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Crypto Series: Gioia e nostalgia nell’arte bambina di FourLeafClover

27 Giu

di Ivan Quaroni

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Nella cultura pop asiatica, e soprattutto in quella giapponese dominata dalla produzione di manga e anime, si è affermato uno stile super deformed, basato sulla rappresentazione caricaturale di personaggi dalle fattezze infantili, come, ad esempio, la testa grande, gli occhi enormi, il corpo goffo e i lineamenti morbidi e tondeggianti. Artisti contemporanei come Takashi Murakami, Yoshitomo Nara, Aya Takano, Chiho Aoshima ed altri appartenenti al movimento Superflat, hanno coscientemente ereditato lo stile ipertrofico e piatto dei mangaka. Infatti, i personaggi delle loro opere, quando non sono una citazione diretta di quelli disegnati da maestri come Hayao Miyazaki, ne ricordano comunque lo stile. 

Nelle deformazioni anatomiche e nelle ibridazioni antropo-zoomorfe usate da moltissimi artisti e illustratori asiatici, l’influsso di manga e anime si traduce essenzialmente nell’adesione alla cosiddetta estetica Kawaii, che nel Giappone contemporaneo indica un tipo di bellezza associata a sentimenti di timidezza e vulnerabilità tipicamente infantili. 

Il termine Kawaii è assimilabile al concetto anglosassone di Cuteness, che si è sviluppato in epoca vittoriana come conseguenza dell’idealizzazione del mondo infantile e che è utilizzato per indicare tutto ciò che è graziosocarinotenero

Cute può essere un bambino, un animale o anche un oggetto che possiede le caratteristiche di “piccolezza”, “incompiutezza”, ma anche “difformità”. Una cosa animata o inanimata è cute o kawaii quando possiede una natura tenera e, al contempo, mostruosa e commuovente, caratteristiche tipiche di molti personaggi manga come Doraemon, Hello Kitty e i Pokemon. 

L’estetica Kawaii fin dagli anni Ottanta non solo ha permeato profondamente la società giapponese in ogni ambito, irradiandosi dalla cultura popolare al mondo delle corporate e perfino delle istituzioni – tanto che ognuna delle 47 prefetture nipponiche possiede un proprio personaggio kawaii – ma, attraverso la diffusione di fumetti, cartoni animati e videogiochi, ha conquistato l’immaginario di massa globale. 

A World of Hope, 2022, Video (MP4)

Naturalmente, il mondo della Crypto Art non ha fatto eccezione, come dimostra la abnorme pletora di linguaggi derivati dallo stile dei manga che oggi occupano una larga fetta delle produzioni NFT. Nel composito universo di artisti che hanno fatto proprio la grammatica kawaii, magari adattandola alla sensibilità della propria cultura d’origine, c’è anche la tailandese FourLeafClover, autrice di immagini gremite di personaggi infantili che suscitano sentimenti di tenerezza. 

Appassionata disegnatrice fin dall’infanzia, FourLeafClover è un’artista autodidatta che utilizza programmi come Clip Studio e Pro-create per realizzare immagini gioiose e divertenti. L’ispirazione per le sue opere risale, come ammette lei stessa, ai tempi in cui lavorava nel campo dell’editoria: “Vedevo che i libri a cui lavoravo rendevano la gente felice e, così, ho deciso di applicare questo concetto alla mia arte: voglio che chiunque veda le mie opere sorrida e sia felice”. Non è un caso, peraltro, che abbia scelto come proprio nome quello di una pianta erbacea tradizionalmente associata alla fortuna e dunque a sentimenti di ottimismo e positività. 

FourLeafClover ha esordito nel mondo degli NFT nell’agosto 2021, con la serie di illustrazioni mintate su OpenSea intitolata Go BaBy Go !!, popolata di personaggi infantili che sarebbero diventati tipici del suo stile disegnativo. Tra le molte collezioni lanciate dall’artista, con le quali si è garantita un posto stabile nel mondo degli NFT, ci sono anche quelle derivate dalla reinterpretazione d’icone crypto come le mitiche Bored Apes di Yuga Labs (Ape BaBy Ape !!) e Pepe The Frog (Fake Rares), il personaggio nato dalla matita di Matt Furie per il fumetto Boy’s Club, poi diventato popolare attraverso la strabordante produzione di meme circolati in rete e su Twitter.

