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Eccentrici, apocalittici, pop. Inferno e delizia nell’arte contemporanea

30 Giu

di Ivan Quaroni

Invasione americana

Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider

Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive. 

Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative. 

Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson. 

Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti. 

Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010). 

Genoma italiano

La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale. 

A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].

Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo. 

Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione. 

Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC. 

Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale. 

Eccentrici, apocalittici, pop

Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani. 

La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.

Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.   

L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason. 

Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù. 

Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue opere si possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd. 

Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.

Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione. 

L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.

Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.

Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop SurrealismNicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.

Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro. 

Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.

Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore.  El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso. 

Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.

Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.

Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità. 

Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.


[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.

[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.

[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.

[4] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.

Italian Newbrow. Genealogia culturale di un’esperienza

11 Giu

di Ivan Quaroni

Vanni Cuoghi, Under blood red sky, (La messa in scena della Pittura 02), 2019, acrilico e olio su tela, cm45x45

Italian Newbrow è un termine piuttosto curioso. Sono stato più volte rimproverato, perfino dagli artisti che hanno aderito a questo progetto, di aver scelto un nome che sarebbe risultato incomprensibile al pubblico italiano. Avevano naturalmente ragione! E la prova evidente sta nelle molteplici deformazioni che del nome sono state fatte dai giornalisti più disattenti, per non dire dislessici: Nebrown (nuovi marroni?), Newborn (neonati?), Newboh (bho!, appunto). In effetti, Newbrow è una parola inglese difficilmente traducibile nella nostra lingua, che è intimamente legata agli sviluppi di un fermento artistico di matrice americana, quella che viene chiamata Lowbrow Art, ma che è conosciuta anche con il più fortunato nome di Pop Surrealism. Il significato letterale della parola Brow è “ciglio” o “fronte”, cioè due elementi anatomici, ma il suo senso cambia notevolmente se associato ad altre parole. Lowbrow, ad esempio, si riferisce, nella cultura pop, a qualcosa che è privo di gusto, di intelligenza, di raffinatezza. Insomma, a qualcosa che è considerato intellettualmente inferiore come, talvolta, sono state considerate le produzioni plastiche e pittoriche degli artisti pop surrealisti americani che si sono ispirati a fonti triviali e corrive della cultura di massa quali il fumetto, l’illustrazione, i cartoni animati, le vecchie serie televisive, i B-movie di genere horror e fantascientifico. Il termine Pop Surrealism è stato introdotto proprio perché molti degli artisti che appartenevano a quella compagine non si riconoscevano nell’accezione negativa del termine Lowbrow, che invece era orgogliosamente rivendicato da coloro che provenivano dalle esperienze della Custom Culture, del tatuaggio o dei comic book. 

Il motivo per cui, a un certo punto, decisi di adottare questa terminologia per definire quanto stava facendo in pittura un gruppo di artisti che operava soprattutto a Milano, è molto semplice: tra il 2005 e il 2007 eravamo tutti interessati al Pop Surrealism. Anche se alcune gallerie, come la bolognese Mondo Bizzarro, avevano già fatto da apripista, era solo da qualche anno che iniziavano a filtrare attraverso la stampa notizie relative a questa nuova tendenza pop che aveva caratteristiche del tutto diverse rispetto alla Pop Art di Warhol e Lichtenstein, come pure al New Pop di Jean-Michel Basquat, Keith Haring, Ronnie Cutrone o Kenny Scharf. 

Giuliano Sale, Private Rave in my Living Room, 2021, olio su tela, cm. 130×110

L’influsso del Pop Surrealism si mescolava e si confondeva, peraltro, con quello proveniente dalle similari, ma non identiche, esperienze degli artisti giapponesi Superflat, da Takeshi Murakami a Yoshitomo Nara, da Aya Takano a Chiho Aoshima, che avevano traslato il linguaggio dei manga e degli anime nell’arte contemporanea. 

Questo riversamento magmatico d’immagini semplici e immediate, ma anche seducenti e affascinanti, aveva irretito non solo la mia attenzione, ma anche quella di amici artisti come Giuseppe Veneziano, Vanni Cuoghi, Michael Rotondi, Michela Muserra, Massimo Gurnari, Giuliano Sale e Silvia Argiolas, con i quali avevo già avuto modo di collaborare in differenti occasioni espositive. Tuttavia – ne sono certo -, questa nuova sottocultura pop cominciava a fare breccia nelle menti e nei cuori di molti altri artisti sparsi nella penisola. All’interno del nucleo di artisti che in seguito avrebbero preso parte alle iniziative di Italian Newbrow, non tutti, per la verità, condividevano questa entusiastica curiosità verso le nuove tendenze Pop, che contrastavano la convenzionale coolness intellettualistica dell’arte concettuale per aprire il campo a un pubblico più vasto e variegato. Artisti come Paolo De Biasi, Eloisa Gobbo e Fulvia Mendini rimasero sempre sostanzialmente estranei a tale influsso, sebbene usassero un linguaggio pittorico che presentava molte analogie con quel tipo di influenze. Inoltre, noi tutti eravamo cresciuti nei primi anni Duemila in un clima artistico dominato dalla cosiddetta Nuova Figurazione, un raggruppamento davvero composito di esperienze artistiche che era stato alacremente sostenuto e propagandato dai critici Alessandro Riva e Maurizio Sciaccaluga sulle pagine della rivista “Arte” e in numerose mostre in spazi pubblici e in gallerie private. Il tratto comune degli artisti neofigurativi era il ricorso a linguaggi narrativi, le cui grammatiche spaziavano dalle forme più realistiche a quelle più fantastiche e che prevedevano, talvolta, il saccheggio d’immagini d’origine mediatica (cinema e televisione) o di derivazione letteraria, fumettistica e illustrativa. 

La mostra cardine di quella frastagliata compagine fu Sui Generis, curata nel 2001 da Alessandro Riva al PAC di Milano con la precisa volontà di mostrare come la cultura di massa avesse plasmato l’immaginario di molti artisti (soprattutto pittori) nati tra gli anni Sessanta e Settanta. Posso affermare che il mio gusto si formò tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio sulla visione, talvolta anche scettica, di quel genere di arte. 

Fulvia Mendini, Madonnina della pera, 2016, acrilico su carta, cm 38 x 28

Per chi, come me, scriveva recensioni di anemiche mostre concettuali sulle pagine di “Flash Art”, la Nuova Figurazione rappresentava non solo una specie di guilty pleasure, ma una risposta diretta, per quanto scomposta e disordinata, all’atteggiamento snob di molta arte contemporanea, percepita come un’esoterica conventicola di affiliati che dialogavano tra loro e con i collezionisti in un linguaggio criptato, volutamente oscuro ed enigmatico. Si può dire che la Nuova Figurazione sia stata la prima forma di Lowbrow Art italiana, anzi, la prima effettivamente Newbrow, capace di contaminare l’alto col basso, il popolare con il colto, l’accademico con l’antiaccademico. 

Prima che nascesse la definizione Italian Newbrow, il gruppo di artisti con i quali ero entrato in contatto a Milano, aveva, dunque, un retroterra culturale che rispondeva favorevolmente ai segnali delle nuove sensibilità pop provenienti dagli Stati Uniti e dal Giappone. Tra il 2004 e il 2007, grazie all’intensificarsi delle opportunità espositive e delle occasioni di frequentazione, si crearono tra noi legami sempre più stretti, basati non tanto su un programma artistico condiviso, ma su una comune attitudine a privilegiare un’idea di arte immediata e comprensibile, contaminata dalla cultura di massa e dunque accessibile a un pubblico più ampio di quello tradizionalmente elitario del modo dell’arte. Non eravamo i primi a porci il problema dell’accessibilità dei linguaggi artistici, ma appartenevamo, forse, a una generazione che avvertiva con più ansia e trepidazione l’urgenza dei cambiamenti della società del tardo capitalismo, in particolare dopo lo shock dell’11 settembre e l’accelerazione dei fenomeni di globalizzazione economica. 

Personalmente, la lettura di Zygmunt Bauman, con la sua apocalittica, ma profetica, descrizione del Mondo liquido – una società moderna in cui i cambiamenti tecnologici e sociali sono più rapidi della nostra capacità di sopportarli -, mi aveva convinto che le uniche forme d’arte che avrebbero potuto interpretare la cataclismatica velocità di tali mutamenti, sarebbero state quelle che avessero saputo mutuare la semplicità e l’immediatezza comunicativa da altre forme espressive come il fumetto, l’illustrazione, il videogame, il cinema, la televisione e soprattutto il web. 

La riflessione sulla Google Generation, derivata forse dalla lettura di un articolo di Luca Beatrice, mi aveva definitivamente persuaso che il vecchio atteggiamento elitario, inaccessibile e astruso dell’arte contemporanea sarebbe presto caduto sotto i colpi della rivoluzione digitale. Per me e per gli artisti con i quali collaboravo la semplicità e la comprensibilità erano valori che la pittura doveva combinare con un intenso, gioioso, sfrontato e qualche volta drammatico vitalismo. 

Silvia Argiolas, La rossa, 2021, tecnica mista su tela, 80×60 cm

Nella formazione della mia sensibilità critica era anche l’unico modo per combinare il pessimismo di Bauman con la filosofia espansiva e appunto vitalistica di un nietzschiano eretico come Franco Bolelli, alla cui lettura ero stato introdotto da Paolo De Biasi, artista che ha avuto un ruolo importante nell’elaborazione teorica di Italian Newbrow. 

La necessità di dare un nome a questa nuova attitudine pittorica si scontrava, però, con la mia ritrosia a etichettare quella che ritenevo essere più una sensibilità che un linguaggio coerente e a presentarmi come guida teorica di un gruppo di artisti stilisticamente troppo variegato. D’altra parte, pur convinto che il tempo dei gruppi e dei manifesti fosse finito da un pezzo, prendevo atto del fatto che le novità più interessanti in pittura provenivano proprio da quegli artisti americani e giapponesi che erano stati capaci di “fare squadra”, proponendosi come un fronte compatto, tenuto insieme da una comune volontà nell’affrontare i problemi della rappresentazione pittorica nella società liquido-moderna.

Furono le pressioni di alcuni artisti e una circostanza fortuita a obbligarmi a decidere. L’occasione si presentò quando Giancarlo Politi visitò la mia mostra milanese Beautiful Dreamers[1], una collettiva che includeva una serie di opere di surrealisti pop americani, artisti giapponesi superflat e pittori neopop italiani. Fu allora, infatti, che il direttore e fondatore di «Flash Art» mi invitò – per la verità un po’ titubante – a curare una parte della sezione italiana della IV Biennale di Praga nel 2009, dandomi così modo di presentare le ricerche di alcuni degli artisti con cui lavoravo da tempo. 

Il nome Italian Newbrow saltò fuori, nella fretta di dover decidere un titolo per la mostra di Praga, durante una discussione con Giuseppe Veneziano e Vanni Cuoghi nello studio di quest’ultimo in via Rucellai. Mi sembrò adatto soprattutto perché univa il background italiano neofigurativo con l’eccitazione generata dal fermento Lowbrow americano. Conteneva un richiamo a quell’esperienza della West Coast americana e, allo stesso tempo, rivendicava anche il genoma fondamentalmente italiano del gruppo

Oltre alla Nuova Figurazione italiana, al Pop Surrealismo californiano e al Superflat giapponese, altri stimoli e sollecitazioni plasmarono la variegata identità artistica di Italian Newbrow: il cosiddetto New Folk newyorkese e la pittura della Nuova Scuola di Lipsia, che declinavano l’immediatezza e la forza comunicativa del Post-Pop in forme e direzioni meno convenzionali.

Laurina Paperina, Atomic Bomb, acrilico su tela, cm 120×170

Nel 2006 ricordo di aver letto un interessante articolo di Luca Vona[2] che raccontava l’emergere a New York – dopo lo shock dell’undici settembre -, di un’arte che tornava alla dimensione lirica del quotidiano, ad atmosfere più quiete e feriali ispirate all’arte folk, ai pittori autodidatti, agli artisti della domenica. Artisti come Marcel Dzama, Amy Cutler, Jules De Balincourt, Jockum Nordström, tutti di stanza a New York, dipingevano, infatti, con un linguaggio fiabesco vicino alle illustrazioni dei libri per bambini scene apparentemente rassicuranti che adombravano contenuti perturbanti. 

Questo nuovo Folk rappresentava la dimensione umbratile, lirica, intimistica, ma anche più drammatica, del Pop. Pop e Folk coglievano due aspetti dell’arte popolare, la matrice urbana e quella pastorale, quella mediatica e quella ancestrale, quella estroversa e quella intimista. Il New Folk era, insomma, la versione timida, diaristica, sognante, ma anche destabilizzante, del Pop e, perciò, all’indomani della nascita del progetto Italian Newbrow, mi era sembrato necessario aprire le fila del gruppo ad artisti come Silvia Argiolas, Elena Rapa, Marco Demis, Alice Colombo, Cristina Pancini, Diego Cinquegrana, Daniele Giunta e Mirka Pretelli che ampliavano notevolmente quella iniziale indicazione di semplicità e immediatezza della pittura dell’era liquido-moderna. 

La conoscenza diretta dell’arte folk fu un’esperienza collettiva e rivelatoria che si consumò negli anni tra il 2009 e il 2011 durante le nostre annuali visite all’Armory Show di New York. La scoperta dell’American Folk Art Museum, che allora si trovava proprio accanto al MoMA, ci rivelò le fonti d’ispirazione di quella nuova sensibilità artistica promossa, appena l’anno prima del nostro arrivo nella Grande Mela, dalla mostra Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger[3]

Henry Darger era una figura di artista outsider nato a Chicago nel 1892, che era stato l’autore di un voluminoso manoscritto di oltre quindicimila pagine e trecento illustrazioni intitolato The Realms of Unreal, scoperto solo dopo la sua morte avvenuta nel 1973. The Realms of Unreal è una storia folle che racconta le avventure delle figlie di Robert Vivian, sette sorelle principesse della nazione cristiana di Abbiennia, che partecipano a una eroica ribellione contro un regime di sfruttamento schiavistico dei bambini imposto dai generali “Glandeliniani”, una versione fascista dei soldati Confederati della Guerra Civile Americana. L’ immaginario di Darger, fiabesco e insieme disturbante, ha affascinato non solo artisti, ma anche scrittori, poeti e registi contemporanei. 

Nel 2006, due anni prima di imbattermi nella figura di Henry Darger, avevo curato una mostra intitolata Back to Folk[4], in cui erano esposte opere di Marcel Dzama, Raymond Pettibon, Vanni Cuoghi, Enrico Vezzi e Matteo Fato, che, pur con le dovute differenze, mi sembravano condividere una comune temperatura emotiva, una specie di fondo oscuro e passionale che trapelava, attraverso una delicata trama disegnativa, in immagini ambigue o sconcertanti. 

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, cm. 100×70

L’ultimo tassello di questa genealogia culturale di Italian Newbrow è, come ho accennato, costituito dalla curiosità verso le espressioni pittoriche provenienti dall’est Europa, o meglio, dall’area della ex DDR, cioè quella che era, prima della caduta del muro di Berlino, la Repubblica Democratico Tedesca. La cosiddetta Neue Leipziger Schule, che comprendeva una pletora di artisti che avevano studiato nell’Accademia di Belle Arti della città sassone e che emersero, come gruppo, attraverso una serie di mostre in Europa e negli Stati Uniti nei primi anni Duemila. Pittori come Neo Rauch, Matthias Weischer, Tim Eitel, David Schnell, Tilo Baumgartel e Christoph Ruckhäberle ci avevano stregato per quella combinazione di abilità tecniche e figurazione fantastica in cui sopravvivenze dell’arte del Novecento, tra Realismo Magico, Metafisica e Nuova Oggettività, si fondevano con una nuova sensibilità figurativa, capace di condensare la narrazione in una rappresentazione simultanea e sintetica di episodi visivi, spesso straniante e destabilizzante. Ad eccezione di Paolo De Biasi, il più continentale e mitteleuropeo, dunque più sensibile e attento alle evoluzioni della pittura d’oltralpe, per gli artisti Newbrow la Scuola di Lipsia fu una passione intellettuale, un esempio di come un gruppo compatto, appoggiato dai media e da una rete di gallerie, musei e istituzioni, potesse affermarsi sulla scena internazionale dell’arte. Ancora adesso, la nostra ammirazione per i colleghi tedeschi è incondizionata, ma la verità è che lo specifico genoma italiano del Newbrow ha sempre avuto la meglio sulle nostre passioni e curiosità. Nonostante le evidenti aperture globaliste, Italian Newbrow è stata un’esperienza maturata sul suolo italico, nel contesto di una cultura che guardava fuori dai propri confini geografici per ridefinire le proprie fondamenta in un complesso, spesso difficile, rapporto tra attualità e tradizione, tra identità ed extraterritorialità, tra retrospezione e visionarietà. 

L’arte di Italian Newbrow è infestata dagli spettri del passato, dai fantasmi della tradizione, ma è anche percorsa da una vena di traiettorie iperstizionali, di futuribili precognizioni[5] e di immersioni nella realtà ambigua e inafferrabile del presente. L’elemento citazionistico nei lavori di Giuseppe Veneziano, Paolo De Biasi, Vanni Cuoghi e Giuliano Sale, non assume mai il carattere sfacciato di un anacronismo necrofilo e mortuario che è, sorprendentemente, quello che un pubblico pigro e indolente, sovente straniero, associa alla nostra tradizione artistica. I riferimenti, le allusioni, i rifacimenti alla storia aurea della pittura italiana o europea sono sempre filtrati dall’ironia, alterati da una memoria labile, scomposti tra le pieghe di un linguaggio mutante, ibrido, in costante oscillazione non solo tra passato e presente, ma anche tra realtà e fiction. 

