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Arduino Cantàfora e Alessandro Mendini

4 Apr

Cose, case, città

di Ivan Quaroni

 

“Il mondo è pieno di cose ovvie che nessuno si prende mai la cura di osservare.”
(Arthur Conan Doyle, Il mastino dei Baskerville, 1902)


A. Mendini, ST, tela, 195x150 cm

Alessandro Mendini, Senza Titolo, nitro su tela, 195×150 cm, 1996

 

Per Jean Francois Lyotard l’epoca moderna era ancora caratterizzata dal progetto di spiegare il mondo attraverso principi unitari, totalizzanti. Le grandi correnti di pensiero, come l’Illuminismo, l’Idealismo e il Marxismo tentavano, infatti, di dare un senso compiuto alla Storia e, allo stesso tempo, fornivano una linea d’indirizzo per il futuro. In La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), uno studio commissionato dal governo canadese, il filosofo post-strutturalista francese preconizzava la fine delle grandi narrazioni metafisiche e delle utopie rivoluzionarie e la nascita di un nuovo paradigma culturale che accettava implicitamente la precarietà di ogni etica e la fondamentale instabilità di ogni progetto culturale. Con lo sviluppo rapido delle tecno-scienze, viene meno la fiducia dell’uomo verso quei sistemi di pensiero che propongono un’interpretazione definitiva della realtà. Crollano i saperi filosofici, cedono le regole dell’economia classica, naufragano le profezie politiche. L’uomo, sottoposto allo stress dello sviluppo tecnologico, oramai dislocato, alienato ben oltre le previsioni di Marx, si trova a muoversi in una condizione sociale e culturale mutevole e incerta. In pratica, la postmodernità di Lyotard anticipa di qualche decennio le teorie di Zygmunt Bauman sulla modernità liquida, ma a differenza del sociologo polacco, il pensatore francese intravede una serie di aspetti positivi nel nuovo paradigma culturale. La fine del capitalismo industriale e il declino delle ideologie totalitarie aprono la strada a una maggiore tolleranza verso la diversità culturale ed etnica, mentre l’aumentata disponibilità d’informazioni e le nuove possibilità di scambio tra gli individui, acuiscono la sensibilità degli uomini verso la questione dei diritti civili. Nella cultura, la conseguenza più evidente consiste nell’affermazione della pari dignità di tutti i linguaggi e di tutti i sistemi di pensiero. Ciò significa che non esiste più una cultura dominante, ma una pletora di giacimenti formativi, di archivi linguistici, di alfabeti cui attingere deliberatamente, nella consapevolezza della loro fondamentale intercambiabilità.Tutta la cultura postmoderna è basata su questo disincanto, che è però anche espressione di una fiduciosa rivalutazione della Storia in tutta la sua estensione e di una radicale abolizione dei rapporti gerarchici tra espressioni tradizionalmente considerate “maggiori” e “minori”. È difficile, senza questa premessa, comprendere come le diverse personalità di Arduino Cantafora e Alessandro Mendini possano incarnare aspetti compatibili di una sensibilità poi sviluppatasi in direzioni esteticamente antitetiche.Architetti, artisti e scrittori, ma anche raffinati intellettuali, entrambi si cimentano in un serrato confronto di stili, linguaggi, ossessioni nate da due diversi modi di ripensare la Storia dell’arte (e dell’architettura). Si pensi, ad esempio, all’interesse di Mendini verso il folclore e la cultura popolare, contaminati dalla lezione delle avanguardie moderniste, o alla rivalutazione della pratica pittorica classica (e maniacalmente artigianale) di Arduino Cantàfora o al modo in cui entrambi scartano l’ipotesi di praticare un’architettura funzionale, basata sull’accettazione della vocazione sociale e razionale del progetto. Sono due anime del paradigma postmoderno – quella neo-avanguardista e neo-futurista di Mendini e quella classica, retrospettiva e inattuale di Cantàfora -che trovano seguito in tanta pittura degli anni Ottanta – dalla Transavanguardia agli Anacronisti, dai Citazionisti ai Nuovi Nuovi e ai Nuovi Futuristi -, protesa verso il ripescaggio e la rilettura di stilemi del passato e orientata non alla proposta di una visione e di un pensiero risolutivi, definitivi ma, piuttosto, alla ricerca di un principio di piacere (estetico, ottico, ma anche gnoseologico e pulsionale) che segna una radicale rottura con il mondo artistico precedente. Infatti, mentre il primo contamina la cultura progettuale con la libertà della pittura, invertendo e scambiando i punti di vista di prassi operative opposte e inventando felici paradossi concettuali come il Design pittorico, il Robot sentimentale e la Cosmesi universale, il secondo torna al mestiere della pittura e riesuma quel rapporto di fedeltà ottica e mimetica che le scomposizioni avanguardiste e astratte sembravano aver cancellato dalla recente storia dell’arte.

