi probabile

27 Giu

 

di Ivan Quaroni

 

La meraviglia è propria della natura del filosofo;
e la filosofia non si origina altro che dallo stupore.”
(Platone, Teeteto)
 
Pino Deodato, Preciso disegno secondo canoni della sezione aurea (dettaglio 2), 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva

Pino Deodato, Preciso disegno secondo canoni della sezione aurea (dettaglio 2), 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva

Tra le folgoranti battute e gli acutissimi paradossi di Ennio Flaiano, quello che dà il titolo a questa mostra mi pare gettare una luce adamantina sulla perpetua, pendolare oscillazione tra il dubbio e la certezza. Un’oscillazione che caratterizza l’uomo “contemporaneo” (sempre ammesso che questa categoria esista davvero). Non so se si tratti di una frase umoristica o piuttosto della fotografia esatta di un certo modo d’essere cinici, un modo insieme fermo e gentile, acuto e poetico d’insinuare il dubbio in una visione del mondo, tutto sommato, aperta alle epifanie del meraviglioso e del fantastico. Una visione che, a mio avviso, si attaglia perfettamente a Pino Deodato, artista passato attraverso stagioni di brucianti passioni politiche e che, tuttavia, è riuscito a maturare un punto di vista, almeno in termini linguistici ed estetici, in grado di coniugare scetticismo ed emotività, spirito critico e adesione lirica.

Pino Deodato, La sua tavola ricamata con fiori d'arancio (dettaglio), 2014, installazione, terracotta policroma, 100 x 120 cm, ph Tommaso Riva.

Pino Deodato, La sua tavola ricamata con fiori d’arancio (dettaglio), 2014, installazione, terracotta policroma, 100 x 120 cm, ph Tommaso Riva.

Pino Deodato è un umanista, un alchimista dell’immagine, sempre, infaticabilmente, in transito tra pittura e scultura, tra disegno e installazione, ma anche tra concetto ed emozione. Figlio di diverse epoche – quella militante degli anni Settanta e quella individualista degli Ottanta, quella definitivamente post-ideologica dei Novanta e quella mobile e liquida dei primi lustri del nuovo millennio –, Pino Deodato è una presenza eccentrica nel panorama delle arti contemporanee, una singolarità che ha attraversato le ultime decadi costruendo una propria, originalissima cosmologia lirica, fatta di morbidi paesaggi lunari e vespertine apparizioni, rarefatte presenze e sorprendenti comunioni paniche. Nelle sue opere il mondo appare come un territorio di rivelazioni, un luogo, appunto, epifanico, che l’uomo osserva non solo otticamente, attraverso uno sguardo stupefatto, ma anche cerebralmente, per via di quelle peregrinazioni letterarie e poetiche che, inevitabilmente, costituiscono l’ossatura mitologica delle sue visioni, sovente sospese tra un romanticismo sublime e una mediterraneità misterica e crepuscolare.

Pino Deodato, Le pieghe dei vestiti raccontano la storia (dettaglio 2), 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva.

Pino Deodato, Le pieghe dei vestiti raccontano la storia (dettaglio 2), 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva.

L’uomo che pensa e osserva, legge e scrive e s’interroga senza sosta sull’essenza intima dei fenomeni, sulla sostanza ultima del creato è, quindi, il fulcro dei viaggi proiettivi di Deodato. È un uomo ora piegato su stesso, come intento a seguire il filo di un pensiero o a dipanare la matassa di un sogno; ora partecipe delle vicende umane, costantemente in cerca di un’utopica pacificazione con le forme naturali. Questo tipo d’uomo, che da qualche tempo abita le opere dell’artista, è una variante laica del San Tommaso apostolo, incarnazione dello spirito scettico che prelude a ogni conversione, del dubbio che precede ogni sbigottimento. Una diade, quella composta dai sentimenti d’incredulità e meraviglia, che pare governare le opere recenti di Deodato, slittando da un polo all’altro con pendolare precisione, quasi si trattasse di estremi complementari, di termini ontologicamente correlati.

Pino Deodato, Ricamo di fumo (particolare), 2014, terracotta policroma, 12 x 16 x 3 cm. Ph Tommaso Riva.

Pino Deodato, Ricamo di fumo (particolare), 2014, terracotta policroma, 12 x 16 x 3 cm. Ph Tommaso Riva.

San Tommaso è, infatti, figura bifronte, che somma in sé l’effige del diffidente, di colui che crede solo all’evidenza dei fatti, e quella del missionario infiammato dalla fede, evangelizzatore di Siria, Mesopotamia e India sud-occidentale. Eppure, il San Tommaso di Deodato è qualcosa di più, l’epitome dell’arte e della poesia e, al contempo, l’allegoria di quell’oscuro scrutare nel fondo carsico dell’esperienza, dove si allignano dubbi e speranze, ma anche folgori e illuminazioni. Alla tensione dubitativa alludono soprattutto opere come Preciso disegno secondo canoni della sezione aurea e Le pieghe dei vestiti raccontano la storia, entrambe dominate dalla nigredo alchemica, iniziale tappa di una discesa negli inferi della ragione.

Nella prima installazione, Tommaso è, infatti, l’uomo che misura il mondo col metro della logica: traccia la perfetta geometria del cerchio, osserva un paesaggio di nera caligine, lo riproduce mimeticamente, salvo poi sedere, afflitto, su un foglio di carta appallottolato. Nella seconda installazione, Tommaso è raffigurato con le dita scetticamente protese verso una ferita ipertrofica, apoteosi e, insieme, tributo del celebre vulnus caravaggesco (Incredulità di San Tommaso, 1600-1601). Con grande abilità di sintesi, Deodato descrive qui le vicende di una sconfitta esistenziale, che sancisce e denuncia le limitazioni del pensiero cartesiano. Ma è solo una tappa del suo pellegrinaggio.

Altrove, l’approccio razionale sembra convivere con quello lirico e intuitivo, come nel caso del dittico intitolato Seduto beve la notizia, dove la lettura e il sogno rappresentano due modi di cercare la verità, l’una incentrata sull’analisi dei fatti e delle loro interpretazioni, l’altra affidata alle immagini oniriche dell’inconscio. Il viaggio, sia esso fisico o astrale, è un tema ricorrente nei lavori di Deodato, spesso disseminati di figure aurorali e apparizioni iridescenti che marcano, come delicate filigrane, il cobalto di un cielo notturno.

