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Mario Nigro. Il dramma del tempo, dello spazio… dell’amore

12 Mag

di Ivan Quaroni

Nel 1945, dopo la Liberazione, alcuni artisti di Corrente confluiscono nel Fronte nuovo delle arti, un raggruppamento piuttosto variegato, attivo tra Milano, Roma e Venezia, che intendeva superare e archiviare le espressioni novecentiste muovendo dall’esemplarità del linguaggio picassiano di Guernica. La lezione postcubista era, però, diversamente intesa dai vari membri del gruppo formato, tra gli altri, da Guttuso, Birolli, Morlotti, Santomaso, Vedova, Corpora e Turcato. 

Quando, alla Biennale di Venezia del 1948 – la prima del secondo dopoguerra -, il Fronte nuovo delle arti si presenta al pubblico, sono già evidenti le fratture interne che nel 1950 porteranno allo scioglimento del gruppo e alla polarizzazione tra astrattisti e realisti. Non a caso, Giulio Turcato, iscritto al PCI, già nel 1947 aderisce, con Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Sanfilippo, Guerrini, e Perilli, al gruppo romano Forma 1, che si dichiara “formalista e marxista”, in antitesi alla politica culturale del partito, che invece s’identificava con la scelta realista di Guttuso. 

Del gruppo romano, Achille Perilli fa da tramite con il MAC (Movimento arte concreta), fondato alla Libreria Salto di Milano nel 1948 da Bruno Munari, Gillo Dorfles, Atanasio Soldati e Gianni Monnet, che promuove un’arte astratta priva di ogni riferimento al mondo delle forme sensibili e con Lucio Fontana che a Milano, dopo il suo ritorno dall’Argentina, cerca di elaborare un linguaggio che superi i limiti della pittura e della scultura tradizionali. 

Proprio nello scorcio finale degli anni Quaranta, quando il dibattito artistico italiano è animato dalla querelle tra i movimenti formalisti astratti e le tendenze del realismo socialista, s’inserisce l’avventura pittorica non-oggettuale di Mario Nigro. 

Mario Nigro, 14.A4, 1975-79, acrilico su masonite, cm 60×60

“Le esperienze neo-cubiste”, ricorda l’artista, “mi portarono istintivamente, tra il 1946 e il ’47 ai primi elementi, come fondali senza riferimenti figurativi e le stesse figure divenivano forme geometrizzanti autonome, si può dire che rifeci, istintivamente, da Kandinskij a Klee a Mondrian a Malevic”[1]. L’avverbio istintivamente, ripetuto per ben due volte in questa affermazione, si può forse spiegare con la formazione scientifica di Nigro, laureato nel ’41 in Chimica Pura e nel ’47 in Farmacia all’Università di Pisa, cioè con quel retroterra culturale razionale e rigoroso che lo porta, inevitabilmente, a prediligere la dimensione programmatica e progettuale dell’arte astratta. Tuttavia, questo approccio metodologico di marca scientifica, più volte ribadito[2], si salda, fin dal principio, con l’influsso esercitato dai precedenti studi musicali in pianoforte e violino. Molti anni dopo, all’amica scrittrice e critica Carla Lonzi confesserà, infatti, di aver capito la struttura della musica e di aver cercato, sull’esempio di questa, d’individuare una struttura per la pittura: “Quindi mi sono venuti spontaneamente i ritmi, le ripetizioni, quelle che oggi chiamo iterazioni […]”.[3] Nascono, così, i primi lavori, come Ritmo verticale (1946), Ritmi obliqui (1949) e Ritmi orizzontali simultanei continui (1949), in cui l’artista traduce in diagrammi di modulazioni lineari il simultaneismo dei futuristi. 

Dopo la mostra d’esordio nel 1949 alla Libreria Salto e la sua adesione al Movimento Arte Concreta, il tema lineare e quello iterativo vengono deliberatamente inseriti in una configurazione a scacchiera che ricalca l’archetipo della griglia astrattista, una struttura cartesiana, logica e programmabile entro cui Nigro inserisce l’elemento ritmico e dirompente delle linee intrecciate ai colori. Nel ciclo dei Pannelli a scacchi, iniziato nel 1950, le grate sono riempite di tasselli bianchi e neri e, più sporadicamente, da tasselli rossi, blu e gialli di ascendenza De Stijl. Tuttavia, la vibrazione generata dalla diversa distribuzione di moduli rettangolari e quadrati sulla superficie finisce per generare un effetto dinamico che altera sottilmente la percezione ottica. L’evidente riferimento a Mondrian sembra, dunque, inteso in una prospettiva di superamento dell’idealismo dell’artista olandese. Le variazioni ritmiche di Nigro – come già le linee oblique di Theo Van Doesburg – sconvolgono, infatti, la stabilità della griglia, contravvenendo alle intenzioni spiritualistiche del Neoplasticismo (e del Suprematismo) di costruire uno spazio puro, inalterabile, antitetico al mondo corruttibile delle forme fenomeniche. “L’ordinato incrocio perpendicolare di linee ortogonali del 1950 si frastaglia”, scrive Luca Massimo Barbero, “si moltiplica e viene traslato seguendo molteplici direzioni; ora sono gli andamenti obliqui, che definiscono forme triangolari in cui i diversi piani si allineano seguendo le diagonali prospettiche, a condurre il gioco delle sovrapposizioni e delle inclinazioni”[4]. Tutto il successivo percorso di Nigro muove, dunque, da questa precisa rottura con la tradizione Neoplastica, Suprematista e Costruttivista. Una rottura che si fa più evidente nelle strutture reticolari che precedono le opere dello Spazio totale, dove la griglia, cioè lo spazio ostruttivo e claustrofobico del primo piano lascia filtrare la dimensione tonale ed espressiva dello sfondo monocromo. La dicotomia tra griglia e fondo è indicazione di un conflitto che si consuma all’interno del linguaggio razionale dell’astrazione geometrica, la segnalazione di un cedimento delle forze ordinatrici e logiche sotto la spinta dei fatti emozionali che riguardano la sfera esistenziale, quella che Heidegger chiama In-der-Welt-Sein, la condizione dell’individuo nel mondo. 

Riferendosi ai lavori del periodo 1953-1954, Nigro dirà, infatti, che “Il reticolo, a parte la necessità ritmica, e perciò metodologica, di identificazione poetica in un linguaggio plastico, crea proprio questa sensazione dell’uomo che ha dinnanzi a sé una rete come se fosse prigioniero: al di là c’è la libertà, il colore puro [del fondo], il colore più vivo, più violento che si possa immaginare”[5].

Quando nel 1953 Nigro giunge alla definizione concettuale dello Spazio totale intende, di fatto, superare il campo d’indagine della prima generazione di artisti astratti, cioè quella bidimensionalità che “non trova rispondenza con la situazione dell’individuo immerso nella molteplicità degli eventi”[6]. Come scrive il filosofo Franco “Bifo” Berardi “L’astrazione è stata la tendenza generale dell’ultimo secolo, tanto nella sfera dell’arte quanto in quella del linguaggio e dell’economia”[7]. Secondo lui “Si può definire l’astrazione come l’estrazione mentale di un concetto da una serie di esperienze reali; ma si può definire anche come la separazione della dinamica concettuale dal processo corporeo”[8]. Soprattutto con le opere del ciclo Spazio totale, cui si dedica per oltre un decennio, Nigro sembra ristabilire un rapporto tra il linguaggio dell’astrazione e la dimensione del vissuto storico e individuale. L’analisi dello spazio, a cui si dedica anche Lucio Fontana che nel 1949 espone alla Libreria Il Salto, i primi Concetti spaziali, muove, per Nigro, dalle sperimentazioni futuriste di Balla sul movimento e dal suo utilizzo della linea. Tuttavia, rispetto a Fontana, Nigro usa un approccio differente. “In particolare”, scrive Giovanni Maria Accame, “non vi è nessuna volontà di risolvere dall’esterno della superficie, con il gesto e la conseguente fisicità che comporta l’azione, il problema di un diverso spazio”[9]. Usa, invece, la pittura con approccio analitico e costruttivo per fare emergere una conflittualità interna al linguaggio e ricollegarsi, così, alle teorie della scienza relativistica. Lo Spazio totale introduce, infatti, scrive Accame, “l’idea di una compresenza di più realtà” che lascia spazio alla fantasia e alla sensibilità dello spettatore e, al contempo, introduce l’elemento tragico dell’esistenza che era stato espunto dal Neoplasticismo di Mondrian. “Durante il periodo dello ‘Spazio totale’ il dramma”, scrive l’artista, “si esplicava dalla simultaneità di questi ritmi progressivi seriali, i quali però, ripetendosi progressivamente definivano un aspetto di tragedia fatalistico”.[10] Lo spazio nella pittura di Nigro diventa, in sostanza, il teatro di uno scontro di elementi simultanei e di tensioni tra sfondo e reticolo che rimandano alle quelle che si consumano nella dimensione politica e sociale della Storia. Il coinvolgimento e l’attivismo dell’artista in qualche modo si riflettono, nel dominio linguistico della pittura, in una sorta di diagrammatica visualizzazione del dramma esistenziale. Un dramma che si acuisce nel 1956 con l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa, un episodio che l’artista vive come un tradimento degli ideali socialisti. 

“Quando faccio le intersezioni è un atto tragico”[11], dirà anni dopo a Carla Lonzi. Un atto che, sul piano visivo, porta all’appesantimento della griglia reticolare e a una progressione caotica dell’elemento dinamico che culminerà nella transizione dai lavori dello Spazio totale a quelli del nuovo ciclo del Tempo totale. Un passaggio quasi didascalicamente evidenziato nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1968, quella della contestazione, dove sono esposte opere che dialogano con l’ambiente in una dimensione liminare tra pittura e scultura. 