A. Cantafora, Macchina IV, 1992, vinilico e olio su tavola, cm 120x80

Arduino Cantafora, Macchina IV, vinilico e olio su tavola, 120×80 cm, 1992

 

Allievo e collaboratore di Aldo Rossi fino al 1979, ma con un background che affonda le radici nell’interesse scientifico per una lucida e razionale riproduzione realistica, Arduino Cantàfora ha dipinto opere in cui l’architettura, i luoghi, gli oggetti sono descritti con impressionante rigore e straordinaria acribia tecnica. Infatti, alla base del suo modus pingendi c’è sempre un profondo interesse umanistico per lo studio delle forme. Influenzato dalla pittura lombarda del Cinque e Seicento, ma anche dal Divisionismo, dal Purismo e dalla Metafisica, il linguaggio figurativo di Arduino Cantàfora parte da una sentita adesione mimetica per ricostruire l’identità storica individuale e collettiva. Un’attitudine, questa, che ha poi tradotto in una pratica didattica alla Scuola Politecnica Federale di Losanna e all’Accademia di Architettura di Mendrisio, dove ha affrontato i diversi temi legati al problema della rappresentazione.

A. Cantafora, Avec le temps II, 2006, 2006, vinilico e olio su tavola, cm 70x50

Arduino Cantafora, Avec le temps II, vinilico e olio su tavola, 70×50 cm, 2006

 

Ho sempre sperato, durante gli anni di insegnamento”, ha confessato l’artista, “di riuscire a contribuire al piacere di vedere le cose, allo stupore della visione come fattore di libertà inalienabile individuale, che nel sapere cogliere lungo l’arco del giorno e delle stagioni il rincorrersi della luce, possa incontrare la sempre identica a se stessa gioia dell’essere”.[1] Alla sua formazione culturale contribuiscono numerosi fattori. Figlio di un ingegnere, dal quale assorbe l’interesse per la scienza, Cantàfora approfondisce fin da giovane la curiosità per la morfologia delle forme organiche appassionandosi all’anatomia, alla tassidermia, all’entomologia, che considera come fondamenti necessari per chi si avvia allo studio dell’architettura. Esordisce come copista di Caravaggio poi, grazie agli studi e ai rilievi urbani sulla Milano storica, perfeziona la sua abilità nel rappresentare pittoricamente l’architettura e la città, qualità che si rivelerà preziosissima durante la collaborazione con Aldo Rossi.

Arduino Cantàfora, Teatri di città I, 2014

Arduino Cantàfora, Teatri di città I, 2014

 

La città analoga, opera manifesto della XV Triennale di Milano nel 1973 diventa, infatti, una pietra miliare della cosiddetta “pittura di architettura”. La grande tela, posta all’inizio di un percorso espositivo sulle città italiane, chiarisce in immagini la teoria di Aldo Rossi sulla città analoga, richiamando i dipinti rinascimentali delle città ideali. L’idealità è, però, sostituita con un principio, molto più realistico, di affastellamento di monumenti architettonici di epoche e stili differenti. Inseriti nell’impianto rigidamente prospettico e geometrico del dipinto, si riconoscono diversi edifici: il Mausoleo di Boulée, il Pantheon, la Fabbrica AEG di Berlino di Beherens, il quartiere Gallaratese, la Casa del Fascio di Terragni, la casa di Loos sulla viennese Michaelplatz, la Villa Reale di Monza del Piermarini, la Piramide Cestia, la Mole Antonelliana, il Groszstaadt di Hilberseimer e, infine, in primo piano, colta in prospettiva aerea, la Fontana di Segrate di Aldo Rossi. La città analoga è un crogiuolo di forme antiche e modernissime, un esempio di sincretismo architettonico che incarna il gusto postmoderno per il ripescaggio e che troverà poi un seguito ne La città banale del 1980. L’opera, presentata alla Biennale d’Architettura di Venezia, rappresenta l’interno di una sala d’attesa con il grande dipinto di una veduta urbana. Qualcuno la interpreta come “la testimonianza della sconfitta di un mestiere[2], quello d’architetto, che Cantàfora abbandona definitivamente in favore della pittura. Da quel momento in poi, come nota Gianni Contessi, l’architettura diventa per lui “la testimonianza di un agire in absentia, che tuttavia riesce a trasmettere significato, valore e memoria di tale agire nel suo tradursi in verità topologica tanto realistica quanto visionaria”.[3]