Le polarità espressive all’interno del gruppo sono, inoltre, esasperate dalla coesistenza di linguaggi chiari, intellegibili, narrativi, come quelli di Laurina Paperina, Fulvia Mendini, Vanni Cuoghi e Giuseppe Veneziano, e di grammatiche più ambigue ed elusive, come quelle di Giuliano Sale, Silvia Argiolas e Paolo De Biasi, che resistono a ogni fascinazione mediatica e sostituiscono la linearità del racconto con libere associazioni di tropi e figure. E tuttavia i confini tra i vari stilemi all’interno della compagine non sono mai definitivi. Non esiste nell’Italian Newbrow qualcosa di simile all’ala destrae all’ala sinistra della Neue Schlichkeit. Ci sono influssi pop e impulsi folk, tentazioni metafisiche e umori espressionistici, richiami alla cronaca ed evasioni fantastiche, allusioni alla musica rock e alla mass culture e richiami all’arte, alla poesia o al cinema d’autore. Per questo risulta impossibile “compartimentare” ogni singola tendenza. Se al criterio di intellegibilità pop sostituiamo, per esempio, il gradiente d’intensità espressiva gli schieramenti cambiano. Una ipotetica linea freddapotrebbe comprendere i lavori di Mendini e Veneziano, ironici, ma privi di gestualità e grumi emotivi, mentre una linea calda includerebbe le opere pur diversissime tra loro di Argiolas, Sale e Laurina Paperina, in cui l’elemento ironico s’innesta su una matrice più gestuale, magmatica, libera. Tra queste due linee, a giudicare dai recenti esiti delle loro ricerche, dovrebbe frapporsi una linea mediana, in cui rientrerebbero le sospensioni metafisiche di Cuoghi e De Biasi dai modi espressivi più temperati. Insomma, nel tentativo di definire i diversi orientamenti all’interno di Italian Newbrow, ci si trova costretti ad ammettere che è sufficiente variare il criterio per ottenere linee e tendenze ogni volta diverse. Questa varietà formale, di per sé in continuo mutamento, si è accentuata nel corso del tempo. Come è ovvio che sia, ciascun artista ha proseguito la propria ricerca, talvolta ampliando il proprio campo d’azione dalla pittura alla scultura fino all’installazione, talaltra maturando, anche in modo radicale, il proprio linguaggio visivo. Italian Newbrow non è mai stata un’entità stabile, né nella componente puramente numerica dei suoi membri, né, appunto, nelle grammatiche espressive. D’altra parte, è un’entità figlia della società preconizzata da Bauman. Come scrivevo nel 2012, Italian Newbrow “è uno scenario artistico in continua evoluzione, che incarna il mutato clima della società liquido-moderna e, allo stesso tempo, sanziona la nascita di una nuova attitudine, […] una condizione mentale, un mood emotivo e spirituale, generato dai recenti mutamenti tecnologici e culturali”[6].

A distanza di dodici anni dalla nascita del progetto, si può dire che le cose stiano ancora così, sebbene l’accelerazione dei mutamenti tecnologici sia stata più rapida del previsto. Spero che gli artisti Newbrow continuino a evolversi per comprendere il senso di questa condizione di perpetua transizione. Una condizione che, dopotutto, appartiene alla dimensione biologica della vita stessa, con le sue costanti mutazioni e trasformazioni.


NOTE

[1] Ivan Quaroni (a cura di), Beautiful Dreamers, 1° dicembre 2008 – 13 febbraio 2009, Angel Art Gallery, Milano. 

[2] “Fortemente radicato nella cultura popolare, a tal punto da evocare gli stilemi dei “pittori della domenica”, è il New Folk, tendenza di punta della nuova figurazione americana. Mescolando sapientemente cultura “alta” con elementi vicini alla sensibilità popolare, il New Folk riesce a parlare a tutti in un linguaggio di facile comprensione. Differentemente dalla Pop Art, vengono richiamate non tanto le icone della cultura di massa, quanto piuttosto la sua stessa capacità di esprimersi attraverso codici semplici, a volte banali, e di rappresentare un mondo altrettanto semplice e -apparentemente- “banale”: quello delle persone a cui si rivolge. La naiveté dei dipinti folk è un mezzo per veicolare contenuti morali (non più solo di critica verso la società dei consumi, come accadeva nella Pop Art) che celebrano l’eroismo e la bellezza della dimensione feriale dell’esistenza, delle piccole azioni di ogni giorno, contrariamente a quell’estetica dello shock che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’arte e non solo”. Luca Vona, New York, New Folk, «Exibart», 19 settembre 2006.

[3] Brook Davis Anderson (a cura di), Dargerism: Contemporary artist and Henry Darger, 15 aprile – 21 settembre 2008, American Folk Art Museum, New York. 

[4] Ivan Quaroni (a cura di), Back to Folk, 1° dicembre 2006 – 3 marzo 2007, Daniele Ugolini Contemporary, Firenze.

[5] Si vedano, ad esempio, le creature post-organiche fabbricate da Diego Dutto pubblicate in: Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow. Cattive compagnie, 8 agosto – 2 settembre 2012, Fortino, Forte dei Marmi (MC).

[6] Ivan Quaroni (a cura di), Italian Newbrow, 11 febbraio – 25 marzo 2012, Pinacoteca civica Palazzo Volpi, Como.


INFO:

Italian Newbrow

a cura di Valerio Dehò e Ivan Quaroni

Sabato 19 giugno 2021

Ex Chiesa e Chiostri di Sant’Agostino, Pietrasanta (LU)

Tragödie. Silvia Argiolas, Marica Fasoli

18 Giu

di Ivan Quaroni

“Risuona un mambo nella cavea e il mondo semplicemente gira.”
(Franco Battiato, Manlio Sgalambro, Bist du bei mir)

Invito-2

Premessa

Nella barbarie linguistica della comunicazione odierna – massmediaticadirebbe qualcuno – la filosofia è stata oggetto di numerosi processi di liofilizzazione a uso e consumo del pubblico. Tra i concetti che questo tipo di pubblicistica ha consegnato alla mediocrità del vocabolario corrente, vi sono due aggettivi sostantivati di estrema rilevanza: dionisiaco e apollineo.

Sono termini oggi grossolanamente usati per designare due aspetti o attitudini del comportamento umano. Il primo, di carattere orgiastico, attiene i sentimenti di esaltazione e furore della sfera istintiva e irrazionale; il secondo, di matrice solare, introduce le idee di ordine e armonia che sostanziano il pensiero logico e razionale. Si riferiscono a due divinità della religione dei greci antichi: Dioniso, il Dio arcaico della vegetazione, incarnazione della linfa vitale, ibrida e multiforme, che alimenta le esplosioni mistiche e sensuali, secondo un principio d’indistinzione, o di primaria comunione tra uomo e natura; Apollo, divinità dalle qualità cumulative, auriga solare, protettore di pastori e greggi, patrono della musica, della poesia, della medicina e della mantica, acuto nel giudizio, oscuro nei vaticini.

Dionisiaco e apollineo prendono forma nella mente di un giovane filologo tedesco rintanato in un angolo delle Alpi, durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, “mentre i tuoni della battaglia di Wörth trascorrevano sull’Europa”[1]. Friedrich Nietzsche dà alle stampe la sua opera prima, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero grecità e pessimismo, nel 1872, esordendo con uno sbalorditivo incipit: “Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione, che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco”.[2]

Sarà, infatti, la composizione dei due principi che fanno capo alle opposte origini e finalità delle due divinità, sempre in aperto contrasto e in “eccitazione reciproca”, a produrre finalmente l’opera d’arte, inizialmente nella particolare forma della tragedia attica. Tuttavia, quattordici anni dopo la pubblicazione dello scritto, nel suo Tentativo di autocritica (1886), Nietzsche applica quelle prime e visionarie intuizioni estensivamente a tutta l’arte, indicando in essa – e non nella morale – la vera attività metafisica dell’uomo.

La Nascita della tragedia s’innesta, a tratti come una sorta di sovrascrittura, sulla concezione pessimistica de Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer (1818). Il dionisiaco vi s’inserisce come una forma di totale identificazione col dolore originario, come uno stato che subentra alla rottura del principio d’individuazione e produce una mistica, erotica congiunzione con la natura, un rapimento estatico che l’autore della Tragedia paragona all’ebbrezza provocata dalle bevande narcotiche o dal “poderoso avvicinarsi della primavera”.

Laddove Schopenhauer avverte il terribile orrore che afferra l’uomo quando perde fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, Nietzsche intravede una possibilità di riconciliazione con la natura. Proprio qui si consuma il distacco dal pensiero di Schopenhauer. Nietzsche si domanda, infatti, se il pessimismo – ossia la coscienza che il mondo e la vita non possono dare nessuna vera soddisfazione, nessuna gioia permanente – sia necessariamente un segno di declino, di decadenza o se possa esistere un pessimismo della forza, “un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza”.[3]

6 - Salò o le 120 giornate di Sodoma, 2019, olio su tela, 40x30 cm

Silvia Argiolas, Salò o le 120 giornate di Sodoma, 2019, olio su tela, 40×30 cm. Collezione Rivabella

Fondamento tragico dell’arte

Il dionisiaco è, dunque, espressione di una vitalità del negativo, di un oblio dell’individuo che vive la contraddizione di una gioia e di una pienezza nate dal dolore che erompe dal cuore stesso della natura. Al contrario, l’apollineo è la divinizzazione del principio d’individuazione, cioè della percezione della separazione di ogni essere vivente, in particolare della separazione tra uomo e natura che conduce alla riflessione – il nosce te ipsum(conosci te stesso) iscritto sul tempio di Apollo a Delfi -, alla misura morale, al comportamento temperato, alla ricerca della bellezza e dell’armonia. In tal senso, l’apollineo è uno stato illusorio, simile al sogno, che permette all’individuo di guardare la verità raccapricciante, di osservare lo spettacolo barbarico del dolore dell’esistenza come se si trattasse di una rappresentazione. L’apollineo è la forma della conoscenza distaccata, laddove il dionisiaco è la forma della conoscenza incarnata, immedesimata e fusa con l’atrocità e l’assurdità dell’essere.

Come il dionisiaco, anche l’apollineo è uno stato necessario alla formazione dell’arte, l’uno e l’altro sono legati e intrappolati in un gioco di opposti, in un meccanismo che Eraclito chiama enantiodromia, e per il quale tutto ciò che esiste passa nel suo contrario. Per Nietzsche, apollineo e dionisiaco sono forze artistiche che sgorgano dalla natura senza mediazione dell’artista umano. “Rispetto a questi stati artistici immediati della natura”, afferma il filosofo, “ogni artista è«imitatore», cioè o artista apollineo del sogno o artista dionisiaco dell’ebbrezza o infine – come per esempio nella tragedia greca – insieme artista del sogno e dell’ebbrezza.”[4]

Phoenix 50x50, tecnica mista su carta, 2019 designed origami by Jo Nakashima

Marica fasoli, Phoenix, 2019, tecnica mista su carta, 50×50 cm. designed origami by Jo Nakashima

Due evidenze apparentemente esemplificative

Ora, la succitata premessa potrebbe fornire una chiave interpretativa delle ricerche di Silvia Argiolas e Marica Fasoli. Si potrebbero, cioè, applicare le categorie contenute nell’opera prima di Nietzsche per penetrare a fondo le loro differenti attitudini espressive.

Nella pittura di Argiolas domina lo spirito dionisiaco, l’attrazione per il titanico e il barbarico, l’interesse per il doloroso fondo esistenziale e per la sua controparte panica e sensuale. C’è, nei suoi racconti visivi, l’espressione di uno sguardo coraggioso, intento a scrutare gli accessi di follia e i deliqui erotici, le estasi e le agonie del magma esperienziale, ma anche la banale quotidianità di esistenze straordinarie o marginali.

Placido e distillato è, invece, lo sguardo di Marica Fasoli, governato dalla geometria aurea e trasognata dell’apollineo. La sua indagine pittorica decanta il mondo in forme astratte, filtrandolo attraverso una pletora di diagrammi che simbolizzano la realtà fenomenica, senza mai rappresentarla direttamente. L’impeto mimetico, che da sempre costituisce la marca stilistica del suo lavoro, è indirizzato verso la pellicola dell’immagine, insieme superficie testurale e concettuale.

Quella di Argiolas è una pittura scaturita da un abbandono vigile, che riceve e restituisce, come una sorta di documento poetico, l’urto dell’esperienza vitale. Quella di Fasoli è una pittura stillata e meditata, che osserva la vita da un punto di vista remoto per ricavarne un senso ulteriore, radiografandone la struttura per trasmetterla all’osservatore in forme platoniche e ideali, ma dotate di una potente capacità seduttiva.

Argiolas. Ut pictura poësis o viceversa.

Quello dipinto da Silvia Argiolas è un universo d’infusione e di effusione, popolato di figure ibride e oggetti ambigui avvolti in un amalgama orgiastico che confonde i contorni e i perimetri identitari dei soggetti. Lo spazio delle sue rappresentazioni è, infatti, teatro di una profusione di epifanie simultanee, di un’accumulazione narrativa che somiglia a una cosmica copula di episodi. La metafora dell’amplesso, inteso come abbraccio, effusione, ma anche accoppiamento erotico, percorre la sua pittura come una sorta di refrain iconografico, alludendo alla necessità di una coraggiosa immersione nel caos esistenziale.

Il suo linguaggio si forma per via adesiva e identificativa con le pulsioni che muovono ogni individuo verso la sua definitiva affermazione o dissoluzione. Per questo, il suo non è un dipingere progettato, elucubrato a freddo, ma costruito per accumulazione di gesti, segni, immagini che affiorano, quasi medianicamente, dalle profondità della coscienza per imprimersi sulla superficie della carta e della tela. Argiolas si abbandona a quanto vi è di sottilmente vigile in un processo d’improvvisazione. Arte, esperienza e intelligenza manuale guidano questo metodo erratico di elaborazione pittorica senza mai cristallizzarsi in codici normativi, ma lasciando aperto il campo a errori, ripensamenti, rivelazioni. Il suo procedimento è “erratico” in un duplice senso: primo, perché l’artista si muove sulla superficie senza uno scopo premeditato, dunque errando e vagabondando tra infinite possibilità espressive; secondo, perché confida nella propria capacità di trasformare ogni errore e ogni imprevisto in una formulazione grafica originale, che ha il valore di una scoperta. Spontaneità, imperfezione e coraggio sono valori imprescindibili della sua pittura, che legge il mondo come esperienza tragica e come coacervo di ossessioni e possessioni, di estasi e afflizioni insieme carnali e spirituali. La poesia si offre all’artista come fonte d’ispirazione più prossima alla pittura proprio per la sua qualità immersiva, cioè per la sua capacità di verificare il vissuto esistenziale dall’interno, dal ventre passionale e doloroso delle emozioni. Argiolas, infatti, rileva nei versi di Juan Rodolfo Wilcock, Michel Houellebecq, Dario Bellezza, Sandro Penna e Pier Paolo Pasolini un grumo d’immagini capaci di ispirare la rappresentazione grafica di quel sentimento tragico, lo stesso che animava Giovanni Testori, pendolarmente sospeso tra estasi e tormenti, tra deliqui carnali e sublimi ascensioni.

In Snack bar (2019), una grande tecnica mista su carta, riecheggiano quasi in sordina i versi di Wilcock: Ma io mi sciolgo davanti a uno snack bar/se solo so che ci sei dentro tu[5]. Eppure, l’immagine è tutt’altro che descrittiva. L’artista, piuttosto, trasferisce in quella teoria di corpi nudi, fradici di umori, i sentimenti dell’amante arrendevole, annichilito, come un lirico greco, dalla furia distruttiva dell’amore.

Un groviglio di corpi madidi – ennesimo amplesso di figure fluttuanti nel turgore virescente di un paesaggio boschivo -, campeggia al centro di Il senso della lotta (2019), una grande tela ispirata all’omonima lirica di Michel Houellebecq, dove si legge: La parabola del desiderio/Riempiva le nostre mani di silenzio/E ognuno si sentiva morire,/I nostri corpi vibravano della tua assenza[6]. L’immaginario panico e orgiastico dell’artista si configura, qui, come una sorta di anatomia tantrica del desiderio, come una bukowskiana musica per organi caldi, partitura di orifizi umidi, membri sprizzanti, mammelle stillanti e lingue avvolgenti. Tutta l’arte di Argiolas aspira alla condizione coitale, all’annichilamento orgiastico che prefigura la fusione dell’individuo col tutto e la sua momentanea eclissi identitaria. Per questo i suoi personaggi sono spesso sessualmente ibridi, incarnazioni di quella bisessualità innata che secondo Sigmund Freud è presente in ogni individuo sotto forma di predisposizione psicologica[7].

A Pier Paolo Pasolini è dedicato un gruppo assortito di lavori. L’opera principale, Pasolini (2019), è il frutto di un’immaginifica crasi tra due autoritratti dello scrittore dei primi anni Quaranta, già esposti nella mostra Pasolini a Casa Testori (20 aprile – 1 luglio 2012). Si tratta di due fisionomie sovrapposte, due diversi aspetti della personalità di Pasolini che la pittrice innesta su un’anatomia fluida, elastica e tentacolare quanto l’attività dell’autore, che spaziava dalla poesia alla narrativa, dalla sceneggiatura alla regia, dal giornalismo alla drammaturgia senza soluzione di continuità.

Al ritratto bifronte dello scrittore friulano si affiancano, poi, quelli di Maria Callas, che fu sua musa per il film Medea (1969), interpretando la protagonista dell’omonima tragedia di Euripide, moglie abbandonata, maga e assassina. Anche in queste tre piccole effigi, dove il linguaggio espressionista è venato d’allusioni bizantine, i ritratti sono costruiti come prodotto di una moltiplicazione fisionomica: una solida e più leggibile, l’altra lineare e quasi aerea. Chiudono la serie dedicata a Pasolini, due piccoli dipinti (Gli sposi e  Salò o le 120 giornate di Sodoma), ispirati all’opera conclusiva della sua cinematografia che individuava nella feroce opera del Marchese De Sade i segni manifesti della tirannia della Ragione e della conseguente assenza d’ogni umana empatia e compassione. Un tema, questo, che attraversa in filigrana tutta l’opera pittorica di Silvia Argiolas, orientata alla comprensione e alla rappresentazione di tutta la gamma delle vicende umane, perfino quelle più marginali o socialmente inaccettabili.

Dario Bellezza con i suoi gatti (2019) è, invece, un ritratto zoomorfico dello scrittore romano che proprio ai felini dedicò un’intera sezione della raccolta di liriche Io: 1975-1982 (Mondadori, 1982). “Di Bellezza, poeta legato a Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori”, racconta Silvia Argiolas, “mi ha colpito il rapporto con la vita e con la morte, il suo essere un gatto selvatico, incapace di dominare i suoi istinti animali e sessuali”.

A Sandro Penna, infine, sono dedicate due tele: La stanza del poeta (2019), un ritratto caratterizzato da un rigoroso equilibrio formale e da una gamma cromatica di sapore quasi mesoamericano; e Il mare tutto azzurro/il mare tutto calmo (2019), lavoro ispirato ai versi di una breve poesia in cui lo scrittore contrappone il placido silenzio del paesaggio marittimo all’urlo muto del suo cuore esultante. In questo piccolissimo dipinto, affiora forse più chiaramente il lato apollineo che innerva tutta pittura di Argiolas. Una pittura che, nella sua empatica adesione alle gioie e alle sofferenze estreme dell’uomo, è però pur sempre testimonianza di una forma d’osservazione, capace di filtrare il tragico fondo esistenziale attraverso le visioni lenticolari del sogno e dell’allucinazione. È, infatti, tramite il sogno che l’artista si fa spettatrice del caos, scrutatrice del dolente abisso della coscienza e, allo stesso tempo, dell’inumano spettacolo della natura.

Marica Fasoli. Mimesi platonica o iperrealismo di secondo grado.

