Sopravvivenze metafisiche nella pittura italiana contemporanea.
di Ivan Quaroni
“Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante, non solo d’Italia ma di tutto il mondo.”
(Giorgio De Chirico)
Stimmung del pomeriggio d’autunno
Il breve soggiorno torinese del maestro della Metafisica rimanda, idealmente, a quello dell’ultimo Friedrich Nietzsche, che nel capoluogo sabaudo, prima di impazzire, scrive il suo celebre Ecce Homo. In de Chirico le impressioni generate dalla permanenza torinese si sovrappongono, infatti, a quelle del filosofo tedesco, che di Torino notava la “meravigliosa limpidezza”, i “colori d’autunno” e che, con viva sensibilità, avvertiva “uno squisito senso di benessere diffuso su tutte le cose”. Parole simili echeggiano nella prosa di de Chirico, quando afferma che “La vera stagione di Torino, il cui fascino metafisico appare al meglio, è l’autunno”.[1]
L’autunno che Torino mi ha rivelato è felice, certo non di una felicità squillante e variopinta. È qualcosa di vasto, allo stesso tempo vicino e lontano, una grande serenità, una grande purezza prossima alla gioia che prova il convalescente alla fine di una lunga e penosa malattia. […] Per conto mio sono portato a credere che questa armonia, così squisita da diventare quasi insostenibile, non sia stata estranea alla follia di Nietzsche”.[2]
Torino ispira i quadri di de Chirico nel periodo tra il 1912 e il 1915. In particolare, l’artista rimane affascinato dalle grandi piazze, dalle simmetrie dei portici, dai colonnati e dalle statue, elementi che confluiranno nel suo vocabolario pittorico, insieme a quella particolare atmosfera, a “quella Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso”[3].
Nei dipinti di de Chirico non troviamo solo la trascrizione di quel sentimento, di quell’impressione, ma qualcosa di più profondo. La Stimmung – termine tedesco che si può tradurre con la parola “atmosfera” – non è uno stato d’animo umorale, come ad esempio il mood anglosassone, ma è una disposizione d’animo che si estende allo spazio, quasi una tonalità affettiva che coinvolge il luogo e il paesaggio, tracciando una sorta di linea d’ombra tra il visibile e l’invisibile.
A Parigi, dove giunge da Torino nel 1912, de Chirico espone al Salon d’Automne alcuni di quei quadri in cui insegue quel misterioso sentimento che aveva scoperto nei libri di Nietzsche, quella malinconia dei pomeriggi autunnali delle città italiane, da cui maturerà l’idea di una pittura capace di vedere “oltre i muri”.
“La rivelazione, il principio nuovo [dell’arte di de Chirico]”, scrive Riccardo Dottori, “riguarda una realtà che non è il semplice esistente, quella del Verismo, la realtà immediata ‘così come ci appare’ e che dobbiamo riprodurre, ma una realtà altra da ciò che vediamo e che dobbiamo rappresentare […]”[4]. “Un quadro”, afferma de Chirico, “ci si rivela senza che noi vediamo nulla e addirittura senza che pensiamo a nulla e può anche essere che la vista di qualcosa ci riveli un quadro ma in questo caso il quadro non sarà una riproduzione fedele di ciò che ha determinato la sua rivelazione ma gli rassomiglierà vagamente come il viso di una persona che vediamo in sogno […]”[5].
La rivelazione è dunque un atto divinatorio, oracolare, basato sull’intuizione di nuovi modi di vedere la realtà in cui le sensazioni visive sollecitano non solo l’occhio, ma anche la mente. Sono idee che de Chirico ricava dall’estetica e dalla metafisica di Schopenhauer – nella traduzione francese di August Dietrich (Métaphysique et Esthétique, Parigi, 1909) – e da La nascita della tragedia greca di Nietzsche. Nell’esperienza della rivelazione, che l’artista definisce come “metodo nietzschiano”, non è l’occhio a vedere, ma lo spirito attivo. La pittura metafisica diventa, così, un’attività simile alla mantica e al vaticinio.
