di Ivan Quaroni
Il lavoro di Giuditta Branconi si distingue per la densità visiva e la compattezza concettuale. La sua pittura, ricca e lussureggiante, crea una rete sovrabbondante di segni da cui emergono immagini di rara ed elegante levità. Ogni sua opera è un perimetro carico di tensioni e contrasti, dove forme e figure si intrecciano, si sovrappongono e talvolta si districano, dando vita a una composizione capace di irretire lo sguardo dello spettatore. La saturazione visiva di segni e colori, così come la pletora dei riferimenti iconografici che continuamente oscillano tra cultura alta e popolare, trasformano la superficie della tela in uno spazio ossimorico, in cui convergono innumerevoli suggestioni, effigi, simulacri e simboli incongruenti. Una tale plenitudine “grafica” (da intendersi, secondo l’etimo greco, di “scrittura visiva”) non è solo il risultato di una procedura cumulativa, di una agonistica stratificazione di apporti segnico-gestuali, ma piuttosto è l’esito di un calibrato lavoro di misurazione, di pesatura, verrebbe da dire, in cui il composito mondo pittorico di Giuditta Branconi prende corpo come per effetto di una progressiva affinazione, di una costante molatura di forme. La saturazione iconografica che ne segue trasforma le doppie superfici dei suoi quadri in diagrammi enigmatici, che obbligano all’esplorazione ottica, intrappolando la retina in un labirinto semiotico, in un complesso reticolo dove sintassi, semantica e pragmatica delle immagini s’intrecciano senza soluzione di continuità.
Non si esce impassibili dai quadri di Giuditta Branconi. Semplicemente perché davanti all’esubero di stimolazioni visive non si può indugiare noncuranti e imperturbabili. Su quelle tele s’imprimono codici eterocliti e tradizioni antitetiche che formano un mélange di costrutti visivi. L’effetto mélange è prodotto dalla stringente sutura delle immagini, giustapposte e quasi ibridate le une con le altre. Ci sono nuvole strappate al catalogo dell’antica arte cinese, quelle che, si credeva, proteggessero l’imperatore (Figlio del cielo) e fungessero – segno inopinabile di buon auspicio – da veicolo di trasporto degli immortali. Ci sono gli angeli suonatori di tromba, di stretta osservanza barocca, simili agli Israfil coranici che annunciano il giorno del Giudizio finale (Our Dreams Aren’t Just Dreams, 2024). Ma si trovano anche farfalle e uccelli che evocano i Paradeisos persiani, dove il ductus classico s’imbastardisce con quello del tatuaggio Old School e perfino dei cartoni animati. Queste immagini convivono con quelle di maestosi cavalli criniti, distillati quasi da un mirabolante regesto d’incisioni rinascimentali (I Wish I Was Born a Rich Blonde Girl, 2024). Nell’immaginifico florilegio di emblemi si annidano anche tracce mnestiche di Liberty e Jugendstil e – perché no? – dei Fairy Painting vittoriani, con il loro profluvio di fatine alate (Regina di cuori, 2024).
Il gioco delle referenze visive è complicato. Richiederebbe un acume investigativo degno di Sherlock Holmes, ma sarebbe comunque un gioco a perdere, perché nel setaccio della pittura di Branconi tutto si trasforma si adatta, si altera, si converte in qualcosa d’inedito. E questa qualità mutante, metamorfica è l’arma terribile di un’arte che non si lascia definire, né catalogare, né irregimentare dentro alcun casellario. Eppure, la vocazione cangiante di quest’arte non ha nulla dell’ambiguità di tanta pittura coeva, indecisa sul crinale che separa l’astratto dal mimetico. Ci sono oggi, nella pittura italiana, troppi pittori irrisolti, nei cui quadri le figure aleggiano fantasmatiche, come larve incerte. Non si capisce mai cosa stiano rappresentando, con la scusa che la pittura debba esprimere l’inesprimibile. In Giuditta Branconi, invece, no, la pittura è chiara, anzi squillante, una pittura insieme calibrata e spiritata, che somiglia a una glossolalia visiva[1].
Etimologicamente, “spirito” deriva dal latino spiritus, che significa “soffio”, “respiro”. Tutto nella sua pittura è dunque animato, cioè “dotato d’anima”, quindi mobile, pulsante, vivo. L’impressione generale che si ricava dalla visione delle sue tele è, infatti, di movimento incessante, di slittamento perpetuo, ma anche di coesione. Le immagini sono, infatti, concatenate, connesse fra loro. Forse per questo abbondano figure di nastri, fiocchi e nappe che annodano e rinsaldano legami iconografici sottilissimi. In questa plenitudine mobile, la figura femminile assume una rilevanza particolare. conquistando lo statuto di Leitmotiv, una ricorrenza analoga a quella dei temi del teatro wagneriano, che si ripresentano, variati di atto in atto, intrecciati con l’ordito drammatico della partitura. Nella pittura di Giuditta Branconi, donne, bambine, streghe, fate e dee conquistano la duplice epidermide del quadro affiorando dal rumore di fondo esornativo, facendosi largo tra schemi e trame che sembrano imbrigliare, contenere e perimetrare le figure. Così, quando scorgiamo una presenza muliebre tra le maglie della tessitura grafica, ci accorgiamo che è una figura in lotta con lo sfondo (pittorico), proprio come nella Storia reale è in conflitto col contesto (sociale), dominato dalla cultura patriarcale. O, almeno, questa è una delle possibili interpretazioni, in un insieme concettuale traboccante di segni e significati che non ammette una sola chiave di decodifica.
[1] Secondo il vocabolario Treccani, la Glossolalia è un esercizio o gioco della favella che conia parole e filastrocche di sillabe insensate: si osserva normalmente nei bambini, ma anche negli adulti che vi ricorrono in certi ritornelli o ritmi di canzoni, mentre costituisce un fenomeno morboso in alcuni casi di schizofrenia. Con “glossolalia visiva”, l’autore intende esprimere il senso di un affastellamento d’immagini simile a quello costituito, nella lingua parlata, da certe musicali filastrocche infantili o dai ritmi incantatorii delle giaculatorie.
GIUDITTA BRANCONI
BRAVA
23.01.2025 – 29.03.2025
L.U.P.O. Gallery, Corso Buenos Aires 2, 20124 Milano







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