A. Cantafora, domenica, 2006, 80x120 cm, vinilico e olio su tavola

Arduino Cantafora, Domenica pomeriggio, vinilico e olio su tavola, 80×120 cm, 2006

 

La città resta, dunque, uno dei temi prediletti, il topos, è il caso di dire, in cui a più riprese il realismo scientifico della sua pittura si declina in atmosfere misteriose e sottilmente inquiete. Come nel ciclo Domenica pomeriggio (2006), dove gli scorci urbani, con gli edifici scanditi da una nitida luce vespertina, rievocano la placida fissità di certe piazze metafisiche e le magiche sospensioni dei pittori neoplastici e novecentisti. L’esasperata attenzione per i dettagli, l’adesione, quasi epidermica, alle superfici murarie, di cui l’artista riproduce ogni imperfezione, dalle scrostature d’intonaco alle macchie di umidità, si ritrova soprattutto nella serie dei Teatri di città (2014), dove l’interno di un teatro si apre alla visione frontale di una città antica. Qui Cantàfora organizza lo spazio come un’infilata di ambienti, una progressione architettonica che dalla platea in ombra conduce, senza interruzioni, a uno spaccato archeologico di mura e archi in rovina. La meditazione sul trascorrere del tempo (quasi un memento mori), sapientemente condotta attraverso le modulazioni di luce, sembra farsi più struggente e tormentata in questi dipinti.

Come in certe pagine scritte da Iosif Brodskij[4] e Paul Morand[5], Venezia diventerà, in seguito, l’incarnazione simbolica di questa inquietudine memoriale, in una serie di opere che proseguono il discorso iniziato nel 1973 sulla città analoga. In Le Venezie possibili (2014), infatti, compare di scorcio il Capriccio palladiano di Canaletto, da cui appunto trasse ispirazione Aldo Rossi e che contiene l’immagine di una Venezia verosimile con edifici palladiani presenti in altre città come la Basilica e il Palazzo Chiericati di Vicenza e il progetto mai realizzato del Ponte di Rialto eseguito da Palladio. Anche nella serie Avec le Temps (2006), in massima parte giocata sull’ambiguo rapporto tra interni ed esterni, la percezione nostalgica del trascorrere del tempo è un elemento centrale. Il modo in cui la luce definisce le forme degli oggetti, disegnandone i volumi e le superfici in momenti diversi del giorno, costituisce non solo la descrizione di un fenomeno ottico, legato all’esperienza sensibile, ma anche di un processo cognitivo. Per Cantàfora rappresentare è un modo di approfondire l’atto di osservare, è rifare l’immagine solo dopo averla compresa. Perché, come afferma lui, riferendosi, ad esempio, alle locomotive a vapore, protagoniste di un ciclo del 1992, “non si può disegnare senza aver capito”.[6]