Analisi e contemplazione sono i presupposti dell’indagine di Marica Fasoli, artista che studia la morfologia dei fenomeni e il modo in cui le forme delle cose si presentano ai nostri occhi, per snidare e stanare in esse un significato ulteriore, un ordine o una matrice.

Lo slancio platonico – o se preferite kantiano – dell’artista si fonda sulla necessità teleologica di formulare ipotesi credibili sul fondamento dell’esistenza. Il prerequisito di tale atteggiamento è il principio di individuazione, la percezione di sé come entità separata da tutte le altre entità del mondo, le quali, possono quindi diventare oggetto di osservazione ed analisi. Si tratta di una condizione ascetica, contemplativa, antitetica alla furia orgiastica e all’estasi mistica che annullano l’individuo ricongiungendolo col tutto. Per osservare il mondo, per non lasciarsi prendere nella sua morsa è necessario svolgere uno sforzo interiore, fabbricarsi l’illusione di diventarne il testimone.

Tutta l’arte è, in qualche modo, mimetica (nella forma o nella sostanza) perché si fonda sulla capacità di esaminare e vagliare il senso del mondo per riformularlo sotto forma d’immagini. È quello che Nietzsche definisce sogno, dominio apollineo che permette di guardare l’esistenza come se si trattasse di una sorta di spettacolo.

Marica Fasoli è un’artista mimetica, che ha sviluppato uno stile iperrealistico basato sul virtuosismo tecnico e descrittivo. Tale abilità, derivata dalla sua specializzazione in Anatomia Artistica e approfondita nell’esperienza di restauro di opere antiche, ha contribuito non poco alla definizione del suo linguaggio pittorico. Per anni, ha ritratto la realtà con l’acribia di un miniaturista, ricalcando la superficie degli oggetti, le venature lignee, le pieghe della carta, le fisionomie e gli incarnati, alla ricerca di un segno, di un indizio che potesse rivelare l’anima o la sostanza che sta dietro la pellicola delle cose. La tensione retinica, una sorta di muscolare atletica visiva, serviva a penetrare il significato di quelle forme. Ma il ricalco mimetico, la ricostruzione, quasi fotografica, delle qualità epidermiche e testurali degli oggetti non era sufficiente a produrre una formulazione di senso. Il noumeno si sottraeva all’indagine ottica, un breve, elusivo lampo di consapevolezza a fronte di uno sforzo titanico. Bisognava cambiare strategia, fare un passo indietro (o in avanti), per formulare nuove ipotesi. La natura e il mondo andavano osservati da un altro punto di vista, più discosto, più indiretto: non la forma delle cose, ma quella delle idee, non i fenomeni, ma i costrutti.

Riorientando lo sguardo dall’esterno all’interno, l’osservazione si trasmuta in contemplazione. Il lavoro odierno di Marica Fasoli nasce per effetto di questo scarto, di questo slittamento concettuale, grazie alla scoperta di una pratica lontana nel tempo e nello spazio, quella dell’origami, una tecnica orientale di piegatura della carta finalizzata alla costruzione di modelli e oggetti tridimensionali. Non un’attività di svago, ma un’arte che insegna la disciplina interiore e sviluppa doti di precisone e pazienza che attengono anche alla pratica della pittura iperrealista. Marica Fasoli ne impara i rudimenti e inizia a fabbricare le forme più semplici: un orso, un pavone, una rana, una conchiglia, un riccio, un unicorno. Montando e rimontando quelle forme si accorge che il foglio dispiegato è un diagramma di linee complesse che somiglia a una struttura ordinata, è la rappresentazione visiva di un design, lo schema di un progetto. Non l’effetto, ma l’idea, il noumeno, forse. Comincia a pensare di aver trovato un nuovo oggetto da osservare, qualcosa da dipingere: un simbolo astratto, non più un oggetto concreto.

Gli origami sono oggetti simbolici, che alludono al ciclo vitale di nascita, morte e rigenerazione. Fragili e deperibili come gli organismi naturali, gli origami possono essere fatti e disfatti, costruiti e distrutti. Per Marica Fasoli il foglio di carta dispiegato, segnato da un reticolo di linee e ombre, è una sorta matrice, un’allegoria generativa che può essere tradotta nel linguaggio della pittura. Ma come? Gli vengono in soccorso due modelli procedurali: quello di Corrado Cagli, che nel 1957 dipinge Enigma del gallo, un olio su carta intelata dove le partiture astratte dell’immagine sono ricavate dalla mimesi delle stropicciature di un foglio di carta; e quello, più recente, di Tauba Auerbach, artista californiana autrice dei cosiddetti Crumple Painting, “una serie di grandi rendering di carta accartocciata dipinti in semitono”[8]. Partendo da quei modelli, Marica Fasoli elabora una pittura di mimesi strutturale, che usa la matrice degli origami come linea guida o, addirittura come supporto per la realizzazione di opere astratte.

Ogni origami è il prodotto di una creazione artistica originale, tanto che l’artista ne cita sempre l’autore, ma la sua comprensione passa attraverso un complesso lavoro di costruzione. Prima di dipingere un origami Marica Fasoli deve necessariamente imparare a costruirlo, assimilando una coreografa di gesti ordinati in una precisa successione. Una volta costruito, l’origami può essere finalmente smontato. Il foglio dispiegato rivela, infatti, la fitta trama di piegature che costituisce l’ossatura progettuale dell’oggetto. Su questa griglia di linee l’artista lavora con una tecnica chiaroscurale che marca luci e ombre in tonalità metalliche e iridescenti. Nascono così dipinti come Lemur (2017), Scrat (2017), Tarantula (2017) Hawk (2018) e Featerehd Crane (2018), stilisticamente all’incrocio tra astrazione e iperrealismo, tra arte analitica e concettuale.

I lavori di Marica Fasoli sono ipertesti visivi che rimandano a contenuti iconografici assenti, nel senso che le figure non compaiono nell’immagine dipinta, se non in forma ideale, progettuale appunto. Tutto il campionario fenomenologico delle forme zoomorfiche evocate dai titoli precipita, di fatto, in un unico oggetto, il foglio di carta pieghettato, un codice riepilogativo in grado di sintetizzare un’enorme massa informazionale. Nell’osservazione della natura, l’artista attua un doppio processo astrattivo: sceglie un soggetto come l’origami, un artefatto già astratto e stilizzato, per decostruirlo e ridurlo a diagramma riassuntivo delle proprietà geometriche e matematiche che governano tutti gli organismi, dalla proporzione aurea alla sequenza di Fibonacci. Sembrerebbe un sogno apollineo al quadrato. Eppure, il carattere dionisiaco, anche se recessivo, costituisce il fondamento emozionale di questa operazione di rimozione. La ricerca di bellezza e armonia nella pittura di Marica Fasoli e il suo strenuo ancorarsi all’ipotesi di un cosmo strutturalmente ordinato e perfetto rispondono a un’intima, forse inconfessabile, necessità di arginare il caos. Un caos che l’artista presagisce già agli esordi della sua indagine sugli origami, quando legge della tragica vicenda di Sadako Sasaki. La storia racconta di una bambina giapponese esposta alle radiazioni nucleari di Hiroshima che all’età di undici anni si ammalò di leucemia. Per sconfiggere la morte, con atto scaramantico, Sadako decise di piegare mille origami in forma di gru. Nella cultura giapponese la gru è un animale simbolo d’immortalità. Purtroppo, la bambina riuscì a realizzarne solo una parte, prima che la malattia la consumasse del tutto. A finire il lavoro furono i suoi amici, che raccolsero i fondi per erigere una statua in suo onore nel Parco della Pace di Hiroshima, un monumento visitato ogni anno da migliaia di persone.

Congedo

L’analisi delle ricerche diametralmente opposte di Silvia Argiolas e Marica Fasoli dimostra che apollineo e dionisiaco, le due categorie introdotte da Nietzsche per spiegare la nascita della tragedia attica, attraversano, come una sottile filigrana, tutte le forme d’arte. Tutta l’arte, infatti, è infusa di questi elementi differentemente miscelati in un’infinita gamma di combinazioni. Per il grande filosofo tedesco l’arte è un’attività metafisica perché la natura umana può liberarsi solo attraverso questi due strumenti, queste due divinità, Dioniso e Apollo, il cui accoppiamento fa esplodere un’intuizione e scatenare perfino la fantasia più mediocre. Laddove c’è l’arte e la comprensione di questi due doni che erompono dal cuore stesso della natura, “Allora c’è una salvezza”, afferma Giorgio Colli, “allora il mondo che ci circonda, con il suo cielo plumbeo e le sue ore digrignanti, è soltanto un incubo, e la vita vera è il sogno, è l’ebrezza!”[9]


Note

[1]Friedrich Nietzsche, Tentativo di autocritica, in Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, 1977, p.3.
[2]Friedrich Nietzsche, Nascita della Tragedia, Adelphi, Milano, 1977, p.21.
[3]Tentativo di autocritica, p.4.
[4]Nascita della Tragedia, p.27.
[5]Juan Rodolfo Wilcock, Poesia, Adelphi, Milano, 1996.
[6]Michel Houellebecq, Il senso della lotta, Bompiani, Milano, 2000.
[7]Sigmund Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.
[8]Margherita Artoni, Tauba Auerbach. Oltre la terza dimensione, in “Flash Art”, dicembre 2011- gennaio 2012, Giancarlo Politi Editore, Milano, p. 60.
[9]Giorgio Colli, Nota introduttiva, in Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano, 1977, p. XII.


Info:

Tragödie. Silvia Argiolas / Marica Fasoli
a cura di Ivan Quaroni
Casa Testori
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Ufficio Stampa
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Giuseppe Veneziano. Operette immorali

22 Giu

di Ivan Quaroni

“I moralisti sono persone che rinunciano ad ogni piacere
eccetto quello di immischiarsi nei piaceri altrui.”
(H. G. Wells)

Il sospetto che l’arte e la morale abbiano ben poco da dirsi, come credeva l’autore di Arancia MeccanicaAnthony Burgess, viene a chiunque abbia studiato un po’ di storia dell’arte, ma si fa ancor più fondato se si getta uno sguardo al panorama delle ricerche contemporanee.

Il problema deriva forse da una cattiva interpretazione del ruolo che l’arte dovrebbe ricoprire in seno alla società. Molti credono che essa abbia la responsabilità di trasmettere messaggi etici. Purtroppo, costoro ignorano il semplice fatto che l’etica e la morale sono concetti variabili nel tempo e nello spazio e, talora, confondono il contenuto iconografico di un’opera con il suo (eventuale, ma niente affatto scontato) significato.

La questione è annosa, anzi plurisecolare, se già San Paolo nell’epistola a Tito affermava che “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza”.

Proprio il celebre motto dell’apostolo – Omnia munda mundis– è all’origine del detto “la malizia è negli occhi di chi guarda”, che rimetterebbe la disputa sulla presunta moralità di un’immagine nelle mani di chi la interpreta, piuttosto che in quelle di chi la crea.

Gli scandali che certe opere d’arte hanno destato nel corso dei secoli, dal Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti alla Morte della Verginedi Caravaggio, da L’origine du mondedi Gustave Courbet a Le Déjeuner sur l’herbedi Édouard Manet, tanto per citarne alcune, sono stati il termometro non della tempra morale di una società ma, piuttosto, del suo moralismo, cioè della deteriore tendenza a giudicare secondo i principi, spesso astratti e preconcetti, di una presunta morale comune.

Di contro, il compito dell’artista consiste nell’assumere una posizione dubitativa nei confronti della morale corrente, di cui dovrebbe evidenziare antinomie e contraddizioni. Ad esempio, il dipinto La Madonna del Terzo Reichdi Giuseppe Veneziano, da molti ritenuto scandaloso o addirittura sacrilego, è un esempio di come un’immagine, intenzionalmente ambigua, sia capace di suscitare interpretazioni incongruenti e discrepanti. Infatti, “Per quanto Hitler sia la rappresentazione più eclatante del male”, afferma l’artista, “è pur sempre, secondo la dottrina cristiana, un figlio di Dio.”[1]Questo genere di ambiguità semantica, peraltro riscontrabile in molti altri lavori di Veneziano, richiama il monito paolino dell’Omia munda mundis– o meglio dell’Omnia immunda immundis– cioè il caso in cui, per usare le parole dell’artista, “l’opera riflette il pensiero di chi la osserva.”[2]

Il titolo Operette immorali, che capovolge quello di una celebre raccolta di componimenti in prosa di Giacomo Leopardi, prende le mosse dalla volontà di creare questo genere di cortocircuito interpretativo, peraltro ricorrente nella ricerca artistica di Giuseppe Veneziano.

Attraverso la tecnica del mash-up– la stessa usata da molti dee-jay per unire, grazie a giradischi e campionatori, diversi brani in un’unica canzone – l’artista miscela elementi iconografici contrastanti, ottenendo immagini capaci di creare inedite e sorprendenti associazioni visive.

Un caso tipico è rappresentato dall’abbinamento di personaggi reali e fantastici, che induce l’osservatore a riflettere sull’ormai labile confine che separa la realtà dalla finzione.

Un altro, è quello di ricontestualizzare celebri icone dell’arte oppure del cinema, della cronaca o della politica per formulare immagini ambigue e dissacranti, spesso venate d’ironia.

I meccanismi compositivi che guidano la ricerca di Veneziano sono molteplici, come variegate sono le sue fonti d’ispirazione. L’artista saccheggia tutta la tradizione della pittura occidentale, dal Rinascimento fino al Novecento, perché in essa riconosce il codice genetico ineludibile di un certo modo di concepire l’arte, non ancora corrotto dai concettualismi di maniera.

La citazione continua di Raffaello, Michelangelo e Leonardo, oltre ad essere un tributo affettuoso dell’artista verso gli amati maestri, ha il senso di una presa di posizione politica, direi quasi ideologica, nei confronti della vocazione effimera ed esiziale di tanta arte contemporanea. Sulla conoscenza solida e puntuale della storia dell’arte, Veneziano costruisce, però, un linguaggio completamente immerso nel presente, una grammatica filtrata dalla lezione della Pop Art, ma soprattutto profondamente contagiata dall’immaginario mediatico e dall’odierna cultura di massa.

I personaggi che popolano le opere dell’artista sono sempre immediatamente riconoscibili. Caratteri disneyani come Topolino e Pippo o eroine manga come Candy Candy e Lady Oscar, uomini politici come Putin e Berlusconi o icone dell’arte come la Gioconda e le numerose madonne raffaellesche, formano un alfabeto d’immagini elementari e condivisibili, godibili anche da un pubblico generalista. Il forte anelito comunicativo di Veneziano, derivante da un’idea democratica e inclusiva dell’arte, si combina, tuttavia, con il gusto per la citazione, talvolta anche preziosa. Sotto il velame pop, infatti, si nasconde un artista colto, un’intellettuale capace di adattare la lezione formale dei classici alle necessità espressive del nostro tempo e di calibrare il messaggio visivo su una variegata gamma di registri. Veneziano si rivolge tanto al pubblico generalista quanto alla ristretta accolita dei connoisseure degli amatori d’arte, modulando l’iconografia dei propri dipinti in modo da “colpire” differenti target.

Da vero artista, egli sa che l’interpretazione di un’immagine deve includere sia il livello letterale, che quello iconografico e simbolico. Così mentre una parte del pubblico si concentra sulla lettura epidermica dell’opera, riconoscendo magari il meccanismo ironico di decontestualizzazione dell’immagine, un’altra può cogliere la fitta rete di riferimenti che spesso sorreggono l’impalcatura iconografica dei suoi dipinti.

Nell’apparente innocenza di Candy’s Crush, ad esempio, si possono riconoscere la struttura compositiva e l’afflato sottilmente erotico de La Gimblettedi Jean Honoré Fragonard, mentre La Madonna di Instagram, di cui è protagonista una virginale Chiara Ferragni, ricalca La Madonna Colonnadi Raffaello conservata alla Gemäldegalerie di Berlino.

Sul celebre ritratto di Napoleone di Jacques-Louis David è, invece, modellato il dipinto Ras-Putin, che ironizza sulle ambizioni imperialiste del presidente della Federazione Russa mostrandolo nei panni di un novello Bonaparte in atto di mostrare il dito allo spettatore. Più prosaico, ma non meno importante, è il riferimento iconografico di Quasi amici, ripreso dal disegno della copertina de Il libro rosso del Maledi Andrea Pazienza, fumettista che ha profondamente influenzato l’arte di Giuseppe Veneziano.

La complessa trama di citazioni e indizi che innervano l’immaginario di Veneziano, rintracciabile anche nei titoli di molti suoi lavori, è però bilanciata dall’uso di un linguaggio insieme semplice e raffinato. Veneziano non usa le velature e lo sfumato, ma modella le figure attraverso l’accostamento di diverse gradazioni cromatiche. Il suo processo di sintesi non giunge fino agli estremi esiti di una pittura puramente segnaletica – quale quella, ad esempio, di Julian Opie -, ma si ferma sulla soglia della riconoscibilità mimetica. Vale a dire che l’identificabilità dei suoi personaggi sussiste nonostante l’impiego di una grammatica evidentemente non realistica, tutta giocata sulla giustapposizione di colori piatti e tinte ricorrenti che contribuiscono a creare l’originale e inconfondibile temperatura cromatica dei suoi quadri.

Troppo raramente la critica specializzata ha posto l’accento sull’aspetto formale e stilistico del lavoro di Veneziano, preferendo concentrarsi sull’abilità combinatoria del suo mash-upe sui suoi evidenti legami con la Pop Art, quando invece l’elemento distintivo della sua opera consiste precisamente nell’aver saputo elaborare un lessico originale. Basterebbe esaminare la pletora di artisti contemporanei che saccheggiano il medesimo immaginario mediatico di Veneziano per accorgersi che quest’ultimo non si è limitato a usare un campionario di figure riconoscibili, come quelle dei supereroi o dei personaggi dei cartoni animati, ma ha sottoposto tale campionario al vaglio di una sensibilità pittorica che andata via via raffinandosi nel tempo in uno stile caratterizzato da una pulizia e una leggibilità uniche.

Le Operette immoralidi Veneziano ci restituiscono tutto il sapore di questo stile conciso e allo stesso tempo ricco d’invenzioni iconografiche, su cui, in questo caso specifico, domina il tema erotico, cartina di tornasole del moralismo di una società.

La disamina dell’artista spazia dal commento satirico di Non sono un santo, dove l’aureola di Silvio Berlusconi è contrassegnata da una sequenza di posizioni del Kamasutra, al remix in salsa fetishdella Monnalisa di B.D.S.M., dal sensuale candore manga di Candy’s Crushe Hot Rose, alle smaccate allusioni sessuali di In bocca al lupoe Only a Friend Can Betray You.

