Studio del buio, BUKA #1, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Nella pittura di Dario Maglionico, parallelamente al ciclo delle Reificazioni, che rappresenta la parte più riconoscibile del suo linguaggio figurativo, è emerso, fin da subito, un interesse verso immagini che impongono una percezione più lenta e dilatata. Ha, infatti, eseguito, con una certa coerenza nel tempo, una serie di Studi del buio in cui tentava di indagare il modo in cui le forme si stagliano in uno spazio umbratile, quasi indistinto, caratterizzato da effetti luministici che sarebbe facile associare alle famose Pitture nere di Goya, ma che più precisamente ricordano certi dipinti scurissimi di Angelo Morbelli, uno su tutti Inverno nel Pio Albergo Trivulzio, un quadro del 1911 che fa pensare a certe tele monocrome di Jason Martin, tutte giocate sulle variazioni cangianti di nero prodotte dalla diversa incidenza della luce sulla spessa materia pittorica.
Studio del buio, Detune, 2025, oil on canvas, 40 x 30 cm
I nuovi Studi del buio sono, in un certo senso, diversi dai precedenti. Non è solo la dominanza di cromie inedite, come il rosso e il blu, prima assenti nei soggetti di questo ciclo, ma è soprattutto il cambiamento di paradigma iconografico. Sono dipinti che, come afferma l’artista, “nascono da immagini, impressioni, sensazioni e ricordi raccolti durante le serate trascorse nei club e nei centri sociali occupati di Milano in quest’ultimo anno”. La serie rappresenta persone accalcate in spazi chiusi e sale illuminate da violente scariche elettriche in gradazioni di cremisi e cobalto, ambienti che nella stesura pittorica sembrano trasmettere le pulsazioni ritmiche della musica techno.
Studio del buio, Balleremo, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Ad esempio, parole comeOtolab[1], Ivreatronic[2]o Detune[3], usate nei titoli dei quadri, suggeriscono un’origine legata al paesaggio della performance audiovisiva. Riferimenti che l’artista trasla in una grammatica dove il suono, il ritmo e la frequenza dei beat si traducono in immagini sfocate e cromaticamente sature. Lo Studio del buio diventa, così, una sorta di superficie fotosensibile, costruita come se fosse il risultato di una lunga esposizione, di una stratificazione di momenti ravvicinati che si addensano fino a generare una presenza instabile, fluida. Le immagini dipinte da Maglionico non sono soltanto la traduzione visiva di momenti del proprio vissuto, legati alla frequentazione di club e party notturni. Si può, piuttosto dire che per l’artista, come afferma Federico Ferrari, “non si tratta solo di fungere da registratore dell’evento […], ma di permettere questa effrazione del tempo che si concentra in un istante, conservando nello stesso gesto la memoria del passato e l’apertura della visione dell’avvenire (l’immagine come istantanea della storia).”[4]
Studio del buio, Otolab, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Le Blurred Frequencies a cui si riferisce il titolo della mostra non sono solo quelle della musica elettronica dove – spiega l’artista – “suoni, rumori, beat e loop si mescolano e si distorcono”, ma anche quelle di una pittura fuori fuoco, una sorta di fuzzy painting in cui forme, luci, colori collassano in visioni incerte e confuse. Allucinazioni che riflettono lo stato di trance collettiva e la sensazione di momentanea sospensione della continuità spazio-temporale. In questi nuovi Studi del buio le figure non esistono come entità isolate, ma come corpi inseriti in una fitta trama di relazioni, unità che si dissolvono in una massa corale, fluida, non gerarchica. La luce fioca e soffusa gioca un ruolo centrale, spingendo i volumi dei corpi in una dimensione incerta tra apparizione e sparizione, dove a brillare nitidamente sono solo le pulsantiere dei pannelli di controllo dei mixer, mentre tutto il resto è avvolto in una penombra da cui affiorano, come per un effetto stroboscopico, lampi d’immagini statiche.
Studio del buio, Ivreatronic, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Sono istantanee che l’artista sottrae al flusso instabile e sincopato dei ricordi, ma che impongono, proprio per la loro natura incerta, una fruizione più meditata. Perché, come giustamente nota Ferrari, “Ritrovare l’intervallo, la pausa, nel concatenarsi delle immagini è forse […] il primo gesto da compiere per riappropriarsi dello sguardo, rendendo giustizia alle immagini, rendendo alle immagini la loro capacità di essere giuste con il reale.”[5] Gli Studi del buio sono dunque questo: un modo per acuire lo sguardo dell’osservatore, intensificare la sua intelligenza visiva e permettergli, finalmente, di desincronizzarsi[6] dal tempo standard.
Studio del buio, Lobo #1, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
[1] Collettivo di artisti multimediali fondato a Milano nel 2001 e formato da musicisti, dj, videoartisti, videomaker, web designer, grafici, pittori e architetti impegnati in sperimentazioni a cavallo tra musica elettronica e arte digitale.
[2] Si tratta di un’etichetta discografica, ma anche di un collettivo di produttori, dj e musicisti fondato dal cantautore italiano Cosmo, che organizza eventi culturali dedicati alla musica elettronica.
[3] Il Detune è un club milanese dedicato alla musica live che ha preso posto dello storico Atomic Bar.
[4] Federico Ferrari, L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine, 2013, Johan & Levi editore, Milano, p. 35.
[6] Espressione usata dal designer canadese Bruce Mau nel suo famoso An Incomplete Manifesto for Growth, scritto nel 1998 e pubblicato sul numero di marzo/aprile 1999 di «I.D. Magazine».
Per secoli, la pittura ha avuto il compito di raccontare. Prima di diventare un’arte autonoma e una forma d’espressione solipsistica, prima che incominciassero le riflessioni sul bello e nascesse la disciplina estetica, l’immagine dipinta serviva a trasmettere una storia. Sia che riguardasse episodi sacri o leggende mitologiche, la funzione principale della pittura era quella di rendere visibile una narrazione e trasformare un evento in rappresentazione figurativa. Non si dipingeva per pura astrazione, ma con l’intento di creare una narrazione condivisa, riconoscibile, leggibile.