Lavori come Dal ‘Tempo totale’: passeggiata progressiva con variazione cromatica (le stagioni) del 1967-68, Dallo ‘Spazio totale’: serie di 12 rombi continui a progressioni ritmiche simultanee alternate opposte (1965), ‘Tempo totale’: traliccio a rombi progressivi (1967) e ‘Tempo totale’: traliccio a rombi progressivi simultanei (1967) tradiscono lo slittamento dal dominio contemplativo del quadro a quello concreto e materiale dell’oggetto, che invita lo spettatore a immergersi in un’esperienza totale. Infatti, con i rombi progressivie la passeggiata progressiva della Biennale e poi con la successiva serie delle Strutture fisse con licenza cromatica, “la fantasia dello spettatore è sacrificata” afferma Nigro, perché “[…] psicologicamente, interviene il fattore della sensazione del tempo che passa e che pone lo spettatore, non in una condizione di formulazione di immagini, ma, fermando la sua attenzione su una serie progressiva limitata di una medesima immagine, lo obbliga a un pensiero fisso… forse, alla constatazione del tempo che passa”[12]. Soprattutto nelle Strutture fisse con licenza cromatica Nigro perviene a un’assoluta “rarefazione e minimalità del sistema segnico, inequivocabilmente non narrativo, per introdurre quella dimensione psicologica e qui ampiamente autobiografica, che sta attorno e dentro i quadri”[13] e che, di fatto, costituisce il punto di partenza di un linguaggio che si svilupperà negli anni seguenti, fino alle opere che sono oggetto di questa mostra, il cui nucleo centrale è costituito dagli acrilici su superfici quadrate di masonite (1975-79). 

Proprio a partire dal ciclo Dal ‘Tempo totale’: le strutture fisse con licenza cromatica, l’iterazione ritmica, modulare e seriale dei segni, ormai liberata dall’inquadramento della griglia reticolare, assume un’organizzazione insolita che lascia affiorare, o meglio indica, anche attraverso i titoli posti tra parentesi come L’armata rossa vincerà (1969), L’incontro 1-5 (1972), Lettera di un raro amore (in dodici pagine) del 1972, Trilogia dell’amore (1973) e Sogno di un vero amore (1973), l’elemento intimo ed emotivo nel suo stato di raffreddamento oggettivo. Qui il sentimento tragico dello Spazio totale è sostituito da uno sguardo distaccato, che osserva il dramma del tempo – e quindi della morte – come un fatto da accertare: “nel ‘tempo totale’ è come se fossi gelato, ma gelato nel senso di constatare una situazione e di constatarla a mente rigida, di non credere, di non farmi coinvolgere da un dramma, di poter porre rimedio e, secondo me, un rimedio a un dramma non si pone quando ne siamo coinvolti, ma si può porre quando lo vediamo un po’ dl di sopra”[14].

Questo atteggiamento constatativo si ritrova anche nei più tardi dipinti Rosso inorganico (1972), Amore mio (1974), Meditazione (1974), Nel Bosco (1975), Prato (1975) ed in altri senza titolo, dove il vissuto emotivo, psicologico ed esperienziale è lucidamente tradotto in iterazioni lineari turbate da alterazioni, aritmie e licenze cromatiche che formano il codice descrittivo del suo linguaggio analitico. 

Si tratta di una sequenza di opere in cui la grammatica di linea e colore raggiunge una stringata essenzialità proprio nel rapporto tra la segmentazione ritmica del segno e l’uniformità dello sfondo. Un’essenzialità che assimila questi diagrammi visivi alle partiture musicali. 

Soprattutto nei dipinti del cosiddetto Periodo della “linea”, databile al biennio 1976-77 – alcuni dei quali sono stati esposti alla Galleria Lorenzelli di Milano (1977) – l’elemento cromatico, e dunque pittorico, diventa prioritario. In questi lavori un’unica linea colorata attraversa obliquamente l’intera superficie, facendo da contrappunto alla monocromia del fondo, ma senza mai coincidere con una diagonale perfetta. I segmenti di Nigro – derivati dal Tempo totale – non attraversano mai i punti d’intersezione angolare del supporto, per non cristallizzarsi in geometrie rigide e per non circoscrivere uno spazio e un tempo precisi. “Retta da costruzioni ideali fondate sulla sezione aurea”[15], la linea di Nigro è senza soluzione di continuità, un’espressione cromatica e ritmica che egli stesso definisce “metafisica del colore”[16] per identificare la centralità dell’elemento cromatico in pittura e la sua capacità di aderire alla dimensione psichica dell’uomo, salvandolo dall’atrofia e dall’alienazione. 

Se è vero, come scrive lui stesso, che “L’essenzialità dell’arte risiede nell’essenzialità della vita, cioè dell’amore”[17] e che “L’arte può ancora salvare l’amore, sempre che non diventi essa stessa alienazione dell’edonismo [cioè una forma deviata dell’amore]”[18], allora queste opere rappresentano il culmine di un processo artistico che, con intelligenza e con obiettività, cioè senza mai scadere nell’identificazione emotiva, irrazionale e incontrollata, ha finalmente collegato la sfera del pensiero a quella, altrettanto essenziale, dei sentimenti. Nigro ha strappato l’espressione aniconica geometrica all’iperuranio delle tradizioni suprematiste e neoplastiche e l’ha restituita alla dimensione temporale della storia e al fatale dramma individuale dell’In-der-Welt-Sein.   


[1] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Mario Nigro. Catalogo ragionato 1947-1992, Skira, Milano, 2009, p. 54.

[2] “La tecnica del dipingere l’adopero in quanto ho sempre considerato i miei lavori come progettazioni che dovrebbero essere realizzati in grandi dimensioni. Quindi, do valore massimo alla ricerca metodologica che, come primo atto, è progettazione. Per me, la realizzazione ha un’importanza marginale, non essenziale […]. Però, come punto di partenza, c’è sempre il fatto progettativo, ossia metodologico”, in Carla Lonzi, Autoritratto. Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly, Abscondita, Milano, 2017, p. 76.

[3] Ivi, p. 42.

[4] Luca Massimo Barbero, Mario Nigro. Dal ‘Ritmo verticale’ al ‘Tempo totale’, A Arte Invernizzi, catalogo della mostra, 23 febbraio – 21 aprile 2017, Milano, p. 11. 

[5] Carla Lonzi, Op cit., p. 132.

[6] Carla Lonzi, in Paolo Fossati, Carla Lonzi, Mario Nigro. All’insegna del pesce d’oro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1968, p. 7.

[7] Franco “Bifo” Berardi, Futurabilità, Nero, Roma, 2012, p. 166.

[8] Ivi, p. 7

[9] Giovanni Maria Accame, Mario Nigro: tempo totale 1965 – 1975 (Palazzo Municipale Morterone), catalogo della mostra, Amici di Morterone – Comune di Morterone, 1989, p. 13.

[10] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Op. cit, p. 185.

[11] Carla Lonzi, Op cit., p. 109.

[12] Ivi, p. 235-236.

[13] Giovanni Maria Accame, Op cit., p. 17.

[14] Scritto autobiografico di Mario Nigro, Archivio Mario Nigro, in Germano Celant, Op. cit, p. 190

[15] Ivi, p. 226.

[16] Ivi, p. 223.

[17] Ivi, p. 226.

[18] Ibid.


Mario Nigro. La metafisica del colore

a cura di Roberto Borghi, Matteo Lorenzelli, Ivan Quaroni

Lorenzelli Arte, Milano

18 marzo – 19 giugno

T. +39 92291814 – info@lorenzelliarte.com

Il mio personale ricordo di Ronnie Cutrone. In loving memory.

25 Lug

di Ivan Quaroni

Sono rimasto allibito quando, con un messaggio, alle 6.19 di mattina di martedi 23 luglio, il gallerista Matteo Lorenzelli mi ha comunicato la morte di Ronnie Cutrone. Pare che sia stato trovato, privo di vita, dal suo assistente nella casa di Lake Peekskill, vicino a New York, dove abitava da lungo tempo. Aveva appena (si fa per dire) 65 anni. Naturalmente ho cercato di saperne di più, ma non ho trovato che qualche laconico coccodrillo sui principali siti di arte contemporanea, da Artribune a Exibart ad Arslife. Non una riga sui quotidiani nazionali. Poco o nulla su internet. “Che cazzo!”, mi sono detto, “è mai possibile che non ci sia niente?”. Ronnie è morto il 21 luglio, pochi giorni dopo il suo compleanno. E’ nato a New York il 10 luglio 1948 ed è stato, come molti sapranno (o dovrebbero sapere) uno degli animatori della Factory di Andy Warhol, di cui è stato assistente tra il 1972 e il 1982. Con l’Italia ha sempre avuto un rapporto preferenziale, non solo per via delle sue origini italoamericane, ma anche perché aveva lavorato a Napoli con Lucio Amelio e poi a Milano con Salvatore Ala. Dagli anni Novanta, dopo una breve collaborazione con lo Studio D’Arte Raffaelli di Trento, aveva iniziato a lavorare stabilmente con la galleria Lorenzelli Arte di Milano, dove io l’ho conosciuto. Quello tra Matteo Lorenzelli e Ronnie Cutrone era molto di più di un semplice rapporto professionale. Erano amici. Ronnie Cutrone è stato l’artista con cui Matteo Lorenzelli ha inaugurato un nuovo corso della galleria, fino ad allora incentrata prevalentemente sull’arte astratta. Ronnie è stato per Matteo il simbolo di una scelta personale, che non ha mai rinnegato e che, per fortuna, ha permesso a me di conoscerlo e di amarne il lavoro. Cosa di cui sarò sempre grato a Matteo.