L’artista si è fatta un nome non solo grazie al costante impegno nella creazione di illustrazioni e brevi video che attingono alle memorie infantili e che spesso sono caratterizzate da ambientazioni nostalgiche, come nel caso della serie Life Baby Life, ma anche attraverso la collaborazione con le community di portali come Sappy Seals, Boki, Alien Frens, Uwu Crew e Squishverse, per i quali ha realizzato personaggi originali e adesivi animati che rappresentano il suo personale contributo all’estetica Kawaii

FourLeafClover è talmente convinta del potenziale creativo dell’immaginario infantile da aver creato insieme a @HGESOL il progetto ABC abracadabra sul marketplace di Magic Eden, che consiste in una collezione di diecimila NFT realizzati nel tipico stile dei disegni infantili per ricordare a tutti la gioia della creazione prima dell’avvento dell’età adulta.

Ironia, gioia e leggerezza caratterizzano tutte le sue creazioni, spesso influenzate non solo dall’estetica Kawaii, ma anche dalla cultura pop occidentale. Molti, infatti, sono i riferimenti alle saghe cinematografiche di Star WarsHarry Potter e Back to the Future soprattutto nella serie di lavori del ciclo Metaverse, dove i suoi personaggi infantili fuggono dalla realtà quotidiana per immergersi nell’universo virtuale dei propri eroi.

A questo ciclo appartiene in qualche modo anche l’opera intitolata A World of Hope (si può vedere qui: OpenSea. Si tratta di un’animazione da cui traspare la preoccupazione dell’artista per un mondo che si avvia verso un’inevitabile rovina. La linea narrativa rispecchia quella di altre opere analoghe, che mostrano i momenti immediatamente precedenti e successivi all’immersione nel Metaverso tramite un visore. In A World of Hope il protagonista, proveniente da una megalopoli apocalittica, devastata dalle fiamme, si rifugia virtualmente in una dimensione illusoria, in cui il mondo non è ancora stato distrutto dalle conseguenze del cambiamento climatico. Il vero tema dell’opera è, però, la speranza, qui rappresentata dal desiderio di vivere una dimensione esistenziale, dove l’uomo e la natura convivono in perfetta armonia. 

Crypto Series: Le rovine dell’antropocene nell’arte di Nicola Caredda

26 Giu

di Ivan Quaroni

Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)

Nonostante le origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno inizialmente favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso fa riferimento non solo alla corrente storica fondata da André Breton, ma a tutte le forme di arte fantastica. Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti provenienti dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è diffuso anche in Italia, influenzando numerosi artisti, tra i quali anche Nicola Caredda.

Nato a Cagliari (Italia) nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è prima di tutto un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi fantastici e suggestioni distopiche. Nel passaggio dalla pittura agli NFT – presenti marketplace di SuperRare -, l’artista è riuscito a trasferire l’atmosfera sospesa e rarefatta dei suoi dipinti, dominati da macerie e detriti dell’età post-moderna, in una serie di animazioni distorte e allucinate, che danno corpo e solidità alle sue creazioni. 

I suoi paesaggi, realizzati con la precisione di un miniaturista, mostrano i resti di una società trascorsa, i reperti di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo un’ipotetica quanto plausibile catastrofe nucleare oppure in seguito a un’apocalisse ecologica, è un globo disabitato e silente, una sorta di grande natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, scheletri architettonici e malinconici residui della società dei consumi. 

Everyone at Rolling Loud (dettaglio), 2023, Video (MP4)

Influenzato tanto dalla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e dagli artisti del Realismo Magico italiano e tedesco tra le due guerre, quanto dal contemporaneo Pop Surrealismo americano, l’artista ha costruito un linguaggio visivo che trasferisce il gusto decadente per le rovine e la passione per il mistero nel vocabolario iconografico della Modernità Liquida raccontata da Zygmunt Bauman. 

Le sue visioni notturne, disseminate di angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati o elettrodomestici abbandonati, sommersi da una proliferante vegetazione, sembrano la perfetta rappresentazione della fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoermer, sarebbero la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.