Ogni dipinto è inserito in una cornice d’epoca pensata per valorizzare l’immagine pittorica e insieme per richiamare i valori formali del barocco, compiuta espressione di quel gusto borghese che è anche l’oggetto degli strali dell’artista. Niente, infatti, è meglio di una capricciosa cornice rococò per inquadrare i deliqui erotici di Cappuccetto rosso o di Minnie, varianti fantastiche e attualizzate delle spudorate fanciulle di Boucher e Fragonard. D’altra parte, il rovescio della medaglia dell’illuminismo borghese di Voltaire e Diderot, è la sfrenata immaginazione erotica del Marchese De Sade.

Con un occhio agli Old Masterse uno all’attualità, Veneziano disseziona in immagini il prontuario libidico dell’uomo ai tempi di You Porn e ci mostra come persino in un’epoca come questa, caratterizzata da un’estrema rilassatezza di costumi, l’indignazione morale continui a essere, come la definiva H. G. Wells, la forma più diffusa di “invidia con l’aureola”.


Note
[1]Giuseppe Veneziano, Dichiarazioni dell’artista, in Giuseppe Veneziano, Mash-Up, 2018, Skira, Milano, p. 187.
[2]Ivi.


Info:

Giuseppe Veneziano. Operette immorali
a cura di Ivan Quaroni
Futura Art Gallery
Via Garibaldi, 10 – Pietrasanta
7 luglio 2018 – 10 agosto 2018
Orario:tutti i giorni 18.30 – 00.30

Contatti:

info@galleriafutura.com
tel. +39.338.3362.101
http://www.galleriafutura.com

Giuseppe Veneziano. Eretica, politica, erotica

6 Mar

di Ivan Quaroni

“È vero, la fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità.”
(Lucio Anneo Seneca)

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Ho incontrato Giuseppe Veneziano la prima volta durante l’inaugurazione di una mostra alla galleria di Antonio Colombo a Milano. Della mostra non mi ricordo, ma di lui si. Cercava un curatore per la sua personale da Luciano Inga Pin, il gallerista che in Italia aveva lanciato Gina Pane e Marina Abramovic, e così mi chiese se ero interessato alla cosa. Non avevo idea di chi fosse, anche se avrei dovuto sapere che una sua opera, qualche tempo prima, aveva guadagnato la copertina di Flash Art con l’immagine di Maurizio Cattelan impiccato. Quella copertina era una specie di contrappasso per l’artista che nel 2004 aveva appeso tre bambini-fantoccio sull’albero di Piazza XXIV maggio a Milano. Il ritratto era parte di una serie di dipinti che raffiguravano personaggi controversi come Osama Bin Laden e lo scrittore Andrea G. Pinketts, che l’artista aveva esposto sulla facciata del famoso Le Trottoir, storico covo di bohémien e aspiranti artisti e scrittori.

Quella sera di dicembre del 2005, accettai l’incarico, scoprendo poi che qualche minuto prima aveva chiesto la stessa cosa a una mia collega. Così, ci ritrovammo in due a curare quella che fu la sua prima e famigerata mostra in una galleria milanese: American Beauty. Posso dire di aver iniziato a capire chi fosse Giuseppe Veneziano solo dopo, quando andai a trovarlo in uno scialbo studio alla periferia di Milano. Dei suoi quadri mi era piaciuto subito lo stile semplice e immediato, pieno di riferimenti alla cultura pop e ai fumetti e il modo in cui dipingeva personaggi riconoscibili che appartenevano all’immaginario di massa.

American Beauty fu una bomba lanciata sul pruriginoso e benpensante mondo dell’arte contemporanea, ma non solo. La mostra fu accompagnata da uno stuolo di polemiche e contestazioni generate da un’opera in particolare: il grande ritratto di Oriana Fallaci decapitata intitolato Occidente, Occidente. La scrittrice non la prese bene e si scagliò contro l’artista sulle pagine del Corriere della Sera, di Libero e perfino del New Yorker e al dibattito parteciparono anche il Premio Nobel Dario Fò, i critici d’arte Philippe Daverio e Flavio Caroli e il fotografo Oliviero Toscani. Ci fu addirittura una manifestazione di protesta dell’associazione Sos Italia davanti alla sede della galleria in via Pontaccio. Per la stampa fu una benedizione. Le principali testate giornalistiche si gettarono sulla notizia, strumentalizzando l’opera di Veneziano per fomentare lo scandalo. In pochi ebbero l’intelligenza di capire che l’artista non voleva augurare la morte a Oriana Fallaci, ma far riflettere il pubblico sulle paure che il mondo occidentale nutriva verso il fondamentalismo islamico. American Beauty, tra l’altro, era anche il titolo di una serie di tele che rappresentavano le torture dei soldati americani sui detenuti iracheni nella prigione di Abu Ghraib. A queste si aggiungevano opere come Zio Sam, Statua della Libertà e 9/11, che registravano il generale clima di rabbia e terrore che esacerbava gli animi della società americana ed europea. In molti pensarono che l’artista fosse un provocatore e che lo scandalo fosse stato architettato ad arte per ottenere la massima esposizione mediatica. Veneziano, invece, si era limitato a fare quel che aveva sempre fatto: osservare la società in modo critico e mettere in dubbio ogni forma di verità precostituita. D’altra parte, si era fatto le ossa come vignettista del Giornale di Sicilia ed era abituato a commentare i fatti di cronaca con ironia e distacco. La politica, il sesso, la religione erano stati, fin dall’inizio, i temi della sua pittura, insieme alla tendenza a mescolare personaggi reali e fittizi per dimostrare quanto fosse labile il confine tra verità e fantasia. La sua intenzione era sempre stata quella di suscitare, attraverso le sue opere, un dibattito, cioè facendo discutere il pubblico e incoraggiandolo a mantenere un atteggiamento critico nei confronti della realtà.

Forse per questo è spesso stato definito come una sorta di “cronista dell’arte”. Anche se in Veneziano c’è molto di più. Ci sono, per esempio, le sue passioni culturali, musicali, letterarie e cinematografiche. C’è il fumetto d’autore che, ben prima di laurearsi in Architettura a Palermo, aveva sorretto le sue ambizioni di disegnatore. Le storie di Manara, Crepax, Giardino, Liberatore, ma soprattutto di quel geniaccio di Pazienza avevano nutrito l’immaginario di Veneziano per tutti gli anni della sua formazione, plasmando in lui l’idea che l’arte sarebbe stata la sua strada. Infatti, dopo l’apprendistato dall’architetto Glauco Gresleri a Bologna e l’avviamento di un proprio studio in Sicilia, Veneziano aveva deciso di cambiare rotta e tentare la fortuna come artista a Milano.

Self-Portrait, la seconda mostra di Giuseppe Veneziano, si presentava come un riassunto della sua Bildung culturale, un autoritratto attraverso le passioni giovanili che, implicitamente, faceva l’occhiolino a Prolisseide. Tutti gli uomini importanti che mi hanno conosciuto di Andrea Pazienza. La mostra raccoglieva una serie di ritratti di personaggi illustri che avevano avuto un ruolo nella sua formazione. Sulla scorta di uno scritto autobiografico – intitolato Dalle seghe all’arte – Veneziano celebrava la propria mitografia adolescenziale con l’espediente del ritratto in absentia, un po’ come aveva fatto Giuseppe Pontiggia nel romanzo La grande sera, fornendo uno spaccato di cultura generazionale come non se ne vedeva dai tempi del Weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli.

Veneziano sceglieva “di dipingere con il suo stile piatto e ostentatamente pop, personaggi riconoscibili alla stragrande maggioranza delle persone (o quasi), in modo da instaurare, fin da subito, un rapporto immediato con gli spettatori” e, allo stesso tempo, aveva “il coraggio di mescolare il sacro col profano, affiancando figure di intellettuali mitici come Baudelaire e Dalì con personaggi del più puro trash mass-mediatico quali Rambo e Cicciolina”. [1] Curiosamente, l’artista partiva dalle proprie esperienze, dai propri gusti e passioni, ma approdava inevitabilmente alla dimensione collettiva, sociale, politica o mediatica che fosse.

Con l’intensificarsi dei nostri rapporti, aumentarono le nostre comuni occasioni espositive. Il 2007 fu l’anno della mostra Rivoluzione d’Agosto in cui appariva chiaro che i suoi interessi iconografici includevano anche la storia in generale e la storia dell’arte in particolare. Il Secolo breve, con i suoi dittatori, iniziava a diventare un tema ricorrente nella sua pittura. I grandi leader comunisti, come Lenin, Stalin e Che Guevara, così come i simboli delle dittature fasciste e naziste, comparivano accanto ai feticci della società dei consumi. Mao, il grande timoniere, vestiva occhiali Dolce & Gabbana, Che Guevara diventava un eroe psichedelico, mentre Stalin diventava una ieratica icona ortodossa. Con ironia, Veneziano registrava il definitivo passaggio a un’epoca post-ideologica, che diluiva le contrapposizioni politiche del Novecento nel concentrato pop e surreale della società liquido-moderna teorizzata da Bauman. In fondo, l’artista non faceva che ratificare le previsioni di Lyotard sull’appiattimento tra cultura alta e cultura bassa. Come osservava Luca Beatrice l’anno successivo, in occasione della mostra Pregiudizio Universale, “non è colpa sua se l’arte oggi considera Cattelan un eroe e Beuys un cimelio storico, se la cronaca la spunta sempre sulla politica, se le terze pagine dei giornali raccontano di Paris Hilton, se la storia del ‘900 è diventata una macchietta post-ideologica con i dittatori nel ruolo di capocomici”.[2]

La crasi operata da Veneziano tra realtà e finzione e tra storia e modernità, coinvolgeva anche l’arte antica e moderna in una pletora di dissacranti accostamenti che fondevano Velasquez con Biancaneve, Guido Reni con Maurizio Cattelan, Salvador Dalì con Jessica Rabbit, la Madonna con l’Uomo Ragno. L’associazione tra arte e supereroi non era una novità. Nel 2006, accogliendo il mio invito a partecipare alla mostra Crisis. Il declino del supereroe[3], Veneziano si era cimentato in una nuova interpretazione di Made in Heaven, la conturbante serie di opere di Jeff Koons con Ilona Staller. Per l’occasione, Veneziano aveva sostituito l’artista americano con Spiderman, il più umano dei supereroi della Marvel. Da quel momento in avanti, gli eroi in calzamaglia, sarebbero entrati stabilmente nell’armamentario iconico dell’artista siciliano, integrandosi nel tessuto citazionistico di un linguaggio fatto di colori piatti e tinte zuccherine.

Nelle interviste di quegli anni, l’artista dichiarava spesso che l’opera d’arte non è un oggetto d’arredamento, ma qualcosa che serve a suscitare delle reazioni nello spettatore, generando giudizi contrastanti. Dopo la Fallaci decapitata, un’altra opera era destinata a confermare l’attitudine critica della sua pittura e a validarne la qualità previsionale e profetica. Nel 2009, infatti, Veneziano dipinse uno dei suoi lavori più controversi, Novecento. L’opera, una tela di grandi dimensioni, era una perfetta allegoria dell’eterno rapporto tra sesso e potere e anticipava di un soffio il sexgate che di lì a poco tempo avrebbe travolto il Presidente del Consiglio italiano. Berlusconi vi era rappresentato insieme ai più grandi dittatori della storia (Hitler, Mussolini e Stalin) in un’orgia con la porno star Cicciolina e con un nugolo d’eroine da cartoon come Candy Candy, Eva Kant, Jessica Rabbit e Valentina di Crepax. L’anno dopo, l’opera finì sulla copertina del libro di Paolo Guzzanti, La mignottocrazia. La sera andavamo a ministre (Alberti editore), un saggio sulla storia politica italiana attraverso l’immagine delle donne.

Il 2009 fu un anno cruciale anche per altre ragioni. Prima fra tutte la fondazione di Italian Newbrow, il gruppo di artisti italiani che – con Giuseppe Veneziano – s’impegnava a perseguire, contro tutti i concettualismi e gli snobismi del sistema dell’arte, la linea di una pittura figurativa chiara e comprensibile, che non rinunciava alla possibilità di raccontare storie. Il 14 maggio, il gruppo esordì alla quarta edizione della Biennale di Praga. Alla fine dell anno il gruppo fu esposto in blocco ad Art Verona dalla Galleria Carini & Donatini. In quell’occasione, Veneziano espose uno dei suoi lavori più importanti, La Madonna del Terzo Reich. Il dipinto, una dissacrante rivisitazione della Piccola Madonna Cowper di Raffaello, rappresentava la Vergine con in braccio un piccolo Adolf Hitler. I giornali presero la palla al balzo e scatenarono il solito inferno mediatico. Dopo le proteste del sindaco, del vescovo e della comunità ebraica di Verona, il gallerista si vide costretto a ritirare l’opera. A difesa di Veneziano intervenne solo lo scrittore Aldo Busi, facendosi fotografare con indosso la t-shirt con la riproduzione dell’opera. Lo scandalo di Verona, però, non era che l’antipasto di quanto sarebbe successo dieci mesi dopo a Pietrasanta, durante la prima retrospettiva dedicata all’artista siciliano. La mostra, intitolata Zeitgeist, era suddivisa in sei sezioni che raggruppavano le opere in gruppi tematici: In-Visi (con i ritratti del primo periodo, tra cui quello della Fallaci); Novecento (con l’opera omonima e quelle dedicate a dittatori e personaggi politici); Eretica (con la Madonna del Terzo Reich e tutti i dipinti legati all’icnografia sacra); Il declino del supereroe (con gli eroi in calzamaglia); Modern Love (sull’amore e il sesso); infine Villains (con ritratti dei cattivi dei fumetti). Per il manifesto della mostra, patrocinata dal comune di Pietrasanta negli spazi di Palazzo Panichi, si scelse La Madonna del Terzo Reich. I giornali cannibalizzarono la notizia, sulla scia delle vive proteste del parroco di Pietrasanta, che aveva informato anche il vescovo di Lucca e l’arcivescovo di Pisa. La mostra venne addirittura bandita dalla curia e agli ingressi di tutte le chiese comparve un avviso che invitava i fedeli a non visitare l’esposizione. Ancor prima dell’inaugurazione il clima di tensione era palpabile, tanto che il Comune decise di ritirare il patrocinio della mostra. La sera dell’opening, il 17 luglio 2010, la piazza prospiciente Palazzo Panichi era presidiata da vigili e carabinieri. Il vicequestore e alcuni poliziotti in borghese si mescolarono tra il pubblico dei visitatori per valutare la eventuale chiusura dell’esposizione. Incredibilmente, a salvare la situazione fu la scoperta da parte dell’artista e del vicequestore della comune passione per il fumettista Andrea Pazienza. Quella stessa sera, nella piazza del Duomo di Pietrasanta fu fatto “levitare” Il Cristo dei palloncini, una scultura in poliuretano espanso legata a palloncini gonfiati con elio. Fu la prima opera tridimensionale di Veneziano.

Per tutta la durata della mostra, visitata da quasi diecimila persone, le polemiche non accennarono a sopirsi. Nel dibattito mediatico intervennero anche lo scrittore Andrea G. Pinketts, il giornalista Giampiero Mughini e i critici d’arte Achille Bonito Oliva e Vittorio Sgarbi. Quest’ultimo, allora sindaco di Salemi, decise di ospitare l’intera mostra nella cittadina siciliana. Il vero coup de theatre, però, fu l’acquisto della Madonna del Terzo Reich da parte del gallerista Stefano Contini e il conseguente ingresso dell’artista nella scuderia della sua galleria. Il 28 maggio 2011, infatti, Veneziano inaugurò alla galleria veneziana la mostra La surreale cronistoria del reale, mentre contemporaneamente partecipava alla 54° edizione della Biennale di Venezia. La sua opera, esposta nel Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi e intitolata Solitamente vesto Prada, rappresentava un Cristo crocifisso con underwear griffato Dolce & Gabbana. Il dipinto, peraltro inserito nel catalogo ufficiale della manifestazione, fu notato dai due celebri stilisti che in seguito divennero suoi entusiasti collezionisti e sostenitori. L’anno seguente, nella mostra pubblica del gruppo Italian Newbrow al Fortino di Forte dei Marmi, Veneziano presentò una serie di opere sull’iconografia del male. “Nella sua reiterata e pendolare oscillazione tra realtà e finzione”, annotavo nel catalogo, “la pittura di Giuseppe Veneziano affronta il tema del male sotto il profilo dell’ambiguità e del travestimento”.[4]La maschera delle apparenze, come codice comunicativo che adombra la menzogna e la violenza, era un soggetto centrale di molte sue opere. Faceva parte della mostra anche David’s Renaissance, una monumentale scultura in bronzo dipinto, in cui il tema rinascimentale del David si fondeva con l’iconografia consumistica di Ronald McDonald, clown simbolo di una famosa catena di fast-food. Inutile dire che le polemiche non tardarono ad arrivare, ma questa volta la scultura, posta in una delle piazze più frequentate della cittadina versiliana, attirò soprattutto famiglie e bambini, desiderosi d’immortalarsi davanti alla testa mozzata del celebre pagliaccio. Come spesso avviene con le opere di Veneziano, il pubblico si divise: le autorità e la stampa cavalcarono la polemica, i visitatori e la gente comune si godettero lo spettacolo. La mostra Italian Newbrow. Cattive compagnie, promossa dal Comune di Forte dei Marmi e dalla Fondazione Villa Bertelli, fu una delle più viste nel periodo estivo. Tra i visitatori Vip c’era lo stilista britannico Paul Smith, che s’innamorò delle opere di Veneziano. David’s Renaissance ebbe il merito di catalizzare l’attenzione del pubblico, rafforzando l’idea di un’arte che si rifaceva apertamente ai maestri del passato, pur adattandone i contenuti al contesto attuale. Il Rinascimento è da sempre un modello di riferimento imprescindibile per Giuseppe Veneziano, come testimoniano molte sue opere ispirate a Dürer, Raffaello, Michelangelo, Botticelli o Leonardo. Non è un caso che l’artista abbia spesso parlato della necessità di inaugurare un nuovo Rinascimento dell’arte italiana, capace di recuperare orgogliosamente le proprie origini culturali e contemporaneamente d’interpretare le contraddizioni del presente. Nei suoi lavori, Storia e cronaca, arte colta e cultura popolare, passato e presente concorrono alla creazione di una visione pittorica originale, allo stesso tempo pop e profondamente italiana. Fu per questo motivo che l’anno successivo invitai Veneziano tra i sessanta artisti italiani della Prima Biennale Italia-Cina alla Villa Reale di Monza. La sua capacità di rappresentare la contemporaneità nella sua accezione globale, pur mantenendo un vivo rapporto con le sue origini culturali, d’altra parte era uno dei tratti salienti del suo lavoro. Basti pensare all’installazione temporanea Innocenti evasioni, realizzata nel 2015 al Belvedere Marconi di Enna, per accorgersi di come l’artista abbia saputo “fondere” l’immaginario pop e disneyano con la tradizione dolciaria siciliana. La sua sensuale Biancaneve in scala reale, pigramente immersa in una piscina gonfiabile attorniata dai sette nani, era, infatti, una scultura di zucchero destinata a sciogliersi sotto il sole d’agosto.