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Ritratto di Ronnie Cutrone

Ho conosciuto Ronnie Cutrone dieci anni fa, nel 2003, in occasione della prima delle tre mostre che ho curato dell’artista. Ricordo benissimo il giorno in cui fu chiesto a me – un giovane e inesperto curatore – di scrivere un testo sul suo lavoro. “Vieni subito”, mi dice Matteo. Nient’altro. Sfreccio lungo Viale Fulvio Testi con una Fiat Uno nera, come fossi un rapinatore in fuga dalle pantere della Polizia. Arrivo in galleria in Corso Buenos Aires all’ora di punta (lo chiamano drive time), quando gli uffici si svuotano e il mondo intero torna a casa dal lavoro.  Entro in quella che a me sembra uno dei templi dell’arte contemporanea milanese ed eccoli lì, stesi per terra, i lavori di uno dei più straordinari interpreti della Pop Art americana. C’è tutto: le bandiere a stelle e strisce, i supereroi nelle loro sgargianti uniformi, i personaggi dei cartoon, i gelati e le torte che si squagliano, i simboli e i marchi delle grandi corporate, i ritagli di giornale, le piccole mappe e cartine geografiche e poi le croci… rosse, nere, porpora. Non stavo nella pelle. Ero eccitato e, al tempo stesso, impaurito. Non avevo mai scritto per un artista straniero e volevo essere all’altezza della situazione.  Invece, sorprendentemente, all’inaugurazione della mostra, Ronnie Cutrone si rivela una persona affabile, alla mano. Mi fa i complimenti per il testo. Anzi, mi ringrazia di cuore in una bellissima dedica sul catalogo, accompagnata da uno dei suoi personaggi feticcio, Woody Woodpeacker. Ricordo che era accompagnato dalla sua terza (o quarta?) moglie, una giovane ragazza israeliana, con un passato di carrista nell’esercito. “Wow”, ho pensato, “questo si che è un artista, nell’arte come nella vita”.

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Io e Ronnie. 2 Ottobre 2003, Milano

Dopo l’opening in galleria andiamo a cena e Ronnie è una miniera di divertentissimi aneddoti sui personaggi che gravitavano nella Factory, da cui si era staccato nel 1982 per seguire un percorso personale ed unico, che lo avrebbe visto militare, a fianco di personaggi come Basquiat e Keith Haring nella Graffiti Art. In verità, Ronnie aveva poco a che fare con i graffiti. La sua arte era la prima, compiuta formulazione, di ciò che in seguito sarebbe stato il New Pop. Un’arte onesta e diretta, che parlava al cuore e alla mente della gente, usando una grammatica semplice, che anche un bambino poteva comprendere. Quella sera, a cena, Einat Katav-Cutrone (sua moglie) ci ha fatto una foto in cui si vede chiaramente quanto fossi felice. E lo ero davvero.

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La dedica di Ronnie sul catalogo della mostra “Tataboo”, Lorenzelli Arte, 2 ottobre – 22 novembre 2003, Milano.

Una cosa che mi colpì fu il fatto che Ronnie fosse completamente astemio. Credo fosse a causa degli stravizi che per un decennio avevano segnato la sua intensissima esperienza alla Factory con gente come Lou Reed e i Velvet Underground. Però era, comunque, un personaggio, per così dire, molto “rock & roll”, come testimoniano le belle foto di Timothy Greenfield-Sanders pubblicate sul catalogo.

Ho rivisto Cutrone tre anni dopo, nel 2006. Dovevo curare una sua mostra a Torino, intitolata Pop Shots, Explosions, Crosses and Cell Girls. L’esposizione raccoglieva un buon numero di lavori nuovi, che raffigurano volti di donne velate appartenenti a cellule terroristiche con le bandiere degli stati nemici del fondamentalismo islamico. Le Cell girls inauguravano un capitolo maturo della sua produzione pop, sempre più sensibile ai temi sociali e di attualità. Ricordo uno spassosissimo viaggio in macchina con Ronnie e Matteo alla volta della galleria torinese. Come al solito, Ronnie era prodigo di aneddoti e storielle sui personaggi più bizzarri che avesse conosciuto e aveva un modo di raccontare unico. Come un attore consumato, interpretava, con voci diverse, le parti dei protagonisti delle sue storie, che molto spesso si riferivano a quel dorato decennio passato con Andy Warhol. Un decennio importante per l’artista, che però lo aveva condannato a restare nel cono d’ombra di Warhol, fino alla sua definitiva separazione. Ronnie era un archivio d’informazioni. Avrebbe dovuto scrivere un libro su quegli anni, ma ha preferito dedicarsi alla sua arte, che poco o nulla aveva a che vedere con quella più algida del suo maestro.

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La dedica di Ronnie sul catalogo di “Pop Shots, Explosions, Crosses and Cell Girls”, Mar & Partners Art Gallery, 28 settembre – 1 dicembre 2006, Torino.

Anche in occasione della mostra torinese, Ronnie fu molto affettuoso (e paziente) con me. Si complimentò per il testo e ancora volle farmi una lusinghiera dedica sul catalogo. Mi scrisse: “For Ivan. My favourite writer, with a crystal clarity”.  Ronnie amava i testi semplici, così come amava quel tipo di arte diretta ed efficace, capace di arrivare al cuore di ogni persona.

L’ultima volta che ho incontrato Ronnie fu nel settembre 2010 per la sua terza e ultima mostra personale da Lorenzelli Arte, intitolata Pop, Off the Rack, By the Slice, Mix & Match, che presentava un nutrito corpus di lavori dedicati alla reinterpretazione delle copertine dei suoi dischi preferiti. L’argomento mi interessava parecchio. Matteo sapeva della mia passione per la musica e, così, mi chiamò, ancora una volta, a interpretare il lavoro di Cutrone. Appena vidi Ronnie, capii che qualcosa era cambiato. Sembrava invecchiato di colpo ed era certamente meno lucido del solito. La sua proverbiale astinenza dagli alcolici si era incrinata, ma la qualità del suo lavoro era cresciuta. Ronnie non era riuscito a finire le opere per la mostra e, così, lo trovai in galleria, impegnato a concludere quelli rimasti in sospeso. Li terminò solo il giorno prima dell’inaugurazione, in un clima di nervosismo generale.

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Io con Ronnie che finisce di dipingere i lavori di “Pop, Off the Rack, By the Slice, Mix & Match”, Lorenzelli Arte, 17 settembre – 20 novembre 2010, Milano.

Mentre tutti si adoperavano a finire per tempo, mi venne l’idea di proporre un’intervista di Ronnie al mensile Arte, pubblicato da Cairo Editore. Quando ne parlai a Mario Pagani, caporedattore della rivista, forzai un po’ la mano, dicendogli che era l’ultima occasione per intervistare un bravo artista, oltre che un testimone d’eccezione della Factory. Non sapevo che quella forzatura sarebbe stata profetica. Pagani è un tipo tosto. Accettò, a patto che restassi nella griglia di una rubrica intitolata “Cognome e nome”, che concedeva poco spazio al racconto e che si presentava come una sequenza fulminea di domande e risposte, con un corredo iconografico ricco di aneddoti e curiosità. Per me, che dovevo intervistare Ronnie e reperire ogni sorta di materiale fotografico, quell’articolo fu un vero e proprio parto, ma mi insegnò qualcosa di nuovo sul modo di realizzare un’intervista. Ad ogni modo, io e Judith van Vliet, allora assistente della galleria, accompagnammo Ronnie nello studio di Giorgio Majno, il fotografo incaricato di realizzare il servizio fotografico per la rivista. Fu un ennesimo pomeriggio di spasso. Ronnie posò come un istrione, facendo ogni genere di smorfia. Mentre mangia una simbolica banana, icona simbolo del celebre album dei Velvet, brandendola a mo’ di pistola, come un vecchio e scalcagnato cowboy dei nostri giorni o semplicemente bevendo una coca cola, mentre immagina di parlare con i personaggi delle sue opere, da Felix the Cat a Paperino, da Mickey Mouse all’Uomo Ragno. L’articolo fu pubblicato quattro mesi dopo, nel gennaio 2011, quando Ronnie era già tornato in America. L’intervista si chiudeva con una nota amara e insieme  ironica. Gli chiesi se, visto che Basquiat ed Haring, protagonisti della stagione che lui stesso aveva vissuto negli anni Ottanta, erano morti, non pensasse che morire giovani fosse un modo per assicurarsi una fama imperitura. Mi disse così:

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Foto segnaletica di Ronnie Cutrone, realizzata da Giorgio Majno per la rivista “Arte” (Gennaio 2011, Cairo Editore).

Dopo Keith Haring e Basquiat, molti pensavano che io sarei stato il prossimo. La settimana dopo la morte di Keith, molti collezionisti mi chiamarono per acquistare le mie opere. Avrei potuto vendere almeno cinquanta dipinti, ma dissi loro che se erano davvero interessati dovevano richiamarmi dopo sei mesi. Solo due di loro si fecero vivi. La morte prematura può renderti celebre, ma io penso che sia meglio vivere”.