Pino Deodato, Fermare il tempo. Silente. Si aprono le porte del paradiso, 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva.

Pino Deodato, Fermare il tempo. Silente. Si aprono le porte del paradiso, 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva.

Nei lavori più recenti, le volte serotine lasciano il campo a uno spazio più rastremato, quasi monocromo, dove prevale il latteo caolino delle argille entro cui galleggiano i personaggi, tra minuti rilievi d’alberi, magmatici gorghi e aerei nembi. Sembra quasi che Deodato concentri l’attenzione sull’azione, come in un close up cinematografico, tralasciando la descrizione dei luoghi e le ambientazioni favolistiche da Blaue Reiter che caratterizzavano larga parte della sua produzione. Opere come Ho amato un albero e Grande amore mostrano, infatti, una rinnovata sensibilità cromatica, tutta orchestrata su sottili variazioni di superficie e tenui accenti chiaroscurali, che alleggeriscono il racconto, privandolo dei dettagli calligrafici che ancora abbondano negli interni domestici di Tra una carezza e un sorriso, l’universo.

Insomma, Deodato usa un linguaggio più secco ed essenziale, senza mai smarrire quel registro di levità, che è segno distintivo della sua opera. Un’opera spesso permeata da un sentimento di stupore e di quotidiana meraviglia, come nel caso di Portata del vento e Meraviglioso, installazioni giocate su un calibratissimo senso di sospensione, dove uomo e natura paiono fondersi in una ritrovata intimità, fitta di rimandi a una naïveté colta e raffinatissima. In questi lavori, il San Tommaso scettico della prima ora, quello tormentato dal dubbio, lascia il campo al testimone stupefatto, al campione della fede, capace di abbracciare il maelström esistenziale ed elevarsi oltre gli umani affanni, spiccando il volo tra cirri cumuliformi. Eppure, quella cui allude l’artista, non è la fede evangelica e apostolica, e tantomeno quella gnostica. Il suo San Tommaso è, semmai, una figura pretestuosa, una specie di lemma culturale, che serve all’artista per introdurre un sentimento di fede non confessionale, più affine alla magia elementare del folclore popolare.

Pino Deodato, Preciso disegno secondo canoni della sezione aurea (dettaglio 1), 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva

Pino Deodato, Preciso disegno secondo canoni della sezione aurea (dettaglio 1), 2014, installazione, 3 x 2 mt, Ph Tommaso Riva

In verità, Deodato descrive con i suoi lavori un percorso di scoperte e rivelazioni, di teofanie solo auspicabilmente collettive – ma più presumibilmente individuali -, che filtrano l’esperienza umana attraverso i codici del linguaggio artistico. I dubbi di Tommaso sono quelli dell’artista, metaforicamente sospeso sull’orlo del precipizio, a un passo dal baratro, forse in attesa di un segno, di una rivelazione musiva; così come la sua meraviglia e il suo stupore sono il viatico per una scelta definitiva, per quel lancio nel vuoto che sempre comporta l’accettazione di una missione, fosse pure quella ben più prosaica dell’arte.

Pino Deodato, Portata dal vento (dettaglio), 2014, installazione, terracotta policroma, 70 x 100 cm, ph Tommaso Riva.

Pino Deodato, Portata dal vento (dettaglio), 2014, installazione, terracotta policroma, 70 x 100 cm, ph Tommaso Riva.

C’è un dipinto del 1984, Il suicidio del pittore, che può essere considerato il progenitore di molte intuizioni successive dell’artista. Mostra un paesaggio all’imbrunire, occupato per metà da un’altissima rupe in penombra, da cui vediamo tuffarsi una piccola figura infuocata. Non sembra, affatto, un suicidio, ma lo spiccare di un volo, dopo un lungo tergiversare. Poco prima, possiamo immaginare quel pittore come il protagonista di Sospeso nel nulla. Trova un precario equilibrio, con le punte dei piedi sull’ultimo margine di roccia o disteso sull’impossibile angolo del dirupo, consapevoli che, nel breve lasso di un battito di ciglia, quell’agognato salto diventerà certo, certissimo, anzi probabile.

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Evento: Certo, Certissimo, anzi probabile.
Artisti: Pino Deodato
A cura di: Ivan Quaroni
Luogo: Galleria Susanna Orlando Studio. Via S.Stagi, 12 Pietrasanta -LU Inaugurazione: Sabato 05 luglio ore 19.00
Durata Mostra: 05 luglio – 27 luglio 2014
Info e comunicazione: v.pardinicomunicazione@gmail.com
Galleria Susanna Orlando. Via Carducci 10 -55042 -LU. 0584 – 83163
Galleria Susanna Orlando Studio. Via S.Stagi 12 -55045 Pietrasanta -LU. 0584-70214 

Carlo Cofano. Pensieri di luce

16 Giu

Di Ivan Quaroni

 

“Chi impara realmente a vedere, si avvicina all’invisibile.”
(Paul Celan, Microliti)
 
Si può dipingere ogni cosa, basta soltanto vederla.
(Giorgio Morandi)
 
 
Carlo Cofano, Pensieri di Luce, olio e acrilico su tela, 120x120 cm., 2014

Carlo Cofano, Pensieri di Luce, olio e acrilico su tela, 120×120 cm., 2014

Dopo tanti secoli, non è ancora chiaro quale sia il vero scopo della pittura. Forse perché uno scopo preciso, tantomeno utilitaristico, non c’è. Quel che, invece, è certo è che la pittura non può ridursi a mera rappresentazione della realtà. Essa deve contenere qualcosa in più… e qualcosa in meno. Un quid che la renda affascinante e, allo stesso tempo, necessaria. Secondo Alberto Sughi, compito della pittura è mostrare, non argomentare. Ma mostrare che cosa? Il poeta Paul Valery sosteneva che “il pittore non deve dipingere quello che vede, ma quello che si vedrà”, dando a questa millenaria pratica un ruolo quasi profetico che forse non gli si addice. Se, infatti, dipingere la realtà è un atto di pura cronaca, del tutto gratuito, dipingere il futuro, anticiparlo, potrebbe apparire addirittura un gesto folle. Eppure, proprio l’ipotetico, il possibile, l’opinabile, sono i domini prediletti dell’arte, i campi in cui essa dimostra la sua capacità non di prevedere il mondo che verrà, ma di cogliere l’invisibile oltre la sfera della percezione ordinaria e rendere, così, palese ciò che è nascosto in piena luce.