A. Mendini, ST, nitro su legno, 75x90 cm (2)

Alessandro Mendini, Senza Titolo, nitro su legno, 75×90 cm, 1996

Alessandro Mendini, dice la biografia ufficiale, passa l’infanzia in una casa borghese disegnata da Piero Portaluppi, circondato dalle opere dei maggiori artisti italiani del Novecento collezionate dai suoi parenti. A questo imprinting visivo, fondamentale per la sua formazione, si unisce poi una vivace passione per il disegno. Dopo la laurea in architettura, inizia a lavorare allo Studio Nizzoli, ma nel 1970 lascia la progettazione per dirigere le riviste “Casabella”, “Modo” e “Domus”, attraverso cui diffonde le sue idee di rinnovamento nel design. Alla fine degli anni Settanta entra nello Studio Alchimia, il gruppo di design radicale che negli anni Ottanta riscrive le regole della progettazione in senso anti-funzionalista, puntando sulla produzione di oggetti di puro piacere, prototipi, mobili, ambienti, installazioni e arredi ispirati all’estetica kitsch e all’arte popolare.Nel design come nell’architettura, Mendini affronta il progetto come arte e l’arte come progetto e crea curiose contaminazioni tra pittura e disegno industriale, inventando i concetti provocatori di “design pittorico”, “artigianato informatico” e “architettura ermafrodita”. Seguendo una logica spiazzante, Mendini porta nella pittura l’approccio freddo del design e in quest’ultimo l’impulso emozionale dell’arte. “Data l’insufficienza del progetto a fronteggiare il mondo”, scrive nel 1986, “esso viene sostituito dal dipinto, che diventa un’opera senza principio, senza fine e senza giustificazione, una formalistica rete di stilemi e riferimenti visivi, simile al frangersi di un’onda”.[7]Il testo s’intitola, appunto, Design pittorico e spiega come i suoi oggetti rappresentino una forma di pittura che agisce fuori dal proprio usuale dominio, “in uno stato di neutralità disciplinare, dimensionale e concettuale”.[8] Tutto nasce dall’intuizione che la decorazione possa prevalere sulla progettazione, espandendosi in ogni ambito: architettura, moda, design. Per il mondo tradizionale degli architetti, devoti al principio del “less is more” per cui la decorazione è un corpo estraneo, il concetto di Cosmesi universale dev’essere sembrato niente più che una provocazione. Mendini, però, è sempre stato un architetto eretico, più interessato alla creatività banale e antieroica del quotidiano, che alla retorica utopica e ideologica del progetto. “La mia vita in sé non ha intenzioni progettuali”, scrive, “non vuole realizzare obiettivi o programmi: è un accumulo di esperienze, eventi più o meno normali o eccezionali…”.[9] L’arte rappresenta per Mendini la possibilità di operare in un campo instabile, aleatorio, in fondo superfluo, in cui il progetto può trasformarsi in una forma di comunicazione non programmatica, ma intensamente vitale.Molti dei dipinti e degli oggetti presenti in questa mostra (ma anche dei disegni, dei quali si dovrà dire a parte), sono contrassegnati dall’invenzione di un alfabeto di forme astratte, modellato sulla reinterpretazione dei linguaggi delle avanguardie moderniste e futuriste. Eppure, il suo dialogo con il passato, con la storia delle arti, siano esse recenti o antiche, colte o popolari, appare sempre vincolato a una necessità di comunicazione vitale, saldamente ancorata al presente. L’attitudine, tutta postmoderna, a non osservare le gerarchie di valore tipiche dell’educazione borghese convenzionale, si traduce nell’opera di Mendini in una libera e personalissima capacità di attingere alle più svariate fonti del passato (e del presente), in una cleptomania che gli consente di costruire il proprio catalogo di segni, pattern e texture. Un codice grafico, variamente declinabile su ogni tipo di supporto, che ritroviamo tanto nelle grandi tavole dipinte degli anni Ottanta, quanto sugli oggetti banali e disfunzionali. Abbecedario mobile di figure stilizzate e grammatica composta di sintagmi che echeggiano stilemi di Kandinskij, Depero, Signac, la pittura di Mendini può librarsi su qualsiasi superficie: la facciata di un edificio, un complemento d’arredo, una carta da parati, un tappeto, un utensile, un quadro, un gioiello…È un Progetto dolce di cosmesi universale in cui, come notava Achille Bonito Oliva, “progettare significa riprogettare, avere ad oggetto di questa operazione l’arte ed il suo passato”.[10] “Quando Mendini asserisce di non voler inventare niente di nuovo”, scrive Franz Haks, “questo per lui significa non solo che adotta forme e motivi di altri, ma anche che usa metodi del passato nell’idea che i criteri storici nell’arte e nel design possono essere rinnovati”.[11] Ed è forse per questo motivo che il design pittorico e la pittura progettata di Mendini, basati sulla riformulazione di memorie visive, ci sembrano così consueti e familiari. Il suo Re-design è un perfetto esempio di reinterpretazione di forme e segni preesistenti, ma allo stesso tempo è un modo per rimpiazzare la vecchia nozione di creazione (ex nihilo?) con una più ecologica di “ricreazione”, intesa anche come gioco combinatorio e svago ludico. C’è qualcosa di gioioso nel modo in cui Mendini rielabora il design d’autore di Rietveld, Breuer e Ponti o i mobili anonimi degli anni Cinquanta o, ancora, una poltrona in stile Luigi XV. Qualcosa che affonda le radici nel disegno infantile, quando quest’attività non risponde ad altro impulso che al piacere di rifare il mondo a propria immagine e somiglianza. Sempre secondo Franz Haks, “Mendini non scherza sicuramente quando, intervistato, dice ripetutamente che esitò a lungo prima di scegliere se essere un architetto o un vignettista”.[12] E, infatti, nei disegni affiora, la vena più ironica e poetica dell’artista più che dell’architetto (è il caso di dire), quella più incline al racconto visivo sospeso tra bozzetto e progetto, eternamente in bilico tra il bisogno di costruire e il desiderio di sognare.