Silvia, Paci, Autoritratto con amiche, 2025
Da questa matrice discendono anche le opere di Agnese Guido e Silvia Paci, pittrici che recuperano il senso del racconto, declinandolo in chiave onirica, simbolica, ed evocativa. Le loro immagini si muovono, infatti, lungo la linea che collega la grande tradizione figurativa occidentale alla sensibilità contemporanea, attraverso due differenti modi di trasformare in figure pensieri ed esperienze personali. Quel che è certo è che nel loro lavoro, la pittura riesce a rappresentare in maniera istintiva e immediata vicende che richiederebbero una diversa e forse più complessa formulazione in altre forme di narrazione.
Agnese Guido, L’occhio dell’Occidente, 2025
Già nel Quattrocento, Leon Battista Alberti esortava i pittori a costruire istorie, composizioni capaci di coinvolgere emotivamente l’osservatore attraverso la dinamica delle azioni e l’intelligibilità dei sentimenti. Non è un caso che, ancora alla fine Cinquecento, Cesare Ripa provasse a codificare il significato delle immagini con la sua Iconologia, riconoscendo che dietro ogni figura, dietro ogni gesto, si nasconde un messaggio, un contenuto da decifrare. La pittura era, insomma, un linguaggio dotato di una propria struttura e grammatica, non meno articolato della scrittura, ma ben più efficace sul piano dell’immediatezza comunicativa.
Agnese Guido, Glory Tamed, 2025
Agnese Guido e Silvia Paci operano all’interno di una dimensione stratificata dell’immagine, caratterizzata dal ricorso a simboli, allegorie, trasfigurazioni o semplici associazioni visive che contribuiscono a strutturare un racconto più ampio. In un certo senso, la loro arte si avvicina allo spirito di Dino Buzzati. “Che dipinga o che scriva”, affermava il pittore e romanziere, “io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.” E, infatti, Storie dipinte[1], come le chiamava lui, sono anche quelle di Agnese Guido e Silvia Paci, che in modi diversi, ma complementari, restituiscono alla pittura il potere di evocare mondi, suggerire trame, rivelare attraverso l’apparente staticità dell’immagine le vertigini dell’esistenza interiore. Però, senza arrivare a quelle che, riferendosi allo scrittore bellunese, la critica definiva strategie iconotestuali, Guido e Paci concepiscono il dipinto come una trama possibile, una fabula che forza le buone regole del racconto, mescolando e confondendo le tradizionali unità aristoteliche di tempo, luogo e azione.
Silvia, Paci, Il domatore feroce, 2025
La vena narrativa di Agnese Guido nasce dalla trasfigurazione del quotidiano, da una capacità, insieme fantastica e sognante, di animare l’inanimato, trasformando oggetti, edifici e città in entità vive e senzienti. È un meccanismo che ricorre spesso nei cartoni animati e nei fumetti e che nel modo di dipingere dell’artista costituisce una sorta di seconda natura, una predisposizione a osservare la realtà da punti di vista inaspettati.
Agnese Guido, Camping of the Blind, 2025
L’artista riesce, infatti, a dare corpo e colore a una dimensione magica e vitale dell’esistenza che sarebbe altrimenti rubricata come mera fantasticheria o come semplice sogno ad occhi aperti. È un modo, il suo, che incanala nelle immagini dubbi e domande sul senso della vita, insomma una maniera di interrogare la realtà – e sé stessa – e provare a vedere le cose diversamente. È il genere di domande e di ipotesi che di solito si trova nei romanzi fantastici e nei racconti di fantascienza. Esiste perfino una serie di fumetti della Marvel che si chiama “What if…?”, dedicata alle ucronie e alle vicende dei supereroi ambientate in dimensioni parallele. Ma nel caso di Agnese Guido, l’elemento speculativo non riguarda mondi ulteriori o universi lontanissimi, ma la sfera più prosaica dell’esistenza, quel quotidiano su cui l’artista sovrascrive le proprie impressioni e considerazioni, concedendosi d’interpretare il mondo fenomenico attraverso un filtro fantastico che, però, non perde mai del tutto i contatti con la realtà.
Agnese Guido, Il troll, 2025
Con una pittura in cui convivono impulsi espressionistici e venature surrealiste, Guido illustra l’assurdità della commedia umana. Adotta un registro che spazia tra il lirico e l’ironico, tra il poetico e il farsesco, per squadernare ciò che è ordinario, ribaltando prospettive e rapporti di scala e sovvertendo ogni tipo di gerarchia, come accade, nei quadri grandi, da Camping of the Blind (2025) a L’occhio dell’Occidente (2025), fino a Piccola grande plastica (2025).
Agnese Guido, Autoritratto pensando ad un quadro, 2025
Nei suoi dipinti, infatti, figure umane e oggetti sono spesso sovradimensionati o miniaturizzati. Insomma, la loro statura non obbedisce alle leggi della fisica, ma alle esigenze del racconto. Tutto può diventare importante. Il banale può essere sublimato, come nel caso di Autoritratto pensando a un quadro (2025), dove il primo piano è occupato da un bidone dell’immondizia. Oppure, al contrario, le protagoniste di quadri come Glory Tamed (2025) e Will to Purify a Way to Die (2022), possono assumere dimensioni lillipuziane. Sono gli effetti di un relativismo pittorico che fa somigliare ogni scena a un giallo onirico, disseminato di falsi indizi e piste morte.
Agnese Guido, Comfortably in Danger, 2025
L’attitudine narrativa della pittura di Silvia Paci deriva dall’amore per la letteratura, la mitologia e il folclore. Leggende, storie popolari e racconti biblici costituiscono, infatti, il fondamento culturale e psicologico su cui l’artista costruisce il proprio immaginario simbolico, dove convergono memorie individuali e archetipi universali.