Dopo David’s Renaissence, l’artista capì di poter adattare il suo linguaggio pittorico alla scultura, all’installazione ambientale e perfino alla street art. Nel novembre dello stesso anno, in occasione della mostra diffusa Pop Re-Generation, Veneziano fu invitato a eseguire un dipinto murale nel centro di Pordenone. Il soggetto dell’opera era un Vincent Van Gogh calato nei nostri giorni, sorpreso nell’atto di dipingere con la bomboletta spray uno dei i suoi celebri Girasoli. Van Gogh, una delle icone preferite di Veneziano, cui aveva persino dedicato un articolo sulle misteriose circostanze della sua morte[5], venne qui trasformato in un moderno writer. L’anno dopo, Chiara Canali ed io chiedemmo a Veneziano di realizzare un intervento sulla facciata del Teatro Sociale di Como, nella centralissima piazza Verdi per la quinta edizione di Streetscape, una manifestazione di urban art. Il suo progetto, intitolato Todo modo, adattava alla facciata neoclassica dell’edificio una selezione d’immagini del suo immaginario pittorico.

È, però, del 2017, l’opera tridimensionale più ambiziosa dell’artista. White slave, ancora una sensuale Biancaneve, viene scolpita, questa volta, nella purezza del marmo statuario di Carrara. Esposta a Palazzo Crespi a Milano durante la Design Week, in pendant con il dipinto omonimo da cui è tratto il soggetto, l’opera rappresenta una Biancaneve seduta sulla celebre Sedia Panton con le braccia legate dietro lo schienale. L’accostamento di uno dei simboli del design internazionale con l’icona disneyana, è, ancora una volta, un suo tipico esempio di mash up iconografico.

Oggi, mentre l’artista è intento a ultimare le ultime sculture da inviare alla galleria Kronsbein di Monaco di Baviera per quella che è, a tutti gli effetti, la sua prima mostra personale all’estero, ripensando a questi nostri dieci anni e più di collaborazione, agli entusiasmi e alle delusioni, alle discussioni e alle liti che ci hanno tenuti vivi e vigili in questo roboante mondo dell’arte, posso affermare, in tutta sincerità, che Giuseppe Veneziano è uno degli artisti più importanti della sua generazione. L’unico che abbia saputo superare i confini elitari del Sistema dell’arte, per farsi intendere da un pubblico più vasto, ma non per questo meno sensibile alla bellezza.


Note

[1] Ivan Quaroni, Autoritratto dell’artista assente, in Giuseppe Veneziano. Self-Portrait, 13 aprile – 12 maggio 2007, KGallery; Legnano.
[2] Luca Beatrice, Tanto di cappello, in Giuseppe Veneziano. Pregiudizio universale, 17 aprile – 18 maggio 2008, Angel Art Gallery, Milano.
[3] Ivan Quaroni, Crisis. Il declino del supereroe, 15 settembre – 14 ottobre 2006, galleria San Salvatore, Modena.
[4] Ivan Quaroni, Cattive compagnie, in Italian Newbrow. Cattive compagnie, 8 agosto – 2 settembre 2012, Fortino, Forte dei Marmi, Umberto Allemandi & C., Torino, 2012, p. 14.
[5] Giuseppe Veneziano, Indagine sulla morte di Van Gogh, http://www.lobodilattice.com, 19 ottobre 2009.


Info

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Laurina Paperina. Doomsday

28 Set

di Ivan Quaroni

«La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà»
(Michail Bakunin)

«Ve ne darò tante che quando vi sveglierete i vestiti che avete saranno passati di moda»
(Brad dei Goonies)

La fine del mondo è un’idea plausibile, per alcuni persino auspicabile. In fondo, è presente in quasi tutte le religioni e le culture tradizionali e di solito profetizza l’avvento di un’epoca di decadenza spirituale, culminante in cataclismi e distruzioni, disastri e rovine degne della peggiore (o migliore) cinematografia hollywoodiana.

L’Apocalisse cristiana, il Ragnarok della mitologia norrena, le profezie dei Maya, il Kali Yuga induista, l’Età del ferro, l’escatologia Buddista, il “giorno della purificazione” degli Hopi sono tutte declinazioni della medesima previsione: il mondo, così come lo conosciamo presto o tardi finirà e sarà presumibilmente preceduto da una serie di eventi poco piacevoli come, ad esempio, l’Armageddon, il biblico scontro finale tra le forze del Bene e del Male, o il Fimbulvetr, il lungo inverno che prelude il crepuscolo degli dei nordici e che ha certamente ispirato Il Trono di spade, capolavoro fantasy dello scrittore americano George R. R. Martin. Se poi alle malauguranti precognizioni degli antichi si aggiungono le ipotesi scientifiche sulla distruzione del sole, l’inversione del campo magnetico, la collisione fra galassie, il collasso gravitazionale di una supergigante rossa, la pioggia acida e l’effetto serra supermassivo, si può star certi che in futuro ci sarà poco da ridere. Per fortuna ci sono i fumetti di fantascienza, le teorie del complotto e il cinema catastrofista a strapparci un sorriso. Se non fosse per la cultura pop, che trasforma tutto, anche le peggiori iatture, in un catartico intrattenimento, saremmo costretti a vivere in preda a una perenne angoscia.

Invece, basta guardare The day after tomorrow di Roland Emmerich – per esempio la scena in cui Dannis Quaid si accampa con la tenda canadese nel bel mezzo di una glaciazione – per dare ragione a Bakunin: “Una risata ci seppelirà”. E lo sa bene Laurina Paperina, al secolo Laura Scottini, artista che da sempre interpreta l’immaginario di massa (e soprattutto la cattiva coscienza collettiva) con l’ironia dello sfigato e il sarcasmo tipico del “perdente nato”. Non a un caso solo chi è abituato a vedere il lato tragico della vita è capace di scherzarci sopra e in fin dei conti i migliori comici, si sa, sono dei pessimisti cosmici. Insomma, bisogna essere un po’ cattivi e avere una certa dose di cinismo per immaginare certe cose. Laurina ha sufficiente incoscienza (o coscienza sporca) da mescolare Dante e Matt Groning – magari con una spruzzata di George Romero e Sam Raimi – per disegnare la propria versione del giorno del giudizio. Una versione, più influenzata dalla televisione che dalle sacre scritture, che inevitabilmente occhieggia alla trimurti del suo personale pantheon visivo: Simpson, Futurama e South Park.

Con un tratto sapientemente rastremato, si direbbe da svogliata ex studentessa di Belle Arti, e l’atteggiamento scazzato di un’adolescente annoiata, Laurina Paperina disegna calamità e cataclismi degni di un b-movie, senza mai cedere alla tentazione di fare sul serio. La sua escatologia pop, insieme splatter e demenziale, non risparmia nessuno. Tutte le celebrità e le icone del grande e del piccolo schermo, dagli eroi dei cartoon ai divi del rock, dai più famigerati serial killer alle superstar dell’arte contemporanea, sono gettate in un roboante tritacarne apocalittico, una specie di versione punk dell’inferno dantesco o, se preferite, una variante sboccata e decerebrata dei dipinti di Bruegel il Vecchio e Hieronimus Bosch, ma con un parterre de rois che farebbe la felicità dei nerd più incalliti.

Prendete Flames of Hell, diabolica ecatombe dei personaggi più iconici dello stardom mediatico, e provate a indovinare le citazioni nascoste. Vi accorgerete che nella pletora di riferimenti pop si annida, quasi perfidamente, una sotto-trama d’indizi colti, segno incontrovertibile della crudeltà intellettuale dell’artista. In quanti, infatti, riconoscono l’allusione a un celebre dipinto di Goya o al mito classico di Atteone, al Giudizio Universale di Coppo di Marcovaldo e, per estensione, a quello giottesco della Cappella degli Scrovegni, o addirittura agli alberi umanizzati della Royal Art Lodge? Tutti lì a guardare Batman e Mickey Mouse, i Puffi e i Muppet, ET e Freddy Kruger, Hello Kitty e Nosferatu, Garibaldi e David Bowie, le Pussy Riot e i pupazzetti Furby. Nessuno che invece si accorga della Signora del ceppo, enigmatico personaggio secondario di Twin Peaks che, quanto a facoltà medianiche, rivaleggia solo con la nostra palmipede. The Pape Prophecies è, infatti, il titolo del suo erogatore di profezie, un distributore vintage di sfere contenenti le più bislacche e scoraggianti sentenze gnomiche, cose come “Le profezie non esistono”, “Ti ci vuole un miracolo” e “Non vincerai mai alla lotteria”.

Perciò, non lasciatevi ingannare dal suo aspetto innocuo e dalla sua angelica bonomia da peluche: Laurina Paperina è cattiva. Negli oscuri recessi della sua anima albergano la spietatezza del boia e la perfidia dell’inquisitore, dato che applica con noncuranza il contrappasso e la legge del taglione, comminando punizioni e castighi a tutti gli dei del suo Olimpo interiore. Non è un caso che anche Ryders of the Lost Heads, altra grande tela, peraltro vagamente ispirata alla Torre di Babele del summenzionato Bruegel, presenti una teoria di personaggi decollati, da Hulk a Wonder Woman, da Bibendum al Venerabile Yoda, da Stephen Hawking ai Kiss. L’ennesimo incubo apocalittico della Pape ha, infatti, le sembianze di un’isola circondata da mostri acquatici e squali volanti, una specie di demenziale purgatorio pop, ancora una volta fitto di citazioni. Una su tutte, L’isola degli asini di Paola Pivi. Segno forse di una malcelata ammirazione verso quelle stesse artistar che Paperina ha doviziosamente seviziato, torturato, sodomizzato e assassinato negli ultimi anni. D’altronde, amore e odio vanno di conserva, un po’ come in Dogzilla, dove nella chiassosa pletora di eroi e supereroi, mostri e giustizieri, si annidano gli accorati tributi (si fa per dire!) all’Urlo di Edward Munch, al Picchiatello di Ronnie Cutrone e al Piero Manzoni più scatologico. Vien quasi il sospetto che Laurina Paperina abbia un cuore tenero e che uccidere e squartare sia, in fondo, la sua peculiare e maniera di dimostrare affetto. Il suo è un sentimento complesso, perfino primordiale, che si potrebbe riassumere col nome di un gruppo hardcore statunitense (Kill your idols) o col titolo di un celebre film di Lawrence Kasdan (Ti amerò fino ad ammazzarti). Un sentimento che in fondo condivide con i tanti serial killer reali e immaginari che ha disegnato, da Freddy Kruger a Jason Voohrhees, fino a Charles Manson e Unabomber.

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The Pape Prophecies, painted wooden box, balls vending machine, drawings on paper, sound, led lights 250x85x72 cm, 2015/2016

Se ha ragione Karl Kraus, lo scrittore satirico austrico, “L’odio deve rendere produttivi, altrimenti è più intelligente amare”. Ma nel caso di Laurina Paperina, artista più che prolifica, l’odio e l’amore sono due facce della stessa medaglia. Il suo Doomsday, per dirla con Andrea Pazienza, è niente più che “il segno di una resa invincibile”. Prima di tutto ai sentimenti contrastanti di questa nostra epoca, sospesa tra nuovi aneliti spirituali e vecchie ansie millenariste, sempre in attesa di un nuovo mondo che forse non verrà mai. Laurina riesce a sublimare le future catastrofi in un’apocalisse morbida, una mattanza da cartone animato, ma sorprendentemente catartica. È la fine del mondo come lo conosciamo, eppure noi ci sentiamo benissimo.


English version

The end of the world is a plausible idea, for some even a desirable one.
It is present in almost all traditional religions and cultures of the world and it usually announces the beginning of an era of spiritual decadence leading to havoc, destruction and devastation worthy of the worst (or best) Hollywood films.
The Christian Apocalypse, the Norse mythological Ragnarok, the Maya prophecies, the Hindu Kali Yuga, the Iron Age, the Buddhist eschatology, the Hopi “purification day” are all different versions of the same prediction: sooner or later the world, as we know it, will come to an end and presumably it will be preceded by a number of unpleasant events, like the Armageddon, the biblical final fight between the Good and the Evil, or the Fimbulvetr, the long winter preceding the decline of the Nordic gods, that certainly inspired the Game of Thrones, fantasy masterpiece by the American author George R. R. Martin.
If, on top of the ill-fated prognostications of the ancients, we also consider the scientific speculations on sun extinction, magnetic field inversion, galaxy clash, gravitational collapse of a red giant star, acid rain, supermassive greenhouse effect, well, there won’t be much to laugh about in the future. Fortunately there are sci-fi cartoons, conspiracy theories and catastrophe movies that still keep us going. Pop culture has the great ability to turn anything, even the worst misfortune, into some form of cathartic entertainment, and without it we would definitely live in a constant status of anxiety.
On the contrary, it is enough to have a look at The day after tomorrow by Roland Emmerich – for instance the footage where Dannis Quaid settles down with its pup tent in the middle of an ice age – to think agree with Bakunin: “laughter will bury you”. Laurina Paperina, whose real name is Laura Scottini, knows this far too well. She is an artist who has always interpreted the collective imagination (especially the bad collective consciousness) through the irony of the nerd and the typical sarcasm of the “born loser”. As a matter of fact, only those who are used to the tragic side of life can have a laugh about it and, after all, the very best comedians are always cosmic pessimists. In other words, you need a bit of wickedness and a pinch of cynicism to imagine certain things. Laurina is unconscious enough (or maybe she has a guilty conscience) to mix Dante with Matt Groening – with a sprinkle of George Romero and Sam Raimi – to design her own version of doomsday. This version, certainly more influenced by TV than by the holy texts, inevitably peeps at the Trimurti of her personal TV pantheon, i.e. the Simpsons, Futurama and South Park.

With her expert tapered strokes, apparently by a lazy former fine arts student, and the typical cheesed off attitude of a bored teenager, Laurina Paperina designs disasters and upheavals worthy of a B-movie without taking herself too seriously. Her pop-eschatology, splatter and screwball at the same time, does not spare anybody. All the celebrities and the icons of both the big and the small screen, from cartoon heroes, to rock stars, from the most infamous serial killers to contemporary art superstars, are victims of a bombastic apocalyptic grinder, a punk version of Dante’s hell or, if you prefer, a coarse and de-cerebrated version of the paintings by Brueghel the Elder and Hieronymus Bosch, but featuring a parterre de rois that would make happy the most inveterate nerds. Consider Flames of Hell, a diabolic massacre of the most iconic media stardom characters, and try to spot the hidden quotations. You will realize that the plethora of pop references hides, almost maliciously, a sub-weave of cultivated clues, indubitable sign that of the intellectual cruelty of the artist. As a matter of fact, how many people can spot the reference to a famous Goya painting or to the classical myth of Acteon, to the Last Judgment by Coppo di Marcovaldo and, by extension, to the one by Giotto in the Scrovegni Chapel, or even the anthropomorphic trees of the Royal Art Lodge? All eyes are on Batman and Mickey Mouse, the Smurfs and the Muppets, E.T. and Freddy Krueger, Hello Kitty and Nosferatu, Garibaldi and David Bowie, the Pussy Riot and Furby toys. No one seems to notice, instead, the Log Lady, mysterious Twin Peaks character whose psychic skills can compete only with the ones of our artist. The Pape Prophecies is the title of her prophecy dispenser, a vintage vending machine delivering balls containing the most discouraging and weird gnomic sentences like “Prophecies do not exist”, “You need a miracle” and “You will never win the lottery”.

Therefore, do not be deluded by her harmless appearance and by her angelic plush-like affability: Laurina Paperina is bad. The most obscure recesses of her soul are full with the ruthlessness of an executioner; she careless applies the law of retaliation, inflicting punishments on the gods of her inner Olympus. Also the Riders of the Lost Heads, another large painting, vaguely inspired to the Babel Tower by the above-mentioned Brueghel, presents a bunch of beheaded characters: from Hulk to Wonder Woman, from Bibendum to Venerable Yoda, from Stephen Hawking to the Kiss. The umpteenth apocalyptic nightmare of the artist resembles an island surrounded by sea monsters and flying sharks, a sort of mad, pop purgatory, overflowing with references, like “The island of donkeys” by Paola Pivi. Maybe this is an ill- concealed sign of admiration for an artistar that Paperina has duly ill-treated, tortured, sodomized and murdered over the last few years. However, love and hate go hand in hand, a bit like in Dogzilla, where among the noisy profusion of heroes and super-heroes, monsters and avengers, hide the sad tributes (so to speak!) to the Scream by Edward Munch, the Woody Woodpecker by Ronnie Cutrone and the more eschatological Piero Manzoni. Suspicion may arise about some possible tenderness in Laurina Paperina’s heart, maybe all her killing and slaughtering are just her peculiar way to show affection. Her feelings are complex, almost primordial, and could be recapped with the name of an American hard-core band (Kill your idols) or with the title of a famous movie by Lawrence Kasdan (I love you to death). These very same feelings are shared with the many real and imaginary serial killers that she drew, from Freddy Krueger to Jason Voohrhees, from Charles Manson to Unabomber.

Maybe the Austrian satirical author Karl Kraus is right when he says, “Hate must make a person productive; otherwise one might as well love”. However, in the case of Laurina Paperina, an extremely productive artist, hate and love are two sides of the same coin. Her Doomsday, to quote Andrea Pazienza, is nothing but “the sign of an invincible surrender”. First of all to the clashing feelings characterising our times, torn between a new spiritual longing and old millenarianist concerns, always waiting for a new world that maybe will never come. Laurina is capable of turning future calamities into a soft apocalypse, an extraordinarily cathartic cartoon slaughtering. It is the end of the world as we know it but we feel incredibly fine.