 

A. Cantafora, Avec le temps, 2006, 2006, vinilico e olio su tavola, cm 70x50

Arduino Cantafora, Avec le temps, vinilico e olio su tavola, 70×50 cm, 2006

 


NOTE

[1] Arduino Cantàfora, Un’opera di buio, in L’immagine maestra. Opere di Arduino Cantàfora e dei suoi atelier, a cura di Bruno Pedretti, Mendrisio Academy Press, 2007, Mendrisio, p.42.
[2] Luca Ortelli, Elogio dell’ombra, Domus, giugno 2015, editoriale Domus, Milano.[3] Gianni Contessi, Caro Arduino, volantino della mostra di Arduino Cantàfora, Galleria Rubin, Milano, 2005.
[4] Josif Alexandrovic Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, Adelphi, 1996, Milano.
[5] Paul Morand, Venises, Gallimard, 1971, Parigi.
[6] Arduino Cantafora, Architetture in movimento. Presenze nel territorio, in L’immagine maestra. Opere di Arduino Cantàfora e dei suoi atelier, a cura di Bruno Pedretti, Mendrisio Academy Press, 2007, Mendrisio, p.103.
[7] Alessandro Mendini, Design pittorico, in Il Giornale dell’Arte, maggio 1986, Allemandi, Torino, ripubblicato in Alessandro Mendini, Giancarlo Politi editore, 1989, Milano, p. 190.
[8] Ibidem, p. 190.
[9] Alessandro Mendini, Confessione, Op cit., 1980, ripubblicato in Alessandro Mendini. Scritti, a cura di Loredana Parmesani, Skira editore, 2004, Milano, p. 453.ù[10] Achille Bonito Oliva, Attrezzi scenici per pittura. Design ed architettura, in Alessandro Mendini, Giancarlo Politi editore, 1989, Milano, p. 4.
[11] Franz Haks, Le regole sono fatte per essere infrante, in Alessandro Mendini, Giancarlo Politi editore, 1989, Milano, p. 18.
[12] Ibidem, p. 12.

Info:
Arduino Cantafora e Alessandro Mendini
Cose, case, città
a cura di Ivan Quaroni
Antonio Colombo Arte Contemporanea
Via Solferino 44, Milano
Opening: 6 aprile 2016
Dal 6 aprile al 21 maggio 2016


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La famosa invasione degli artisti a Milano

21 Mag

La città dei miracoli

(omaggio a Maurizio Sciaccaluga)

di Ivan Quaroni

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015

Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.

Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm

Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.

Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106x150 cm

Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm

Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.

Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.

Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100x90 cm

Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm

Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.

Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.

Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.

Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.

A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.

In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.

Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.


[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.

[2] Ivi, p. 109.


INFO:

Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore

Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)

Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19

Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler

Curatori
Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.

Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.

Italian Crossover. Intrecci tra arte e musica dagli ’80 a oggi

25 Giu

di Ivan Quaroni

L’intreccio e l’interscambio tra arte contemporanea e musica rock negli anni Ottanta fu la conseguenza di un’attitudine eclettica a mescolare suggestioni e stili d’origine diversa. Nei primi anni di quel meraviglioso decennio, le frange più creative del rock nostrano si distinguevano per la loro capacità di innestare sulle note di un sound moderno un apparato visivo altrettanto originale.  Come scrisse Pier Vittorio Tondelli in quella sorta di summa epocale della cultura eighties che fu Un weekend postmoderno (1990), “La giovanile ed eclettica fauna del ‘postmoderno di mezzo’ mischia e confonde immagini, atteggiamenti e toni con la prerogativa non già di sconfessarsi ciclicamente nel passaggio da un look all’altro, quanto piuttosto di trovare un’inedita vitalità espressiva proprio nel fluttuare delle combinazioni e nell’attraversamento dei detriti vestimentali. Ciò che apparteneva al già remoto ‘primo postmoderno’ – databile al piano quinquennale 1975 -1980 e segnato dal massiccio culto del revival e del repêchage – non è più. Tutto tramontato o piuttosto sfociato in un diverso atteggiamento frenetico. Quindi che pena e che noia sentire ancora parlare di punk e postpunk, di look gallinaceo e look satanico, di new dandy, new romantic, metallari e skinhead, look sadomaso, new wave e preppy d’accatto, raffinate giapponeserie dei Gaz Nevada, nazinipponerie di Rettore, american-stracci di Berté”[1].