Nelle “Piazze d’Italia”, il carattere enigmatico della rivelazione è reso, pittoricamente, creando uno stato di sospensione e di serena malinconia. Gli scorci prospettici dei portici che inquadrano l’immagine dirigono l’occhio verso una linea d’orizzonte su cui si stagliano gli sbuffi di vapore delle locomotive, segnali di una ricercata crasi tra il tempo eterno e circolare della classicità e il tempo presente e progressivo della modernità, rappresentato anche dalle ciminiere. “La città dechirichiana”, conferma Gioia Mori, “è disegnata con piazze ampie e portici, con scorci prospettici nitidi, e si arricchisce di edifici italiani, reali o dipinti, che vengono trasformati in moderne icone dello spaesamento”[6].
Neue Stimmung
Quale sia stata la portata della Metafisica nell’arte del secolo scorso è ben visibile non solo nella frangia belga del Surrealismo (René Magritte e Paul Delvaux), ma in molta pittura figurativa tra le due Guerre, dagli artisti che parteciparono all’esperienza di Valori Plastici al Novecento di Margherita Sarfatti, dalla Neue Sachlickeit al Realismo Magico italo-tedesco propugnato da Franz Roh e Massimo Bontempelli, fino alla remota esperienza del Precisionismo americano.
Quanto al valore iconico della Metafisica, basterà ricordare le opere di Andy Warhol che replicano le Muse Inquietanti e le Piazze d’Italia, considerate come parte del mito contemporaneo, alla stregua delle zuppe Campbell e dei ritratti di Marilyn Monroe. Addirittura, come rileva Gioia Mori, “la Metafisica è considerata da Warhol come matrice linguistica della Pop Art: la tecnica di agnizione e prelievo dal quotidiano e il nuovo statuto di elemento oracolare che de Chirico attribuiva a cose, spazi, ricordi, con il conseguente spostamento dal quotidiano alla sfera alta dell’arte, corrisponde al processo subito dagli oggetti raffigurati da Warhol, che dal consumo di massa vengono trasferiti in ambito colto”[7].
Oggi, a oltre un secolo dalla creazione dei primi dipinti metafisici, è lecito domandarsi in quali forme e sotto quali mascheramenti si nasconda l’eredità della Stimmung e come questo particolare stato d’animo filosofico sia potuto sopravvivere all’avvento della postmodernità, alle teorie di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e a quelle di Jean Baudrillaud sulla sparizione dell’arte.
La Stimmung dechirichiana s’inquadrava all’interno di un discorso sul valore metafisico delle immagini. Per il Pictor Optimusil termine Metafisica (derivante dal greco “ta meta ta physika”, che significa “ciò che segue dopo la fisica.”) non designava ciò che esiste oltre l’apparenza sensibile della realtà empirica, in un ipotetico universo invisibile, ma l’enigma e il mistero delle cose stesse, degli oggetti comuni e perfino banali.
“Ora io nella parola ‘metafisica’ non ci vedo nulla di tenebroso:”, scriveva de Chirico nel 1919, “è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare ‘metafisica’ e tanto più metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità”[8].
Una Stimmung odierna, un’eventuale Neue Stimmung, difficilmente avrà le caratteristiche di quella originale. Per usare un’espressione popolare, “troppa acqua è passata sotto i ponti” e noi viviamo oggi in un mondo diverso, radicalmente distante da quello del primo anteguerra.
Tuttavia, tracce spurie o degradate di Stimmung sembrano sopravvivere nel frasario pittorico di alcuni artisti italiani, talora assumendo significati nuovi, in un ventaglio di accezioni che spaziano dal concettuale all’ironico, dal nostalgico al citazionista, dal magico al surreale.