Silvia, Paci, Il paese della cuccagna, 2025
Quel che le favole e le esperienze reali hanno in comune è la fitta trama di menzogne, illusioni e falsità che trasformano le vicende più banali in avvincenti racconti del mistero. Silvia Paci cerca nel repertorio favolistico la matrice di frottole, fandonie e fantasie che condizionano l’esistenza umana. In un certo senso, i suoi dipinti sono atti psicomagici con i quali ritualizza in immagini fatti e circostanze del suo vissuto, proiettandoli all’interno di trame che sembrano uscite dalla penna di Carlo Collodi, dei Fratelli Grimm o diCharles Perrault. L’autoritratto dell’artista è un elemento ricorrente nei suoi dipinti, spesso costruiti come scene corali, affollate di personaggi come le tele del Seicento, dove verità e finzione si fondono senza soluzione di continuità.
Silvia, Paci, All My Friends Are Weird, 2025
Ad esempio, Il Paese della Cuccagna (2025) – riferimento a un archetipo narrativo presente in molti racconti, da Hans nel paese della Cuccagna dei Grimm al Paese dei Balocchi di Pinocchio, fino a Il Paese di Bengodi di Boccaccio –, come pure l’opera All my Friends Are Weird (2025), raffigurano i piaceri del gioco o del travestimento, introducendo il tema ricorrente della bugia, attorno a cui ruota tutta la recente produzione dell’artista. Maschere e feticci, infatti, compaiono in molte tele come simboli di simulazione o affettazione, ingredienti fondamentali di ogni pantomima. In particolare, i feticci sono bambole di pezza, oggetti fatti a mano dall’artista per essere inseriti nei quadri, accanto ai ritratti di amici e conoscenti.
Silvia, Paci, Giocolandia, 2025
Paci inventa anche bizzarre calzature dotate di zampe o artigli, come quelle che sostituiscono le tradizionali pantoufle de verre in Giocolandia (2025), dove l’artista interpreta appunto il ruolo di una novella Cenerentola. Bugie, panzane, fanfaluche sono concetti che affiorano in tutte le opere, assumendo ora l’aspetto di personaggi del romanzo di Collodi, dal famoso burattino (Trasformazione, 2025) al Gatto e la Volpe (Just Friends, 2025), da Mangiafuoco alla Fata turchina (Naso lungo, gambe corte, 2025), ora la fisionomia della pittrice stessa (Autoritratto, 2025) o dei suoi compagni d’avventura (Autoritratto con amiche, 2025).
Silvia, Paci, Naso lungo, gambe corte, 2025
Insomma, Agnese Guido e Silvia Paci restituiscono alla pittura uno scopo narrativo attraverso trasfigurazioni allegoriche e autobiografie mascherate. Le loro immagini possono essere interpretate come rappresentazioni dell’inconscio o come raffigurazioni mentali in cui convivono tracce e frammenti di storie potenziali. Storie a volte enigmatiche, ma dipinte con stile.
Silvia, Paci, Just Friends , 2025
[1]Storie dipinte, appunto, era il titolo della prima personale tenuta da Buzzati nel 1958 nella Galleria dei Re Magi a Milano e del relativo catalogo in 520 esemplari, stampato dai tipi dell’Officina d’Arte Grafica A. Luchini e C., ripubblicato nel 1977 dalle Edizioni del Libraio di Via S. Andrea Milano e poi nel 2013 da Mondadori in una nuova edizione curata da Lorenzo Viganò.
Nel limbo che separa la veglia dal sonno, quando la percezione si allenta e la realtà comincia a perdere i propri contorni, si entra in uno stato di coscienza ipnagogico, una condizione in cui possono manifestarsi apparizioni, allucinazioni, visioni alterate. È un momento in cui affiorano visioni brevi e intense, spesso isolate dal contesto, ma che si impongono chiaramente anche in assenza di una struttura narrativa. Lo scrive anche Pavel Florenskij, in un celebre saggio sull’icona, dove afferma che “al valico del sonno e della veglia, prima che si varchi l’intervallo tra i due territori, al confine dove si toccano, la nostra anima è circondata da visioni.[1]” Infatti, spiega il teologo, matematico e teorico dell’arte russo, “il sonno profondo, quello vero, in quanto tale, non si accompagna a visioni e soltanto lo stato metà sonno e metà veglia, appunto il confine tra sonno e veglia, è il tempo, o meglio il tempo-ambiente della scaturigine delle immagini oniriche.[2]”
Extra Brown Sugar, 2025, acrilico su tela, 50x40cm
Da questo “tempo-ambiente” derivano anche le visioni dipinte da Nicola Caredda, che traduce le immagini ipnagogiche in paesaggi mentali dove si accumulano i detriti industriali, urbanistici e culturali di una civiltà estinta. Le sue sono, infatti, vedute di scenari futuri, possibili conseguenze dell’attuale impatto antropico sull’ecosistema terrestre, oppure, semplicemente, posti desolati, periferie dell’anima in bilico tra i nonluoghidi Marc Augé e gli spazi liminali[3] della nuova estetica digitale. Sono territori di confine, zone marginali che funzionano come soglie d’ingresso a una realtà alternativa, bloccata in un eterno crepuscolo che illumina, con la sua luce serotina, oggetti, suppellettili e rovine del nostro presente. Il carattere metafisico di queste periferie disabitate è scandito dal nitore realistico delle immagini, dalle perfette volumetrie dei ruderi architettonici e dalle forme finemente cesellate dei residui della società dei consumi. Sono visioni che hanno la qualità dei sogni lucidi.
