di Ivan Quaroni
Studio del buio, BUKA #1, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Nella pittura di Dario Maglionico, parallelamente al ciclo delle Reificazioni, che rappresenta la parte più riconoscibile del suo linguaggio figurativo, è emerso, fin da subito, un interesse verso immagini che impongono una percezione più lenta e dilatata. Ha, infatti, eseguito, con una certa coerenza nel tempo, una serie di Studi del buio in cui tentava di indagare il modo in cui le forme si stagliano in uno spazio umbratile, quasi indistinto, caratterizzato da effetti luministici che sarebbe facile associare alle famose Pitture nere di Goya, ma che più precisamente ricordano certi dipinti scurissimi di Angelo Morbelli, uno su tutti Inverno nel Pio Albergo Trivulzio, un quadro del 1911 che fa pensare a certe tele monocrome di Jason Martin, tutte giocate sulle variazioni cangianti di nero prodotte dalla diversa incidenza della luce sulla spessa materia pittorica.
Studio del buio, Detune, 2025, oil on canvas, 40 x 30 cm
I nuovi Studi del buio sono, in un certo senso, diversi dai precedenti. Non è solo la dominanza di cromie inedite, come il rosso e il blu, prima assenti nei soggetti di questo ciclo, ma è soprattutto il cambiamento di paradigma iconografico. Sono dipinti che, come afferma l’artista, “nascono da immagini, impressioni, sensazioni e ricordi raccolti durante le serate trascorse nei club e nei centri sociali occupati di Milano in quest’ultimo anno”. La serie rappresenta persone accalcate in spazi chiusi e sale illuminate da violente scariche elettriche in gradazioni di cremisi e cobalto, ambienti che nella stesura pittorica sembrano trasmettere le pulsazioni ritmiche della musica techno.
Studio del buio, Balleremo, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Ad esempio, parole come Otolab[1], Ivreatronic[2]o Detune[3], usate nei titoli dei quadri, suggeriscono un’origine legata al paesaggio della performance audiovisiva. Riferimenti che l’artista trasla in una grammatica dove il suono, il ritmo e la frequenza dei beat si traducono in immagini sfocate e cromaticamente sature. Lo Studio del buio diventa, così, una sorta di superficie fotosensibile, costruita come se fosse il risultato di una lunga esposizione, di una stratificazione di momenti ravvicinati che si addensano fino a generare una presenza instabile, fluida. Le immagini dipinte da Maglionico non sono soltanto la traduzione visiva di momenti del proprio vissuto, legati alla frequentazione di club e party notturni. Si può, piuttosto dire che per l’artista, come afferma Federico Ferrari, “non si tratta solo di fungere da registratore dell’evento […], ma di permettere questa effrazione del tempo che si concentra in un istante, conservando nello stesso gesto la memoria del passato e l’apertura della visione dell’avvenire (l’immagine come istantanea della storia).”[4]
Studio del buio, Otolab, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Le Blurred Frequencies a cui si riferisce il titolo della mostra non sono solo quelle della musica elettronica dove – spiega l’artista – “suoni, rumori, beat e loop si mescolano e si distorcono”, ma anche quelle di una pittura fuori fuoco, una sorta di fuzzy painting in cui forme, luci, colori collassano in visioni incerte e confuse. Allucinazioni che riflettono lo stato di trance collettiva e la sensazione di momentanea sospensione della continuità spazio-temporale. In questi nuovi Studi del buio le figure non esistono come entità isolate, ma come corpi inseriti in una fitta trama di relazioni, unità che si dissolvono in una massa corale, fluida, non gerarchica. La luce fioca e soffusa gioca un ruolo centrale, spingendo i volumi dei corpi in una dimensione incerta tra apparizione e sparizione, dove a brillare nitidamente sono solo le pulsantiere dei pannelli di controllo dei mixer, mentre tutto il resto è avvolto in una penombra da cui affiorano, come per un effetto stroboscopico, lampi d’immagini statiche.
Studio del buio, Ivreatronic, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Sono istantanee che l’artista sottrae al flusso instabile e sincopato dei ricordi, ma che impongono, proprio per la loro natura incerta, una fruizione più meditata. Perché, come giustamente nota Ferrari, “Ritrovare l’intervallo, la pausa, nel concatenarsi delle immagini è forse […] il primo gesto da compiere per riappropriarsi dello sguardo, rendendo giustizia alle immagini, rendendo alle immagini la loro capacità di essere giuste con il reale.”[5] Gli Studi del buio sono dunque questo: un modo per acuire lo sguardo dell’osservatore, intensificare la sua intelligenza visiva e permettergli, finalmente, di desincronizzarsi[6] dal tempo standard.
Studio del buio, Lobo #1, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
[1] Collettivo di artisti multimediali fondato a Milano nel 2001 e formato da musicisti, dj, videoartisti, videomaker, web designer, grafici, pittori e architetti impegnati in sperimentazioni a cavallo tra musica elettronica e arte digitale.
[2] Si tratta di un’etichetta discografica, ma anche di un collettivo di produttori, dj e musicisti fondato dal cantautore italiano Cosmo, che organizza eventi culturali dedicati alla musica elettronica.
[3] Il Detune è un club milanese dedicato alla musica live che ha preso posto dello storico Atomic Bar.
[4] Federico Ferrari, L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine, 2013, Johan & Levi editore, Milano, p. 35.
[5] Ivi, p. 48.
[6] Espressione usata dal designer canadese Bruce Mau nel suo famoso An Incomplete Manifesto for Growth, scritto nel 1998 e pubblicato sul numero di marzo/aprile 1999 di «I.D. Magazine».






