INFO:

LAURINA PAPERINA | DOOMSDAY
a cura di Ivan Quaroni
Studio d’Arte Raffaelli – Palazzo Wolkenstein
Via Marchetti 17 – Trento – Italy
+39.0461.982595 – studioraffaelli@tin.it
OCTOBER 06th – DECEMBER 10th 2016

Vanni Cuoghi e Marcel Dzama. Masked Tales

26 Apr

di Ivan Quaroni

 

 

 

“Dopo tutto, che cos’è una bugia? Solo la verità in maschera.”
(George Byron)

 

Monolocale 44, (Discorsi da salotto) 2016, acqerello e china su carta, cm 21x30 copia

Vanni Cuoghi, Monolocale 44, (Discorsi da salotto) 2016, acqerello e china su carta, cm 21×30

PREMESSA

Perché accostare il lavoro di artisti diversi come Vanni Cuoghi e Marcel Dzama? In fondo, sono molti gli elementi di discontinuità innanzitutto biografici e culturali che li separano. Uno è genovese, classe 1966, naturalizzato milanese; l’altro, nato nel 1974, canadese di Winnipeg, provincia di Manitoba, vive oggi a New York. Il loro background non potrebbe essere più dissimile, considerato che mentre il primo è cresciuto emotivamente e intellettualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, tra due centri urbani del nord Italia, subendo il fascino della storia dell’arte e della pittura coeva, il secondo si è formato in un ambiente fortemente influenzato dalla natura, attingendo alle tradizioni folk del proprio paese e alla cultura popolare degli anni Novanta. Due identikit così manifestamente antitetici che cosa possono avere in comune? All’apparenza nulla, eppure… Eppure gli elementi di convergenza formale e attitudinale sono numerosi, anche se ognuno ha sviluppato una propria mitologia interiore e un’autonoma geografia di riferimenti artistici in cui si annida, però, qualche comune ascendenza.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 56x76 cm, anni 2000

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 56×76 cm, anni 2000

Cominciamo dicendo che il confronto qui proposto ha il gusto del gioco, della suggestione, una specie di “what if”, cioè d’ipotesi, tutta da verificare, sulle similarità di mood e d’atmosfera tra i testi visivi di un europeo e di un nordamericano. Un gioco, appunto, in absentia, cioè fatto a priori da chi scrive, senza la necessità di un mutuo consenso da parte degli artisti, che d’altronde non si conoscono. Il compito del critico consiste, in questo caso, nella capacità di trovare connessioni formali, stilistiche, perfino sentimentali tra opere di diversa provenienza, datazione e fattura. In fondo, è esattamente quello che fanno sempre i critici e i curatori quando costruiscono una mostra: rintracciano affinità e divergenze, creando un dialogo o un contrasto tra opere. Nel caso di Cuoghi e Dzama il confronto era peraltro già avvenuto in un paio di occasioni – le mostre Back to folk alla galleria Daniele Ugolini di Firenze[1] e Beautiful Dreamers alla Angel Art Gallery di Milano[2] -, dove emergeva una sottile sintonia stilistica e narrativa tra i due artisti.

Sibilla 1, 2016, china e acquerello su carta cm70x100. AJPG

Vanni Cuoghi, Sibilla 1, 2016, china e acquerello su carta cm70x100

Con Masked Tales, titolo di questa esposizione, il raffronto diventa intenzionalmente più serrato grazie alla presenza di un più nutrito nucleo di opere: undici inchiostri e acquarelli su carta del canadese, tutti realizzati tra la seconda metà degli anni Novanta e il 2002; quindici opere recenti dell’italiano, che spaziano dal paper cutting all’acquarello, fino alla tecnica mista su tela.

LINEA CHIARA E FIGURE FLUTTUANTI

Dal punto di vista formale, Marcel Dzama e Vanni Cuoghi usano un linguaggio di tipo grafico e di chiaro impianto disegnativo che in qualche modo rimanda al mondo del fumetto. Entrambi, infatti, soprattutto in passato, hanno saccheggiato l’iconografia dei supereroi americani, dislocandola nel mondo estraniato ed estraniante delle proprie narrazioni. Ma se negli acquarelli di Dzama è leggibile l’ascendenza dalla cosiddetta linea chiara del fumetto classico francese, in quelli di Cuoghi si avverte, piuttosto, la lezione anatomica del Tarzan di Burne Hogarth, commista agli studi accademici sul Barocco e il Rinascimento. Sono due modi diversi d’intendere il disegno, quello classico di Cuoghi e quello sintetico di Dzama, che però s’incontrano, attraverso la comune passione per l’illustrazione, sul piano dell’immediatezza e della freschezza comunicativa. In quasi tutti gli acquarelli dell’artista canadese, figure di orsi, boy scout, fumatori, gangster, poliziotti e miliziani si stagliano su un fondale bianco, vuoto, che accentua il senso di sospensione delle sue storie, fiabe solo in apparenza che, invece, affrontano con un misto d’ironia e crudeltà temi quali la violenza, il sesso, la sopraffazione.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6x27,9 cm, 2000-

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6×27,9 cm, 2000

All’inizio anche Vanni Cuoghi adottava l’espediente del fondo bianco per concentrare l’attenzione sull’episodio narrato in primo piano. Un residuo di questo stratagemma grafico si vede, ad esempio, nelle Intagliatrici, figure parzialmente intagliate nel foglio, che sono poi capovolte e dipinte a china e acquarello, lasciando visibile nella parte superiore del fondo la propria sagoma vuota, come una sorta di matrice o di stampo. Sono, però, figure fluttuanti in un campo vuoto, mentale, anche quelle della serie Sibille e dello stregonesco Mental Cut, che celebrano l’eleganza dinamica e misteriosa delle sue schermitrici.

Intagliatrice rossa, 2016, acquerello e china su carta cm 21x30

Vanni Cuoghi, Intagliatrice rossa, 2016, acquerello e china su carta cm 21×30

STORIA E STORIE

I racconti di Dzama si svolgono non solo in un luogo imprecisato, proiezione astratta di stati d’animo ed emozioni, ma anche in un tempo imprecisato vagamente collocabile tra l’Otto e il Novecento, come si desume dalla fascinazione per gli abiti di tweed, per le divise degli anni Venti e per le uniformi militari napoleoniche o della Guerra di secessione americana. Sono, però, riferimenti soprattutto estetici, rimarcati anche dalla predilezione per certi colori demodé, dal marrone al verde muschio, dal bordeaux al grigio aviazione e al blu carta da zucchero, che creano una particolare temperie emotiva e un’atmosfera d’altri tempi. Quelle di Dzama sono narrazioni incongrue e surreali, spesso accompagnate da frasi e brevi testi che, come nei lavori eseguiti con il gruppo Royal Art Lodge (oggi composto dai soli Neil Farber e Michael Dumontier), creano un corto circuito tra l’immagine e la parola scritta. L’artista non è, però, interessato alla trasmissione di un messaggio etico e le sue scene di mutilazione, decapitazione e pornografia sono piuttosto la testimonianza di un processo di sublimazione grafica della violenza.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 31,5x25,5 cm, anni 2000

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 31,5×25,5 cm, anni 2000

Negli ultimi lavori di Vanni Cuoghi la descrizione ambientale e paesaggistica è sempre più frequente. Ai fondi bianchi si sostituiscono eleganti interni borghesi, architetture rinascimentali e barocche, boschi e foreste di sapore arcadico. L’amore per l’arte italiana trapela ovunque, negli arredi e nelle tappezzerie dei Monolocali, nei castelli in rovina e nelle pievi romaniche delle Sibille, nelle arcate della Cà Granda di Milano che fanno da quinte ai Balletti plastici armati e, perfino, nei capricciosi tempietti barocchi che inquadrano le ballerine di Il lago dei cigni e Roses for me. Insomma, la marca stilistica di Cuoghi è chiaramente latina e mediterranea e i suoi racconti, pur surreali e immaginifici, quasi mai indulgono in scene raccapriccianti. Le sue narrazioni procedono con maggiore linearità, racchiudendo la trama in immagini compiute, perfettamente definite in ogni dettaglio. Così, mentre nei primi lavori di Dzama prevale il gusto sintetico e quasi bozzettistico per le figure, in quelli di Cuoghi affiora l’acribia miniaturistica, l’amore per la cornice scenica e l’attenzione per il particolare rifinito e prezioso.

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Vanni Cuoghi, Roses for me, 2014, Acquarello e china su carta, 70x50cm i

GUERRA E DANZA

Marcel Dzama, fin dai suoi esordi con il gruppo Royal Art Lodge, e in seguito anche nella sua ricerca personale, affina un’idea di raffreddamento emotivo della violenza. I suoi soggetti sono disposti sul foglio in un modo da richiamare le strutture paratattiche dell’arte tardo antica oppure quelle dell’arte tribale dell’Oceania, di cui si dichiara appassionato. Ad esempio, in We run the Brandon Police force i detective e gli agenti sono allineati su due file orizzontali sovrapposte, come nella coreografia di un ballo di gruppo. La struttura coreografica emerge, tuttavia, anche in altri acquarelli, sotto forma di parata danzante o di esercizio ginnico. Tutto il lavoro di Dzama successivo al 2002 si è sviluppato in questa direzione. La danza e in particolare il balletto d’avanguardia come espressione artistica, è, infatti, ripreso in numerose opere recenti. Il principale riferimento, per i film The Infidels (2009), Death Disco Dance (2011) e A Game of Chess (2011), è il Triadic Ballet di Oskar Schlemmer, che esordì a Stoccarda nel 1922 ed è oggi ritenuto uno dei più importanti balletti sperimentali tra le due guerre. Già prima della realizzazione dei suoi film, la guerra sublimata in coreografia è un tema ricorrente nelle opere su carta di Dzama. Le miliziane in divisa col volto coperto dal balaclava, che compaiono frequentemente nei suoi acquarelli e che sono poi riprese anche in un videoclip musicale dei Department of Eagles[3], sono le vessillifere di questa concezione coreografica della guerra, tramutata in un sanguinoso ballo della Storia. La guerra è, infatti, per l’artista canadese un fattore ineliminabile della Storia di cui il gioco degli scacchi e la danza stessa sono rappresentazioni figurate.

Marcel Dzama, We run the Brandon police force, inchiostro e acquarello su carta, 35,5x27,5 cm, 2000

Marcel Dzama, We run the Brandon police force, inchiostro e acquarello su carta, 35,5×27,5 cm, 2000

Una ginnastica marziale, sospesa tra la delicata grazia del balletto e il vigore atletico del combattimento, è quella praticata dalle Sibille di Vanni Cuoghi, moderne samurai in cui si fondono il mito classico delle amazzoni e l’immaginario visivo steampunk e cyberpunk. Vestite d’ingombranti abiti vittoriani o di succinti short militari, le schermitrici di Cuoghi ricordano evidentemente l’emancipate eroine del Cinema di Tarantino (Kill Bill) e dei blockbuster statunitensi di fantascienza (Tomb Rider), sebbene il teatro delle loro gesta non sia la megalopoli, ma una natura astratta, mentale, popolata di animali totemici (orsi, cervi, aquile e lupi) e disseminata di rovine medievali. Per Cuoghi, il combattimento all’arma bianca è talvolta metafora di un conflitto interiore, allegoria dell’eterna lotta contro i demoni che albergano nel profondo di ogni uomo (Mental Cut); talaltra si configura come una sorta di autogenesi (Intagliatrici). Quasi mai, nelle sue opere, il combattimento allude direttamente alla guerra, tantomeno negli assemblaggi Balletti plastici armati e La caduta, dove l’artista appare più interessato alla relazione mimetica tra danzatrici e paesaggio. Invece, fuor di metafora, sono ispirati alle figure aggraziate del balletto classico e alle opulente scenografie teatrali barocche i già citati Roses for me e Il lago dei cigni.

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Vanni Cuoghi, La caduta,2014, collage,chine e acquerello su carta, cm33x58x38

MASCHERA E VOLTO

“Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte”, scriveva Oscar Wilde. Forse per questo, Cuoghi e Dzama scelgono di usare una narrativa svincolata dall’identità dei personaggi. Non c’è mai, nei loro lavori, un riferimento diretto all’attualità o alla cronaca, così come non c’è un tema o un soggetto riconducibile a personaggi e fatti realmente accaduti. La prima forma di occultamento consiste, infatti, nell’utilizzo del linguaggio allegorico e metaforico, sempre evocativo e mai indicativo, che entrambi gli artisti praticano mediante la composizione di caratteri tipologici, essenzialmente astratti e perfino i riferimenti visivi appaiono quanto mai vaghi, velati, sottintesi e sostanzialmente funzionali al racconto.

Seppure in modi diversi, Marcel Dzama e Vanni Cuoghi ricorrono sovente all’uso di maschere per nascondere il volto dei propri personaggi col preciso intento di ribadirne il carattere prototipico. Negli acquarelli dell’artista canadese il meccanismo di mascheramento è innescato in due modi diversi, ma complementari. L’uno consiste nel caricare l’espressività dei volti dei suoi personaggi, stravolgendoli in smorfie, come nel caso delle teste macrocefale che richiamano gli idoli dei totem tribali. L’altro modo consiste nel nascondere le fisionomie dietro cappucci, balaclava e mascherine, che diventano complementi vestitivi di uniformi e divise da combattenti. In entrambi i casi, Dzama ottiene l’effetto di acuire il mistero e l’inquietudine dei suoi racconti crudeli, pervasi di una vena di beffardo pessimismo.

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6x27,9 cm, 2003

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,6×27,9 cm, 2003

Tutte le bellicose schermitrici di Vanni Cuoghi portano una sottile maschera sul volto, del tipo di quelle usate dai vecchi eroi del fumetto come Lone Ranger o simili a quelle portate dagli 88 Folli, la fittizia gang della yakuza, inventata da Tarantino in Kill Bill. Per l’artista, la maschera è una memoria nostalgica dei carnevaleschi travestimenti infantili, ma anche una metafora della fondamentale ambiguità della pittura, sempre protesa verso la costruzione di una realtà fittizia, immaginifica, misteriosa. Ma se la pittura è una finzione, allora tanto vale epurarla di ogni elemento realistico, di ogni accidente espressivo e dichiarare che la sua funzione è, prima di tutto ideale. Fin dagli esordi, Cuoghi ha scelto di rappresentare i suoi personaggi con gli occhi chiusi, elidendo, così, il più efficace strumento espressivo dell’anatomia umana, traducendo la fisionomia psicologica in una morfologia della maschera. Senza la luce vivificante dello sguardo, infatti, il volto diventa simulacro, icona, sublime e algida effige di dormiente. Così, sognando, le Sibille di Cuoghi inventano un mondo nuovo, rigenerato dalle fondamenta. Esattamente come fa la pittura, quando abbraccia la sua vocazione profetica.

Notturno, 2015, acrilico e olio su tela, cm 130x215

Vanni Cuoghi, Notturno, 2015, acrilico e olio su tela, cm 130×215


NOTE

[1] Back to folk, a cura di Ivan Quaroni, Daniele Ugolini Contemporary, 2006, Firenze.

[2] Beautiful Dreamers, a cura di Ivan Quaroni, Angel Art Gallery, 2009, Milano.

[3] Si tratta del videoclip di No One Does It Like You, le cui sequenze filmiche, riprese dal film The Infidels, mostrano lo scontro tra due eserciti contrapposti su un campo di battaglia nel modo del balletto avanguardista degli anni Venti.


INFO

Vanni Cuoghi, Marcel Dzama, Masked Tales
A cura di Ivan Quaroni
Labs Gallery via Santo Stefano n 38 Bologna
Opening: 7 maggio h 18,30
Dal 7 maggio al 7 giugno 2016
Info: Alessandro Luppi, tel:+39 348 9325473 info@labsgallery.it
http://www.labsgallery.it


Sibilla 3, 2016, china e acquerello su carta cm70x100. AJPG

Vanni Cuoghi, Sibilla 3, 2016, china e acquerello su carta cm70x100

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,5x27,9 cm, 2003

Marcel Dzama, Senza titolo, inchiostro e acquarello su carta, 35,5×27,9 cm, 2003

Le stanze misteriose di Vanni Cuoghi

7 Mag

 di Ivan Quaroni

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 1, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

ITALIAN TEXT (ENGLISH TEXT BELOW)

I Monolocali di Vanni Cuoghi rappresentano l’esito finale di un lungo percorso di affinamento tecnico e linguistico durato oltre dieci anni e, insieme, il sintomo di un ritorno alle origini o meglio di un recupero di abilità, intuizioni e capacità di visione che appartengono al suo più antico background culturale. Sono il frutto di una grammatica costruita attorno alla fusione di diverse pratiche, dalla pittura al collage, dal disegno alla scenografia, fino al paper cutting, cioè all’arte di intagliare figure in fogli di carta per farne delle opere d’arte. Di fatto, i Monolocali sono dipinti, in tutto e per tutto simili a quelli su tela, sebbene abbiano la forma di oggetti tridimensionali in cui lo spazio illusorio e quello reale e fisico scivolano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Si possono definire diorami, perché la logica compositiva è quella dei plastici tridimensionali e delle maquette che appassionano i modellisti.

Diorama è un termine francese che deriva dal greco διά (attraverso) e ὅραμα (veduta). Indica, cioè, un oggetto attraverso il quale si possono vedere delle cose. Non stupisce che la sua diffusione e il suo successo nel diciannovesimo secolo siano attribuiti, tra gli altri, a Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, pittore e decoratore teatrale che nel 1837 inventò un metodo per fissare le immagini riprese con la camera oscura su un supporto sensibile in rame o argento (i famosi daghrrotipi). Solo un uomo di teatro, avvezzo alla costruzione di complessi allestimenti scenici, poteva inventare qualcosa di simile ai moderni modelli architettonici.

Nei Monolocali di Vanni Cuoghi c’è la memoria dei suoi trascorsi da scenografo, unita, però, a una matura comprensione dei meccanismi inventivi della pittura. A prevalere in queste opere, infatti, non è tanto la dimensione progettuale del diorama, che semmai sussiste nella scelta di una cornice convenzionale, di uno spazio scenico standardizzato equivalente alle dimensioni di un foglio A4 entro cui si svolge l’azione ma, piuttosto, la logica imprendibile della giustapposizione giocosa, dell’intuizione fulminea, dell’errore fecondo.

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 5, anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

Gli elementi che compongono queste scatole prospettiche, questi teatrini misteriosi ed enigmatici, sono, infatti, come le tessere di un puzzle ancora da definire. Personaggi, oggetti, complementi d’arredo, carte da parati, piastrelle, decori sono spesso realizzati in anticipo. Costituiscono, cioè, i frammenti di un collage di là da venire, di un’immagine ancora da costruire. Alcuni saranno usati, altri saranno scartati, altri ancora finiranno in un’opera successiva. Non c’è una regola, un copione prestabilito nell’assemblaggio di queste tessere, ma solo un’idea, un’intuizione, insomma un indirizzo che può mutare nel corso dell’opera. Come nell’atto del dipingere, ciò che conta è il percorso, quel labirintico susseguirsi di prove, errori e ripensamenti che portano, inevitabilmente, a soluzioni impreviste e risultati inaspettati.

Ovviamente in quest’attitudine, che prende la forma di un vero e proprio modus operandi, giocano un ruolo fondamentale la gioia e lo stupore della scoperta, caratteristiche tipiche della ricerca di Cuoghi. Se queste stanze sono piene di eventi sorprendenti, di storie al limite del credibile, sempre in bilico tra una fantasia scatenata e una verosimiglianza ossessiva, è perché l’artista stesso si apre alla conoscenza di un mistero più sottile proprio attraverso l’adozione di una procedura non codificata. Vanni Cuoghi non progetta mai la forma finale di un’opera, nel senso che non prevede i dettagli, ma guida il processo verso l’espressione di una sensazione o di un’atmosfera impalpabile.