Lichtung
Ilaria Del Monte imprime caratteri di precisione e vividezza plastica a un universo mentale che fonde l’ordinario con il fantastico, traducendolo, così, in un racconto d’impressionante coerenza visiva. Elemento centrale della sua costruzione è il concetto heideggeriano di Lichtung, traducibile con la parola “chiaroscuro”, ma in un’accezione che designa l’apparizione di un’entità, il suo venire alla luce da un’oscurità irriducibile. I dipinti di Del Monte sono, infatti, pervasi da atmosfere vespertine e autunnali, che avvolgono le sue misteriose rappresentazioni nella calda e malinconica luce crepuscolare della Stimmung dechirichiana.

Ilaria Del Monte, Still Life, 2020, olio su tela 80×55 cm
Luogo prediletto delle sue visioni, popolate di figure femminili, testimoni di bizzarre e magiche apparizioni, è la casa, che l’artista trasforma in uno spazio di transizione delle forme naturali, metaforico teatro di conflitti interiori. Nelle sue opere, l’interno borghese accoglie l’irruzione delle forze primigenie, come nel caso di Sopra il giardino (2020), dove il pavimento ligneo è sfondato da un’improvvisa fioritura di rose, o come nell’enigmatica epifania di un cervide in Still life (2020) o dei due giganteschi lepidotteri di Falene (2020). Altrove, la natura si fonde letteralmente con lo spazio claustrale della stanza, infrangendo i confini che separano l’ambiente domestico dal paesaggio circostante. Pesci rossi (2020), ad esempio, è una miniatura fantastica che mostra una fanciulla nuda su un divano, mentre immerge i piedi in uno stagno di ninfee in cui guizzano grandi carpe rosse.
Ciò che vi è di metafisico nei lavori di Ilaria Del Monte è la qualità arcana e misteriosa delle sue immagini, permeate di allusioni magiche e umori psicanalitici che l’artista condensa in forme cristalline, dalle volumetrie nitide e perfettamente leggibili.
Regesto
La pittura di Paolo De Biasi si configura come una forma di scrittura che indaga le possibilità espressive di una pratica millenaria, potenzialmente capace di produrre significati diversi rispetto a quelli di qualsiasi altra forma di narrazione lineare. Per lui “il quadro è uno spazio finito nel reale ma infinito nel possibile”[9], cioè un luogo di rivelazioni che la pittura può plasmare in immagini intellegibili. Un linguaggio che, nel suo caso, tradisce una formazione da architetto, sensibile alla costruzione dello spazio e della forma di oggetti con cui costruisce un personalissimo catalogo di memorie e visioni.

Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, 100×70 cm
La ricerca di De Biasi – che egli intende come disciplina di verifica delle relazioni tra il “vedere” e il “pensare” – consiste nella creazione di uno spazio pittorico ideale, ma costellato di oggetti e forme riconoscibili e perfino di frammenti di opere del passato. L’elemento citazionistico della sua pittura, che include riferimenti alle antichità greche ed egizie (Daccapo, 2017) e schegge iconografiche di Giotto (Allorquando, 2018), Lorenzo Monaco e Leonardo (Sebbene lo fosse, 2019), è subordinato alla ripresa dei paradigmi fondanti dell’arte occidentale. Per De Biasi sono elementi di un alfabeto ricostruttivo che recupera i lemmi classici e moderni. In Dimora (2019) e in Padiglione (2020), ad esempio, la rappresentazione di strutture architettoniche di valore puramente segnaletico in un clima di metafisica sospensione, e peraltro simili a volti umani, è arricchita dall’inserzione di citazioni specifiche. Nel primo dipinto, all’interno dell’arco a tutto sesto compare la figura di Victorine Meurent, la celebre modella di Le Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet; mentre nel secondo, l’iscrizione dell’anno 1925 allude all’allestimento del Padiglione dell’Espirit Nouveau di Le Corbusier durante l’Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi. De Biasi dimostra che la pratica pittorica è un regesto di forme ricorsive, eternamente ritornanti, che contribuiscono alla periodica rifondazione delle grammatiche visive.