Un altro modo di interpretare le opere di Caredda è, però, quello di considerarle come la raffigurazione dello stato di degrado delle moderne periferie urbane, che nella loro atmosfera di malinconico abbandono prefigurano la futura morfologia di un mondo post-apocalittico. È il caso di Everyone at Rolling Loud (si può vedere qui: OpenSea), in cui l’artista rappresenta ciò che resta alla fine di un rito collettivo come il Rollling Loud – il più importante festival di musica Rap e Trap -, quando, finita la musica, echi e vibrazioni sonore riverberano ancora nell’atmosfera satura di un luogo desolato e fatiscente, divenuto stranamente intimo e familiare.

Everyone at Rolling Loud, 2021, acrilico su tela, 120×100 cm

Crypto Series: Oggetti di lusso e forme simboliche. Iper-temporalità nelle opere di 1500Labs

25 Giu

di Ivan Quaroni

Never-ending Walk, 2023, still da video (MP4)

La rappresentazione estetica del tempo è uno dei problemi che hanno da sempre ossessionato gli artisti, che ne hanno fatto uno strumento di riflessione sulla natura caduca ed effimera dell’esistenza. Ne sono un esempio sia l’iconografia dedicata a Le tre età dell’uomo di pittori del Rinascimento italiano come Giorgione e Tiziano – reiterata nei secoli successivi anche da artisti come Anton Van Dyck, Caspar David Friedrich, Arnold Böcklin, Gustav Klimt e Pablo Picasso -, sia il genere più tardo, delle Vanitas, inaugurato all’inizio de XVII secolo con la comparsa di dipinti che ritraevano oggetti o simboli dell’inesorabile trascorrere del tempo e, quindi, della fugacità della vita terrena: fiori e frutti appassiti, candele spente, strumenti musicali, teschi e ossa umane usati come memento mori

La natura inafferrabile e intangibile del tempo, che sfugge alla percezione concreta e materiale della vita quotidiana, ha influenzato molte delle sperimentazioni dell’arte moderna, dall’interesse degli impressionisti per i mutamenti di luce durante il giorno e le diverse stagioni dell’anno, alle interrogazioni sul rapporto tra spazio e tempo nelle scomposizioni cubiste e futuriste, fino alle indagini surrealiste sulla dimensione dilatata del tempo interiore. 

Tale interesse riecheggia anche nelle ricerche concettuali contemporanee che hanno tentato compendiare il flusso temporale in sequenze di dati, come nel caso dei Date Paintings di On Kawara che riportano su un fondo monocromo una semplice data scritta con un font impersonale o dei Détails di Roman Opalka che dal 1965 dipinge su tela sequenze di numeri progressivi, associando a conclusione di ogni opera lo scatto di un autoritratto fotografico che documenta il lento processo d’invecchiamento del proprio volto. 

La temporalità è, in un certo modo, anche il tema attorno a cui ruotano le opere NFT di 1500Labs, sigla che raccoglie i lavori a quattro mani dell’artista brasiliana Debora Hirsch e dell’argentino Martin Gimenez Larralde, entrambi con alle spalle una carriera artistica che li ha portati a esporre individualmente in musei, gallerie d’arte e fiere internazionali e a collaborare, come team, alla redazione della rivista «E il topo», interamente gestita da artisti e performer. 

Back to Stones, 2023, still da video (MP4)

1500Labs – il cui nome deriva in parte dalla trasposizione in numeri arabi della cifra romana MD (millecinquecento, appunto), che coincide con le iniziali dei nomi degli artisti (Martin e Debora) – è un progetto artistico nato appositamente per operare nella sfera dell’arte digitale legata a blockchain, NFT e metaverso, attraverso una ricerca che s’interroga sul significato di oggetti e beni di consumo legati alla moda e all’industria del lusso e sulla metamorfosi del loro valore nel tempo. 

In questo senso, Milano, capitale della moda e del design e sede operativa di 1500Labs, offre un punto di vista privilegiato per osservare l’evolversi di un settore caratterizzato da una maniacale cura estetica nel modo di comunicare, esporre e vendere beni voluttuari come capi d’abbigliamento, accessori e oggetti esclusivi riservati a un mercato elitario. Il loro modo di operare prevede, in un primo momento, la raccolta di materiale documentario che viene poi radicalmente modificato digitalmente per produrre brevi animazioni sonorizzate.  

