di Ivan Quaroni
Nel suo famoso studio intitolato Arte e illusione, Ernst Gombrich ricordava che già nell’antichità classica Plinio aveva compendiato la distinzione tra realismo e illusionismo sostenendo che «la mente è il vero strumento della vista e dell’osservazione, [mentre] gli occhi agiscono come una sorta di vaso che riceve e trasmette la parte visibile della coscienza»[1]. Si tratta di una precisazione che si attaglia perfettamente alla pittura di Nicola Nannini, il cui realismo schietto, maturo, otticamente appagante non scade mai nella categoria dell’illusionismo e della pura mimesi. Tant’è che perfino uno dei suoi maggiori estensori critici, Roberto Cresti, qualche anno fa ribadiva che, nel suo caso «non si tratta più di dimostrare d’essere capace di rendere un particolare o un contesto tratto dal mondo esterno, ma di costruire l’esterno attraverso la realtà dell’interno, affinché i ruoli si scambino»[2].
Certo, la pittura di Nannini evoca la realtà con sguardo acuto, nitido, restituendoci il sapore di paesaggi, edifici e persone come quella di pochi altri pittori italiani contemporanei. Eppure, non bisogna scambiare il suo modo di “vedere” la realtà con una mera registrazione ottica. Ancora Gombrich ammoniva il lettore a non confondere il “vedere” con la “sensazione visiva” e ricordava l’importante ruolo della memoria nella pratica pittorica. A tal proposito citava, infatti, il grande paesaggista inglese John Constable, il quale sosteneva che «l’arte dà piacere con il ricordo non con l’inganno»[3].
Della pittura di Nannini – apprezzata anche per la capacità di restituire il sapore, quasi allucinato, di certi squarci realistici – è importante rilevare l’aspetto squisitamente “mentale”. Infatti, se la sua tecnica, che alcuni hanno accostato alla grande tradizione fiamminga e olandese ed altri alla Metafisica ferrarese, può corroborare l’impressione di una pittura veristica – più vera del vero -, la presenza nei suoi lavori di alcuni espedienti reiterati nel tempo – come, ad esempio, l’abitudine di lasciare abbozzati il margine inferiore e talvolta i bordi della tela, quasi per mostrare la natura fittizia della visione, oppure l’inserzione di personaggi nel paesaggio come se si trattasse di pezzi di un collage -, ci dicono che l’artista, più che al problema della mimesi illusionistica, è interessato alla rappresentazione di quel che non si può rilevare coi sensi. Non deve sorprendere, a tal proposito, se a commento del convincimento leonardesco secondo cui la pittura è un procedimento tutto mentale, qualche anno fa il compianto Alberto Agazzani notava che «non esiste e non esisterà mai un pittore che desidera fermarsi all’apparenza delle cose, soprattutto un pittore figurativo»[4].
Da pittore figurativo, Nicola Nannini ha esplorato principalmente i generi del paesaggio e del ritratto, cercando spesso di farli coincidere o, meglio, di far apparire sulla morfologia del primo, le fisionomie del secondo. I suoi dipinti più celebri sono quelli che ritraggono le piatte e silenti geografie della Padania – toponimo che non ha qui nessuna accezione politica, dato che deriva da Padus, il nome latino del fiume Po’. Sono luoghi che l’artista conosce fin dall’infanzia e che ha continuato a frequentare con gli occhi e con la memoria, fino a trasformarli in metafore di una condizione interiore di incantata sospensione.
Accadde tutto una domenica mattina, 2023, olio su tela, cm 72×102
Una presenza constante in questi paesaggi piani, fatti di distese d’erba attraversate da viottoli costeggiati da rogge, tagliati da fossi o intersecati da strade appena asfaltate, sono edifici isolati, abitazioni monofamiliari dai luccicanti infissi in alluminio anodizzato, che non emanano il fascino pittoresco delle antiche cascine, delle vecchie masserie o delle case coloniche ma che, tuttavia, mostrano la brutale schiettezza di certa architetturada geometri, insomma di quel tipo di edilizia residenziale che caratterizza gran parte dei sobborghi e delle provincie italiane. Eppure, con questo stesso materiale iconografico Nannini riesce a fare quel che David Lynch e Tim Burton hanno fatto con la visione stereotipata del sobborgo americano. E, cioè, creare una geografia simbolica dell’isolamento esistenziale che è, al tempo stesso, una topografia di memorie, ovvero di tutte quelle cose aleatorie, impalpabili e invisibili, appunto, che un vero pittore figurativo ha l’ambizione di rappresentare.