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L’idea di mescolare pratiche diverse era però già nell’aria. Grazie alla nascita del movimento Post e Neo-Modern in Italia, Giancarlo Maiocchi (aka Occhiomagico), che allora partecipava alle attività di gruppi multimediali e collaborava con architetti come Alessandro Mendini, Aldo Rossi ed Ettore Sottsass Jr, poté sperimentare nuove forme di contaminazione tra fotografia pittura, musica, video e moda. Occhiomagico assunse la direzione artistica dei Matia Bazar, per i quali realizzò le copertine degli album Aristocratica (1984) e Parigi, Berlino, Londra (1981), nonché il videoclip di Aristocratica, premiato da Massarini nella trasmissione RAI “Mister Fantasy”, collaborando, insieme con Studio Alchimia, anche all’allestimento scenografico del Tour del gruppo, di cui peraltro Cinzia Ruggeri disegnava gli abiti.

Alessandro Mendini - Architetture sussurranti.

Alessandro Mendini – Architetture sussurranti.

Con le postmoderne scenografie dei concerti di “Parigi, Berlino, Londra” s’inaugura anche la collaborazione tra i Matia Bazar e Alessandro Mendini, che sfocierà poi nel curioso episodio di Architettura sussurrante (1983), una compilation pubblicata dalla Ariston su testi del famoso architetto e che contiene i brani Casa mia, interpretato dalla splendida voce di Antonella Ruggero, e Manifesto degli addio, superbamente recitato dai Magazzini Criminali.

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Alessandro Mendini – Architetture sussuranti.
All’interno la canzone “Casa mia”, scritta per i Matia Bazar

Un altro ensemble teatrale, quello dei fiorentini Krypton, è l’artefice dell’importante incontro tra l’artista cosentino Alfredo Pirri e i Litfiba per lo spettacolo Eneide (1983-84). Eneide coinvolgeva da un lato gli emergenti Litfiba, sfruttando le spiccate doti performative del gruppo di Piero Pelù, e dall’altro Alfredo Pirri, il quale realizzava per lo show multimediale dei Krypton immagini proiettate e luce, riducendo al minimo gli elementi fisici della scenografia tradizionale.

Garbo - Il Fiume   Cover di Occhiomagico

Garbo – Il Fiume
Cover di Occhiomagico

Sempre Occhiomagico, invece, collabora con il waver comasco Garbo – innamorato delle atmosfere berlinesi di Bowie e autore delle indimenticabili Radioclima e Quanti anni hai? – intervenendo sulla copertina del disco Il Fiume (1986).Nonostante le episodiche collaborazioni tra artisti, gruppi teatrali e musicisti, il vero innesto tra arte e musica negli anni Ottanta, avveniva sotto il segno del recupero di elementi eterogenei, attraverso la reinterpretazione dell’estetica delle avanguardie del Novecento, dal Bauhaus al Futurismo, fino al Costruttivismo. Basti pensare al filosovietismo dei CCCP, che al suono di brani al vetriolo come Live in Pankov, Spara Jurij e Punk islam, dichiaravano di scegliere l’Est “non tanto per ragioni politiche, quanto etiche ed estetiche”[2].