Bhe, è stato meglio così, pensai. Dopotutto,  non sono molti gli artisti che, come lui, possono vantare mostre al Whitney , al MoMA, al Brooklyn Museum di New York o al MOCA di Los Angeles.

Alla fine, gli chiesi se, per caso, non si sentisse un sopravvissuto dell’arte. La sua risposta fu questa:

A volte pranzo con Lou Reed, lo guardo negli occhi e gli chiedo ‘Sei ancora vivo?’. Lui mi risponde: ‘Gesù, tu sei ancora vivo?’ Siamo come scarafaggi, duri a morire”.

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All’inaugurazione dell’ultima personale milanese di Ronnie Cutrone.

Lo vidi ancora all’inaugurazione della mostra. Prima di ripartire lasciò a Matteo Lorenzelli un regalo per me, un grande acquarello con una buffa, enigmatica datazione: 1966-2010. Non ho mai capito se fosse uno scherzo o un semplice errore. L’acquarello mostra il gatto Felix mentre balla con Lady Gaga al Max’s Kansas City, un celebre night club di New York.

E’ l’ultima, preziosa, testimonianza della sua amicizia e della sua generosità nei miei confronti. Qualcosa che non potrò mai ripagare. “Accidenti a te, Ronnie!!! Avrei voluto almeno ringraziarti. E abbracciarti un’ultima volta”.

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Ronnie Cutrone, For Ivan – He danced with Lady Ga-Ga at Max’s Kansas City, tecnica mista su carta, 1966-2010.

Steffen Terk. Le domande della pittura

10 Giu

di Ivan Quaroni

Fin dall’antichità l’uomo ha considerato il regno animale come un territorio di simboli e metafore, utilizzando l’effigie di questa o di quella specie a scopo puramente rappresentativo. L’araldica ha fatto abbondantemente uso di iconografie zoomorfe nel tentativo di illustrare i pregi e le virtù, le qualità e le prerogative di un clan o di una casata nobiliare, di una corporazione o di una confraternita.  Così, nel corso dei secoli, gli animali sono stati virtualmente trasformati in creature allegoriche e in personaggi favolistici. In pratica, essi sono stati sottoposti ad un processo di forzata umanizzazione, che li ha, per così dire, addomesticati, rendendoli più conformi ad una visione antropocentrica del creato.

LA_39,_Kerlchens_Suche_(Kerlchen'search),_2008,_olio_su_metallo,114,5x114,5cm_

Steffen Terk è partito proprio da questa considerazione quando ha deciso di sviluppare un ciclo di lavori incentrati sul tema della rappresentazione zoomorfa. La serie Animals for Lorenzelli Arte è, infatti, un tentativo di ribaltamento del consueto meccanismo proiettivo dell’uomo, il quale vede gli animali come incarnazione dei propri attributi morali o caratteriali. A dispetto dei titoli, in cui l’animale figura ancora come attributo di un soggetto umano – Jan Peter’s Hyaena, Flynn’s Wolf, Björn’s Ram, Kerstin’s Panther, Marie’s Jellyfish e così via – in questi dipinti di Terk si avverte la volontà di restituire al regno animale una propria autonomia rappresentativa, scevra da implicazioni simboliche o allegoriche. Se vogliamo, Terk si pone agli antipodi rispetto al pensiero di Charles Le Brun, il pittore ufficiale di Luigi XIV, che ebbe un ruolo chiave nella transizione dalla fisiognomica magica del Cinquecento a quella razionale del Seicento. Secondo Le Brun, che derivava il suo metodo dal disegnatore e studioso di zoomorfismo Giovan Battista Della Porta, era possibile desumere vizi e virtù di un individuo dalla comparazione tra la fisiognomica umana e quella animale. In pratica, il pittore francese, le cui teorie influenzarono la ricerca scientifica del Secolo dei Lumi, era convinto che la conformazione facciale rivelasse, attraverso l’individuazione delle tracce di “animalità”, il carattere degli uomini. Così, ad esempio, un volto grifagno era il sintomo di un carattere simile a quello di un rapace predatore, mentre una fisionomia leonina rivelava un’indole regale e coraggiosa. In sostanza, la teoria lebruniana portava al massimo grado il meccanismo proiettivo della visione antropocentrica.

LA_35,_Clausens_Jagt_(Clausen's_hunt),_2008,_olio_su_metallo,__80x104cm_

Con i lavori qui presentati, Terk si chiede, invece, se sia possibile, dall’esterno, capire l’intima natura di un animale e quindi rappresentarlo non così come noi lo vediamo, ma come esso si vedrebbe. “Ma se, come io credo, ciò non è possibile”, ha scritto l’artista, “come potrei, io, un uomo, rappresentarlo senza ricorrere alle mie vecchie categorie?”. L’unica possibilità consiste, secondo Terk, nel considerare gli animali come puri esempi di bellezza, fenomeni che si dispiegano in una successione di pattern e texture, di motivi creati dalla ritmica ripetizione delle configurazioni naturali e organiche dei piumaggi, dei manti, delle pelli. Insomma, con i suoi Animals for Lorenzelli Arte, Terk sembra avvicinarsi alla Fenomenologia di Husserl, cioè a quel metodo cognitivo che descrive i fenomeni per come essi appaiono, attraverso la sospensione del giudizio sulla loro natura e funzione (epoché fenomenologica). Eppure, Terk non intende offrirci una visione analitica degli animali, ma piuttosto una descrizione morfologica e ottica, in cui è possibile rilevare una ricorsività di forme, una frequenza di configurazioni e di strutture che ricalcano la ritmica delle giaculatorie mistiche e dei sacri mantra.

Nato a Dresda nel 1950 e cresciuto nell’avverso clima culturale della DDR, a contatto con artisti come A. R. Penck, Haral Gallasch e Wolfgang Opitz, con i quali peraltro, tra il 1971 e 1976, prende parte all’esperienza del collettivo Lücke TPT, Terk dimostra di avere un atteggiamento anti-romantico nei confronti della pittura, che lo ha portato ad interessarsi più al processo creativo, al modus operandi, piuttosto che ai contenuti simbolici o emotivi. Non è un caso che proprio l’esperimento della Lücke TPT si configurasse come una sorta di “gioco pittorico” in cui gli artisti collaboravano alla creazione di ogni tela, seguendo un metodo codificato che lasciava assai poco spazio all’improvvisazione narcisistica. Il gioco consisteva in tre possibili variazioni procedurali, basate sulle stesse regole. La prima variazione prevedeva che ognuno dei quattro artisti, a turno, facesse la propria “mossa” in una parte qualsiasi del quadro. La seconda variazione consisteva nella spartizione della superficie in quattro identiche strisce orizzontali. Infine, la terza variazione constava nella suddivisione della tela in quattro parti uguali (quattro triangoli ottenuti tracciando due diagonali oppure quattro quadrati ottenuti tracciando due assi ortogonali). In questo modo, il processo del dipingere assumeva i connotati di una disciplina collettiva, che teneva a distanza l’influsso degli apporti emotivi, ma senza sopprimere le caratteristiche individuali di ogni segno.

Ora, la pittura di Steffen Terk si configura, ogni volta, come la risposta a un quesito, a una domanda sulle possibilità cognitive di questo mezzo, insieme antico e moderno. Mentre l’esperienza della Lücke TPT, giustamente celebrata in una recente mostra antologica alla Villa Eschenbach di Dresda, dimostrava che nell’ambito di un lavoro di gruppo codificato, più l’artista prende le distanze da se stesso, più è in grado di sviluppare il processo della creazione, le nuove opere della serie Animals for Lorenzelli Arte cercano di verificare la possibilità di rappresentare un soggetto non come esso ci appare, con il suo inevitabile retaggio di nozioni acquisite, ma come esso realmente è. Paradossalmente, nella consapevolezza di non poter comprendere la reale natura degli uccelli e dei felini, dei canidi e degli insetti, Terk si affida alla morfologia. Infatti, potendo disporre solo dell’aspetto, della sembianza, della foggia esteriore degli animali come elementi oggettivi, egli elabora una pittura di forme allo stesso tempo figurali e astratte in cui le trame e gli orditi, gli intrecci e i pattern scivolano gli uni sugli altri, confondendosi con la ritmica anulare dei fondali.

In questa carrellata di opere, aleggia un mistero, un enigma, quasi che l’artista voglia lasciar trapelare dalle texture che formano l’epidermide dei suoi animali un’indole fondamentalmente aliena. Le bestie di Terk sono, infatti, prive di connotazioni psicologiche, simboliche o, peggio, emotive. Non avvertiamo in esse alcun senso di familiarità che ci induca a preferirne alcune a discapito di altre. “Nessuno degli animali che ho dipinto”, ha affermato l’artista, “è stato dipinto con tenendo conto di un senso di preferenza. Nessuno è più bello, più forte o migliore degli altri”. Gli unici elementi discriminanti riguardano, piuttosto, la foggia, la qualità metamorfica delle superfici, la malia delle livree, la maculatura dei pelami, la compagine degli esoscheletri e la compattezza muscolare, strutture che Terk traduce in segni. Segni che, a loro volta, dialogano con la fitta maglia dei cerchi e degli anelli che formano l’impalcatura dei fondi e creano, infine, una fertile commistione tra impulsi iconici e aniconici.