The Big Pineapple, 2025, acrilico su tela, 120x100cm
Nei quadri di Caredda, infatti, non ci sono deformazioni, distorsioni o travisamenti della realtà, ma nitide premonizioni di un tempo a venire che, in qualche modo, ci appare familiare, come se l’avessimo già vissuto. Nick Land, il controverso filosofo inglese, ex membro della CCRU, l’Unità di Ricerca di Cultura Cibernetica dell’Università di Warwick, ha chiamato questo tipo di fenomeno Iperstizione. Il concetto di hyperstition (iperstizione), derivato dalla crasi dei termini hype e superstition, è una narrazione che si autorealizza quando viene condivisa e interiorizzata da un gran numero di persone. La sua forza non risiede nella capacità di descrivere scenari distanti nel tempo, ma nel modo in cui condiziona la percezione del presente nella psicologia delle masse e attraverso fenomeni virali come la memetica. Come afferma Tommaso Guariento, esperto di Cultural Studies, “nella razionalità circolare della cibernetica, il futuro retroagisce sul passato e quindi, quando una narrazione si auto-realizza, quello che accade non è la manifestazione nel futuro di un desiderio presente, ma la provenienza dal futuro di elementi che vengono catturati da una storia.[4]” Come nella trama di Terminator, il film di James Cameron.
Pink Behind the Scenes, 2025, acrilico su tela, 50x40cm
Le opere di Caredda sono dispositivi iperstizionali nel senso che non descrivono un futuro possibile, ma lo attivano. La sua pittura ipnagogica diventa, così, uno strumento operativo che influenza l’immaginario del presente, di fatto riscrivendolo. Proprio per questo, nelle sue tele, le immagini non si presentano come illusioni fantastiche, né come chimere surreali. In realtà, non solo ogni oggetto è riconoscibile nella sua qualità di merce o feticcio della società attuale – dalla bottiglia di Coca Cola alle vecchie bombolette spray Krylon, fino alla rivista Toiletpaper di Maurizio Cattelan – ma anche le architetture e le infrastrutture sono quelle di edifici, cabine telefoniche, distributori di benzina, autostrade e cavalcavia di cui è disseminato il sistema viario italiano. Caredda è estremamente realistico quando si tratta di evocare luoghi e cose più o meno note, ma lo è altrettanto quando inventa oggetti verosimili come il vaso di fiori di The Big Pineapple(2025), con quel bizzarro motivo decorativo di mosche ripetute, o la scultura di sapore quasi classicheggiante che rappresenta la testa di un cane Spaniel nel dipinto Brown Sugar Extra (2025).
Armed Spray, 2025, acrilico su tela 50x40cm
La luce gioca un ruolo essenziale in questa dinamica di definizione realistica, intensificando la consistenza degli oggetti e scandendone nitidamente le forme. Il risultato è la creazione di un universo perfettamente leggibile, sebbene sospeso in un tempo elastico, in cui convivono tracce del passato, configurazioni attuali e presenze potenziali. I dipinti di Caredda catturano i barbagli di un futuro eventuale, non descrivono uno sviluppo necessario. Se è vero, come sostiene Franco “Bifo” Berardi che “lo stato presente del mondo può essere descritto come la simultanea occorrenza vibrazionale di molte possibilità[5]”, allora le visioni di Caredda possono essere interpretate come “l’effetto temporaneo e instabile di una polarizzazione, la fissazione provvisoria di un modello”[6]. Un modello fino ad ora plausibile, ma che, forse, può ancora essere scongiurato.
[1] Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di Elémire Zolla, 1997, Adelphi, Milano, p. 20.
[3] Nell’estetica di Internet, gli spazi liminali sono luoghi vuoti o abbandonati che appaiono inquietanti, desolati e surreali. Quest’estetica ha acquisito rilevanza nel 2019 con la diffusione virale di un post su 4chan che mostrava uno spazio denominato “Backrooms”. In seguito, immagini di spazi liminali sono state condivise su varie piattaforme online, tra cui Reddit, Twitter e TikTok. Ne scrive Valentina Tanni in: Exit Reality. Vaporwave, backrooms, weirdcoree altri paesaggi oltre la soglia, 2023, Nero edizioni, Roma.
Il linguaggio pittorico di El Gato Chimney si è strutturato, nel tempo, in una sintassi figurativa unica, che ha saputo integrare il rigore tassonomico di un naturalista del XIX secolo con l’elegante acribia di un miniaturista medievale e il vigore visionario di un pittore simbolista. Questa sintesi è stata il prodotto di una evoluzione stilistica che, dopo gli esordi nell’ambito della street art, lo ha portato a interessarsi alle radici magiche ed esoteriche di diverse tradizioni figurative. Con un approccio da etnografo, infatti, l’artista ha composto, attraverso diversi cicli pittorici, una specie di Atlante Warburghiano, fatto d’immagini che attingono al repertorio del folclore di vari popoli, declinate, però, in un lessico personale, che cuce insieme la dimensione simbolica con l’attenzione a temi e istanze del contemporaneo.
Kasha, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
L’interesse di El Gato Chimney per l’immaginario spirituale e magico dell’estremo oriente che caratterizza in particolare questa esposizione, è il segno di un percorso di studio e rielaborazione di iconografie classiche giapponesi di cui, peraltro, si trova traccia anche nei manga e nei film d’animazione contemporanei[1]. Assecondando la propria passione per il Sol Levante, l’artista ha creato un bestiario personale, composto di animali mutanti e ibridi antropomorfi, spesso riconducibili alle tipologie degli yōkai, demoni e spiriti che, secondo i racconti tradizionali, compaiono nelle strade delle città e dei villaggi durate le notti d’estate. Si tratta di figure che, lungi dall’essere semplici mostri, svolgono un ruolo rituale, scaramantico e pedagogico nella cultura locale. Nel loro aspetto mostruoso si cela, infatti, una funzione di ammonimento e, insieme, di conservazione della memoria collettiva. Spesso rappresentati in cortei o processioni, gli yōkai sono entità soprannaturali che incarnano la paura dell’ignoto e del mutamento, esseri ambigui e mutaforma che El Gato Chimney adatta al proprio preesistente vocabolario zoomorfico.