Animal Meeting, 2023, still da video (MP4)

Passeggiando nel centro di Milano e tra le vie del cosiddetto Quadrilatero della Moda (via della Spiga, via Montenapoleone, Corso Venezia e Via Manzoni), i due artisti fotografano non solo prodotti iconici come borse, scarpe, abiti, oggetti di design, gioielli, monili o pezzi d’antiquariato, ma anche vetrine, allestimenti di negozi, showroom e botteghe che espongono merci lussuose. Queste immagini sono poi rielaborate e trasformate attraverso la realizzazione di video-animazioni digitali costruite su curiose associazioni tra oggetti antichi e moderni, poi sottoposti a un processo di reciproca metamorfosi stilistica. Nelle loro opere, infatti, i prodotti dei brand di moda o design sono trasfigurati nelle forme misteriose di reperti archeologici, che forse, in passato, ricoprivano un’analoga funzione di status symbol. Il risultato è un morphing che chiarifica quella che Martin ha definito “la natura iper-temporale di questi oggetti superflui”, in cui passato, presente e futuro sono condensati nella sintesi delle immagini create da 1500Labs. Non si tratta, dunque, dell’ennesima riflessione sul carattere effimero dei prodotti di consumo – e con essi della vita stessa del consumatore -, quanto, piuttosto, di una indicazione del carattere atemporale dei meccanismi di mercificazione che, oggi come ieri, reificano le opere dell’ingegno e della creatività umani. 

Negli NFT di 1500Labs, gli oggetti del presente si intrecciano con quelli provenienti da altre linee temporali, generando un cortocircuito che rimanda al concetto del “fantasma” lacaniano. Secondo lo psicanalista Jacques Lacan, il “fantasma”, come pure l’opera d’arte, vive in una dimensione sovrastorica, che è immobile rispetto alla dimensione storica del desiderio. La sua funzione, simile al motore immobile di Aristotele, è quella di generare il desiderio a partire da una posizione extratemporale. In altre parole, come affermano i due artisti, “lo scenario in rapida evoluzione ci dà l’impressione che il tempo presente appartenga al passato già dall’inizio”. Visivamente, questa impressione si traduce in quello che Debora Hirsch definisce “un processo di rarefazione quasi istantaneo degli oggetti esclusivi in forme enigmatiche e simboliche”. Una visione che, però, non esclude la possibilità di interpretare il lavoro di 1500Labs anche come una critica al consumo di prodotti di lusso. “Vorremmo sottolineare”, spiegano Debora e Martin, “la natura predatoria dell’industria dei beni di consumo, occupandoci in futuro anche di luoghi e prodotti del mercato dell’arte”.

Back to Stones, 2023, still da video (MP4)

Ne sono un esempio le cinque video-animazioni sonorizzate – intitolate Animal MeetingBack To StonesNever-ending WalkThe Green Light e At the Speed of Nature (si possono vedere qui: https://superrare.com/spaces/poseidondao/gallery) – che portano all’interno dello spazio della Crypto Art l’universo visivo di 1500Labs, costruito su accordi e consonanze tra mondo antico e contemporaneo e sull’osservazione dei circuiti di circolazione e consumo di beni voluttuari e simbolici.

Crypto Series: L’universo magico di Laprisamata

5 Gen

di Ivan Quaroni

Tra i linguaggi e le correnti che caratterizzano la scena artistica degli NFT, una delle etichette più ricorrenti è quella di “Pop Surrealism”, uno stile per la verità molto variegato che comprende numerose influenze, dai cartoni animati alle illustrazioni, dalla fantascienza di serie B ai Graffiti, dai tatuaggi alla controcultura psichedelica degli anni Sessanta. Il movimento del Pop Surrealism (chiamato anche Lowbrow Art) è emerso negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, dopo una lunga gestazione fatta di ibridazioni linguistiche, incroci stilistici e contaminazioni che si sono succedute nel crogiuolo della West Cost californiana dal secondo dopoguerra ad oggi. L’esplosione del movimento, tenuto a battesimo dal pittore Robert Williams, è stata favorita dal contributo di riviste specializzate come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno portato alla ribalta una galassia di artisti provenienti da differenti settori creativi come il graphic design, l’illustrazione e il fumetto e che approdavano per la prima volta alla dimensione dell’arte tout court con uno spirito rinnovato, imbevuto di cultura pop e tentazioni fantastiche. Insomma, una rivoluzione per molti simile a quella che quarant’anni più tardi avrebbe portato alla nascita della Crypto Art.