Metapsycologie
Paolo Pibi usa il paesaggio come pretesto iconografico per una pittura che indaga i confini percettivi della realtà in termini di visone. Attraverso una grammatica retinica, ad alta definizione ottica, l’artista dipinge immagini ambigue, che suggeriscono l’idea di un landscape modificato, artefatto e, per certi versi, simile a un costrutto mentale. La sua riflessione sull’origine della visione è ispirata alla teoria della Metapsicologia di Freud. Per il padre della psicanalisi se esiste una Metafisica, cioè una dottrina filosofica che studia le cause prime della realtà, deve esistere una Metapsicologia che descriva le modalità di costruzione e funzionamento dei processi psichici. Pibi affronta il problema della formazione delle immagini e del loro delinearsi nel campo concreto della pratica pittorica attraverso un metodo erratico, esplorativo.

Paolo Pibi, Metapsychologie 2, 2020, acrilico su tela – 50×50 cm
L’artista, infatti, non progetta le immagini in anticipo, ma le trova, per così dire, “in corso d’opera”, usando il linguaggio come una disciplina cognitiva che gli consente di imparare qualcosa su se stesso e sul mondo. Ciò che scopre è che il mondo reale e quello virtuale della pittura sono entrambi il frutto di una proiezione mentale e psicologica. I dipinti dell’artista mostrano, infatti, una realtà che sottende, e insieme prescinde, la morfologia paesaggistica, rivelando la natura geometrica e dunque schematica e costruttiva dell’esperienza ottica. Ne sono un perfetto esempio Metapsycologie 1 (2020) e Metapsycologie 2, paesaggi classici, quasi arcadici, che rivelano la presenza di un’altra dimensione, una sorta di meta-realtà formativa che è poi il luogo stesso di elaborazione delle immagini. Ed è proprio attraverso questo vulnus interpretativo, questo trauma rivelatorio, che si dispiega la Stimming di Paolo Pibi, uno stato d’animo perturbante che ci obbliga a riconsiderare gli angusti limiti della nostra percezione sensibile.
Finis mundi
Nicola Caredda trasferisce l’atmosfera sospesa e rarefatta degli Enigmi di de Chirico in un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi, dipinti con la puntigliosa acribia di un miniaturista, mostrano gli amabili resti di una società trascorsa, di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo la catastrofe nucleare e l’ecatombe ecologica, è un globo disabitato e silente, una natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Guardando alla Metafisica e al Realismo Magico, al Pop Surrealismo americano e al fumetto fantascientifico, l’artista costruisce un linguaggio che traghetta il gusto romantico per le rovine gotiche e la propensione per il mistero di tanta pittura simbolista nel vocabolario iconografico della modernità liquida. Le sue visioni notturne, con angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati ed elettrodomestici abbandonati, sommersi da una vegetazione proliferante, testimoniano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.

Nicola Caredda, Untitlhell with icemed, 2020, acrilico su tela , 30x40cm
Nella Wasteland post-apocalittica di Caredda – un mondo disseminato di graffiti e codici linguistici e pubblicitari di una società estinta, dove la natura sommerge i ruderi del paesaggio antropico – i simulacri e le vestigia della civiltà occidentale assumono il valore di feticci neometafisici. Il racconto iconografico di Caredda illustra il disastro attraverso le immagini dell’archeologia ludica dei parchi di divertimento, archetipo allegorico (e ironico) di una civiltà irresponsabile, ma anche tramite la riduzione del paesaggio a un immenso drive-in desertificato, con le carcasse delle auto abbandonate e le cadenti strutture dei chioschi e delle biglietterie. Quella dipinta da Caredda, è la Stimmung di una tregenda, ultima e catartica proiezione oleografica della finis mundi.