Into the web, 2025, acquarello e tempera su carta, 150x30cm
Nelle sue opere, infatti, la ripresa di queste figure è sempre rielaborata attraverso una reinvenzione che mette in gioco forme e contenuti eterogenei, che attingono tanto all’iconografia degli emakimono, i rotoli di racconti illustrati diffusi tra l’XI e il XVI secolo, o degli ukiyo-e, le cosiddette “immagini del mondo fluttuante” delle stampe del Periodo Edo, quanto alla cultura visiva contemporanea, compresi, appunto, i linguaggi dell’illustrazione e del fumetto, di cui l’artista è un grande appassionato. Un esempio tipico di reinvenzione è Matsuri (2025), un dipinto ad acquarello e tempera in cui l’artista riprende la struttura di una celebre opera di Kawanabe Kyōsai, inserendo nell’iconografia classica della Hyakki Yagyō (“La Parata dei cento demoni”), il proprio campionario di creature dispettose e sbeffeggianti, simili a quelle evocate nelle sfilate delle feste processionali shintoiste.
The Ghost Cat, 2025, inchiostro di china e acquarello su carta, 70x50cm
Nel caso di El Gato Chimney, è soprattutto attraverso il ricorso al teriomorfismo, cioè l’attribuzione di una forma animale a divinità, spiriti o entità di origine soprannaturale, che si può ravvisare un’influenza asiatica, recepita anche attraverso la mediazione occidentale di Hieronymus Bosch o Pieter Bruegel il Vecchio che, secondo lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis[2], mutuarono alcune figure mostruose da fonti estremorientali. Tuttavia, la propensione verso la creazione di una morfologia incerta tra l’umano e l’animale si trova già in precedenti lavori dell’artista. È semmai nel formato orizzontale allungato, quello già sperimentato nei libri d’artista come Namazu (2022), Giant Octopus (2022) e The Frog’s Apparition (2021), che seguono l’andamento a fisarmonica delle Moleskine, che si avverte più forte l’allusione alla tradizione dei rotoli emakimono, dove l’approccio narrativo dell’artista trova nuove soluzioni per affrontare temi che riflettono timori e paure collettive di stretta attualità. Ad esempio, Into the Web (2025) è una metafora delle politiche di controllo e sorveglianza adottate nella rete internet attraverso l’impiego degli algoritmi. Questo timore, in fondo giustificato, è incarnato nelle fattezze di un grande aracnide rosso, preso d’assalto da uno sciame di vendicativi animaletti antropomorfi. Sono gli stessi animaletti che compaiono, muniti di inchiostro e pennelli, in quella sorta di allegoria della pittura che è The Creations, dove le tecniche dell’acquarello e della tempera incontrano lo stile disegnativo e calligrafico della china.
The Great Puffy, 2025, acquarello e tempera su carta_100x70cm
Di impianto narrativo sono anche le opere in cui l’artista esprime le proprie preoccupazioni per i danni ambientali provocati dal fast fashion. A esempio in The Great Puffy (2025) e The Metamorphosis (2025), dove compaiono soffici mostri dai corpi ricoperti con patchwork di tessuti differenti, Leviatani partoriti da un’industria tessile irresponsabile. L’allusione è alle discariche di abiti accumulati nel deserto di Atacama, lungo la cordigliera del Cile, tragico effetto di un mercato globale che produce più rifiuti di quanti ne riesca a smaltire. El Gato Chimney, però, tratta l’argomento con una certa eleganza, scegliendo con cura i motivi decorativi dal repertorio tessile tradizionale giapponese e trasformando, così, ogni pattern in una trappola per lo sguardo.
Winter in April, 2025, acquarello e tempera su carta, 100x70cm
Timori di natura ecologica si possono leggere, anche solo in filigrana, nell’opera Winter in April (2025), dove un maestoso coniglio di neve è assediato da una turba di creature zoomorfe, tra le quali si annidano strane sculture di paglia, oggetti apotropaici solitamente posti all’ingresso dei villaggi contadini a protezione dei raccolti, che l’artista trasforma in talismani contro gli effetti del cambiamento climatico. Un elemento ricorrente di molte opere di El Gato Chimney è la presenza di fili e corde rosse, che spesso legano tra loro i personaggi, formando un ordito, appena distinguibile, di relazioni, tensioni e legami invisibili che governano l’enigmatico universo dell’artista. Ci sono, però, altri oggetti simbolici che ritornano, come un refrain, nel suo immaginario visivo: campanelli, maschere, ventagli, ma anche aghi, forbici, torce, coltelli e pestelli branditi, come armi, da un popolo di buffe creature lillipuziane.
The Creations, 2025, acquarello tempera e inchiostro di china su carta, 150x30cm
È un immaginario, il suo, che può assumere toni parodistici, come succede in One Day at the Shore (2025), dove una grande piovra umanoide – figura ricorrente delle stampe ukyo-e, da Kuniyoshi a Hokusai –fronteggia un esercito di creaturine acquatiche in una scena da teatro kabuki, dove il mare diventa palcoscenico dell’assurdo. Ma grottesche, quasi caricaturali, sono anche le figure di volpi, rane, topi e polpi di alcune ceramiche smaltate, con le teste impilate a formare dei piccoli totem domestici. Insomma, stravaganze e stramberie del bestiario shintoista, ma anche buddhista, abbondano un po’ ovunque nelle opere di El Gato Chimney, affascinato dal trasformismo dei bakemono, animali mutaforma dei racconti popolari, intermediari tra i mondi fenomenico e ultraterreno che spesso hanno l’aspetto di giganteschi gatti, come nei dipinti Kasha[3] (2025) e The Ghost Cat (2025). Tra le bestie polimorfiche ritratte dall’artista ci sono anche il kitzune[4], entità leggendaria in forma di volpe, l’usagi[5], il coniglio che i giapponesi associano alla luna, e, infine, il kaeru[6], la rana portafortuna.