A differenza di altri stili, il Pop Surrealism non è identificabile con una grammatica unitaria e definita, ma comprende una pletora di categorie estetiche e sfumature linguistiche anche molto diverse tra loro. 

Dire che quella di Luis Toledo, aka Laprisamata, è arte pop surrealista significa fare un’affermazione incontestabile ma, allo stesso tempo, eccessivamente generica. Per conoscere questo artista spagnolo, vincitore di numerosi riconoscimenti (tra cui il Wacom Award, il Pantone Award e il Behance National Design Awards) e capire come sia nato e si sia sviluppato il suo stile unico è necessario gettare uno sguardo alla sua biografia. 

Alla sua formazione, hanno, infatti, contribuito tanto le opere di grandi maestri del passato come Hieronymus Bosch, Diego Velasquez e Francisco Goya, viste per la prima volta nelle sale del Museo Prado di Madrid, quanto i dipinti, le sculture e le architetture sacre dell’arte barocca. Tutti elementi che, durante la gioventù, si fondono con la sua passione per la musica e per la cultura underground. Non a caso, da giovane si fa le ossa prima disegnando poster di concerti e copertine di dischi per la scena musicale alternativa, poi lavorando come art director per diverse etichette discografiche, fino a fondare il proprio studio di progettazione, il PrisaMata di Madrid. Contemporaneamente, Luis Toledo inizia costruire un linguaggio personale, basato sulla commistione di processi analogici e digitali. Usa soprattutto la tecnica del collage, ritagliando immagini curiose e interessanti da giornali, riviste e libri che poi rielabora utilizzando Photoshop ed altri software. Da questa fusione di cut-up e disegno digitale, nascono lavori ricchi di suggestioni mitologiche, in cui affiorano memorie dei viaggi dell’artista nel Mediterraneo – alla scoperta dell’arte classica greco-romana e delle origini della cultura iberica – e in America Latina e in Oriente – dove subisce il fascino delle iconografie sacre e del folclore. 

Laprisamata, Saint in the Blue Desert, 2022, Poseidon DAO Deploy Collection

Il risultato di queste stratificate influenze multiple è la nascita di uno stile iper-cromatico, caratterizzato dalla presenza di figure costruite con texture e pattern geometrici che richiamano sia le tessere dei mosaici romani e bizantini e le pagine miniate dei Libri d’Ore, sia le ornamentazioni dei templi Hindu e le forme circolari dei mandala tibetani. Una cornucopia di forme ibride, mutanti, in continua proliferazione, che descrivono personaggi e luoghi di una dimensione fantastica, minuziosamente progettata dall’artista in ogni suo dettaglio attraverso la creazione di una affascinante mitologia. 

Il mondo descritto nelle turgide iconografie di Laprisamata si chiama The Blue Desert, o anche The Desert of the Blue Men, un luogo, come spiega l’artista, “where the Iberians will live, an ancient sea where priests perform rituals and sacrifices, and where the three-eyed skull and black felines are worshipped”. Questa terra immaginifica – “where elms used to grow and where some olive trees, acacias, almond trees and thyme now survive” – è popolata da tribù in lotta, animali sacri e vestali che invocano esseri mitici e primordiali come i Titani, impiegati nei combattimenti e nella costruzione di torri e mura fortificate. Accanto ai Titani, detti anche Sanint, e alle Sacerdotesse Gialle, in questo universo desertico dominato dalla magia, compaiono chimere dai nomi enigmatici come Larein TimasDracon Driene e Triene Vulpes, che sembrano la variante moderna, digitale, ma soprattutto psichedelica, degli esemplari di un Bestiario gotico. 

Giovanni Motta. Game Over. Play Again?