Carlo Cofano, Atmosfere, olio su tela, 90x 110 cm., 2014

Carlo Cofano, Atmosfere, olio su tela, 90x 110 cm., 2014

Carlo Cofano è uno di quegli artisti per cui la luce – come affermava André Derain – “è sostanza della pittura”. Un’affermazione che va intesa sia in senso fisico, perché attraverso le sue modulazioni d’intensità essa genera le forme e i colori, sia in senso lato, perché, come qualità spirituale, è in grado di svelare quel che non si può cogliere a occhio nudo, con un approccio esclusivamente retinico. La sua ricerca pittorica si configura come una sorta viaggio all’interno del sé, una ricognizione non tanto psicologica o psicanalitica, ma piuttosto medianica e archetipica, che lo conduce a indagare la struttura della realtà ultrasensibile. Obiettivo dell’artista è squarciare il proverbiale velo di Maya di shopenhaueriana memoria, per dare corpo (e anima) a un universo solo apparentemente fantastico. Cofano dipinge, infatti, mondi paralleli e sovrapposti, intersezioni di piani spazio-temporali, dove una luce limpida, cristallina, irradia le superfici svelando l’esistenza di luoghi misteriosi, abitati da rare, enigmatiche presenze.

Carlo Cofano, Ri-Creazione, olio su tela-50x60 cm., 2013

Carlo Cofano, Ri-Creazione, olio su tela-50×60 cm., 2013

I suoi universi iperurani, sospesi in una placida atmosfera mediterranea, eppure tanto simili ai paesaggi ibridi di Moebius o alle fantasie solari di Hayao Myazaki sono, tuttavia, solo in parte il frutto di una ricerca estetica e artistica. Come gli iniziati della Grande Opera, Cofano intraprende un viaggio nelle profondità dell’anima, un tragitto – lo stesso così abilmente criptato nel celebre acronimo alchemico[1] – che lo conduce a battere i sentieri della coscienza, districandosi tra perigliosi abissi e vette impervie. Come gli alchimisti, egli trasferisce le fasi dell’Opera alchemica nella pittura, passando attraverso un processo di raffinamento della materia cromatica dalla sostanza sorda e densa dei fondi neri (nigredo) a quella eterea e purificata dei fondi bianchi (albedo).

Carlo Cofano, Appartenenze, acrilico su legno, 59x63 cm., 2014

Carlo Cofano, Appartenenze, acrilico su legno, 59×63 cm., 2014

Le opere in mostra sono, infatti, suddivise in due differenti tronconi d’indagine. Le prime sono realizzate preparando le tele con acrilici neri, che fanno risaltare la lucentezza, ma anche la consistenza fisica e prosaica dei colori, dando corpo a soggetti solidi, plasticamente definiti. Quelle, invece, eseguite su tele preparate con un fondo bianco, sono più trasparenti, eteree, come per effetto di una sublimazione delle sostanze. Sembra quasi che la pittura sia ora percorsa da una più alta vibrazione energetica, che rende impalpabile ciò che prima appariva compatto. I mondi descritti da Carlo Cofano appartengono a diversi gradi di realtà, come fossero disposti lungo una scala ascendente che scandisce il grado di maggiore o minore prossimità con il mondo sensibile. Più vicini all’ordine della realtà materiale sono i paesaggi solidi che affiorano dalla tela nera, quelli, per intenderci, che appaiono tanto simili a certe ricerche di matrice pop surrealista e che, per comodità, ascriviamo agli stilemi dell’immaginario magico-realista sudamericano. Più lontani – come le intelligenze angeliche del Paradiso dantesco – sono i mondi che traspaiono dal fondo bianco, dove un’intensa luce attenua le forme, sottraendo gravità ai corpi e annullando le ombre.

Carlo Cofano, L'Attesa, olio e acrilico su tela, 70x110 cm., 2013

Carlo Cofano, L’Attesa, olio e acrilico su tela, 70×110 cm., 2013

Intendiamoci, i paesaggi di Cofano sono tutti, senza eccezione, fuori dalla limitata portata della comune percezione, cioè oltre quella cortina illusoria che ci ostiniamo a definire “realtà”. La sua pittura è, infatti, letteralmente un medium, un tramite tra il visibile e l’invisibile, dove Cofano, come artista, diventa pontifex, ossia costruttore di ponti tra l’alto e il basso, tra il materiale e l’immateriale. Un ruolo, per la verità, che gli artisti hanno ricoperto anche in passato. Penso soprattutto alla pittura iconica bizantina, dove l’artista si faceva strumento, appunto, della rivelazione divina o ai pittori tibetani di tangka, rettangoli verticali di tessuto dipinti con motivi geometrici, che consideravano la bellezza, una manifestazione del sacro. Già nelle “opere al nero”, da Pensieri di luce (2014) a Pianeta Armonia, passando per Settimo cielo (2013) e Ri-creazione (2013), assistiamo alla palingenesi di un universo epifanico, dove s’intrecciano paesaggi sublimi e architetture impossibili, sotto il segno di una natura edenica, insieme metamorfica e rigogliosa. Sotto ampissime volte celesti, tra nubi incendiate da vespertine radiazioni, oppure dentro una natura lussureggiante, costellata di strani fiori tropicali, compaiono creature d’ombra e titani fluttuanti, silenti testimoni del viaggio cosmico di Carlo Cofano. Un viaggio come dicevo, compiuto senza vettori spaziali o satelliti orbitanti, ma sperimentando un diverso modo di osservare la realtà. Quelli dipinti dall’artista sono sogni lucidi o visioni scaturite da uno stato di presenza vigile, in cui l’ego diventa una parte remota dell’individuo, sempre più relegato a un ruolo marginale.