Molti dei suoi Monolocali contengono riferimenti biografici, tracce di vissuto che la memoria sembra riattivare alla presenza di un profumo, di una luce, di un colore, di un suono. In un certo senso, le capricciose narrazioni dell’artista formano una sorta di diario intimo e sinestetico delle sue peregrinazioni. Genovese di nascita e milanese d’adozione, Cuoghi ha vissuto gli anni da studente nel capoluogo meneghino, abitando una pletora di appartamenti molto piccoli. Il monolocale o, se preferite, la stanza, è diventata per lui, come per molti studenti, la metafora di una condizione esistenziale e, insieme, il simbolo di un certo tipo di formazione. Gli ambienti ristretti, i compromessi della convivenza e della condivisione, le inevitabili economie di una vita libera, ma pur sempre confinata in un perimetro definito, hanno contribuito ad acuire la sua percezione dell’unità abitativa come spazio funzionale e, allo stesso tempo, autonomo.

Bilocale 2 (Chernobyl's animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50x70

Bilocale 2 (Chernobyl’s animals) 2015, acquerello e acrilico si carta, cm 50×70

La stanza, esattamente come il palcoscenico, è una scatola prospettica in cui convergono illusione e realtà, è un teatro di accadimenti che vanta una lunga tradizione tanto nella letteratura, quanto nella pittura e nel cinema, dai Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe alla Stanza di Arles di Van Gogh, fino alla Redrum di Shining e alla stanza rossa di Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adotta questa convenzione iconografica, trasformandola in un formato, in una misura che delimita e circoscrive le classiche unità di luogo, tempo e azione. I suoi Monolocali sono tutti, tranne qualche rara eccezione, rettangoli orizzontali di 21×30 centimetri che l’occhio dell’osservatore riconosce, inconsciamente, come una grandezza familiare, dato che è quella delle risme di carta che acquistiamo per le nostre stampanti domestiche.

La natura delle invenzioni dell’artista, in questo caso, è piuttosto affine al genere letterario degli enigmi della camera chiusa[1], e soprattutto a certe misteriose visioni di René Magritte (L’assassin menacé, 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964) dominate da un’atmosfera di sinistra attesa e d’ipnotica inquietudine.

Mentre da un lato i Monolocali rappresentano una sfida formale sul piano compositivo e, insieme, un tentativo di tradurre nel linguaggio visivo memorie e sensazioni personali, dall’altro essi approdano a una dimensione surreale che ha più a che fare con l’esplorazione dei meandri del subcosciente. È vero, infatti, che l’artista trae spesso spunto dalla storia dell’arte o dall’immaginario della cultura popolare, ma è altrettanto chiaro che il risultato finale corrisponde alla formulazione di una personalissima sigla pittorica, di uno stile coerente e originale dove il significato eventuale delle immagini retrocede, per lasciare campo a una moltitudine di letture e interpretazioni.

Certo, è possibile rintracciare, qua e là, una serie di rimandi, discretamente disseminati tra le pareti delle sue camere chiuse come, ad esempio, negli unici due Monolocali dipinti su tela, che simulano le profondità e le ombre dei suoi diorami con una tecnica da perfetto illusionista. Mentre nel primo, intitolato Monolocale n. 17 (tinto), compare un evidente riferimento alla tradizione degli azulejos, le celebri piastrelle in ceramica smaltata che ornavano i palazzi nobiliari di Spagna e Portogallo, nel secondo, intitolato Monolocale n. 19 (le ciliegie), gli indizi del personaggio che spia la coppia attraverso una porta socchiusa e il quadro con una natura morta di ciliegie appeso alla parete, alludono a due celebri dipinti di Giulio Romano e di Giovanna Garzoni.

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 14 (Tonnata) 2015, tecnica mista, cm 21×30

Nel diorama Monolocale n. 14 (tonnata), invece, la donna alla fune è ispirata a una sequenza del video Orient di Markus Shinwald, l’artista che ha rappresentato l’Austria alla 54° Biennale di Venezia, mentre l’interno di Monolocale n. 18 (la lettera) è rubato a una scena del film Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) di Roy Andersson, così come la protagonista in primo piano cita, evidentemente, La lettera d’amore di Jan Vermeer (1669-1670).

Aldilà dei riferimenti abilmente occultati nella trama di queste scatole del mistero, ciò che conta è, piuttosto, l’impiego di sorprendenti soluzioni grafiche e compositive. La più ricorrente è l’incursione di un elemento sinistro, di un’entità informe che frantuma muri e pavimenti delle stanze, minacciando la quiete di questi interni borghesi. È come una sorta di apocalittico deus ex machina, un intervento esterno e imprevedibile che assume, di volta in volta, sembianze diverse. È un famelico organismo tentacolare nei Monolocali n. 2 e n. 3 e in Bilocale n. 1 (MM1 Pasteur); una nera sostanza fluida in Monolocale n. 10; una colossale trave di legno precipitata dal soffitto in Monolocale n. 18; un fiotto sanguigno che squarcia il parquet di Monolocale n. 13 (barbecue). In questi, come in altri casi, l’evento non ha un carattere necessariamente negativo. Semplicemente, si tratta di una trasposizione visiva del modo in cui a volte i ricordi e le sensazioni irrompono violentemente nella nostra coscienza. Come in Monolocale n. 11 (odor di basilico), dove l’evento scatenante è la memoria olfattiva del basilico di Prà appena colto, o in Monolocale n. 12 (l’astice), in cui è il sapore, questa volta immaginato attraverso il racconto di alcuni amici, di un noto crostaceo del Maine. A ben vedere, Cuoghi adombra il racconto a puntate della propria biografia di gourmet e di voyeur sotto le mentite spoglie di una crime story o di un weird tale, costruisce un mistero fittizio per celebrare i fasti dell’esperienza e dell’immaginazione. Così, finisce per somigliare a quei grandi artisti visionari che seppero raccontare la vita nelle forme traslate della metafora e dell’analogia. Forse perché, come diceva Jorge Luis Borges, “il reale è quello che vede la maggioranza”.

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21x30

Monolocale 17. (tinto), 2015, acrilico e olio su tela , cm 21×30


English Text

Vanni Cuoghi’s Studio Flats represent the ultimate result of a long technical and linguistic refining path, that took over ten years, together with a symptom of a throwback to the roots , or better, a retrieval of skills and intuitions and visions belonging to his most ancient cultural background. They are the outcome of a grammar built around the fusion of different practices , from painting to collage, from drawing to scenography, to paper cutting, the art of cutting shapes and figures into paper sheets to make a piece of art out of them. The Studio Flats are in fact paintings, very similar to the ones on canvas, even if they are shaped as tri-dimensional objects where illusory and real space seamlessly melt one into another. They can be defined s dioramas, because the composing logic is the one of tri-dimensional scale models and maquettes loved by the collectors.

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello  acrilico su carta, cm 50 x70

Bilocale 1, (MM1 Pasteur), 2015, acquerello acrilico su carta, cm 50 x70

Diorama is a French word originated by Greek διά (through) and ὅραμα (view). It stands for a see-through +object. It is not surprising that its diffusion and success are ascribed, among others, to Louis-Jacques-Mandeé Daguerre, theatre painter and decorator who, in1837 invented a method to fix images captured by the darkroom on a sensitive copper or silver stand (famous daguerreotypes). Only a man of theatre, accustomed to building complex scenes on stage, could invent something so similar to modern architectural models.

Inside Cuoghi’s Studio Flats, lies the memory of his past as a set designer, yet joined by a mature comprehension of the inventive mechanisms of painting. What is most prevalent in these artworks, in effect, is the uncatchable logic of playful juxtaposition, of striking intuition and fruitful mistake.

The elements that form these prospect boxes , these mysterious and enigmatic tiny theatres, are indeed just as the cards of a still to be defined jigsaw. Characters, objects, pieces of furniture, wallpapers, tiles and decorations are often made in advance. They are the fragments of a collage yet to come. Some of them will be used, others will be set aside and some more will end up in a following artwork. There is no rule or script in the making of these works, there is just an idea, some kind of destination that can change while progressing. As in the act of painting, what is most important is the path, that labyrinthine sequence of attempts, mistakes and second thoughts, necessarily leading to unexpected sudden results.

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35x50

Monolocale 3, 2014, tecnica mista su carta, cm 35×50

Joy, astonishment and discovery, clearly play a main role in this attitude, becoming a true modus operandi of Cuoghi’s research. These rooms are so full of surprising events, of almost unbelievable stories, always balancing between crazy fantasy and obsessive plausibility, because the artist himself opens up to the knowledge of a more subtle mystery right through an uncodified procedure. Vanni Cuoghi never plans the final shape of an artwork, he does not foresee the details, but he drives the process to expressing a sense or a weightless atmosphere.

Many of his Studio Flats include autobiographical references, traces of a life that memory seems to re-activate thanks to a scent, a light, a colour, a sound. In a certain way, the artist’s whimsical narrations form a sort of intimate and synaesthetic journal of his own peregrinations. Born in Genoa and adopted by Milan, Cuoghi lived his student years in the Lombard main city, living in a multitude of tiny flats. The studio flat, or if you prefer , the room, became to him as to many other students, the metaphor of an existential condition together and the symbol of a certain type of education. The narrow locations, the compromises of cohabiting and sharing, the unavoidable frugality of a free yet confined life, all contributed to sharpen his perception of the living unit as a functional yet independent space. The room, just as the stage, is a prospect box where reality and illusion converge; it is a theatre of events that boasts a long literary tradition, as well as cinema and painting, from The murders in the Rue Morgue by Edgar Allan Poe, to The room in Arles by Van Gogh, until the Redrum in Shining, and the red room in Twin Peaks.

Vanni Cuoghi adopts this iconographic agreement and he transforms it into a measurement that limits and contains the ordinary units of time, place and action. All of his Studio Flats, few exceptions made, are rectangles of 21×30 cm, which the eye can unconsciously recognize as a familiar size, because it is just like the one of the paper we get for our home printers.

In this case, the nature of the artist’s invention, is quite similar to the literary genre of the locked room mysteries¹, and especially close to some baffling visions by René Magritte (L’assassin menacé 1926-27), Max Ernst (Une semaine de bonté, 1934) e Paul Delvaux (Abandon, 1964), all dominated by an atmosphere of sinister wait and hypnotic anxiety.

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 11, (Odor di Basilico) anno 2014, tecnica mista, cm 21×30

While on a side, the Studio Flats represent a formal challenge on the compositional level together with an attempt to translate personal memories and sensations into visual language, they end up to a surreal dimension that has more to do with exploring the twists and turns of the subconscious. Sure enough the artist often draws inspiration from the history of art and from the imagery of popular culture, though it is clear that the final results is the formulation of an extra personal painting signature, of a congruent original style where the possible meaning of images moves back, to allow multiple readings and interpretations.

It is surely possible to retrace here and there, a series of refrains, discretely scattered on the walls of his locked rooms as, for example, in the only two Studio Flats painted on canvas, which simulate the depth and shades of his dioramas using a technique of a true mesmerizer. While in the first, called Studio Flat n.17 (tinted), lies an obvious reference to the azulejos tradition, the famous glazed ceramic tiles which decorated aristocratic palaces in Spain and Portugal, in the second, called Studio Flat n.19 (cherries), the hints of the character spying the couple behind an half shut door and the painting of a still life with cherries hanging on the wall, suggest two well-known paintings by Giulio Romano and Giovanna Garzoni.

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 16 (…quella mucca), anno 2015, tecnica mista, cm 21×30

In the diorama Studio Flat n.14 (tuna sauce), the woman at the rope is inspired by a sequence of the video Orient, by Markus Shinwald, the artist which represented Austria at 54th Venice Biennale, while the interiors of Studio Flat n. 18 (the letter), are stolen by a scene from the movie En duva satt på en gren och funderade på tillvaron (2014) by Roy Andersson, just as the protagonist in the foreground obviously quotes, The love letter by Jan Vermeer (1669-1670). What really counts, beyond all the references, smartly hided in the weave of these mystery boxes, is the use of surprising graphic and arranging solutions. The most frequent one is the foray of a sinister element, a shapeless entity which the rooms’ walls and floors, threatening the quiet of these middle-class interiors. Some kind of apocalyptic deus ex machina, a foreign and sudden intervention that achieves different shapes, from time to time.

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21x30

Monolocale 19, (le ciliegie), 2015, acrilico e olio su tela, cm 21×30

A ravenous pronged organism in Studio Flats n.2 and n.3 and in Two-room flat (MM1 Pasteur); a black fluid material in Studio Flat n.10; a huge wooden beam falling from the ceiling in Studio Flat n.18; a gush of blood that lacerates the wood flooring in Studio Flat n. 13 (barbecue).In these as in other cases, the event is not necessarily negative. It simply is a visual transposition of the way memories and sensations sometimes violently burst into our conscience. As for Studio Flat n. 11 (scent of basil), where the trigger event is the olfactory memory of freshly picked Prà basil, or for Studio Flat n.12 (the lobster), where it is the taste, imagined through the tale of some friends, of a famous crustaceous from Maine. At second glance , Cuoghi hides the tale by episodes of his biography as a gourmet and a voyeur, under the false pretences of a crime story or of a weird tale, he builds a fake mystery to celebrate the glories of the experience and imagination. So, he ends up looking like those great visionary artists who were able to tell life in the shifted shapes of metaphor and analogy. Perhaps that is because, as used to say Jorge Luis Borges, “the truth is what most people see”.


[1] Mario Gerosa, Viaggio intorno alla mia camera chiusa a chiave, in Le camere del delitto, Selis Editions, 1991, Milano.

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21x30

Monolocale 2, anno 2014, tecnica mista, cm 21×30


Info:

VANNI CUOGHI, Monolocali: tutte le mattine del mondo.
a cura di Ivan Quaroni
GALLERIA AREA B, Via Marco D’Oggiono n 10 Milano
OPENING: 14 maggio h 18.30
dal 14 maggio al 23 luglio 2015/ 14 May – 23 July 2015
Lunedì/monday h. 15.00 -18.00, martedì-sabato/Tuesday-Saturday h. 10.00-13.00 15.00-18.00
t 02 89059535     m info@areab.org http://www.areab.org

Italian Newbrow corre sul web

28 Gen

Ecco un elenco di tutti i siti web degli artisti di Italian Newbrow. Tutto quello che avreste voluto sapere e non sapevate dove trovare….

Cominciamo con la pagina FB di Italian Newbrow, con tutte le news e le nuove opere postate direttamente dagli artisti.

Italian Newbrow

https://www.facebook.com/ItalianNewbrow

Italian Newbrow

Ed ecco invece i siti dei principali artisti del movimento:

Vanni Cuoghi

http://www.vannicuoghi.com/it/

Cuoghi

Giuseppe Veneziano

http://www.giuseppeveneziano.it

Veneziano

Giuliano Sale

http://www.giulianosale.com

Sale Silvia Argiolas

http://www.silviaargiolas.com 

ArgiolasPaolo De Biasi

https://www.facebook.com/pages/paolo-de-biasi/158287757578428?fref=ts

Schermata 2014-01-28 alle 13.09.58

Michael Rotondi

http://michaelrotondi.blogspot.it

Rotondi Massimo Gurnari

http://massimogurnari.it 

GurnariDiego Dutto

http://www.diegodutto.it 

Dutto

Alice Colombo

http://www.alicecolombo.com

Colombo Eloisa Gobbo

http://www.eloisagobbo.it

GobboFulvia Mendini

https://www.facebook.com/fulvia.mendini

Mendini Elena Rapa

http://elenarapa.blogspot.it

Rapa

 Marco Demis

http://www.marcodemis.com 

DemisMassimiliano Pelletti

http://www.massimilianopelletti.com

Pelletti Tiziano Soro

http://tizianosoro.com/ita/home.html

Soro

Michela Muserra

http://mumiki.com

Muserra

Pierpaolo Febbo 

http://pierpaolofebbo.tumblr.com

Schermata 2014-01-28 alle 12.21.20

Infine, ecco un elenco di gallerie che trattano il lavoro di alcuni artisti di Italian Newbrow:

Area\b gallery, Milano

http://www.areab.org

Vanni Cuoghi

Paolo De Biasi

Silvia Argiolas

Giuliano Sale

Massimo Gurnari

Michael Rotondi

Pierpaolo Febbo

Eloisa Gobbo

Alice Colombo

Marco Demis

Tiziano Soro

 b

Antonio Colombo Artecontemporanea, Milano

http://www.colomboarte.com

Giuliano Sale

Silvia Argiolas

Elena Rapa

Vanni Cuoghi

Colombo

L.E.M., Sassari

Silvia Argiolas

Diego Cinquegrana

Giuliano Sale

 L.E.M.

Roberta Lietti Arte Contemporanea, Como

http://www.robertalietti.com

Vanni Cuoghi

Fulvia Mendini

Lietti

Artforkids, Como

Alice Colombo

Fulvia Mendini

Vanni Cuoghi

Artforkids

Contini Art Gallery, Venezia

http://www.continiarte.com

Giuseppe Veneziano

Contini

Vanni Cuoghi. Aion. Di giochi, giardini e altre delizie

9 Set
 
 
 

di Ivan Quaroni

Nell’uomo autentico si nasconde un bambino che vuole giocare”.
(Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885)

Il gioco, la beffa, l’inganno, la trappola, l’affabulazione, ma anche la metafora, la metonimia, il calembour, la citazione, l’allusione sono, forse da sempre, gli strumenti e i dispositivi retorici dell’arte di Vanni Cuoghi. Al gioco, inteso come umana attività volontaria, sovente caratterizzata da regole e finalizzata al raggiungimento di obiettivi specifici, è dedicata la recente ricerca dell’artista, il quale ipotizza una sorta d’immaginifica ludologia cortese.

Percorrendo i topoi di un Rinascimento idealizzato, insieme artefatto e incongruo, Cuoghi dissemina i suoi eleganti lavori d’indizi e citazioni che rimandano tanto al passato quanto al presente. Emerge qui, infatti, più che altrove, la sua innata e postmoderna propensione al miscuglio e alla combinazione di riferimenti, proprio come in un gioco di abilità verbale che stà a metà tra il gioco da tavola e il calembour. Qui, più che altrove, lo stile di Cuoghi appare fin troppo disciplinato, esasperatamente aggraziato, quasi l’artista intendesse imbrigliare l’espressione in un codice visivo di stretta osservanza formale, per occultare il magma emotivo in un processo di sublimazione intellettuale.