Venendo ai ritratti, presenti fin dagli esordi nei paesaggi di Nannini, non si può, ignorare come sovente essi abbiano una qualità fantasmatica, una consistenza, per così dire, evanescente. Soprattutto in alcune opere dei primi anni Duemila, dove la presenza umana si aggrega in spettrali cortei funebri che attraversano nottetempo silenziose piazze italiane o planano, da un cupo cielo parigino, sulle sponde dell’Île de la Cité. Ritratti di abitanti associati a villette a schiera e case unifamiliari caratterizzano, invece, le opere successive, ad esempio quelle della serie Houses, dove all’evanescenza si sostituisce l’effetto collage, ottenuto dipingendo i personaggi come fossero elementi isolati, che fanno da corredo al paesaggio sub o extra urbano.
Nella pittura di Nannini il genere del ritratto sembra raggiungere una completa autonomia dal paesaggio solo nella serie intitolata Type, composta di grandi figure intere a grandezza naturale che formano un analitico regesto di caratteri tipologici, ognuno dei quali è corredato da una gamma di accessori, oggetti o feticci che aiutano l’osservatore a sceverare la natura di ciascun soggetto. Eredi dei ritratti della serie Type sono le minute carte Senza titolo che costituiscono quasi una versione portatile di quel regesto, qualcosa che potrebbe stare comodamente nei comparti della duchampiana Boîte-en-Valise.
Un nuovo tipo di interpolazione tra paesaggio e ritratto è quello che caratterizza la recente produzione di Nicola Nannini, che approfondisce il dialogo tra i due generi pur continuando a riconoscere a ciascuno di essi una sorta di indipendenza. Quel che troviamo nei suoi ultimi racconti visivi sono, da una parte, soggetti già noti come cascine, caseggiati e abitazioni, immersi in una pianura che potremmo definire – per usare un’espressione di Giovanni Lindo Ferretti – “densamente spopolata”, quel genere di edifici che, insomma, sono divenuti oramai simbolo di una condizione di provincialità quasi archetipica e universale, dall’altra, una pletora di personaggi spiazzanti, geograficamente incongrui. Ci sono, infatti, accanto alle figure dei “locali”, una schiera di figure letteralmente catapultate da un altro contesto culturale, quello dell’America degli anni Cinquanta o meglio delle sue molteplici rappresentazioni cinematografiche.
Questo sorprendente accostamento all’interno delle opere di Nannini produce un effetto di alterazione della continuità spaziotemporale che, oltre ad essere il segno di una felice libertà espressiva, serve a rimarcare il carattere universale delle sue immagini, non più riferite a una precisa cultura o area geografica. Poco importa, infatti, se alle origini delle osservazioni dell’artista ci sono scorci e vedute della piana ferrarese. Quel che conta è, piuttosto, l’atmosfera stupefatta e sospesa, che potremmo trovare anche in un ipotetico altrove, sia esso collocato nelle campagne dell’Iowa o dell’Europa centrale o in una qualunque «pianura uguale a mille altre da intendersi», come dice l’artista, “come una sorta di foglio bianco su cui scrivere qualsiasi cosa reale o immaginata»[5].
Bonjour Monsieur Gauguin, 2023,olio su tela, cm 72×102
Il senso di queste anomalie è, infatti, di produrre uno spaesamento, cioè quel senso di disagio e perdita d’orientamento di chi si trova fuori del proprio ambiente abituale. Un sentimento che viene, se possibile, acuito dalla presenza di immagini “fuori posto”, ma riconoscibili come lemmi di una lingua diffusa, di una koinè occidentale che passa attraverso pellicole classiche come The Wizard of Oz – nel dipinto intitolato Bonjour Monsieur Gauguin (2023), dove i personaggi del film di Victor Fleming sono impaginati in uno spazio simile a quello di un omonimo olio su tela di Paul Gauguin – , oppure molteplici riferimenti alla fantascienza classica – con dischi volanti, invasori alieni e astronauti che invadono la bassa padana in opere come Accadde tutto una domenica mattina (2023), Defcon 2 (2023) e Lo strano caso del ragazzo che sapeva volare (2023) – usati come metafore della Guerra fredda, peraltro evocata anche nelle figure collocate nel margine destro di Nota zona di avvistamenti (2023), che fanno il verso all’estetica da Realismo socialista del primo Neo Rauch.