9 Apr

di Ivan Quaroni

Huge Me, 2021, acrilico su tela, 120×120 cm

Intro

La pittura è una “tecnologia”. La parola deriva dalla combinazione di due termini del greco antico, techne (arte, abilità) e loghía (discorso, spiegazione), che insieme significano “trattazione sistematica su un’arte”. Nella concezione classica non c’è distinzione tra arte e tecnica. Entrambe comprendono ogni prodotto dell’abilità umana, si tratti di pittura, scultura, architettura o di qualsiasi altro manufatto e utensile la cui costruzione richieda una conoscenza pratica. Più tardi, nella cultura romana, venne introdotto il concetto di Ars, ma anche in questo caso con l’accezione di “abilità”, cui doveva aggiungersi un aggettivo che ne specificasse il campo: Ars poetica (la poesia), Ars amandi (l’arte amatoria), Ars venandi (la caccia) e così via. Fu nel XVII secolo che lo studioso fiorentino Filippo Baldinucci scrisse, per la prima volta, delle “arti belle dove s’adopera il disegno” riferendosi alla pittura, scultura e architettura. Oggi, alla luce dell’esplosione dell’arte digitale, della crypto art, degli NFT, mentre assistiamo all’esponenziale ampliamento delle possibilità espressive nel campo delle arti visive, ci viene spontaneo recuperare l’antica definizione dei greci. Arte e tecnologia sono intrecciati indissolubilmente nei nuovi linguaggi e non si può essere artisti digitali senza essere anche tecnici che conoscano il funzionamento di software di elaborazione grafica, di animazione, di modellazione 3D e che sappiano agevolmente muoversi tra piattaforme come Rarible, SuperRare o Opensea, che consentono agli utenti di vendere e acquistare NFT (Non Fungible Token) e i diversi social media in cui si approfondiscono temi e argomenti legati all’attuale Rinascimento digitale che promette di ridefinire il concetto stesso di “belle arti”.

L’arte di Giovanni Motta s’inquadra in questo epocale momento di transizione, configurandosi come una pratica, o se preferite una techne, capace di sommare le abilità tecnologiche della digital art con quelle artigianali della pittura propriamente detta. 

Tutte le sue opere nascono in un ambiente digitale, sono, cioè, il prodotto dell’utilizzo di software di elaborazione digitale come Photoshop o Cinema 4D, che successivamente subiscono un ulteriore processo di raffinazione nella dimensione analogica della pittura tradizionale. I suoi lavori possono, quindi, assumere la forma di file Jpeg, Gif o MP4, ma anche avere la consistenza fisica di disegni su carta o di dipinti su tela realizzati manualmente con una precisione quasi maniacale. Questa combinazione di procedure, questa multimedialità, non solo definisce l’estensione del suo campo d’azione ma, corrisponde a una volontà programmatica di rivolgersi a un pubblico ben più ampio di quello convenzionalmente ristretto dell’arte contemporanea. Insomma, Motta vuole trasmettere il suo messaggio visivo a una platea virtualmente molto più estesa, che include il pubblico dei Baby Boomer e della Generazione X, dei Millennial e della Generazione Z. 

Message

Il tema, cioè il contenuto, delle immagini create da Giovanni Motta, è tanto semplice quanto potente: la ricoperta del bambino interiore, la trasmissione di una potenzialità energetica e vitale che risiede nella memoria di ogni individuo. Il bambino interiore è un elemento primordiale della personalità che deve essere recuperato nella vita adulta, un serbatoio pulsionale, emozionale, profondamente vitalistico che ha tutte le qualità dell’archetipo. 

Carl Gustav Jung lo chiamava puer aeternus, l’essere incontrollabile, caotico, passionale, dominato dalle emozioni. Insomma, per dirla con Friedrich Nietzsche, l’incarnazione del principio dionisiaco, orgiastico, furioso che si identifica con gli stati di esaltazione ed ebbrezza spirituale e fisica. La sua ombra, il suo negativo è il senex, l’uomo maturo, disciplinato, controllato, razionale, obbediente al principio apollineo, espressione dei concetti di armonia, ordine, proporzione. L’immaginario pittorico, ma anche esistenziale, di Giovanni Motta è la traduzione visiva di questa strenua volontà di reintegrazione del bambino interiore nella dimensione quotidiana. Reintegrazione condotta attraverso il recupero mnemonico e iconografico di una congerie di segni e simboli transazionali, che catapultano l’osservatore nel meraviglioso caos emozionale dell’infanzia e della pubertà. 

Appartenendo alla cosiddetta Generazione X ed essendo cresciuto, dunque, negli anni Ottanta, non stupisce che i segni e i codici dell’età evolutiva assumano, per lui, la forma di oggetti riconducibili a quel decennio. I manga e gli anime giapponesi, i cartoni animati americani e i primi videogame, la tecnologia user-friendly delle origini, con quel misto di semplicità e candore, e tutto il catalogo merceologico del consumismo degli Eighties compaiono all’interno dei suoi dipinti come epifenomeni, rivelazioni che corrispondono a stati d’animo perduti tra i meandri della memoria, rimossi dagli strati coscienziali della vita adulta. 