Ronnie Cutrone – Transformer

22 Mag

 

di Ivan Quaroni

Una cosa è certa, Ronnie Cutrone è stato l’inventore di un certo modo di intendere l’arte pop che poi ha fatto proseliti nell’arte contemporanea. Il suo modo di guardare la società attraverso lo sguardo innocente dell’infanzia, il suo umorismo, il suo sistematico saccheggio dell’iconografia dei fumetti e dei cartoni animati, la sua attenta sensibilità nei confronti della cultura popolare lo hanno reso a tutti gli effetti un precursore. Ronnie Cutrone ha fatto scuola. Non solo è stato testimone privilegiato della stagione americana del Graffitismo e del New Pop, catturando nel suo lavoro tutta l’energia e l’eccitazione di quel formidabile decennio che sono stati gli anni Ottanta, ma è stato tra i primi in assoluto a intuire che l’immaginario popolare, quello dei fumetti, ma anche della pubblicità e dei mass media, poteva essere usato per analizzare in senso critico la società contemporanea. In pratica, Cutrone ha enfatizzato alcune intuizioni Warhol, accentuando la connessione tra arte e società contemporanea.

Come ha affermato lo scrittore e disegnatore Anthony Haden Guest, “La Pop storica fu una specie di celebrazione agrodolce – un’accettazione del fatto che il nostro paesaggio reale è composto più da marche e merci che non da rocce, fiumi e alberi. Inoltre, una delle funzioni del pop storico fu quello di rendere tollerabile questo paesaggio artificiale […][1]. Ronnie Cutrone parte da questo nuovo paesaggio per creare un linguaggio nuovo, in grado di interpretare le evoluzioni della realtà contemporanea. La differenza con la Pop Art storica è sostanziale, perché Cutrone non ha mai dato l’impressione di essere disinteressato alle questioni e agli accadimenti del suo tempo. In lui non si avverte il sentimento di distacco tipico di Andy Warhol, ma piuttosto un vivo e vibrante senso di partecipazione nei confronti delle vicissitudini umane. Personaggi come Felix the Cat, la Pantera Rosa, Woody Woodpecker, conosciuti in ogni angolo del mondo, diventano parte della sua grammatica semplice, con la quale interpreta i sentimenti e le emozioni della gente comune.  Soprattutto dopo l’11 settembre, Cutrone inizia ad affrontare in modo ancor più diretto i temi politici e sociali. Opere come le esplosioni, le croci bruciate, ma soprattutto le Cell Girls risentono esplicitamente delle tensioni provocate dal più spettacolare attentato terroristico della storia. In questi lavori non c’è alcuna traccia dello spirito ironico che in precedenza aveva contraddistinto le opere di Cutrone. Perfino i personaggi dei cartoni animati e i supereroi dei fumetti assumono espressioni a dir poco accigliate. In sostanza, l’universo rappresentato da Cutrone inizia a registrare fedelmente il clima e l’atmosfera che si respira nel mondo reale. Per quanto fantastiche e spettacolari, opere come “Explosion with phone messages” e “Ka blam” (2005) ci restituiscono metaforicamente il fragore delle esplosioni delle Twin Towers, mentre gli inquietanti volti delle Cell Girls – in tutto 13 ritratti di donne velate mediorientali con le bocche coperte dalle bandiere degli stati nemici del terrorismo islamico – riflettono il generale sentimento di paura e tensione per il rinnovarsi di atti terroristici.

2005 american mask-red

Un dipinto emblematico di questa fase del lavoro di Ronnie Cutrone, molto centrata sulla riflessione politica e sociale, è senza dubbio “Crusade” (2005), una tela quadrata che rappresenta il simbolo sanguinante di Superman sormontato da una croce rossa e affiancato da un proiettile e un rossetto. Oltre ad essere uno dei suoi lavori più belli, “Crusade” è anche la più perfetta rappresentazione in stile pop dell’eterno binomio di amore e morte. Un dipinto che riflette sentimenti di angoscia e turbamento è “Blind man patriot” (2007), in cui figura un personaggio incappucciato, una specie di giustiziere o piuttosto di anonimo carnefice, che potrebbe benissimo incarnare lo spirito di vendetta del popolo americano nei confronti del terrorismo. È bene, però, specificare che nel percorso creativo di Ronnie Cutrone la rappresentazione drammatica e quella ironica procedono di pari passo. Le numerose bandiere americane della serie “Pop Shot” dipinte negli ultimi anni con i personaggi della Disney e gli eroi in calzamaglia della Marvel e della DC sono la testimonianza del suo mai sopito entusiasmo per la sensibilità infantile e adolescenziale. Attraverso questo tipo d’iconografie, Cutrone è, infatti, riuscito a conservare l’ironia e la leggerezza necessarie a guardare il mondo con uno sguardo privo di pregiudizi. La sua adesione alla sensibilità infantile è il motivo ricorrente di tutta la sua produzione, tanto che più volte l’artista ha descritto il suo lavoro come una sorta di tentativo di dipingere le illusioni di un bambino con l’ironia di un adulto. “Cerco di mantenere il mio umorismo”, affermava in un’intervista, “perché è la sola arma che ho contro l’illusione e l’idealismo”[2].  Un’opera che ha emblematicamente esemplificato la capacità di Ronnie Cutrone di mantenere una certa innocenza nel modo di vedere le cose, è “Tatabu” (2000), realizzata appositamente per LucreziaMelina, figlia del gallerista Matteo Lorenzelli, in occasione della mostra realizzata nel suo spazio milanese nel settembre 2003. “Tatabu” era il modo in cui LucreziaMelina chiamava ogni distesa d’acqua, si trattasse di un fiume, di un lago o di un mare. “Trovo affascinante e insieme dolceamara”, scriveva a tal proposito Cutrone, “l’idea che l’innocenza percettiva di un bambino sia sempre creativa prima di sottomettersi alla conformità”[3].

ka blam 2005 cm. 180x180

A distanza di sette anni da quella mostra milanese, il clima sembra essere migliorato, non si avverte più la tensione che aveva caratterizzato gli anni successivi l’11 settembre. Poco dopo aver concluso la serie delle Cell Girls, contraddistinta da una sottesa violenza iconografica Cutrone sembra ritrovare una visione più distesa e rilassata della società. Proprio nel 2006, infatti, realizza un polittico composto da sei piccoli acrilici su tela intitolato “Look Better”. L’opera è inconsueta rispetto allo stile di Cutrone, solitamente più esuberante e fa pensare, in qualche modo, alla pulizia formale di artisti come Tom Wesselman e James Rosenquist. “Look Better” emana una sorta d’impalpabile senso di distensione, che riverbera nella rasserenante sequenza dei cinque sorrisi di donna. È la quiete dopo la tempesta. Il ristoro dopo un periodo di grave stress. Il titolo stesso esprime il senso di un miglioramento, di un ristabilimento dell’equilibrio. Si tratta di un’opera cardine, che segna il passaggio di un lustro, dal 2000-2005 al quinquennio successivo, ma che, tuttavia, non esclude il sussistere di temi appartenenti al periodo precedente. Cutrone non procede mai schematicamente e spesso un ciclo di opere può intrecciarsi con un altro. Un esempio è la serie intitolata Transformer, iniziata nel 2004, dunque quasi contemporaneamente alle serie Cell Girls e ai Pop shots dipinti su bandiere americane, ed esposta solo in minima parte in Italia nel 2009[4]. Si tratta di un work in progress che ha impegnato l’artista per cinque anni e che è consistito nella realizzazione di opere che riproducono le copertine degli album che hanno segnato un cambiamento o un passaggio nel vissuto personale dell’artista. “Mi sono avvicinato all’idea di dipingere musica”, ha spiegato l’artista, “nello stesso modo in cui lo avrei potuto fare da teenager che dipinge la sua preziosa collezione di dischi con i suoi idoli e le sue ossessioni. Un modo piuttosto naïve, quasi sciocco, ma con amore”[5].

crusade 2005.acrylic&collage on canvas.180x180cm

Rifare le copertine degli album è, infatti, una pratica molto diffusa tra i ragazzi, ma nel caso di Ronnie Cutrone assume un carattere programmaticamente critico. Ridipingendo le copertine degli album che ha amato, l’artista compie un viaggio a ritroso nella propria storia, ricostruendo, al contempo, le tappe salienti della storia collettiva dal dopoguerra a oggi. “Come artista pop”, ha dichiarato, “sono ossessionato dai fenomeni culturali e dalle tendenze che nel bene o nel male alimentano e trasformano una società”[6]. Non a caso, proprio attorno al concetto di trasformazione ruota questa serie di lavori, che vuole essere anche un tributo ai musicisti che hanno giocato un ruolo essenziale nella formazione della visione artistica di Cutrone. Curiosamente, Trasformer è anche il titolo di un album di Lou Reed, personaggio chiave della Factory di Warhol e conosciuto dall’artista già ai tempi dell’Exploding Plastic Inevitable, il grande show multimediale del 1966 di Velvet Underground & Nico, che vedeva coinvolti una pletora di personaggi del sottobosco underground newyorchese tra cui lo stesso Cutrone.

only the lonely 2006

I Transformers di Cutrone possono essere considerati come un grande affresco della storia contemporanea dagli anni Cinquanta a oggi attraverso le evoluzioni della musica e della cultura. Ogni album ha innescato un cambiamento, una svolta nel tracciato della storia. La prima copertina dipinta da Cutrone è una pietra miliare del Doo-Wop, The Paragons Meet The Jesters del 1959, una compilation dei brani migliori dei due gruppi che rappresenta uno spaccato della cultura musicale della New York di quegli anni. Il Doo-Wop era un genere inventato dagli italo-americani, derivato dalla fusione di  Rhythm & Blues e Rock & Roll e caratterizzato da testi romantici e filastrocche vocali non-sense. L’interpretazione di Cutrone è fedele all’originale – con l’immagine dei due bulli di una gang di strada in giacche di pelle nera – tranne che per l’aggiunta di un collage con carte da gioco e riferimenti alla cultura di quegli anni (Kerouac e suoi I Sotterranei). Si tratta di un’evoluzione rispetto al rock & roll di Elvis Presley, celebrato da Cutrone nell’opera che riproduce la copertina del suo primo album del 1956. Con The Paragons meet The Jester siamo nell’ambito della subcultura dei grasers[7] celebrata da film come American Graffiti e Grease e serial come Happy Days.