Righeira - Vamos a la playa Sul fondo un dipinto di Mario Schifano

Righeira – Vamos a la playa
Sul fondo un dipinto di Mario Schifano

Diversamente, nell’estetica dei Righeira si avverte una fascinazione per il Nuovo Futurismo e per l’arte ludica. “Abbiamo collaborato con diversi creativi come Massimo Mattioli – dice Johnson Righeira  -, che realizzò la copertina del disco in cui c’è un missile che ci proietta nello spazio e noi siamo raffigurati come supereroi volanti, inseguiti da una popolazione di scimmie, mentre sorvoliamo il cielo sopra Italia 61 sullo sfondo del palazzo del lavoro di Nervi con la monorotaia che sfreccia”[3]. Curioso, invece, che sulla copertina del primo album del duo di Vamos a la playa, compaia la foto di una galleria d’arte torinese con appeso un unico quadro di Schifano, l’artista che verso la fine degli anni Sessanta si esibiva al Piper di Roma col gruppo Le Stelle di Mario Schifano.

Le Stelle di Schifano

Le Stelle di Schifano

Nel decennio successivo aumentano le collaborazioni tra musicisti e artisti italiani. Lo dimostrano booklet e copertine curati da giovani pittori per altrettanti giovani e promettenti band. Nel 1995, i romani Tiromancino si affidano alla pittura “a pixel” di Cristiano Pintaldi per le allucinate copertine dell’album Alone Alieno e del singolo Amore amaro, entrambi stampati da Ricordi.

Tiromancino - Alone Alieno  Cover di Cristiano Pintaldi

Tiromancino – Alone Alieno
Cover di Cristiano Pintaldi

Legatissimi a Robert Gligorov sono i Bluvertigo. Per la band monzese di Morgan, Andy e Marco Pancaldi, Gligorov ha svolto il ruolo di mentore e talent scout, riproponendo, in chiave provinciale, il modello Andy Warhol-Velvet Underground. Firmati da Gligorov sono gli artwork dei dischi Acidi e basi (1995) e Metallo non metallo (1997), dove è riconoscibile la tipica tendenza dell’artista a deformare e re-interpretare il corpo umano[4].

Bluvertigo - Metallo non metallo Cover di Robert Gligorov

Bluvertigo – Metallo non metallo
Cover di Robert Gligorov

I cuneesi Marlene Kuntz, formatisi alla fine degli anni ’80, preferiscono affidarsi al realismo fotografico e allucinato della pittura di Daniele Galliano, che realizza per loro sia la copertina del mini album Come di sdegno (1998, Polygram), sia i dipinti nel booklet di Ho ucciso paranoia + Spore (1999).

Marlene Kuntz - Come di sdegno Cover di Daniele Galliano

Marlene Kuntz – Come di sdegno
Cover di Daniele Galliano

Una stretta collaborazione è pure quella tra Giacomo Costa e Marco Parente, il quale per la copertina dell’album Testa, dì cuore (Sonica, 1999) usa l’immagine di una delle spaventose metropoli immaginate dall’artista fiorentino. Di contro, nel 2002, per la mostra personale di Costa alla Galleria Tossi di Firenze, intitolata sintomaticamente Megàlòpolis, Marco Parente e Marco Tagliola realizzano la performance sonora MegaPopoli.

Un discorso a parte, per l’intensa interdipendenza tra arte e musica, merita la ricerca di Andrea Chiesi, la cui pittura, incentrata sul tema dell’archeologia industriale, risente delle influenze di gruppi industrial punk, dagli Einstuerzende Neubaten ai Test Department, dagli SPK ai Laibach, fino ai Throbbing Gristle e agli Psychic TV.Nel 1991 l’artista emiliano collabora alla realizzazione dell’opera multimediale Opificio del gruppo musicale Officine Schwartz, mentre nel 1995 Massimo Zamboni e i Disciplinata compongono la colonna sonora della mostra Taccuini, alla Galleria Rossana Ferri di Modena. Sue sono anche le 20 copertine di Taccuini, la collana di musica aliena su etichette Sonica e Dischi del Mulo, che raccoglie le più curiose e assurde contaminazioni a firma di Andrea Chimenti, Marco Parente, Beau Geste (un ensemble che comprende Gianni Moroccolo e Francesco Magnelli dei C.S.I., Antonio Aiazzi dei Litfiba, Steven Brown dei Tuxedomoon e lo stesso Andrea Chimenti), Divine, Marco Paolini, AFA, Ulan Bator e molti altri. L’evento più importante è, invece, la collaborazione con Giovanni Lindo Ferretti e i C.S.I., che compongono testi e musiche per L’Apocalisse di Giovanni, personale dell’artista ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia, curata da Luca Beatrice, Valerio Dehò e Gianluca Marziani.