Fruit Ninja, 2021, acrilico su tela, 140×120 cm

La personificazione del puer aeternus di Giovanni Motta è Jonny, un bambino che sembra uscito dalla matita di un mangaka, la cui morfologia anatomica è quella tipica dell’individuo in crescita, col corpo minuto e la testa ipertrofica. Jonny è la controfigura infantilizzata dell’artista, l’avatar puberale, il fantasma interiore, la conformazione estetica di una proiezione inconscia, ma è anche, per estensione, un segnale, un simbolo che indica un’assenza, che sottolinea il vulnus, la ferita, lo squarcio che dilania l’esistenza dell’uomo adattato e uniformato. 

Motta usa Jonny come monito per sé stesso e per gli altri, ma anche come dimostrazione empirica che la guarigione, quella di tutti, è possibile attraverso la riscoperta e il recupero di questa entità imperitura, che ci libera dal tempo e dalla senescenza. 

Ad eccezione del dipinto, intitolato To be continued, in cui la figura del bambino è resa con un linguaggio mimetico e realista, le tele dell’artista mostrano Jonny come una sorta di costrutto astratto, come un’identità sintetica, generica, ma pur sempre customizzabile, progettata per assumere multiformi aspetti. Nei quadri di Giovanni Motta Jonny è un’entità sospesa, fluttuante, instabile, che trascina nel suo vortice una pletora di oggetti, complementi o appendici della sua personalità che ne rivelano gusti e passioni, desideri e aspirazioni. Jonny non tocca mai terra, vola, come i cowboy virtuali della mitologia cyberpunk di William Gibson, come l’altro Johnny, il Mnemonico[1], ma il suo scopo non è quello di infrangere lo strapotere delle multinazionali, ma di perpetuare la dimensione del gioco o, meglio, l’esperienza entusiastica del piacere, sia esso legato a un oggetto, un cibo, un giocattolo, un personaggio dei videogame. Anche “entusiasmo” è una parola che deriva dal greco antico (enthusiasmós), che significa “Dio dentro di sé”, “invasamento divino”. Non indica un semplice stato d’animo, un afflato di partecipazione emotiva, ma una forza attiva, travolgente, ilare, contagiosa, che, insomma, ci permette superare ogni ostacolo e di realizzare i propri sogni. Motta cerca l’enthusiasmós che anima il bambino interiore, gli dà corpo, sostanza pittorica e plastica, semplicemente perché le immagini sono potenti attrattori, mille volte più efficaci delle parole. 

Forgetting, 2021, acrilico su tela, 120×120 cm

Process

Tutta l’arte si fonda sulle idee, le matrici di ogni forma, le stringhe di codice che programmano la realtà tangibile e intangibile delle opere. Ma le idee non sono concetti. Non sono nemmeno parole. Sono immagini. Nella procedura creativa di Giovanni Motta, la memoria è il serbatoio da cui affiorano visioni sinestetiche, forme associate a contenuti tattili, olfattivi, emotivi. Questo tipo di immagini non si trovano su google, ma nei recessi profondi del subconscio. All’origine dei lavori dell’artista c’è, dunque, un particolare modo di raccogliere le informazioni, una metodologia di scandaglio interiore che è, essa stessa, una forma di tecnologia, un sofisticato strumento contemplativo chiamato meditazione. Motta usa la tecnica della meditazione regressiva per “tornare a vite precedenti” e “raccogliere e circoscrivere singoli eventi del periodo della pubertà”. Gli oggetti, i colori, le atmosfere presenti nei suoi dipinti sono informazioni derivate dalle sessioni meditative. Ricordi, impressioni, sensazioni, annotati sotto forma di appunti e bozzetti, costituiscono, dunque, il materiale primario per la costruzione dell’opera. 

In tutti i processi di regressione che sono all’origine di questi lavori di Motta, sono tre gli elementi ricorrenti: i videogame, i cartoni animati e l’estate, tutti riconducibili a esperienze di gioia, piacere, divertimento. “Mi sono accorto”, confessa l’artista, “che tutti i miei viaggi nel tempo riguardavano un bambino che voleva giocare e non voleva fermarsi, ma, come si sa, tutti i giochi finiscono.” Sfruttando questa capacità di retrospezione, l’artista cerca di risolvere il problema di come recuperare alla vita adulta l’entusiasmo del bambino interiore, la sua naturale propensione al godimento. 