One Day at the Shore, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
Eppure, accanto all’invenzione e alla rilettura iconografica, colpiscono la tenuta linguistica del lavoro dell’artista e la sua capacità di tenere insieme registri differenti, combinando l’immediatezza grafica tipica dell’illustrazione con l’intensità simbolica delle miniature medioevali. Le superfici dei suoi racconti, pur gremite di figure, risultano sempre chiaramente leggibili. I colori sono vivaci, ma controllati, i tratti netti, ma dinamici. Insomma, la sua pittura costruisce uno spazio visivo chiaro, comprensibile, nonostante la disseminazione di elementi enigmatici, per non dire esoterici. Poi ci sono le opere a inchiostro di china, dove a cambiare non è solo la materia pittorica, cambia, ma anche il gesto e, dunque, la sua capacità espressiva. Nelle grandi carte, la narrazione cede spazio alla monumentalità del soggetto, il numero di figure si riduce, la forma si sfalda rispetto ai modi miniaturistici abituali e l’immagine, emerge come presenza ineludibile, che occupa tutto il campo visivo dell’osservatore. Anche qui tornano le forme animali, ma in veste più archetipica, quasi mitologica: rospi colossali, piovre dagli occhi ipnotici, giganteschi felini predatori, mostri che ricordano le figure apotropaiche dei templi buddhisti o i terribili demoni dei thangka tibetani[7].
The Rumble, 2025, china ink on paper, 200x450cm
In queste figure, dove l’inchiostro è steso con variazioni tonali che vanno dal grigio chiaro al nero più profondo, le anatomie si fanno incerte, fluttuanti, come masse organiche che affiorano da un magma indistinto. La resa espressiva è affidata a una spontaneità vigile, in un equilibrio sottile tra disciplina e libertà. Ma queste nuove opere in bianco e nero, molte delle quali rappresentano rane e rospi benauguranti – da D Green (2025) a Master Toad (2025) fino a Kawanabe, velato tributo uno dei maggiori pittori giapponesi dell’Ottocento[8] – non costituiscono un semplice pendant tecnico delle composizioni a colori ma, in qualche modo ne rappresentano il controcanto concettuale. Se le prime costruiscono un mondo, le seconde ne evocano il fondamento simbolico. Se le prime usano la struttura del racconto visivo, le seconde si manifestano come apparizioni o epifanie. Queste sono, infatti, opere dominate da figure liminari e polisemiche, che funzionano indifferentemente se a osservarle è lo sguardo divertito di un bambino oppure quello di un cultore delle “cose orientali”, che sa interpretare il senso di ogni figura. Così, la grande rana che dà il titolo alla mostra non è soltanto un simbolo da decifrare, ma un’icona eccedente, fuori scala, meravigliosamente scenografica, che cattura e coinvolge, generando un effetto di ammirata stupefazione. Ed è già più di quanto faccia normalmente gran parte della cosiddetta arte contemporanea.
The Metamorphosis, 2025, acquarello e tempera su carta, 70x100cm
[1] In particolare, la produzione dello Studio Ghibli è ricca di riferimenti all’iconografia delle creature del folclore popolare e shintoista in anime come La città incantata (2001) e Principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki e Pom Poko (1994) e La storia della Principessa Splendente (2013) di Isao Takahata.
[2] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, 1997, Adelphi, Milano, p. 242.
[3]Kasha, che significa letteralmente “carro di fuoco”, è un demone felino in cui si trasformerebbero alcuni gatti giunti in età avanzata. Talvolta è rappresentato come un traghettatore di anime, che trasporta i dannati all’inferno su un carretto.
[4]Kitsune è uno spirito in forma di volpe che può entrare nei sogni, diventare invisibile, assumere sembianze umane, specialmente di donna, e perfino volare.
[5]Tsuki no usagi è una figura immaginaria presente nella mitologia di diversi paesi dell’Estremo Oriente, in particolare Cina e Giappone. Rappresenta un coniglio che risiede sulla Luna, seduto sulle zampe posteriori accanto a un pestello da cucina, impegnato a preparare il mochi, un tipico dolce tradizionale.
[6] La parola Kaeru, che in giapponese significa “tornare”, è omofona di Kaeru, la rana. Questo ha fatto delle rane i simboli del “ritorno” della ricchezza e della buona sorte.
[7] I Thangka sono dipinti tibetani sacri su tela, incorniciati con tessuti di broccato. Rappresentano immagini sacre come mandala, ruote della vita, divinità e Buddha del Buddismo tibetano.
[8]Kawanabe Kyōsai (1831-1889) è stato un pittore e incisore giapponese, a cavallo tra i periodi Edo e Meiji.
«Davanti a noi c’è una scelta cruciale, tra un postcapitalismo globalizzato e una lenta frammentazione che porta al primitivismo, alla crisi infinita e al collasso ecologico del pianeta.» (Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista[1])
Ersilia Sarrecchia, Come Adamo ed Eva, olio e acrilico su tavola, 110×140, 2025
Il rapporto tra uomo e natura si è modificato nel corso della storia, costituendo una sorta di narrazione mobile, stratificata, soggetta a continui slittamenti semantici e percettivi. Il concetto stesso di natura si è modellato, nel tempo, sulla base di mitologie, saperi e sistemi simbolici. Nell’antichità, ad esempio, la natura era percepita come una forza animata, dotata di volontà autonoma, abitata da presenze divine e spiriti primordiali: basti pensare alla teofania vegetale di Pan, figura liminale e sfuggente, o alla sacralità dell’albero nelle culture tradizionali, elemento cosmico e insieme genealogico.