Carlo Cofano, Convergenze di Luce, olio e acrilico su tela, 130x205 cm., 2014

Carlo Cofano, Convergenze di Luce, olio e acrilico su tela, 130×205 cm., 2014

Nelle “opere al bianco”, come ad esempio Apparenze (2014) e Convergenze di luce (2014), la contemplazione si sofferma sulla struttura platonica delle forme, la natura organica si trasforma in geometria piana e l’architettura in sintesi volumetrica. La sublimazione raffredda anche i colori, che si organizzano in partiture di turchini, armonie di cobalti, sinfonie cilestrine. Appartenenze (2014) e Frequenze (2014) delineano paesaggi aerei e costruzioni pensili oltre le nubi, a un passo dalla stratosfera. Qui è il dominio dell’acqua, dell’aria e della luce, come pure nel grande trittico su tavola, dove la volta celeste, con i suoi nembi cumuliformi, s’increspa tra cascate di acquedotti celesti, mentre in basso, lontanissimo, il mondo si flette in una curva impossibile. La pittura di Carlo Cofano descrive una realtà liminare in cui Spazio e Tempo collidono, frantumando i parametri della fisica classica. Una dimensione tanto prossima alle leggi della teoria quantistica da lasciarci supporre che niente è, in realtà, come sembra. E che la verità è, come sempre, nascosta in piena luce.

Carlo Cofano, Madre, olio su tela, 50x80 cm., 2014

Carlo Cofano, Madre, olio su tela, 50×80 cm., 2014

INFO
Titolo : Pensieri di Luce
Artista : Carlo Cofano
Curatela : Ivan Quaroni
Luogo : E-lite studiogallery Corte San Blasio 1c Lecce
Periodo:21 giugno-13 agosto
Vernissage 21 giugno ore 20.00
Catalogo: Editrice Salentina
Fotografia: Aesse fotografia
Info e contatti :
www.elitestudiogallery.eu
mail:infoelitestudiogallery@gmail.com
carlocofanoartist@gmail.com
mobile: Claudia Pellegrino 338-1674879

[1] VITRIOL, le cui iniziali stanno per: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem (Veram Medicinam), che significa “Visita l’interno della terra, e rettificando (con successive purificazioni) troverai la pietra nascosta (che è la vera medicina)”.

Enrico Vezzi. Viaggio al termine della notte.

13 Giu

di Ivan Quaroni

 

«Com’è grande il mondo alla luce delle lampade,
e come è piccolo agli occhi del ricordo».
(Charles Baudelaire)
 
«Dove c’è molta luce l’ombra è più nera». (J.W. Goethe)
 
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Enrico Vezzi, Cercatore di Conoscenza n. 23, tecnica mista su tavola, 90×90 cm., 2007

Uno dei più recenti orientamenti della figurazione americana, il cosiddetto New Folk, consiste nel recupero e nella restituzione sul piano visivo di atmosfere legate alla cultura popolare e campestre, al folclore e alle tradizioni. Ben lontano dall’estetica pop, più legata all’immaginario della cultura consumistica e mass-mediatica, il New Folk si serve di stilemi naïve quali il ricorso a costumi tradizionali, ad ambientazioni boschive e campestri, oppure a banali scene di vita quotidiana, allo scopo di trasmettere all’osservatore messaggi di carattere etico, politico e sociale. Insomma, viene usato un linguaggio semplice e comprensibile per veicolare un messaggio disturbante, sovente critico verso alcuni aspetti della società.

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Enrico Vezzi, Cercatore di Conoscenza n. 26, tecnica mista su tavola, 90×90 cm., 2007

Un tipico esempio è Marcel Dzama, che adopera uno stile infantile e apparentemente rassicurante per descrivere scene di inaudita violenza quotidiana. Un altro è Jules De Balincourt, che con le sue grandi tele conduce una critica serrata e impietosa al sistema politico americano. Poi c’è Amy Cutler, che pone al centro della sua opera l’identità femminile, usando la metafora della filatura per denunciare il ruolo secondario a cui la donna è stata relegata nel corso dei secoli. La differenza tra questi artisti ed altri egualmente impegnati sul fronte etico consiste nel tipo di linguaggio utilizzato. Il New Folk, lungi dall’essere un movimento vero e proprio, può essere descritto come una tendenza pittorica che introduce l’osservatore ad un clima di quiete domestica e di bucolica semplicità. La scelta di toni e cromie pacate per descrivere atmosfere fiabesche e surreali, s’inquadra all’interno di una visione critica verso quelle tendenze dell’arte contemporanea che premiano il gigantismo mitomane e il volgare sensazionalismo.

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Enrico Vezzi, Cercatore di Conoscenza n. 27, tecnica mista su tavola, 110×110 cm., 2007

Nella ricerca artistica di Enrico Vezzi sono presenti molte similitudini con l’orientamento New Folk statunitense. Innanzitutto, la predilezione verso la semplicità stilistica e iconografica e in secondo luogo l’appello alla restaurazione di un rapporto autentico e concreto con la realtà. Se è vero che l’artista toscano ha lavorato in passato sul tema delle relazioni, analizzando con video, fotografie e dipinti i rapporti tra individui e ambienti, è altrettanto vero che le opportunità dischiuse da un incontro imprevisto, le possibilità di cambiamento offerte dalla conoscenza, il rapporto diretto con persone e cose sono motivi ricorrenti in tutta la sua opera. Vezzi affronta ogni nuovo lavoro come se si trattasse di un’esperienza unica, di un percorso irripetibile e perciò ineguagliabile. Per questo Non guardare l’infinito, ultima tappa temporale della sua indagine, assume le sembianze di un tragitto iniziatico, sorta di ascensione alchemica alla luce della conoscenza attraverso le tenebre dell’ignoranza. Il viaggio inizia con le prime luci dell’alba, in un clima di ottimismo e serenità, sottolineati dalla rifrazione iridescente degli arcobaleni dei due light box della serie Foto Magiche, intitolati rispettivamente Fat Tree e Natural Bridge.