La sua arte – pazientemente costruita con l’uso di software e poi declinata nei linguaggi della pittura o della scultura – ruota ossessivamente attorno a questo tema. Motta usa icone dell’immaginario videoludico (da Mario Bros a Pac-Man), richiami ai giocattoli vintage (dai soldatini ai Lego, dal cubo di Rubik ai dinosauri di plastica) allusioni ai cibi che piacciono ai bambini (dalla torta agli hamburger, dalle caramelle alle bevande gassate), per rappresentare quegli oggetti del desiderio che simbolizzano il Principio di piacere Freudiano (Lustprinzip)[2], cioè l’istintiva ricerca di appagamento che domina l’esperienza infantile. Produrre immagini digitali è una condizione necessaria ma non sufficiente del suo processo creativo. Le immagini devono anche tradursi in oggetti tangibili, in dipinti e sculture che amplificano il piacere e il godimento dell’osservatore attraverso l’evidenza sensibile e percettiva. Si può, tuttavia, interpretare tale attitudine come l’espressione della volontà di riconnettersi alla grande Storia dell’arte e alla pratica creativa nella sua dimensione squisitamente artigianale.

Jonny & Sam, 2021, acrilico su tela, 140 cm x 120 cm

Outro

In tutti i dipinti di Giovanni Motta l’enthusiasmós è codificato nella forma della metafora videoludica. La condizione del giocatore, estraniato dalla realtà quotidiana, è rappresentata attraverso l’immagine della fluttuazione di Jonny. La sua pneumatica sospensione simbolizza il flusso dinamico del gioco, una dimensione di dilatazione sensoriale in cui la percezione del tempo è alterata da massicce dosi di endorfina che riducono i livelli di stress, ansia e irritabilità. Secondo Matteo Bittanti, uno dei massimi esperti di Digital Game Culture, “Il videogame è una macchina della felicità: è appositamente sviluppato per soddisfare il giocatore per mezzo di una gratificazione istantanea”[3].  Ma per Giovanni Motta il videogame è – come i giocattoli, i cibi e i beni di consumo -, soltanto un simbolo. Quel che conta è lo stato d’animo del giocatore, quella sensazione di “divino invasamento” che accompagna i momenti di euforia e di stupore della fanciullezza, un patrimonio emozionale che sembra destinato a sbiadire nel tempo. In un certo senso, i dipinti dell’artista, e specialmente quelli più narrativi come Huge meJonny & Sam o Fruit Ninja, sono dei dispositivi visuali di intensificazione vitale. Essi si collocano in una posizione antitetica rispetto al genere delle Vanitas, le nature morte che alludevano alla condizione effimera dell’esistenza interpretando il memento mori dei frati trappisti, con immagini di allegoriche. I Memento vivere di Giovanni Motta sono come l’ultimo gettone nella tasca di un bambino, quando compare sullo schermo la scritta Game Over. Insert coin to continue… La moneta che ti serve per fare un’altra partita. O un altro giro di giostra nel luna park della vita. 


[1] William Gibson, Johnny Mnemonic, in Bunring Chrome, 1986, Arbor House, New York.

[2] Sigmund Freud, Jenseits des Lustprinzips, 1920, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Wien.

[3] Grazia Casagrande, I videogiochi e la loro filosofia: intervista a Matteo Bittanti, 27 maggio 2008, Wuz.it, https://www.wuz.it/intervista-libro/2224/intervista-matteo-bittanti.html.


Giovanni Motta – GAME OVER play again?
a cura di Ivan Quaroni
Gallery Func
No.13, Lane 182 Fumin Road, Jingan District, Shanghai, China

Opening: Domenica 18 Aprile 2021
Durata: 24 Aprile – 6 Giugno 2021
Riferimento: Ric Liu


Per ulteriori informazioni:
info@giovannimotta.it
ric@galleryfunc.com
Elena Stizzoli – assistente personale Giovanni Motta – Tel. +39 340 1295227
elena@giovannimotta.it
Sito web:
http://www.giovannimotta.it