Melancholia
Che la pittura di Ciro Palumbo sia stata influenzata dai giacimenti nostalgici e immaginifici di certo Novecento, attraverso i filtri del simbolismo svizzero di Böcklin e Klinger, è evidente soprattutto nella scelta di recuperare frammenti dell’armamentario iconografico metafisico. Infatti, nelle tele dell’artista torinese le tracce mnestiche di Savino e de Chirico entrano a far parte di un alfabeto pittorico in bilico tra Surrealismo e Rappel a l’ordre.

Ciro Palumbo, La casa magica, 2020, olio su tela, 40×50 cm
Quel che affiora prepotentemente dalla pittura di Palumbo, capillarmente irrorata da una rêverie di stampo classicista, è l’immaginazione mitopoietica, una potente spinta fantastica a creare nuovi miti e nuove narrazioni in cui affiorano, accanto a iconografie inedite, forme e figure d’immediata riconoscibilità. Una di queste è l’isola dei morti di böckliniana memoria, il massiccio scoglio di pietra, chiuso da svettanti cipressi, che Palumbo replica in miriadi di varianti, trasformandolo in un’allegoria mobile e fluttuante del bisogno di raccoglimento e contemplazione dell’uomo moderno. Una simbologia, questa, che richiama quella dell’hortus conclusus e che fa il paio con la metafora del viaggio, dell’attraversamento precario e instabile del mare magnum rappresentato da un piccolo natante che reca sulla prua l’immagine dipinta di un occhio, allusione alla missione visionaria e profetica dell’arte. L’universo di Palumbo, intriso di un’autunnale luce vespertina, include anche un altro topos dechirichiano, quello dell’interno metafisico, concepito come una scatola prospettica costellata di oggetti enigmatici e aperta, tramite una porta o una finestra, alla visione di un paesaggio esterno, una sorta di quadro nel quadro. In queste stanze silenti e malinconiche confluiscono, oltre alle suddette iconografie dell’isola (Interno magico, 2020) e del natante (Viaggio con la luna, 2020), anche quella pletora di giocattoli, ninnoli (La casa magica, 2020) e architetture miniaturizzate (E d’improvviso, 2020) che, pur costituendo un accorato tributo all’estetica di Savinio, s’inquadrano nell’originale linguaggio di Palumbo, capace di traslare i lemmi della pittura metafisica in una teoria di forme mobili e instabili, più adatte a rappresentare la fondamentale precarietà dei tempi attuali
Metastoria
Olinsky è il nome che adombra il progetto pittorico di Paolo Sandano, artista contemporaneo innamorato della storia, che affida le sue fantasie a un personaggio fittizio, un oscuro pittore, originario della Slavonia Occidentale che attraversa le vicende dell’arte del secolo scorso alla ricerca di un’improbabile illuminazione artistica a cavallo tra vecchio e nuovo continente.
Nella sua pittura parabolica, affetta da un compulsivo nomadismo tra i linguaggi classici e le grammatiche avanguardiste, Olinsky include il ricco immaginario visivo di Walt Disney, che considera il più grande artista del XX secolo. Tutta la sua produzione pittorica è, infatti, abitata da una figura di muride, personale stilizzazione del Topolino disneyano e, insieme, alter ego che incarna i sogni, le aspirazioni, ma anche le delusioni e i tracolli dell’artista (Il pittore fallito, 1933), e che riflette, per estensione, la condizione esistenziale dell’umanità tutta, protesa verso un futuro quanto mai incerto.

Olinsky, Felicità 1920, olio su tela, 80×60 cm
L’incontro di Olinsky con la Metafisica matura attraverso i giovanili approcci al genere arcadico (Eine Kleines Trumpet Konzert) e a quello romantico (Solo), in cui è lecito ravvisare i primi segnali di una predilezione per atmosfere incantate e stupefatte, talora venate di malinconia. Sarà, tuttavia nei dipinti della maturità, compresi tra gli anni Venti e Trenta, che Olinsky dimostrerà di aver assimilato i codici metafisici di Carlo Carrà (Felicità, 1920) e del giovane Mario Sironi (Un attimo prima, 1930), parafrasando, con la propria pittura, la lezione giottesca del primo e il malinconico incanto delle periferie urbane del secondo. Olinsky è il primo e forse il solo artista che sia riuscito a tradurre la Stimmung in un sentimento di tragicomica catarsi iconografica.