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  Enrico Vezzi, Foto Magica (Natural Bridge), light box 30×40 cm., 2007

Autosave-File vom d-lab2/3 der AgfaPhoto GmbH

Enrico Vezzi, Foto Magica (Fat Tree), light box 30×40 cm., 2007

Si tratta di due scatti che evidenziano la sottile ambiguità delle forme organiche. La prima ritrae un albero, la cui rotondità richiama le fattezze di un uomo grasso. La seconda è l’immagine di un ponte, un manufatto umano perfettamente integrato con l’’ambiente circostante tanto da sembrare parte del paesaggio naturale. Entrambe le foto ci introducono al tema della verità della natura. Il famoso motto True to Nature, caro ai poeti romantici, diventa qui pretesto culturale per affermare un nuovo umanesimo post-digitale, che proclama la superiorità dell’esperienza diretta (e concreta) sulla conoscenza virtuale (e immateriale). Una delle modalità operative di Vezzi consiste, infatti, nella capacità di realizzare progetti site e time specific, come nel caso del Grande disegno magico che costituisce la seconda tappa del percorso espositivo. Si tratta di un’immagine ricavata da uno scatto fotografico realizzato dall’artista nel Parco di Modena. Le linee sono tracciate con una matita arcobaleno, che produce colori diversi secondo l’inclinazione e la posizione della punta sul foglio. Nondimeno, gli alberi, le foglie e i fiori appaiono come presenze eteree, stagliate su un evanescente sfondo latteo. Lo stile è quello di certi erbari domestici del XIX secolo, un misto di minuzia e dilettantismo, solo che l’effetto è ricercato. Il tono pacato e dimesso del disegno, che fa il paio con l’installazione a terra di un cumulo di foglie e ritagli fotografici a tema naturalistico, risponde ad una logica di sobrietà estetica e morale, motivo ricorrente in tutta la ricerca dell’artista.

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Enrico Vezzi, Cercatore di Conoscenza n. 22, tecnica mista su tavola, 60×60 cm., 2007

Dalla luce adamantina dell’alba si passa alla piena solarità diurna. La terza stazione di questo ideale tragitto ci porta al nucleo centrale della mostra, che comprende una decina di dipinti della serie Cercatori di Conoscenza, un ciclo incentrato sulla rappresentazione di individui dediti ad espandere la propria conoscenza attraverso un contatto diretto con la natura. Vezzi ritrae escursionisti, appassionati naturalisti e semplici gitanti mentre percorrono sentieri silvestri o sostano a contemplare paesaggi incontaminati. L’atmosfera, feriale e rilassata è quella di una domenica pomeriggio in campagna. Ogni scena è un elogio alla lentezza, condizione necessaria a carpire i segreti della natura. Ogni quadro, pazientemente realizzato a china, acquarello e smalto per ottenere un cromatismo fluido e leggero, ci restituisce un’atmosfera di vibrante stupore e di placido incanto. L’intento di Vezzi, però, è meno lirico di quel che appare. Il suo è un progetto nato in risposta alla progressiva smaterializzazione della conoscenza, sempre più basata sull’acquisizione indiretta di dati (specialmente quella derivata da internet) e sempre meno maturata all’interno di un percorso di esperienze empiriche.

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Enrico Vezzi, Cercatore di Conoscenza n. 19, tecnica mista su tavola, 90×90 cm., 2007

“Considerando che le conoscenze dei singoli individui nell’epoca della globalizzazione si stanno uniformando in senso negativo al di fuori della vera condivisione del sapere”, afferma l’artista, “mi sono posto il problema di scoprire se esistessero ancora persone immuni da questa epidemia e ne sono andato alla ricerca”. Così sono nati i Cercatori di conoscenza, dipinti su persone che dedicano parte del proprio tempo ad imparare cose che non s’insegnano a scuola e non si trovano navigando in rete. Sono cercatori anche i protagonisti del video intitolato The Chromosphere, impegnati in un’esplorazione notturna guidata da un naturalista. Durante l’escursione la telecamera riprende i bagliori luminosi delle pile elettriche, delle lanterne, delle torce e dei falò che interrompono il buio fitto del bosco. Le immagini, accompagnate dal ritmo serrato di una colonna sonora elettronica, scorrono rapide come in un videoclip, in una sorta di affannosa visione fotosensibile. Il titolo allude al sottile strato di atmosfera solare, posta sopra la fotosfera, visibile a occhio nudo solo durante le eclissi totali. Un’immagine della cromosfera, paradossalmente estratta da internet, apre la breve sequenza filmica. La metafora della luce come simbolo di conoscenza è il leit motiv dominante. La comitiva attraversa la selva oscura, simbolo dantesco dell’ignoranza umana, in cerca di una conoscenza segreta. Tutto intorno aleggiano le tenebre notturne, spazio percettivo virtualmente infinito, che l’artista invita a non guardare, per non perdere la cognizione della realtà. Sembra di assistere ad una misteriosa discesa agli inferi, ad un attraversamento che non è più soltanto fisico, ma anche spirituale. Alla fine di tutto, così come all’inizio, c’è sempre una luce. L’ultima è quella di una radura con una piccola casa rischiarata dal fuoco freddo dei neon. Il viaggio, quello fittizio dell’arte, è finito. Riprende ora quello vero della vita.

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Enrico Vezzi, Cercatore di Conoscenza n. 20, tecnica mista su tavola, 60×60 cm., 2007

Premio Griffin | 2014.

5 Giu

Ambiguità e indeterminazione delle nuove ricerche

di Ivan Quaroni

«Il linguaggio opera interamente nell’ambiguità,

e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite.»