Andrea Chiesi - Artwork per "Taccuini", collana di musica aliena

Andrea Chiesi – Artwork per “Taccuini”, collana di musica aliena

Diverse sono le collaborazioni tra Mimmo Paladino e i musicisti italiani, da Lucio Dalla, per il quale l’artista disegna la copertina di Henna (1993), agli Almamegretta, per cui realizza l’artwork dell’album Scioglie e’ cane (2003). Di respiro internazionale è, invece, il progetto intitolato I Dormienti, ideato con il musicista e compositore Brian Eno e poi sfociato, nell’autunno 1999, nella suggestiva mostra londinese nei sotterranei della Roundhouse. Di questo lavoro, dove la scultura del maestro beneventano si mescola agli interventi sonori e luminosi dell’autore di Music for Airports (1978), rimane una preziosa testimonianza nel volume I Dormienti – pubblicato nel 2000 da Gabrius –, che contiene, oltre a numerosi saggi critici, il Cd delle musiche originali di Brian Eno. Sul fronte cantautoriale sono da segnalare la copertina di Piero Pizzi Cannella per Amore nel pomeriggio (2001) di Francesco De Gregori e l’opera di Marco Lodola contenuta nel greatest hits degli 883, Gli Anni (2000).

Francesco De Gregori - Amore nel pomeriggio. Cover di Piero Pizzi Cannella

Francesco De Gregori – Amore nel pomeriggio.
Cover di Piero Pizzi Cannella

Per i bresciani Timoria, invece, Lodola cura scenografie dei concerti, copertine di album e gadget. In realtà, i rapporti dell’artista neofuturista col mondo della musica e dello spettacolo spaziano dall’organizzazione dei premi musicali “Tribe Generation” (1999), “Brescia Music Art” (2000) e “Roxi Bar”, all’ideazione della mostra Sinestesie (2005) – in cui intervengono Max Pezzali, Timoria, Jovanotti e Andy dei Bluvertigo –, fino all’istituzione di Lodolandia, una sorta di fucina sperimentale dove artisti di discipline diverse creano opere ibride, a metà tra l’arte, il rock, la moda e la fotografia.

Timoria - 1999 Cover di Marco Lodola

Timoria – 1999
Cover di Marco Lodola

Nell’ambito della musica indipendente, infine, ci sono le copertine d’artista delle produzioni discografiche di Rock targato Italia. La compilation Fuori Orbita (2003) ha sulla cover un’opera di Davide Nido, come pure il disco Rete Metallica (2003), con il meglio delle band emergenti metal e hard rock nostrane. Di Dany Vescovi è la copertina dell’omonimo album d’esordio degli Audiorama (2005), mentre è di Federico Guida quella di Rock Targato Italia 2005. Una produzione, quella dei tre artisti, che non si ferma alle sole copertine per l’etichetta Divinazione, ma riguarda anche i manifesti dei concerti e addirittura, come nel caso di Dany Vescovi, la personalizzazione di una chitarra per gli emergenti Punto G.

883 - Gli Anni  Cover di Marco Lodola

883 – Gli Anni
Cover di Marco Lodola


[1] Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, pag 196, 1996, Bompiani, Milano.

[2]All’effimero occidentale – afferma Giovanni Lindo Ferretti in una intervista del 1984 – preferiamo il duraturo; alla plastica l’acciaio. Alle discoteche preferiamo i mausolei, alla break dance, il cambio della guardia. […] Siamo filosovietici e non filorussi. Amiamo le repubbliche asiatiche, amiamo l’Islam…non esiste un punto centrale del filosovietismo che ci affascina: i fascini sono molteplici”.  Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta,  pag. 299, 1996, Bompiani, Milano.

[3] Luca Beatrice e Johnson Righeira, I don’t care, in NOISE, catalogo della mostra omonima, a cura di Luca Beatrice, 2002, Galleria Pack, Milano.

[4] “La volontà di Gligorov all’epoca – dichiara Morgan – era quella di trovare un gruppo che in qualche modo potesse essere gradito a lui, in cui potesse identificarsi, e credo gli sia piaciuto molto il fatto che il nostro approccio era molto da urlatori. […] Ed è stato secondo me formativo lavorare a contattato con Gligorov per quanto riguarda tutti gli aspetti legati all’immagine”. Intervista ai Bluvertigo in occasione del Tora! Tora! Festival di Torino, a cura di Roberta Accettulli, Rockit, 2001.