Il gioco, dicevamo. E’ un argomento alquanto difficile, scivoloso. Basta un nonnulla per tramutarlo in un pretesto da fiera paesana. In fondo, al gioco si possono ascrivere tutte le attività ricreative e, per estensione, perfino quelle libere e prive di scopo, purché siano connotate da una certa reiterazione gestuale o verbale. Il gioco cui allude Vanni Cuoghi, invece, ha un’accezione estetica e formale. E’, come sosteneva Gregory Bateson, filosofo, antropologo e psicologo britannico, un metalinguaggio, ossia un codice che rimanda a un altro codice. Bateson, infatti, sottolineava la natura convenzionale del gioco. Non solo l’accettazione da parte dei partecipanti di norme straordinarie, cioè diverse da quelle che regolano la vita quotidiana, ma anche l’implicita adesione a immergersi in una realtà fittizia, in una rappresentazione metaforica e, nondimeno, estremamente seria. Come afferma Jean Baudrillard, “Ogni regola del gioco è affascinante. Un gioco, non è che questo, e il delirio del gioco, il piacere intenso del gioco proviene dalla chiusura nella regola”. Il metalinguaggio serve, quindi, a comunicare la natura ipotetica del gioco, il suo «come se». Il giocatore si comporta «come se», ed è, dunque, a suo modo, un attore temporaneo. Ma il «come se». implica anche una proiezione in avanti, verso il futuro. Diventa una domanda: «e se fosse?». L’anglosassone «what if?» designa un genere letterario. La Marvel ha addirittura inventato una linea di fumetti supereroistici («What if?», appunto), basata sullo sviluppo di trame alternative e sull’indagine di realtà parallele. Dato che il gioco, come metalinguaggio, rivela qualcosa dei giocatori e quindi anche della società o della cultura cui appartengono, scegliere la tipologia di gioco può avere una valenza perfino poetica.

Vanni Cuoghi ha scelto d’ispirarsi alle Delizie rinascimentali, espressioni dell’abitare nobiliare e cortigiano in un ambito suburbano in cui natura e artificio s’intrecciano indissolubilmente. Le Delizie (gli Estensi ne costruirono oltre 30 tra il Trecento e il Cinquecento) erano residenze estive destinate allo svago e alla villeggiatura dei Signori ed avevano anche funzioni strategiche, politiche e amministrative, potendo fornire ospitalità a un’intera una corte itinerante. Il Palazzo Schifanoia a Ferrara, ad esempio, è fra le più celebri Delizie Estensi. Il suo nome – che letteralmente significa “che schiva la noia” – ci dice molto sulla sua funzione, quella, appunto, di essere un luogo destinato al piacere e allo svago della corte. Trattandosi di divertissement nobiliari, la cornice architettonica (ed estetica) ricopriva una certa importanza. Si trattava, soprattutto, di ville, castelli, manieri e casini di caccia immersi nel verde, dove tra orti, giardini, labirinti si svolgevano i passatempi della corte.

Cuoghi ambienta i propri racconti entro la cornice ideale di un Rinascimento lontano dal neoplatonismo fiorentino, ancora impregnato di cultura gotica e letteratura romanza. Il suo è un linguaggio affine all’immaginario eccentrico dei pittori ferraresi, come Francesco Del Cossa ed Ercole De Roberti, che proprio a Palazzo Schifanoia affrescarono il Salone dei mesi, oppure di artisti come Pisanello e Paolo Uccello, capaci di creare inedite suture a cavallo tra eleganza e geometria. Ciò che accomuna il lavoro di Cuoghi alla linea del Gotico Internazionale è, dunque, la sua distanza dalla mimesi tridimensionale (penso a Masaccio) e la su predilezione per l’ornamento e la fioritura di forme aggraziate, sovente usate per velare contenuti dissonanti, aspri o addirittura violenti. E’ il caso di Sette pensieri saggi, piccola tela che illustra l’efferata vendetta di una gentildonna verso i sette cavalieri che la accerchiano. Il pensiero corre immediatamente alle suggestioni cinematografiche di Tarantino e alla sua Beatrix Kiddo, sanguinaria protagonista di Kill Bill che incarna il tipo della moderna eroina manga. Inoltre, proprio a un artista giapponese, Takashi Murakami, autore di un sincretismo che mescola suggestioni pop e tradizione artistica del Sol Levante, allude l’ellittico fiotto di sangue del dipinto di Cuoghi, consapevole riproposizione della dinamica rappresentazione di fluidi corporali di Lonesome Cowboy e di HiroponSette pensieri saggi mostra, quindi, il ricorso a fonti d’ispirazione tutt’altro che desuete. Cuoghi avrebbe potuto rifarsi a iconografie più tradizionali, come ad esempio l’altrettanto sanguinoso dipinto di Giuditta e Oloferne di Artemisia Gentileschi. Invece, ha preferito creare un cortocircuito, squisitamente postmoderno, tra forma e contenuto. La stessa cosa accade in un altro dipinto, Viscontea, che illustra l’origine del blasone di Milano, contraddistinto dal biscione che ingoia un infante. Lo stemma fu assunto dalla famiglia dei Visconti in occasione della loro ascesa alla signoria di Milano (1395) e che poi divenne simbolo del ducato e della città stessa. Il biscione ondeggiante, una sorta di mitologico basilisco, rappresentava il drago Tarantasio. Secondo la leggenda, il biscione perseguitò i milanesi fino a quando non fu ucciso da Umberto Visconti, che lo sorprese nella sua caverna mentre stava divorando un neonato. Anche in questo caso, Cuoghi attinge alla contemporanea cultura pop e cinematografica. La figura di Umberto Visconti trionfante, con il braccio alzato a mostrare l’infante salvato, ha il volto di Edward Mani di forbice, protagonista dell’omonimo film di Tim Burton, il quale, a sua volta, s’ispirò al look gotico di Robert Smith, cantante della band The Cure, sulla cui immagine, peraltro, è plasmata anche la caratterizzazione del personaggio principale di This Must Be the Place di Paolo Sorrentino.

Il tema del gioco, di cui la fitta trama di rimandi e citazioni non è che un filone secondario, una sorta di enigmistico “gioco nel gioco”, affiora soprattutto nell’elegante elencazione di svaghi cortesi. All’iconografia della caccia sono dedicati Il dono del grande cervo, Il sangue ha un colore unico e Uno sguardo indietro, mentre il torneo, almeno a giudicare dal titolo, è il soggetto di Giostrarsi nella trama. Ai passatempi maschili per eccellenza si affiancano quelli muliebri, come la carola, danza medievale che appare in Cinque volte in sogno e in La danza dell’unicorno. Un gioco, o piuttosto un esercizio di abilità, è la tecnica del paper cutting, l’arte di ritagliare disegni di carta, che Cuoghi abbina alla tecnica dell’acquarello in gran parte dei lavori. E’ una pratica tradizionale, sviluppata soprattutto in Asia – dall’India alla Cina, fino al Giappone e alle Filippine – che recentemente è stata adottata da diversi artisti contemporanei. Come molti giochi di abilità, il paper cutting richiede precisione e pazienza da parte dell’artista e soprattutto una propensione a immergersi nella ripetizione dell’atto fino a perdere la cognizione del tempo. Come un mantra, oppure come l’esercizio del ricamo di Ventitré primavere e due gatti, il paper cutting introduce (o induce) l’esperienza di una diversa concezione temporale, slegata dalla consecutio lineare. Quella che gli antichi greci identificavano in Aion, personificazione del tempo eterno, opposta a Chronos (il tempo rettilineo della Storia). Per Eraclito, Aion è raffigurato come “un bambino, intento a spostare le figure sul tavoliere”. Nella concezione greca, il gioco era intimamente connesso a un’idea circolare del tempo. Un’idea che ritroviamo, in filigrana, anche nel ricorrente impianto circolare delle opere di Vanni Cuoghi. Esemplari, in tal senso, sono L’orto del senso, con il suo labirinto concentrico; La danza dell’unicorno, con l’episodio centrale simile a un mandala; Viscontea, con il drago in forma di ouroboros; infine, Nostra Signora delle farfalle, con il volo centrifugo dei lepidotteri a tracciare un cerchio radiale.

Matteo Ramon Arevalos, La Folia, performance 2

Se i concetti di “differenza” e “ripetizione”, cari al filosofo francese Jaques Derrida, sono elementi fondanti del gioco, altrettanto si può dire per la musica, argomento che ci permette di introdurre l’ultima opera di Vanni Cuoghi. Questa similitudine tra gioco e musica, avvalorata dal verbo inglese to play, che designa, appunto, sia l’atto del giocare sia quello del suonare, è il tema nascosto de La Folia, una performance – se così si può definire – concepita dall’artista con il musicista e compositore Matteo Ramon Arevalos. La Folia (o Follia) è un tema musicale portoghese risalente al XVI secolo, basato su una struttura melodica precisa, su cui il compositore poteva introdurre variazioni e improvvisazioni. Entrata a far parte della musica colta nel XVII secolo, la Folia è stata interpretata nel corso del tempo da compositori come Giovanbattista Lully, Arcangelo Corelli, Antonio Vivaldi, Alessandro Scarlatti, Johan Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel. La versione di Händel, nell’arrangiamento di Leonard Rosenman, è poi diventata la colonna sonora del film Barry Lyndon di Stanley Kubrik. La variante di Matteo Ramon Arevalos, composta appositamente per Vanni Cuoghi, è eseguita su un pianoforte a coda, sulle cui corde sono poggiate le sagome di fanti e cavalieri rinascimentali. Le figure, dipinte da Vanni Cuoghi e disposte su basamenti di rame, conferiscono alla composizione un suono metallico che richiama il clangore delle armi. Mentre il battito dei martelletti, muove gli armigeri sulle corde del pianoforte, noi assistiamo, attoniti, all’irrompere degli eserciti in battaglia. La performance, ripresa dalle telecamere con la regia di Chiara Zenani, e proiettata durante un’esecuzione pubblica al Teatro San Domenica di Crema, diventa, così, un’opera multimediale, in cui confluiscono musica, pittura e video.

Con La Folia, Vanni Cuoghi sembra includere la guerra nella sua articolata elencazione di ludi cortesi. E così, sia pure nella forma della finzione, finisce per evidenziare il pericoloso legame che unisce le passioni al gioco. Ma mentre la caccia o il corteggiamento amoroso, tanto per citare due esempi di attività ludiche predilette dell’aristocrazia, appaiono, tutto sommato innocui (almeno per gli uomini), “La guerra” – come scrisse William Cowper – “è un gioco, che i re, se i loro sudditi fossero saggi, non giocherebbero mai”.

ENGLISH TEXT

Aion . Of games, gardens and other delights

 ivan Quaroni

Within the authentic man hides a child who wants to play
(Friedrich Nietzsche, Thus spoke Zarathustra, 1885)

Games, pranks, scams, traps, storytelling, but also metaphors, metonimies, calembours, quotes, allusions, have always been , the means and rhetorical devices of Vanni Cuoghi’s art. Play, intended as a voluntary human activity, often marked out by rules and finalized to specific goals, is the subject of the artist’s most recent research that hypothesizes some kind of courtly ludologia. Going through the topoi of an idealized Renaissance, unnatural and incongruous, Cuoghi disperses hints and quotes that remind of the past as much as of the present, throughout his elegant artworks. His innate and postmodern attitude to mixing and combining references, is in fact standing out here more than anywhere else, just as a verbal skills game, half way between the the board game and the calembour. Here especially, Vanni Cuoghi’s style appears even too disciplined, madly gracious, as if the artist wanted to constraint expression in a visual code of strict formal compliance, to hide the emotional magma in a process of intellectual sublimation. Play, as said, is a difficult slippery topic. It takes nothing to turn it into a country fair chance. In the end, all recreational activities , and to some extent even the free ones with no purpose , can be ascribed to play, as long as characterized by a certain verbal and gesture repetition.

The kind of play Vanni Cuoghi refers to has instead a formal and aesthetic meaning. It is  a metalanguage, as stated by Gregory Bateson, British philosopher, anthropologist and psychologist , a code that refers to another code. In effect Bateson underlined the conventional nature of play. Not only the acceptance by all the players of extraordinary regulations , different from the ones that rule everyday life, but also the silent subscription to dive into a counterfeit reality , into a metaphoric representation , nevertheless extremely serious. As Jean Baudrillard states, “Each rule of play is fascinating. Play is nothing more than the delirium of play, the intense pleasure of playing comes from the bond to the rule “.  The metalanguage is then necessary to communicate the hypothetical nature of play itself, its own “as if”. The player acts “as if” , therefore being some kind of temporary actor. However the “as if” entails a forward projection as well, towards the future. It actually becomes a question “what if?”. In English “what if?” designs a true literary genre. Marvel got to invent an entire chain of super-hero comics (“What If”, note), based on the development of alternative plots and on the investigation of parallel realities. Given that play, as a metalanguage reveals something about the players and consequently about culture and society they belong to, picking the typology of play can get to have a poetical value.

Vanni Cuoghi chose to get inspired by renaissance Delights, displaying courtly and noble living in a suburban context where nature and artifice intersect forever. The  Delights ( Estensi built more than 30 between ‘300 e ‘500) were summer residences intended to leisure and resort of the Nobles and they also had strategic, administrative and political functions, being able to host an entire itinerating court. For instance, Schifanoia Palace in Ferrara, is among the most famous Estensi Delights. Its name – that means “boredom escaping”- tells us a lot about its function, being indeed a place of pleasure and leisure for the court. Being a matter of noble divertissements, the architectural (and aesthetical) background had a certain importance. They were mainly villas, castles, manor houses and hunting lodges surrounded by green, where courtly activities took place, among orchards, gardens and labyrinths . Cuoghi sets his stories in the ideal frame of a Renaissance far from Florentine neo-platonist, still permeated by gothic culture and Romanic literature. His language is close to the eccentric imagery of Ferrara painters, such as Francesco Del Cossa and Ercole De Roberti, who frescoed Salone dei Mesi in Schifanoia Palace, or even to Pisanello o and Paolo Uccello, who were able to create never before seen seams between elegance and geometry. What is common between Cuoghi’s work and the International Gothic line is the distance from the three-dimensional mimesis (I’m thinking of Masaccio) and his inclination to ornament and blooming of gracious shapes , often used to mist over dissonant , harsh  and even violent contents. It’s the case of Seven wise thoughts, small canvas showing the strong vengeance of a noblewoman against seven knights that surround her. We immediately think of Quentin Tarantino and his Beatrix Kiddo, bloody protagonist of Kill Bill , who embodies modern manga heroine. Furthermore, the elliptical gush of blood in Cuoghi’s painting, conscious bringing back of the dynamic representation of body fluids in Lonesome Cowboy and Hiropon, refers to the work of Japanese artist Takashi Murakami, author of a syncretism that mixes pop suggestion with his national artistic tradition. In the end  Seven wise thoughts shows the recall to inspirational sources very far from obsolete. Cuoghi could have recalled more traditional iconographies, such as the bloody painting Giuditta e Oloferne by Artemisia Gentileschi. He instead preferred to create a delightfully postmodern short circuit between shape and content. Same thing happens in another painting, Viscontea , depicting the birth of Milan’s blazon, distinguished by a snake swallowing a baby boy. The blazon was adopted by the Visconti family in the occasion of their achievement of the lordship of Milan (1395) and lately became the symbol of the city’s duchy. The waving snake , some kind of mythological basilisk , stood for Tarantasio’s dragon. According to the legend the giant snake prosecuted the population of Milan before being killed by Umberto Visconti, who found him in his cave eating a newborn. In this case as well Cuoghi draws from contemporary pop and cinematographic culture. The figure of a triumphing Umberto Visconti, waving his arm high to show the saved child, has Edward Scissorhands’ face , protagonist of the namesake movie by Tim Burton, who, in turn, got inspired by the gothic look of Robert Smith, leading voice of the band The Cure , who’s image has been used to characterized the protagonist of the movie by Paolo Sorrentino, This must be the place.

The theme of play , in which the dense plot of quotes and references is just a side branch, some kind of “game in the game”, surfaces especially in the elegant listing of courtly leisure. The great deer’s gift, Blood has a unique colour and A look back, are dedicated to the hunting iconography, while tourney , judging from the title, is the subject matter of Jousting in the weave. Typical masculine pastimes go along with the feminine ones, such as the carol, a medieval dance making his appearance in Five times in dreaming and in The unicorn’s dance. Paper cutting technique,  the art of cutting paper drawings, that Cuoghi pairs with watercolors in almost all artworks, is some kind of play, or better, a game of skill. This is a traditional practice, mostly developed in Asia – from India to China, to Japan and the Philippines – that’s been recently adopted by some contemporary artists. Just as many games of skill , paper cutting requires patience and precision and most of all an inclination to plunge into repeating an act until losing track of time. Like a mantra, or the embroidery exercise in Twenty-three springs and two cats, paper cutting introduces (or induces) the experience of a different time conception, free from the linear consecutio. This was defined by ancient Greeks Aion, personification of the eternal time, opposite to Chronos (the straight time of History). Eraclito depicted Aion as “ a child, busy moving figures on the  board” . In the Greek conception, play was intimately connected to the idea of a circular time. An idea we find back, in filigree, in the recurring circular scheme of Vanni Cuoghi ’s artworks. The orchard of sense and its circular labyrinth ; The unicorn’s dance and its central episode similar to a mandala ; Viscontea with the dragon in the shape of an ouroboros ; and finally Our lady of the butterflies with the centrifugal flight of the moths tracing a radial circle, are exemplars of this idea. Stated that  the concepts of “difference” and “repetition” , so precious to the philosopher Jacques Derrida, are founding elements of  play , likewise is the music, a topic that allows us to introduce Vanni Cuoghi’s last artwork.

This similarity between play and music, supported by the English verb to play, that indeed defines both the act of playing games and playing music, is the hidden theme behind La Folia , a performance – if you want –  conceived by the artist together with music composer Matteo Ramon Arevalos.  La folia (o Follia) is a Portuguese music theme dating back to XVI century, based on a defined melodic structure, to which the composer could introduce variations and improvisations. Getting to be part of the educated music in XVII century, la  Folia has been played by composers like Giovanbattista Lully, Arcangelo Corelli, Antonio Vivaldi, Alessandro Scarlatti, Johan Sebastian Bach and Georg Friedrich Händel. Händel’s adaptation , arranged by Leonard Rosenman, later became the soundtrack for the movie Barry Lyndon by Stanley Kubrik.

The variation by Matteo Ramon Arevalos composed exclusively for Vanni Cuoghi is played with a grand piano on the strings of which are placed little figures of renaissance knights and foot soldiers, painted by Vanni Cuoghi and mounted on copper platforms, give a metallic sound to the composition that recalls the clangor of the weapons. While the beat of the hammers moves squires on the piano strings, we watch , stunned, the breaking in of the battling armies. The performance, filmed by cameras and directed by Chiara Zenzani and screened during the public show at San Domenico Theatre in Crema, becomes a true multimedia work, gathering music, painting and video. Through La Folia Vanni Cuoghi seems to include war in the list of courtly leisure. Thus, even if in a fictional form, he ends up highlighting the dangerous bound between passions and play. However, while hunting and courtship , just to mention a couple of examples of entertainment loved by the aristocracy , appear all in all  harmless (at least for men) “War” – as written by William Cowper – “is a game that kings would never play, if their subjected were wise”.