(Jacques Lacan,Il seminario, 1953-1980)

I premi servono innanzitutto a valutare lo stato di salute dell’arte di un paese, ma anche a prendere atto delle tendenze e dei movimenti centrifughi che caratterizzano le ricerche delle giovani generazioni. In tal senso, la visione delle opere dei partecipanti al Premio Griffin 2014 conferma lo stato di crisi delle espressioni figurative, già anticipato nella precedente edizione, mostrando una generale tendenza ad attardarsi su stilemi desueti, largamente indagati nel decennio precedente. Si tratta di una crisi che riguarda soprattutto la figurazione di carattere più narrativo, quella che, per intenderci, si esprime attraverso i generi tradizionali del ritratto e del paesaggio. Si avverte, invece, un maggiore interesse da parte delle nuove generazioni verso le espressioni astratte e concettuali, forse ritenute capaci di riportare la pittura entro un dominio operativo puro, non minacciato dalla forza comunicativa e pervasiva dei nuovi media digitali. Sembra, infatti, che sia in atto uno spostamento d’interesse verso forme di rappresentazione ambigue, in cui la convivenza di elementi astratti e lacerti di figurazione confluisce nella costruzione di visioni parziali e frammentarie, che in un certo senso testimoniano un mutato rapporto nei confronti della realtà, sempre più avvertita come una struttura mutevole e instabile. Insomma, il Mondo Liquido descritto da Zygmunt Bauman produce i suoi effetti anche sulla formazione delle nuove sensibilità artistiche, favorendo ora la fuga verso la dimensione introspettiva dell’astrazione, ora la predilezione verso meccanismi di decostruzione della mimesi realistica. Nelle opere dei finalisti di entrambe le categorie del Premio Griffin, dedicate agli Studenti d’Arte e agli Artisti Emergenti, emerge un approccio di tipo formalista e concettuale, con una spiccata predilezione per la pittura aniconica.

Hyeok Lee, Soldaato, acrilico su tela, 80x150 cm., 2014

Hyeok Lee, Soldaato, acrilico su tela, 80×150 cm., 2014

Nella categoria Studenti, l’unica eccezione è il sudcoreano Hyeok Lee, la cui ricerca ruota attorno a temi come la guerra e la violenza. L’artista indaga attraverso un approccio multidisciplinare che spazia dalla pittura al video, la possibilità di esorcizzare la violenza attraverso la pratica artistica. Nei suoi dipinti, caratterizzati da un’estrema sintesi visiva, la figura del soldato, simbolo della guerra, irradia linee circolari e concentriche fino a formare l’immagine di un’impronta digitale, insieme carta d’identità e memoria storica (e genetica) della violenza.

Xhimi Hoti, Senza titolo n. 10, acrilico su tela, 120x150 cm., 2013

Xhimi Hoti, Senza titolo n. 10, acrilico su tela, 120×150 cm., 2013

Ispirandosi ai progetti dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia, Xhimi Hoti sviluppa una pittura rigorosa, in cui dominano figure piane e solidi fluttuanti, a disegnare fughe prospettiche e dinamismi spaziali. Hoti usa la geometria come filtro per costruire (o meglio, decostruire) singolari schemi architettonici, che sospende in una dimensione densa, quasi pietrificata, tutta giocata su un registro cromatico di bianchi, neri e grigi.

Chiara Campanile, Mangiando salsicce con Giuseppe Abate, olio e acrilico su tela, 90x85 cm., 2013

Chiara Campanile, Mangiando salsicce con Giuseppe Abate, olio e acrilico su tela, 90×85 cm., 2013

Uno spazio fluido, indefinito è quello che caratterizza i paesaggi astratti di Chiara Campanile, la quale non abolisce del tutto la figura, ma ne sottolinea l’ambiguità, fino a renderla irriconoscibile. Il suo lavoro rientra appieno nella definizione di Astrazione Ambigua, usata dal critico Tony Godfrey per indicare le ricerche pittoriche dove è più labile il confine tra iconico e aniconico.

Livia Oliveti, Flowing, Polistirolo, resina, acrilico, gesso, fumo, fuoco, 74x31 cm., 2014

Livia Oliveti, Flowing, Polistirolo, resina, acrilico, gesso, fumo, fuoco, 74×31 cm., 2014

Una ricerca attenta ai materiali è quella di Livia Oliveti, che sfrutta le caratteristiche tecniche di supporti non tradizionali, come ad esempio il polistirolo, per creare una pittura caratterizzata da ritmi e scansioni quasi scultoree. Nell’opera Flowing, infatti, Livia Oliveti unisce alla tensione lirica e all’impulsività del gesto, una capacità di sintesi progettuale, che la porta organizzare le superfici come una sequenza di texture pittoriche.

Florian Zyba, Suoni emotivi, acrilico su tela, 120x120 cm., 2013

Florian Zyba, Suoni emotivi, acrilico su tela, 120×120 cm., 2013

Fa appello ai processi sinestetici la pittura di Florian Zyba, che rielabora la lezione puntinista di Seurat in uno stile astratto, che cattura su grandi tele circolari, memorie e impressioni del passato. Zyba frammenta le forme in nebulose cromatiche, diagrammi corpuscolari, che irretiscono lo spettatore in un labirinto di emozioni ottiche e sensazioni sonore.

Paolo Bini, Sa, acrilico su carta gommata applicata su tela, 120x120 cm., 2014

Paolo Bini, Sa, acrilico su carta gommata applicata su tela, 120×120 cm., 2014

Nella categoria degli Emergenti, troviamo due artisti che, con diverso approccio, operano nell’ambito dell’astrazione. Il primo è Paolo Bini, che dalle suggestioni del paesaggio, distilla una pittura dominata da cromie intense e caratterizzata da un singolare processo compositivo. Bini costruisce le sue opere giustapponendo strisce di carta gommata, ognuna delle quali viene dipinta singolarmente e poi inserita in un meticoloso assemblaggio. Il risultato sono lavori che formano pattern ad alta densità emotiva.

Claudia Marini, Grovigli, collage su forex, dittico 35x24 cm. cad, 2014

Claudia Marini, Grovigli, collage su forex, dittico 35×24 cm. cad, 2014

Un lavoro di assemblaggio caratterizza anche l’opera di Claudia Marini che, ritagliando e incollando carte incise e dipinte in precedenza, compone oblunghi grovigli di filamenti che alludono ai processi di proliferazione organica. Per costruire i suoi collage, contrassegnati da un raffinatissimo bilanciamento di linee e colori e da una pulizia formale dal sapore orientale, l’artista usa figure modulari desunte dal mondo naturale, che vengono replicate e variate, fino formare lunghe strutture verticali.