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Altro disco trasformativo di quel periodo è Sketches of Spain di Miles Davis, realizzato insieme all’amico Gil Evans nel 1960 sulla base di musiche tradizionali spagnole e di pezzi classici come il secondo movimento del Concierto de Aranjuez di Joaquin Rodrigo. Si tratta di uno dei Transformers più pittorici della serie, del tutto privo d’inserti a collage. Poi è la volta di Meet The Beatles del 1966, secondo album del quartetto, ma primo per l’etichetta Capitol, con la famosissima foto di copertina di Robert Freeman. Dello stesso anno è Are You Experienced di Jimi Hendrix, il disco che cambia definitivamente il volto del rock portando la distorsione della chitarra ai massimi livelli e lasciando un segno indelebile nei guitar heroes delle generazioni successive. Ancora del 1966 è un’altra pietra angolare del rock, Blonde on blonde di Bob Dylan, primo album doppio della storia, che segna tra l’altro la svolta elettrica del cantante folk. L’immagine di copertina, una foto sfocata scattata da Jeffrey Schatzberg che ritrae il musicista con una giacca scamosciata e una sciarpa al collo, è una delle più celebri icone della cultura rock. Le scelte di Cutrone in fatto di copertine sono legate a molti fattori e possono includere sia motivazioni di ordine estetico sia citazioni che fanno riferimento al suo personale percorso artistico, come nel caso delle copertine di Velvet Underground & Nico (1967), Sticky Fingers (1971) e Love you Live dei Rolling Stone (1977), realizzati dal suo maestro e mentore Andy Warhol.

Sono molti i temi trattati nella serie Trasformer, dalle tendenze politiche e sociali alle trasformazioni in fatto di body modifications e chirurgia estetica fino ai mutamenti che la musica è in grado di produrre sugli individui.  Come ha scritto l’artista, “queste tre aree per me rappresentano la mente, il corpo e lo spirito di tutto”[8]. L’attenzione di Cutrone per l’affermarsi della cultura nera in ambito musicale è segnata dalla presenza di copertine come Soul Rebels di Bob Marley and The Wailers del 1970 e Screaming Target di Big Youth del 1972, capolavori della musica giamaicana, e What’s Going On di Marvin Gaye del 1971 e Superfly di Curtis Mayfield del 1972, episodi che incarnano due momenti fondamentali della musica afro-americana dei primi anni Settanta. What’s Going On di Marvin Gaye oltre ad essere considerato uno dei migliori dischi del XX secolo, rimasto per oltre un anno nella classifica pop di Billboard con 2 milioni di copie vendute, è anche un album impegnato, che tratta temi come la droga, la povertà, l’odio e la sofferenza, così come li vivevano i veterani della Guerra del Vietnam che avevano appena fatto ritorno in patria. L’altro album, Superfly di Curtis Mayfield, è la colonna sonora dell’omonimo film, capolavoro del genere Blaxploitaiton, anch’esso incentrato su tematiche crude, quali la dura vita nei ghetti neri d’America.

Studio 54

Un altro blocco compatto di Transformers è quello degli anni Ottanta, periodo nel quale Cutrone diventa uno dei protagonisti e testimoni chiave della Factory warholiana. Benché realizzato negli anni Settanta, precisamente nel 1977, l’album Low di David Bowie può essere considerato uno dei dischi seminali della New Wave.  Primo della trilogia berlinese, di cui fanno parte anche gli album Heroes e Lodger, Low segna il definitivo abbondo da parte di Bowie del glam rock più trasgressivo e il suo approdo ad uno stile più severo e minimale, che riflette le atmosfere cupe della capitale tedesca. Il titolo stesso, Low, significa depresso, triste. Il contraltare di questo disco, ma anch’esso a suo modo “trasformativo” è l’album A Night at Studio 54 (1979), che sancisce il punto più alto, ma anche il crepuscolo della disco music anni Settanta, con pezzi dei Village People, degli Chic, di Donna Summer, di Cher e molti altri. La raccolta riassume in due vinili il meglio della musica suonata allo Studio 54, il famoso locale situato tra la settima e l’ottava avenue a Manhattan, famoso per gli eccessi e le provocazioni che ne facevano un tempio della stravaganza. Tra i frequentatori del club c’erano oltre a Andy Warhol, Elton John, Liza Minelli, John Travolta, Michael Jackson e Truman Capote, anche personaggi che gravitavano intorno alla Factory, come Grace Jones, Jean Michel Basquiat, Keith Haring e la giovane Madonna. A Night at Studio 54 fotografa uno spaccato dell’America Felix, che non poteva sfuggire allo sguardo attento di Cutrone.

È proprio in questo momento, mentre volge al termine l’esperienza degli anni Settanta e prende forma il rock raffinato e decadente degli Ottanta, che le scelte di Cutrone riflettono il sovrapporsi di esperienza personale e memoria collettiva. Siamo nel 1980 e New York è la culla di un Rinascimento culturale che coinvolge la musica rap, le arti visive e la cultura di strada. Sugarhill Gang (1980) dei The Sugarhill Gang, autori del fortunato singolo Rapper’s Delight, è il disco che contribuisce a diffondere il genere rap presso un pubblico più vasto, al di fuori del circuito culturale newyorkese. La grafica è caratterizzata dal lettering gommoso che compone la scritta Sugar Hill, culminante nel tondo centrale sormontato dallo skyline della Grande Mela. Siamo agli albori della Golden Age, poco prima dell’irruzione sulla scena dei Run-DMC. Per le strade impazza il Wild Style, una tipologia di graffiti che intreccia lettere e simboli fino a renderli illeggibili, che nel 1983 viene documentata dal film omonimo diretto da Charlie Ahearn. Un anno prima dell’uscita dell’album degli Sugarhill, nel 1978, Basquiat poneva fine all’esperienza dei graffiti con la scritta “SAMO is dead”. Più o meno nello stesso periodo, Keith Haring disegnava i suoi radiant boy nelle stazioni della metropolitana ottenendo un notevole riscontro tra i giovani. Cutrone è di dieci anni più vecchio di Keith Haring e Basquiat, ma lo scenario culturale nel quale opera è lo stesso. Non molto tempo dopo, si ritroveranno tutti e tre insieme a frequentare i party della Factory, dove Ronnie lavorava come assistente di Warhol.

La disamina sui dischi “trasformativi” di Cutrone include una lunga lista di copertine. Come in High Fidelity, il film tratto dal romanzo di Nick Hornby, in cui il protagonista è impegnato a riordinare la sua collezione di vinili seguendo un criterio esclusivamente autobiografico, anziché alfabetico o cronologico, anche Ronnie Cutrone procede nel suo percorso tenendo conto soprattutto dei dischi che hanno un significato particolare prima di tutto per lui e in secondo luogo per la collettività. Gli anni Ottanta sono contrassegnati da dischi come The B-52’s (1979), disco eponimo d’esordio del gruppo di Athens, che influenzò tutta la successiva new wave americana; Virtu Ex Machina dei Kraftwerk (1981), la band tedesao che con il suo stile elettropop ha determinato la nascita di nuovi generi musicali; infine Thriller di Michael Jackson (1982), forse uno dei dischi più venduti nella storia della musica di tutti i tempi. Anche gli anni Novanta hanno le proprie pietre miliari. Dischi come Erotica (1991), uno degli album coraggiosi di Madonna, che tratta l’amore e il sesso in tutte le sue varianti e precede, dal punto di vista stilistico, le sonorità delle compilation del Buddha Bar; Blue Line dei Massive Attack, che intrecciando Dub, reggae ed elettronica inaugura l’epoca del cosiddetto Bristol Sound; Nevermind dei Nirvana (1991), secondo album della band di Seattle, annoverato tra i classici del rock; l’omonimo dei Metallica (sempre del 1991!), ribattezzato anche black album per la copertina nera, contenente la struggente “Nothing else matters”.

I Transformers di Cutrone rappresentano, per usare il colto frasario di Jean Clair, le disjecta membra di un’epoca, anche perché, come ha scritto Michael McKenzie, Cutrone è “collagista nel cuore”[9] e dunque la sua attitudine è quella del raccoglitore di frammenti, del collettore di minimalia. Ogni copertina rivisitata dall’artista diventa, così, il tassello di un complesso mosaico entro il quale entrano di diritto tutte le sfumature della sua arte pop, dalle Cell Girls alle Explosions, dai Pop Shots fino a tutti gli altri dipinti che hanno per protagonisti i personaggi di fumetti e cartoni animati. La cosa bella dell’arte di Cutrone consiste proprio in questa capacità d’includere tutte le espressioni umane nella fedele e agrodolce rappresentazione della contemporaneità. Nessun altro artista è riuscito a farlo con altrettanta leggerezza e onestà.


[1] Anthony Haden Guest, in Ronnie Cutrone. Transformer – Figment, cat. Milk Gallery, 2009, New York.

[2] Nessuna domanda… nessuna risposta, intervista a cura di Giovanni Iovine, in Pittura dura. Dal Graffitismo alla Street Art, p. 27, Electa, 1999, Milano.