Metapop
L’esempio di Andy Warhol, che tradusse e rinnovò la pittura di de Chirico nel linguaggio della Pop art, dimostra come la Metafisica fosse già entrata a far parte dell’immaginario comune, esattamente come le più celebri icone dell’arte. La mostra Warhol versus de Chirico, allestita a Roma tra il 1982 e il 1983 alla sala degli Orazi e Curazi in Campidoglio, evidenziava, peraltro, come gli After de Chirico di Warhol, pur nella ripetizione differente della procedura serigrafica, mantenessero inalterate le atmosfere silenziose e rarefatte del Pictor Optimus, preservando il senso di straniamento e di sospensione delle sue Piazze d’Italia e il carattere misterioso ed enigmatico dei suoi manichini. Tra le opere di de Chirico revisionate in chiave pop dall’artista americano, c’è anche Ettore e Andromaca, dipinto cardine del periodo ferrarese che rappresenta, in chiave metafisica, l’episodio dell’Iliade relativo all’ultimo abbraccio tra Ettore e Andromaca, prima del fatale scontro dell’eroe troiano con Achille. Si tratta di un soggetto iconografico risalente al 1917, che de Chirico avrebbe ripreso in numerosissime varianti pittoriche e scultorie, ben prima della rilettura Warholiana.
Non stupisce, quindi, che un artista come Giuseppe Veneziano abbia rintracciato proprio in quest’opera il paradigma iconografico della fusione tra Metafisica e Pop Art, aggiungendovi il proprio personale contributo autoriale.

Giuseppe Veneziano, Actarus e Andromaca, 2020, acrilico su tela, 80×60
Actarus e Andromaca (2020) è un mash up iconografico ottenuto dalla fusione di due figure antitetiche, capaci di generare un cortocircuito tra passato e presente, tra storia dell’arte e cultura di massa. Nel tradizionale impianto iconografico dechirichiano, Veneziano non solo opera la sostituzione del manichino di Ettore con la figura di Actarus, popolare eroe della serie animata giapponese Atlas Ufo Robot, ma inscrive l’impalcatura iconografica dell’opera nel rigoroso e riconoscibilissimo registro cromatico della sua pittura. Una pittura che ha dimostrato, in più occasioni, di saper interpretare il presente attraverso immagini polisemiche, che dischiudono molteplici possibilità interpretative, e che, proprio per questo, hanno lo stesso carattere enigmatico e interrogativo dei feticci metafisici.
[1] Giorgio De Chirico, Scritti/1. Romanzi e scritti critici e teorici, a cura di Andrea Cortellessa, 2008, Milano, p. 1043.
[2] Ibidem, p. 1043.
[3] Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita (1945-1962), 2002, Milano, pp. 73-74
[4] Riccardo Dottori, Giorgio De Chirico. Immagini metafisiche, Milano, 2018, p.40.
[5] Giorgio De Chirico, Op. cit, p. 597.
[6] Gioia Mori, De Chirico metafisico, Art e Dossier, allegato al n. 230, febbraio 2007, Firenze-Milano, p. 25.
[7] Ibidem, p. 45.
[8] Giorgio De Chirico, Noi metafisici, articolo apparso in “Cronache d’attualità”, Roma, 15 febbraio 1919; ristampato in Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 66-71; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, pp. 270-276.
[9] Michael Rotondi, Five Questions for Paolo De Biasi, in “Forme Uniche”, 27 giugno 2016, http://formeuniche.org/five-questions-for-paolo-de-biasi/.
Info:
NEUE STIMMUNG
a cura di Ivan Quaroni.
Casati Arte Contemporanea
Docks Dora, Via Valprato 68 – TORINO
Sabato 19 settembre ore 17,30