Annalisa Fulvi, Non ci resta altro da fare, acrilico su tela, 120x145 cm., 2014

Annalisa Fulvi, Non ci resta altro da fare, acrilico su tela, 120×145 cm., 2014

L’indagine figurativa di Annalisa Fulvi s’incentra sul tema classico della città, attraverso una dettagliata analisi delle trasformazioni delle aree metropolitane. Brani di cantieri edili e edifici in costruzione sono i soggetti di una pittura che abolisce la rappresentazione lineare, accentuando la frammentarietà della visione attraverso un caotico affastellarsi di sovrapposizioni cromatiche. Nei dipinti dell’artista, l’incompiutezza dell’architettura urbana diventa, quindi, simbolo di una condizione di dolorosa precarietà esistenziale.

Giuseppe Costa, Montagna Longa (serie Heimat), Carboncino e grafite su cartoncino, 33x20 cm., 2013

Giuseppe Costa, Montagna Longa (serie Heimat), Carboncino e grafite su cartoncino, 33×20 cm., 2013

Il paesaggio, filtrato attraverso una sensibilità nostalgica, è il soggetto principale dell’indagine di Giuseppe Costa, che nella serie Heimat s’interroga sul senso di appartenenza a un territorio e a una cultura specifici. Artista palermitano, trapiantato a Milano, Costa oppone allo spaesamento provocato dalla globalizzazione, la ricostruzione di una memoria personale, sorta di diario intimo, dove i luoghi della sua città sembrano perdersi nelle nebbie del tempo, avvolti in una coltre lattiginosa che rende i contorni labili e le forme evanescenti.

Stefania Ruggiero, #qualité, arkers e pastelli a olio su carta, 35x24 cm., 2014

Stefania Ruggiero, #qualité, arkers e pastelli a olio su carta, 35×24 cm., 2014

Con una pittura sintetica e analitica, Stefania Ruggiero priva le persone (ma anche le cose) di tratti distintivi e dettagli che possano rivelarne lo status sociale. Così, spoglia la realtà di ogni particolare descrittivo, riducendo i “soggetti” a una dimensione puramente oggettuale, al fine di stigmatizzare l’importanza di marchi e simboli commerciali nei meccanismi d’interazione della società contemporanea.

PREMIO GRIFFIN. Mostra dei 10 finalisti
Milano, Fabbrica del Vapore
6-26 giugno 2014
Inaugurazione: 5 giugno ore 18.30

Orari: dal lunedì al sabato, ore 16.30 – 19.30 e su prenotazione a segreteria@premioartegriffin.it

PREMIO GRIFFIN 2014
www.premioartegriffin.it
segreteria@premioartegriffin.it

Ufficio stampa
CLP Relazioni Pubbliche
Anna Defrancesco, tel. 02 36 755 700
anna.defrancesco@clponline.itwww.clponline.it
Comunicato stampa e immagini su www.clponline.it

 
 

 

Luca Serra. Una mimesi sostanziale

29 Mag

di Ivan Quaroni

Luca Serra 4

In un saggio su Francis Bacon, Gilles Deleuze afferma che la pittura attuale offre “tre grandi direzioni […]: l’astrattismo, l’espressionismo e ciò che Lyotard chiama il Figurale, che è cosa diversa dal figurativo, esattamente una produzione di figure”. Il termine figurale appare come un escamotage del brillante filosofo francese per introdurre una tipologia pittorica che non può essere compresa entro gli ormai classici schemi dell’astrazione e della figurazione, essendo essa egualmente refrattaria ad entrambe le definizioni. Eppure il vocabolo figura, da cui deriva l’aggettivo figurativo, definisce sia la forma o apparenza di un’immagine, sia il simbolo, l’allegoria o il significato ad essa sotteso. Siamo, dunque, indotti a credere che il figurale sia una categoria che si distingue dal figurativo per un diverso grado di approssimazione alla realtà. La pittura figurativa, infatti, desume le immagini dalla realtà, con gradi di maggiore o minore fedeltà, laddove la pittura figurale le produrrebbe per mezzo di un procedimento endogeno e, quindi, non mimetico. Accettando tale distinzione terminologica, ci ritroviamo, tuttavia, ad affrontare più dubbi di quanti riusciremmo a risolverne. Dal momento che anche l’arte astratta utilizza figure non derivate dalla realtà fenomenica, che cosa, allora, distinguerebbe quest’ultima dalla pittura figurale? È evidente che il suggerimento di Lyotard, citato da Deleuze, non ci conduce da nessuna parte. Più sensata, invece, ci sembra la definizione di Achille Bonito Oliva, il quale, scartando la tradizionale antinomia tra astrazione e figurazione, scrive che “La figura è il punto focale dell’arte”, poiché “detiene la centralità del linguaggio, in quanto è portatrice dell’intenzione e del desiderio di potenza dell’immaginario”, aggiungendo, poi, che “tale desiderio si traveste mediante abbigliamenti vari, indossa i panni della circostanza legata alla necessità espressiva”. Se si accetta la definizione di Bonito Oliva, si chiarisce anche un dubbio riguardo la ricerca di Luca Serra, il quale ha più volte affermato che la sua “non è un’arte propriamente astratta”, in quanto prende le mosse da un accadimento reale e concreto, che è il risultato di una combinazione di fattori predeterminati e di accidenti guidati.

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Per Serra “il lavoro pittorico non è letteralmente dipinto, ma è, piuttosto, l’esecuzione di un calco della pittura precedentemente stesa su una superficie preparata”. In pratica, l’artista si serve di pannelli ricoperti di carta catramata sui quali dispone, seguendo un personalissimo senso di ordine ed equilibrio, tempere, pigmenti, polveri, gessi e strati di colla. Su questa superficie preparata, l’artista fa aderire la tela, che successivamente rimuove. Lo strappo ha per conseguenza l’asportazione di parte della materia cromatica, delle colle e della carta catramata presenti sulla matrice e la tela risulta, così, impressa come in una sorta di calco i cui esiti sono solo parzialmente prevedibili. Osservando le opere di Luca Serra, viene spontaneo ascriverle all’ambito delle ricerche astratte. Sopra i suoi calchi in gomma su tela, infatti, non appaiono forme riconoscibili, né ombre vaghe che possano suggerire l’idea di una qualche presenza. Ci sono, piuttosto, segni e tracce, dilavature ed escoriazioni, lacerti e frammenti che compongono tra loro un’imprevista texture, una tramatura che appare coerente, bilanciata nel peso e nella massa. L’impressione che si ricava da queste marcature di colore, che pure possiedono una forma d’ordine in certe partiture orizzontali o verticali, è quella di essere alla presenza di superfici che abbiano subito l’azione abrasiva del tempo e delle intemperie.