Col passare dei secoli, la natura è stata progressivamente sottoposta a operazioni di addomesticamento. Soprattutto l’età moderna ha segnato una svolta radicale. Già in epoca premoderna, attraverso la lente della scienza e della tecnica l’uomo ha iniziato a misurare, catalogare e infine sfruttare l’ambiente secondo una logica produttiva e funzionale. Con l’avvento della rivoluzione industriale nel XIX secolo, il rapporto con la natura ha subito un’ulteriore torsione: essa ha cessato di essere interlocutrice simbolica dell’umano per diventare spazio operativo, risorsa da ottimizzare, superficie neutra su cui proiettare desideri di progresso e sviluppo. In questa nuova configurazione, il paesaggio perde la sua carica autonoma di senso, trasformandosi in sfondo passivo della narrazione antropocentrica, funzionale più agli obiettivi dell’economia che a quelli dell’immaginazione. Eppure, mentre l’idea di natura si razionalizzava e si piegava a esigenze produttive, la sua traduzione visiva in ambito artistico non sempre procedeva in modo parallelo o coerente. Gli artisti, in diversi momenti storici, hanno, infatti, messo in discussione la visione dominante, restituendo al paesaggio complessità emotiva, ambiguità percettiva e spessore simbolico. La rappresentazione artistica della natura non si è, quindi, limitata a seguire l’evoluzione del pensiero tecnico-scientifico, ma ha continuato a problematizzare la relazione con l’ambiente, spesso anticipando riflessioni che solo più tardi sarebbero emerse in un più ampio discorso culturale.
Alberto Zecchini, Senza titolo, olio e acrilico su tela 240×100, 2024 copia
Oggi, mentre la crisi ecologica impone una revisione radicale delle categorie di pensiero, molti artisti sentono l’urgenza di tornare a interrogare il paesaggio, non solo come soggetto da riprodurre, ma come spazio critico, in cui si riflettono le tensioni economiche, identitarie, politiche di questo delicato momento storico. Non bastano più né l’ecologismo classico, né l’introduzione di concetti come la wilderness – termine che designa una porzione di territorio popolata di animali allo stato selvatico, in opposizione alle aree modificate dall’uomo – per fare fronte alle nefaste conseguenze dell’antropocentrismo sull’habitat naturale. Quello che serve, semmai, è un cambiamento di paradigma non tanto culturale, ma spirituale. Perfino Timothy Morton, voce autorevole nel dibattito odierno sui rapporti tra uomo e natura, sostiene come la dimensione spirituale sia l’unico vero salvagente per l’umanità. La religione, spiega il filosofo britannico, “è quella sensazione legata alla biologia, a prescindere da ciò che dice la scienza biologica o psicologica, non parla di una vita strana, non è contraria alla terra, non è al di fuori dell’universo, ma è dentro il nostro corpo”[2].
Ersilia Sarrecchia 120×120
Nel Bosco e tra gli Alberi, il progetto pittorico congiunto di Ersilia Sarrecchia e Alberto Zecchini giunge, in un certo senso, a conclusioni simili. Nel loro caso, infatti, non si tratta semplicemente di un ritorno alla pittura di paesaggio, né tantomeno di una celebrazione della natura come oggetto di contemplazione. Piuttosto, ciò che interessa ai due artisti è l’attraversamento, la soglia, la zona intermedia dove figura e ambiente non si oppongono, ma si compenetrano. La pittura diventa qui una pratica di immersione, di ascolto, di adesione sensibile alla materia organica del mondo. Questa fusione panica con l’ambiente naturale è resa, nei lavori di entrambi gli artisti, attraverso la rappresentazione di corpi immersi nella vegetazione, quasi fusi nella trama fitomorfa della foresta.
Ersilia Sarrecchia, in particolare, lavora su corpi che si dissolvono nella trama vegetale, che non si impongono sul paesaggio, ma lo assorbono, come se la carne stessa partecipasse del ritmo segreto del sottobosco. Le sue figure adamitiche, anche quando dominano la scena, si offrono come presenze-permeabili, attraversate da fronde, rami, foglie e radici. In tutti gli altri dipinti, quelli in cui il soggetto umano è assente, quasi assorbito o divorato da organismi vegetali, dominano immani proliferazioni, germinazioni e infiorescenze che trasformano la materia in un magma indistinto di forme. È qui che la pittura di Sarrecchia lambisce esiti quasi astratti, innestando un’impronta gestuale e informale sulla sottostante struttura figurativa che appare, così, trasfigurata.
Alberto Zecchini, Senza titolo, olio e acrilico su tela 140×70, 2024 copia
Nei dipinti di Alberto Zecchini, invece, l’immagine sembra costruita per successivi apporti, stratificazioni segniche e cromatiche che seguono una procedura erratica, non prestabilita. Le sue immagini, infatti, affiorano per frammenti, come lacerti visivi che resistono a una chiara e immediata leggibilità, offrendosi come corpi puramente allusivi, privi di un’identità definita. La sua pittura, infatti, non illustra, ma suggerisce, attraverso la reiterazione di forme incerte e cangianti, l’esistenza di un mondo in cui uomo e natura fluiscono senza soluzione di continuità, come parti di un unico organismo vivente.
Pur con linguaggi diversi, entrambi gli artisti rifiutano la dicotomia tra soggetto e ambiente. Le loro opere non rappresentano l’ambiente naturale, nel senso che non offrono una visione oggettiva del paesaggio, ma adottano una prospettiva organica e analogica, fatta di intrecci, slittamenti, trasformazioni. Il bosco, presenza ricorrente nei loro dipinti, diventa una zona di confine e attraversamento, dove si dissolvono le distinzioni tra umano e non umano. Sarrecchia e Zecchini ci offrono due distinte versioni di un universo poroso, permeabile, abitato da forme instabili, stratificate, plurali. Sarrecchia e Zecchini cercano, ognuno col proprio personale codice linguistico, di attivare nell’osservatore uno sguardo capace di riconoscere la natura non come un’entità separata da contemplare o salvare, ma come qualcosa con cui siamo intimamente intrecciati. La loro pittura, infatti, restituisce complessità a questa relazione, riportandola alla sua dimensione originaria, fatta di prossimità, di scambio, di coesistenza sensibile tra corpi, spazi, memorie e forme di vita differenti. È un’alleanza fragile e mutevole, che non pretende di ricomporre l’equilibrio perduto, ma introduce l’idea che uomo e natura condividano una dimensione comune, in cui ciascuna entità si ridefinisce nel contatto con l’altra. In questa tensione – mai del tutto risolta – la pittura s’inserisce come una forma di iperstizione[3], capace non solo di evocare mondi possibili, ma di attivarli, rendendoli operativi nello spazio dell’immaginazione.