[3] Ronnie Cutrone, Tataboo. Apostoli, Supereroi, Gelati, Croci e Esplosioni, cat. omonimo, Lorenzelli Arte, 2003, Milano.

[4] Nella mostra Marco Lodola/Ronnie Cutrone. Lodola Vs Cutrone, a cura di Francesco Poli, galleria Mar & Partners, 2009, Torino.

[5] Ronnie Cutrone, Transformer Figment. 2004-2009, in Ronnie Cutrone. Transformer – Figment, cat. Milk Gallery, 2009, New York.

[6] Ibidem.

[7]  Termine col quale venivano designati gli immigrati italiani che si mettevano la brillantina nei capelli, ma che designava anche gli appartenenti ad una subcultura simile a quella dei rockers inglesi.

[8] Ibidem.

[9] Michael McKenzie, Nice Work (if you geti it), in Ronnie Cutrone. Transformer – Figment, cat. Milk Gallery, 2009, New York.

Paolo Icaro. La misura di un uomo

20 Mag

 

di Ivan Quaroni

Guardo le cose di Icaro senza pregiudizio, con “ignoranza”. Ignoro il chi, il come, il quando, il dove. Sono osservatore diretto, tabula rasa. L’informazione viene dopo lo sguardo, dopo l’esperienza, quasi per provare la “tenuta”, la forza e l’energia delle cose quando non se ne sa niente. Ed è un test universale, una prova del fuoco. Se annulli il fattore cognitivo, quello intellettuale, sei obbligato a fare una fenomenologia, a ricostruire dal nulla. Anche se quel “nulla” riguarda solo l’arte, la sua storia, i suoi movimenti.

Vedo le cose di Icaro per la prima volta (o quasi). Vedere significa accorgersi di qualcosa, aprire una porta. Nelle sue cose c’è un abbracciare, un avvolgere, un accogliere, ma anche un respingere, un ferire, un contrapporre. C’è un girare attorno alla conoscenza pregiudiziale, uno schivare i preconcetti, reinventando i termini della geometria delle figure piane e dei solidi. I cubi sono ingannevoli, hanno angoli cedevoli, mutevoli. Le linee rette hanno troppa materia, troppa sostanza e allora Icaro ne aumenta la tensione, ne assottiglia le estremità, quasi ad esaudire quel desiderio, tutto astratto, di tornare alla matrice, al punto da cui tutto trae origine. Eppure lo spazio della retta non è più compreso tra due punti, ma tra due punte. Non è la stessa cosa. Il punto concerne lo spazio quanto la punta concerne l’uomo. La punta utensile, la punta arma, la punta polo d’attrazione magnetica. L’uomo, ecco il punto. La pietra di paragone.

Qual è il fondamento della scultura? Non è lo spazio, non il tempo, non la materia. Il fondamento è l’uomo, l’artefice e il beneficiario. Non si è mai sentito parlare di una scultura per gli angeli, per gli Dei, per gli alieni. Ci sono sculture d’angeli e di Dei (persino d’alieni), ci sono omaggi ed ex-voto. Ma sono per gli uomini. Nella scultura, Icaro cerca l’uomo che è. Il suo essere forma e proporzione, il suo essere molle, fendibile, feribile. I suoi punti zenitali, i suoi nadir misurano la sua scultura. O è la sua scultura che li misura, nella forma di una minaccia potenziale. Ci sono linee di acciaio ramato e fili di alluminio che si possono avvolgere intorno ai suoi piedi o alle sue braccia. Ci Sono strutture metalliche che vestono come elmi puntuti, altre che percorrono il midollo, giù fino allo scroto. Ma tutte sono a misura d’un solo uomo, per una sola pietra di paragone.

Ciascuno fabbrica la sua prigione e, fuori delle sbarre, l’universo che lo attende.  Icaro ha fabbricato prigioni temporanee, feritoie troppo aperte per lui. Sono luoghi, le prigioni, in cui qualche volta ci capita d’entrare. Non è mica detto che non ci si possa uscire. Dipende dai punti (ancora) di vista, dalla prospettiva, che può essere accelerata, assottigliata per l’effetto di un angolo specchiante. Si può entrare e uscire dalle cose, come dalle prigioni. Due boccole incassate nel muro su due pareti opposte, allineate in perfetta simmetria, sono come due porte che idealmente attraversano tutto il globo, due poli, due orifizi. Un ano e una bocca, due ani, due bocche…come vi piace.

Tutte le cose sono misurabili, quantificabili, ma anche relative. Mi piacerebbe conoscere l’uomo che ha prestato il piede o il pollice agli inglesi perché ne facessero una misura. La loro misura. Conoscere il metro non è affatto affascinante, deve aver pensato Icaro. Così si è fatto la sua misura: un’asta retta, suddivisa in sottomisure della grandezza d’un pollice d’Icaro. Una misura naturale, organica come il rapporto aureo, che regola la crescita degli esseri viventi, ma non universale e nemmeno planetaria. Una misura piccola.

Paolo Icaro, Sette interdigitali 2006 marmo di Carrara e creta cm12x200x10

Paolo Icaro, Sette interdigitali 2006 marmo di Carrara e creta cm12x200x10. Courtesy Lorenzelli Arte

Ho visto nelle sculture di Icaro il luogo di un’accoglienza pericolosa, come quando il ferro attorcigliato affonda nella tavola di gesso fresco e non sai più se stia annegando o affiorando in superficie. Come quei sassi galleggianti su pozze di gesso solido, a loro volta chiuse in cestini di piombo. Anche qui c’è una misura di sprofondamento o di affioramento, una visibilità determinata dal coefficiente d’immersione.

C’è l’istinto di avvolgere e circondare, quasi di costringere. Una collana colossale, con denti di pietra bianca non somiglia forse a un giogo?

Eppure si può avvertire la qualità dell’abbraccio nell’avvoltolarsi cilindrico del piombo intorno al gesso, che cresce e decresce come nelle lunazioni, che fanno il ritmo delle maree e delle polluzioni fertili delle donne. Guardo ad Icaro come ad un intermediario, anzi come a un mediatore tra le sostanze, un pacificatore tra solidi e fluidi, tra consistenze effimere e durature, ora morbide ora taglienti. Ci sono lame di vetro che sembrano fendere il gesso dall’interno e poi volgersi fuori come ferri d’ascia o punte di freccia. Ci sono reti leggere poggiate sui sassi, oppure graffe di ferro, come suture nella pietra. Poi ci sono obelischi di gesso frastagliato che abbracciano ventri di piombo morbido. Ovunque c’è il gesso, la femmina dolce che tutto accoglie, che tutto lenisce: le punture del metallo, le percussioni del legno, gli sfondamenti della pietra.

C’è, inevitabile, una musica, un ritmo dei ferri ritorti, attorcigliati secondo sinusoidi inventate come le tracce di uno scarabocchio. Somigliano a “variazioni su un tema”, a “fughe improvvise”. Il ritmo varia secondo le superfici, che s’increspano, si raggrinzano, come le acque d’un lago. La scansione del battere e del colpire è un altro modo della misura. È un gesto ossessivo, che conduce la mente a una breve dimenticanza. Ma alla fine il corpo è ancora li, con la misura del respiro, della pulsazione, del battito di ciglia. L’uomo non si elude che per pochi attimi. E allora, mi chiedo, di che altro può occuparsi la scultura?

Allen Jones – Aphrodite on the Catwalk (Reprint)

9 Mag

 

di Ivan Quaroni

Con Allen Jones

Ivan Quaroni e Allen Jones alla Mostra da Lorenzelli Arte, Milano

Esistono due aspetti del lavoro di Allen Jones, due anime complementari, entrambe necessarie, entrambe importanti, attraverso le quali è possibile leggere la sua opera. Il primo aspetto è quello “pop”, che i media, obbedendo alle tipiche esigenze di semplificazione di una comunicazione rapida ed efficace, amano divulgare. L’altro aspetto, forse meno eclatante, ma senza dubbio più pregnante per gli addetti ai lavori, è quello “concettuale”, che attiene, più che ai contenuti iconografici, al linguaggio pittorico, insomma all’aspetto formale che, fin dai primi anni Sessanta, caratterizza la sua indagine. Il primo aspetto può essere esemplificato con le notizie che più frequentemente vengono trasmesse da giornali, riviste, televisioni. Allen Jones nasce nel 1937 a Southampton, nel sud dell’Inghilterra, e studia pittura e litografia dal 1955 al 1959 all’Horsney College of Art di Londra per poi passare al Royal College of Art dal quale sarà espulso nel 1960 per intemperanza. Qui, suoi compagni di studio sono David Hockney, R. B. Kitaj, Patrick Caufield, Peter Phillips e Derek Boshier, un gruppo di artisti destinato a lasciare una profonda impressione nell’arte inglese grazie all’utilizzo di nuovi materiali e all’introduzione di temi e figure desunte dalla cultura popolare urbana.