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Quelle che affiorano sulle tele di Serra sono figure proprio nel senso espresso da Bonito Oliva, ovvero in quanto “portatrici dell’intenzione e del desiderio di potenza” di un immaginario che, nel suo caso, si traduce in un tentativo di appropriazione delle qualità estetiche della materia e in una volontà strenua di possedere, e forse di ricreare, l’incanto cromatico di certe superfici minerali, siano esse pietre o terre. È sulle note di fondo di questa fame di conoscenza, di questa curiosità insaziabile, che Serra interpreta la sua pittura. Una pittura che ha le caratteristiche di una sfida, a volte ludica e a volte drammatica, tra l’uomo e la natura, tra le qualità tecniche dell’artista e le proprietà intrinseche dei materiali. Per questo, il procedimento messo in atto da Luca Serra non somiglia in alcun modo a quello, tutto squisitamente mentale degli artisti astratti. La sua è una pittura egualmente equidistante dalla premeditazione teoretica del Minimalismo come dallo spontaneismo gestuale dell’Action Painting. Piuttosto si avverte in essa una necessità impellente di verifica empirica degli accadimenti che intercorrono nell’osmosi chimica del calco, quando la tela è impressa sulla matrice. “Sono affascinato dall’evento – scrive l’artista nei suoi appunti – da ciò che succede fuori dal mio controllo, aldilà delle mie intenzioni”. Luca Serra può solo immaginare il risultato delle metamorfosi chimiche, che si producono nell’unico momento di cecità dell’intero processo. Tuttavia, quando la matrice e il calco aderiscono, nel buio ottuso della pressione, le sostanze si mescolano e si alterano in modo pressoché incontrollabile, producendo risultati sorprendenti. Serra gioca dunque una rischiosa partita tra l’ordine e il caos, tra la causalità sequenziale del suo Opus, e la casualità (guidata) della trasmutazione alchemica.

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“Io voglio che la pittura – racconta l’artista – sia capace di darmi qualcosa; io sono lo spettatore, il primo spettatore della mia pittura”. In termini semplici, l’atteggiamento di Serra richiama quello di un ricercatore scientifico al quale, dopo aver predisposto tutti gli elementi, non rimane che assistere al risultato finale dell’esperimento. La sua è, dunque, un’immersione nel farsi stesso della pittura, intesa non tanto come lo svolgersi di un esercizio fine a se stesso, ma come possibilità di un’epifania, di una rivelazione dell’ordine estetico del cosmo, che trascende il mero atto volontario e allinea l’intenzione dell’artista con le segrete leggi che regolano la natura. Ecco perché, nel suo caso più che in quello di altri artisti, è lecito parlare di procedimento alchemico. I grandi alchimisti del passato sapevano che i loro sforzi erano tesi non tanto al raggiungimento di un risultato tangibile, come, ad esempio, la trasformazione del metallo vile in oro, ma alla comprensione del funzionamento della natura intima di tutte le cose. La Grande Opera corrispondeva a un cammino iniziatico e spirituale di imitazione del creato. Ora, l’arte di Luca Serra somiglia in tutto a un’indagine, tanto pittorica quanto ontologica, sulla genesi di effetti cromatici e visivi che ci sembra appartengano al mondo fenomenico molto più delle algide geometrie o delle forme pseudo-organiche che ricorrono in tanta arte astratta. Ed è per questo motivo che il termine “astratto”, riferito al suo lavoro, ci pare inadeguato, quasi restrittivo. Quando pensiamo ad un’opera astratta la interpretiamo innanzitutto come la formulazione estetica di un pensiero progettuale o di un modus operandi, che trasla le idee formali sul piano più fattuale dell’arte. Serra, invece, aggiunge un passaggio sostanziale, quello dell’evento inaspettato, dell’accadimento inafferrabile in cui l’intuizione estetica può manifestarsi sotto forma di disvelamento. Una rivelazione che giunge dalla materia stessa, dalla natura – saremmo tentati di affermare – assumendo, quindi, un valore di oggettività che l’artista non può dominare o controllare completamente. Ogni volta che la sua tecnica diventa troppo raffinata e il risultato di essa troppo prevedibile, Serra cambia metodo, introduce nuovi passaggi per “salvaguardare” quel fondamentale gradiente di sorpresa, preservando, con esso, il piacere stesso della scoperta e dell’apprendimento.

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“Se la pittura è esattamente ciò che sono in grado di fare o di dare – dice Serra – per quale motivo dovrei dipingere?”. Si palesa, in questa dichiarazione, il senso iniziatico del suo fare artistico, che intende la pittura come rapporto tra l’intenzione e il risultato e, dunque come lo scarto che s’insinua tra l’idea e la forma compiuta, che qui passa attraverso l’esperienza della materia, una materia, a suo dire “ostica al cambiamento”. Proprio come accade nel percorso alchemico, che impone al discepolo di confrontarsi prima di tutto con la sostanza bruta e informe, in quella lunga, preliminare fase conosciuta come Opera al nero. Le opere della serie Irreversibile, che rappresentano i più recenti esiti della ricerca dell’artista, sono l’ulteriore dimostrazione di come la pittura possa scavare negli intimi recessi della natura senza ricalcarla nella forme. Serra non imita il mondo fenomenico, ma tenta di catturarne i segreti, di ghermirne l’essenza.  Ed è per questo che le figure della sua pittura non assumono mai la foggia delle cose reali, ma si limitano a suggerire l’idea di consistenze informi e inafferrabili, che ricordano gli effetti cromatici delle infiorescenze rugginose delle terre, delle scrostature degli intonachi, delle emulsioni d’umidità, ma anche degli aloni bituminosi, delle corone di vapore acqueo, delle scalfitture dei gessi, delle abrasioni dei solventi, dei residui delle colle, delle tracce degli ossidi, insomma di tutto l’irresistibile e brutale affresco della chimica terrestre.

El hombre del saco, 2009  Abdruck von Kautschuk und Acrylgummi auf Leinwand  150 x 125 cm