di Ivan Quaroni
La nozione di “natura” è oggi sottoposta a una radicale revisione principalmente perché è ritenuta – soprattutto dai filosofi della cosiddetta OOO (Ontologia Orientata all’Oggetto) – come una premessa teorica dell’antropocentrismo. In sostanza, se siamo arrivati a questo punto (inquinamento, effetto serra, epidemie, estinzioni e crisi climatica) è perché l’uomo si è considerato superiore rispetto tutto ciò che di organico e inorganico esiste al mondo. Il filosofo inglese Timothy Morton, ad esempio, considera quello di “natura” un concetto razzista e insiste perché si affermi una Ecologia senza natura[1], basata su un profondo ripensamento del rapporto tra uomo e ambiente. “Occorre superare un’idea di natura come qualcosa di esterno e distaccato”, afferma Morton, cioè “… che ci sia questa cosa chiamata natura e che si trovi sotto il cemento, sulle montagne o nel mio DNA, ma mai qui, dove siamo noi”[2]. Il rischio è che “natura” e “naturale” diventino termini normativi che indicano come comportarsi, che insomma ci inducano a distinguere cosa sia “naturale” e “innaturale”, con prevedibili conseguenze discriminatorie e violente.
Il tema naturalistico è insistentemente reiterato nel lavoro di Ersilia Sarrecchia, artista che mette spesso al centro della sua pittura immagini che sottendono i processi di metamorfosi e trasformazione che caratterizzano la flora e la fauna del nostro pianeta. Pachidermi, felini, anfibi, lepidotteri, ma anche fiori, erbe e piante officinali occupano costantemente le sue visioni come simboli di un modo di vita selvatico, brado, libero da ogni domesticazione. Si sarebbe tentati, quindi, nell’ottica ecologica di Morton, di considerare il suo campionario iconografico come il segno del suddetto (e antico) concetto di natura, se non fosse che una porzione importante della sua produzione include il corpo femminile come parte integrante di quello stesso ambiente da cui provengono gli altri soggetti naturali.
In particolare, il ciclo di opere intitolato Presente remoto (2012), che pretestuosamente prendeva le mosse dalla esplicita frontalità genitale del famoso dipinto di Courbet, L’Origine du monde, articolava l’anatomia femminile in un caleidoscopio di forme concitate e frementi di erotici spasmi, intervallate da più rare e pacifiche visioni di elefanti e dromedari, quasi a suggerire una continuità tra l’umano e l’animale. Una continuità che, in effetti, si poteva ancora spiegare con la teoria dell’istinto o comportamento innato, cioè la tendenza intrinseca di un organismo (umano o animale) a mettere in atto un particolare comportamento. Ad esempio, quello sessuale.
L’idea, alla base di quella serie di dipinti era di mostrare il corpo femminile come un meraviglioso dispositivo pulsionale e libidico, una macchina organica irrorata di sangue e lubrificata di secrezioni alla stregua di quella di esemplari di altre specie animali che obbediscono a istinti analoghi. In quelle tele, come nelle più recenti della serie Presente remoto imperfetto, il corpo femminile non solo è anonimo (non associato ad alcun volto), ma è anche privo di segni, orpelli, accessori o ornamenti che riconducono alla sfera civile dell’uomo. Invece, ci sono artiste come Jenny Saville o Tracey Emin, che rappresentano corpi legati a precisi contesti sociali e culturali. Ad esempio, le massicce anatomie dipinte da Saville negli anni Novanta, con le epidermidi segnate dalle linee di pennarello, sono quelle di donne ipernutrite, che risolvono i danni provocati da una cattiva alimentazione con l’aiuto della chirurgia estetica. Invece, i nudi erotici di Emin, perlopiù autoritratti, aboliscono i confini tra pubblico e privato mostrando gli aspetti più intimi e segreti della vita dell’artista. In entrambi i casi, i corpi rappresentati dalle due artiste rivelano qualcosa non solo del loro vissuto personale, ma anche della società a cui appartengono. Nei lavori di Ersilia Sarrecchia, invece, i segni di riconoscimento culturale e sociale sono omessi, analogamente a quanto accade in certe grandi tele di Cecily Brown, dove nel coacervo panico di forme e colori, si affastellano senza soluzione di continuità anatomie umane, morfologie animali, elementi fitomorfi e perfino oggetti.
Con un linguaggio più lineare e calligrafico rispetto a quello della Brown, l’artista italiana lascia affiorare sulla tela una mappa di curve anatomiche, linee costellate di fenditure, orifizi, aureole su cui sono sovrascritte annotazioni illeggibili come tracciati sismografici che registrano le scosse del desiderio e i sussulti che squassano la macchina biologica fino al deliquio. In questa orgia di corpi, che ho definito “macchine organiche”, è possibile riconoscere il comune destino riproduttivo che apparenta l’uomo alle altre specie animali.
La pittura di Ersilia Sarrecchia, composta di stratificazioni di colori a olio, acrilici, smalti, resine, grafiti e pastelli, dice questo, ma afferma anche altro. Ossia che l’universo femminile non si esaurisce con l’adempimento di un compito biologico e che la natura non è, come vuole Morton, solo natura, ma anche tutto quello che è stato generato dall’azione antropica. Certo, l’artista non arriva a proporre, come fa Donna Haraway, un modello di femminismo cyborg[3] in cui definire un corpo femminile come artificiale significa liberarlo dallo stigma della funzione di madre e, allo stesso tempo, svincolarlo dal ruolo a cui l’ha relegato una visione fallocentrica della natura, ma intuisce chiaramente che la donna non può essere ridotta al compito di fabbrica vivente o di “bordello riproduttivo”[4]. Il titolo stesso della sua serie di opere – Presente remoto imperfetto – è una velata indicazione del fatto che la funzione riproduttiva della donna non è interamente sovrapponibile con la sua propensione alla maternità e all’accudimento. Se è vero, infatti, che oggi come ieri (Presente remoto) il compito biologico della donna è rimasto sostanzialmente invariato, è altrettanto vero che l’istinto materno, cioè il comportamento innato, sussiste anche quando la funzione organica si rivela un meccanismo imperfetto.
Tutto questo per dire che le opere di Ersilia Sarrecchia non possono essere relegate semplicemente al tradizionale genere erotico, perché adombrano un messaggio più sostanziale. E cioè che, parafrasando la celebre frase di un’opera di Barbara Kruger[5], il corpo femminile è ancora un campo di battaglia, un terreno di scontro, un campo di polarità su cui si decide il futuro politico e sociale dell’umanità… e forse perfino il suo diritto alla sopravvivenza. Almeno fino alla prossima estinzione di massa.
[1] Timothy Morton, Ecology Without Nature. Rethinking Environmental Aesthetics, Harvard UP., Cambridge Mass 2007.
[2] Marco Petroni, Timothy Morton. La natura è un concetto razzista, «Domus», pubblicato online il 2 marzo 2019, https://www.domusweb.it/it/design/2019/03/02/la-natura–un-concetto-razzista.html.
[3] Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, 2022, Feltrinelli, Milano.
[4] Rosi Braidotti, La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea, introduzione a Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, 2022, Feltrinelli, Milano, p. 25.
[5] Untitled (Your Body is a Battleground) è un’opera dell’artista americana Barbara Kruger, realizzata nel 1989 in risposta alla nuova ondata di leggi antiabortiste che negli Stati Uniti hanno demolito la sentenza della Corte Suprema Roe versus Wade del 1973 in materia di aborto. L’opera è stata fatta appositamente per la Marcia delle Donne di Washington dell’aprile 1989 a sostegno della libertà riproduttiva.