Le neveu aviateur, 2023, olio su tela, cm 72×102
In questo territorio, che Nannini interpreta come un foglio bianco da riempire, non ci sono solo i fantasmi del cinema, ma tutti i segnali dell’immaginario sociale e consumistico dell’American Graffiti, con le pin up e le caramelline gommose (Una rissa finita male, 2023), le automobili e le insegne al neon (Nota zona di avvistamenti) e perfino i rockabilly (Sotto bianchi cieli e Sala prove, 2023), superstiti cultori di un rock & roll che nell’Emilia degli anni Ottanta vantava ancora molti seguaci. Ma se la Padania è un foglio bianco, appunto, perché limitarsi a evocare l’America felix degli anni Cinquanta e Sessanta? Nannini introduce nella rappresentazione l’espediente dell’anomalia spazio-temporale per muoversi a piacere tra epoche e luoghi disparati. Al periodo tra le due guerre alludono sia la figura di Le Neveu aviateur (2023), asso dell’aeronautica che pare uscito dalla penna di Hugo Pratt, sia quella di Lawrence d’Arabia (Lettera al governatore della Libia, 2023), l’avventuriero che affinò il Grande gioco[6], l’attività di spionaggio dei servizi segreti e delle diplomazie occidentali in Medio Oriente e Asia Centrale. Cita, invece, la pittura veneziana del Settecento e l’Orientalismo romantico il dipinto La memoria dell’acqua (2023), un incredibile capriccio che, da un lato, confonde la morfologia fluviale della pianura lombardo-emiliana con una veduta lagunare popolata di figurine degne di Bernardo Bellotto e, dall’altro, fantastica attorno al fascino di una villa eclettica (o Liberty) che rimanda agli sfondi esotici della pittura di Alberto Pasini. Nannini concepisce evidentemente la pittura come un campo dalle infinite possibilità combinatorie e, così, dissemina le sue nuove opere di segnali e codici esogeni che hanno forme di oggetti e figure inconseguenti rispetto ai luoghi delle sue memorie. Sono apparizioni che provengono da un altrove che non è necessariamente “vissuto”, “esperito”, ma può essere anche solo pensato o immaginato. D’altronde, se c’è un segnale – come ricordava lo storico dell’arte George Kubler – il messaggio è necessariamente nel passato, anche se la sua ricezione avviene nel presente. L’altrove da cui partono questi segnali non è altro che l’attività mentale e associativa, quel coacervo di idee, impressioni, segni, tracce e visioni che l’artista dispone sempre più liberamente sulla solida impalcatura dei suoi paesaggi padani. Perfino in quei notturni, cui da lungo tempo ci ha abituati, che ora sembrano scorci di territori artici.
[1] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino, 1965, p. 17.
[2] Roberto Cresti, Attraverso la notte, in Nicola Nannini. Attraverso la notte, a cura di Roberto Cresti, catalogo mostra Centro Culturale Le Muse, Andria, 12 novembre 2017 – 31 gennaio 2018, p.19.
[3] Gombrich, op. cit., p. 45.
[4] Alberto Agazzani, La scelta di Nicola, in AA.VV., Nicola Nannini. Divertissement, a cura di Graziano Campanini, catalogo mostra Associazione Artistico Culturale Il Ponte, Pieve di Cento, Bologna, dicembre 2004 – gennaio 2005, Skira editore, Milano, 2004, p. 13.
[5] Parole autografe dell’artista.
[6] Gli storici chiamarono “Grande gioco” la contrapposizione strategica tra Impero Britannico e Russia zarista nel XIX secolo nella lotta al controllo coloniale dell’Asia centrale e del subcontinente indiano. A rendere popolare il termine fu lo scrittore britannico Ruyard Kipling nel romanzo Kim, che introduce il tema della rivalità e dell’intrigo spionistico tra potenze rivali.