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Allen Jones, Three-Part-Invention, 2002. Courtesy Lorenzelli Arte

Sono gli anni della Swinging London e Allen Jones, manifesta dal 1963 in avanti una preferenza per soggetti legati al mondo del glamour e della moda, in particolare indaga ossessivamente un’iconografia femminile caratterizzata da forti implicazioni erotiche e feticistiche. Legge Nietzsche, Freud e Jung ed è evidente che il suo interesse per questo tipo d’immaginario è filtrato dalla visione di questi autori. L’attenzione feticistica per l’anatomia e l’abbigliamento femminile, presente in dipinti come Perfect match (1966-67) e Gonna pieghettata (1965) culminerà, anche sul piano della popolarità massmediatica, in sculture che trasformano l’immagine muliebre in complementi d’arredo come tavoli, attaccapanni e sedie. Siamo nel 1969. Si dirà, in seguito, che Kubrick rimane affascinato da queste sculture pericolose e impudenti, tanto da ispirarsene per la famosa scena del Korova Milkbar in Arancia Meccanica. Fin qui è storia. Ai media piace questa parte della biografia di Allen, perché ha un’aura leggendaria. Intendiamoci, si tratta della pura e semplice verità, ma anche di una visione parziale del suo operato. Si sa, il vintage esercita un notevole fascino nella cultura di massa contemporanea.

Altrettanto interessante e soprattutto sorprendente è, invece, osservare l’Allen Jones pittore concettuale e colto conoscitore della storia dell’arte, che coesiste con l’Allen Jones artista pop di fama mondiale. Anche qui, proviamo a sintetizzare alcuni punti salienti della sua biografia.  All’Horsney College il metodo d’insegnamento è basato sul Pädagogisches Skizzenbuch di Paul Klee, uno scritto del 1924 che è una sorta di raccolta di materiale didattico sulla pittura ad uso degli studenti.  Sono, questi, anni di studio, ma anche di viaggi. Nel 1958 a Parigi Jones rimane folgorato dai dipinti di Delaunay, da cui sembra apprendere una lezione cromatica che in seguito verrà rafforzata dall’approfondimento dell’opera di Matisse. Nel 1959 ha anche occasione di vedere le opere di Fernand Leger a Biot, dove ora sorge il museo a lui dedicato. Queste brevi coordinate biografiche ci suggeriscono che il background dell’artista è fortemente influenzato dal clima delle avanguardie europee. Ai nomi citati si possono aggiungere Kandinskij e, naturalmente, Picasso. Come ha giustamente scritto Franco Basile: “Influenzato dai grandi delle avanguardie storiche europee, Jones non ha potuto eludere il senso di una concettualità portatrice di memorie e sogni”[1].

No hands, 2009. Courtesy Lorenzelli Arte

No hands, 2009. Courtesy Lorenzelli Arte

La cultura di Allen Jones è insomma europea ed è proprio questo l’elemento di maggior distinzione tra la sua opera e quella di gran parte dei pop artisti americani. Infatti, anche se tra le sue fonti d’ispirazione, si possono elencare le fotografie di riviste come “Playboy” ed “Exquire”, illustrazioni e pubblicità dei magazine di moda e perfino le tavole di fumetti erotici come “Exotique” e “Nutrix”, insomma tutto il materiale che compendia la mitologia erotica della cultura popolare metropolitana, è evidente che Allen Jones non è Mel Ramos. Intendo dire che, nonostante l’affinità nella scelta di soggetti legati all’aspetto erotico della bellezza femminile, l’approccio di Allen Jones reca i segni di una cultura artistica che attribuisce una grande importanza all’aspetto linguistico e formale della pittura. I temi che l’artista indaga, anche oggi, attraverso un processo di ossessiva reiterazione di certi soggetti, dalle pin up alle modelle, dalle ballerine agli androgini, fino alle coppie di amanti, diventano il pretesto per sorprendenti asserzioni pittoriche, che appaiono davvero lontane dall’ortodossia pop. D’altra parte, la produzione di Allen Jones dal 1960 al 1964 è caratterizzata da composizioni vivaci che tendono all’astrazione, come nel caso di The Battle of Hastings del 1961-62 e di Something like sisters del 1962.

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Mostra di Allen Jones da Lorenzelli Arte

I dipinti selezionati per la mostra alla galleria Lorenzelli Arte sembrano rilevare programmaticamente l’allure europea della pittura di Jones. C’è, in particolare, un acquarello del 1973, intitolato O.T., dove le tinte, stese con apparente noncuranza, quasi fossero prove di colore, rimandano a certe nuance della tavolozza di Paul Klee. Si tratta di una reminescenza che svanisce non appena lo sguardo si dirige verso l’evanescente anatomia femminile in corsa, in cui, invece, riscopriamo tutta la levità dell’arte pop. Resta tuttavia indelebile l’impressione di qualcosa di ambiguamente sospeso tra due modelli di pensiero contrastanti, uno rappresentato dalle sperimentazioni europee del Novecento e l’altro che incarna un tipo di approccio radicalmente più scanzonato e popolare. Rispetto ad altre opere recentemente esposte alla Galleria Thomas Levy di Amburgo, dove il riferimento alle avanguardie europee assume la forma della citazione, come nel caso di Mirror Mirò (2009), Matisse Curtain (2006), Picasso Curtain (2006) e Delaunay Curtain (2009), in cui viene ribadito il tradizionale tema del contrasto tra low and high culture, le opere di questa mostra appaiono meno esplicite, più allusive.  Lo si nota soprattutto negli oli di piccolo formato. In Salute (2009), per esempio, l’uomo con la paglietta in mano, disegnato sulla tela posta dietro la colonna, somiglia a un personaggio della cartellonistica pubblicitaria di Fortunato Depero. La testa d’uomo con i baffi che incombe sulla figura femminile di Age before beauty (2009), invece, evoca non solo lo stile del sopracitato futurista italiano, ma anche quello di Otto Dix. Il clima è novecentesco anche in altre opere. È un’allucinazione o la moltiplicazione di elementi del pianoforte a formare una sorta di scala nel dipinto Play for today (2003) cita, in qualche modo, il famoso Nu descendant l’escalier di Duchamp? Forse è solo suggestione, ma nello stesso quadro il personaggio maschile in basso al centro somiglia proprio al grande artista francese. Potrebbe essere solo una coincidenza, ma stando a Jung, che Allen Jones dovrebbe conoscere bene, le coincidenze non sono altro che accadimenti sincronici. La sincronicità e la simultaneità, tra l’altro, sono argomenti più che pertinenti quando si parla dei dipinti di Allen Jones, in cui talvolta gli episodi la rappresentazione di differenti episodi narrativi tende ad assumere l’aspetto di un’unica, sfaccettata immagine, proprio come nel dipinto Play for today. Anche in questo caso, ci è dato ravvisare l’influsso del Futurismo e del Cubismo e della loro comune tendenza a frazionare l’immagine e il movimento. In un altro dipinto, intitolato Not in the script (2008), gli arti del personaggio maschile sono moltiplicati per suggerire l’idea di movimento, come in Dinamismo di un cane al guinzaglio, (1912) di Giacomo Balla. Inoltre, nello stesso dipinto, il volto della donna, dai lineamenti mirabilmente sintetizzati, rimanda alle volumetrie dell’arte africana, tanto cara alle avanguardie storiche. Che dire poi delle sculture dipinte simili a silhouette ritagliate nella carta e poi squadernate? Non hanno un’aria novecentesca, la stessa che ritroviamo nel piccolo acquarello del 1989 intitolato Satie-Cinema, in cui sembra rivivere lo spirito dei bozzetti di moda di Sonia Delaunay? L’imprinting europeo della cultura di Allen Jones si affianca, insomma, allo spirito pop che continua ad aleggiare nelle sue opere attraverso soggetti prosaici, legati all’immaginario della vita urbana. “Non so se quello che faccio oggi sia ancora Pop Art”, ha dichiarato in una recente intervista, “Ormai del gruppo di ragazzi che eravamo siamo rimasti vivi in pochi. A parte questo, direi che la Pop Art si è evoluta con noi e si è trasformata in qualcosa d’altro”[2].

Certo è, che un lavoro come Invitation Only (2009), già esposto alla Tate Britain in occasione del settantesimo compleanno dell’artista, contiene molti elementi legati all’immaginario mass-mediatico urbano, come il mondo glamour della moda e dello show business. Opera centrale della mostra, con i suoi cinque metri e mezzo di lunghezza, Invitation Only rappresenta una lunga passerella che si snoda lungo tre tele di dimensioni crescenti. I corpi statuari delle modelle, cui fa da eco quello della scultura Waiting on the table del 1987, sospeso tra l’elegante incedere di una divinità egizia e l’algida sensualità di un’eroina cyberpunk, sono quanto di più affascinante e suadente. Eppure non sono tanto i soggetti, ma piuttosto le contrastanti campiture di colore a rendere tutta la scena più scintillante e vibrante, come il flash elettrico delle macchine fotografiche dei giornalisti che assistono alla sfilata. Avvicinandosi alla tela si può vedere la qualità del segno, la precisione e la sicurezza del gesto che rendono impareggiabile la sua tecnica. Allen Jones è senza dubbio un artista pop, comunicativo e immediato, ma è anche e soprattutto un grande pittore, disciplinato, sicuro ed abile al punto da dirigere l’attenzione del pubblico verso i contenuti. Una qualità che davvero pochi artisti pop possiedono. D’altra parte, è sufficiente osservare No hands, per capire che la definizione di artista pop è oramai inadeguata quanto obsoleta. In questo piccolo gioiello di maestria le luci della ribalta della cosiddetta Pop life si affievoliscono e lasciano il campo ad una visione più poetica e introspettiva del rutilante mondo dello spettacolo.


[1] Franco Basile, Il mito col silicone, in ALLEN JONES, catalogo della mostra omonima realizzata al Palazzo dei Sette di Orvieto su progetto di Maggiore Eventi d’Arte, Bologna, nel 2002.

[2] Francesca Amé, “Torno a Milano dove portammo la PopArt”, IL GIORNALE, lunedì 22 febbraio 2010, p. 46.