[1]Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista, 2018, Gius. Laterza & Figli, Bari-Roma, pp. 33-34.
[3] Iperstizione (hyperstition) è un termine coniato da Nick Land all’interno della Cybernetic Culture Research Unit (CCRU) per indicare narrazioni o idee inizialmente fittizie che, attraverso la diffusione e la credenza collettiva, diventano reali. Sono vere e proprie profezie che si autoavverano, strumenti narrativi con un impatto concreto sulla realtà. Legato alla filosofia accelerazionista, il concetto suggerisce che ciò che viene immaginato come potenziale può influenzare il presente. In ambito artistico, definire la pittura come “luogo iperstizionale” significa riconoscerle la capacità non solo di rappresentare, ma di attivare futuri alternativi.
Stanza di Città -Roma, 1983, olio su tela, cm 400×200
Per comodità o forse per una certa pigrizia della critica, Arduino Cantàfora è sempre stato incasellato nella sfuggente categoria degli “architetti-pittori”, professionisti inclini allo sconfinamento disciplinare, cui appartengono figure di spicco come Antonio Sant’Elia, Enrico Prampolini, Ico Parisi, Giò Ponti, Ugo La Pietra, Riccardo Dalisi, Alessandro Mendini e, naturalmente, Aldo Rossi, suo mentore e maestro. Gianni Contessi, autore del libro Architetti-Pittori e Pittori-Architetti. Da Giotto all’età contemporanea (Dedalo edizioni, Bari, 1985), sosteneva, però, che la pittura di Cantàfora, fortemente influenzata dalla sua formazione “realista” e caravaggesca, avesse poco a che fare con la sua attività di architetto. Scriveva, infatti, che “Essa dunque, in senso stretto, non fa neppure parte di quell’architettura dipinta che sembra essere uno dei bracci più o meno secolari della così detta Tendenza”[1], il movimento architettonico guidato da Aldo Rossi, di cui La città analoga, dipinto di Cantàfora presentato alla Triennale di Milano del 1973, rappresentava un emblematico manifesto visivo. E, in effetti, anche Francesco Moschini, analizzando quel dipinto, che considerava un’appendice visiva del tema rossiano della città contradditoria, una specie di collage di edifici storici e stili differenti, notava una discontinuità nel percorso di Cantàfora: “[…] sembrava d’un tratto che egli avesse negato la sua più autentica formazione «realista» che dal ’68 in poi lo aveva visto impegnato in una serie di riletture caravaggesche”[2].
La città banale, 1980, olio su tela, cm 200×400
Certo, la collaborazione con Aldo Rossi, durata fino al 1979, aveva vincolato Cantàfora al soggetto architettonico, ma il suo approccio alla pittura era rimasto quello tipico del naturalista, abituato a osservare e catalogare la morfologia delle forme organiche. Prima di diventare copista di Caravaggio, infatti, si era impratichito di anatomia, tassidermia ed entomologia, discipline che, insieme all’interesse per le scienze, avevano affinato la sua capacità di osservazione e analisi della realtà.
La pittura di Cantàfora è, dunque, il risultato di una formazione peculiare, cui hanno contribuito numerosi fattori. Relegarla alla categoria della “pittura d’architettura” significa non riconoscerne la vera natura, ovvero quella di essere, semplicemente, “pittura”. Anzi, “grande pittura”, che dialoga non solo con la tradizione artistica lombarda del Cinque e Seicento, ma anche con il Divisionismo di Angelo Morbelli, la Metafisica di De Chirico, i maestri del Realismo Magico tra le due Guerre e i realisti nordeuropei, come il danese Vilhelm Hammershøi. Più che un “architetto-pittore”, si potrebbe definire un “pittore-pittore”, se non si rischiasse, così, di confonderlo con il gruppo degli artisti analitici che così venivano chiamati negli anni Settanta. E allora basterebbe chiamarlo “pittore”, una sola volta, così da accomunarlo, finalmente, alla schiera dei suoi simili.
Quando ritornerà, 2023, Vinilico e olio su tavola, cm 70×50
Il disegno rappresenta la pietra angolare dell’arte di Cantàfora, una pratica fondamentale anche per l’apprendistato degli artisti antichi (e di molti moderni). Come osservava Henri Focillon: “Quale che sia la forza di ricezione e di invenzione della mente, senza il concorso della mano essa non darebbe vita che a un tumulto interiore”[3]. Il disegno si fa con le mani, “esse sono lo strumento della creazione”, scriveva lo storico dell’arte francese, “ma prima di tutto l’organo della conoscenza”[4]. Un’affermazione riecheggia anche nelle parole di Cantàfora, quando dichiara che “Il disegno ha rappresentato il senso del mio guardare il mondo e, nella misura del possibile, la maniera di cercare di capirlo”[5]. Per lui il disegno non è solo uno strumento di ricostruzione, ma anche di riflessione e comprensione della realtà. Disegnando, l’artista scopre che le forme naturali tendono a ripetersi: “Quando vedo nel cranio umano i forami per il passaggio dei nervi, li ritrovo identici nel cranio di un bovino o di un primate o di un elefante”[6].
Su questo tipo di conoscenza analitica della morfologia delle forme, s’innesta poi la personalità dell’artista, con la sua inclinazione evocativa e nostalgica. Cantàfora sviluppa, infatti, una concezione del disegno come “memoria” su cui edifica nuovi immaginari. Dato che i ricordi sono sempre imperfetti, la loro ricostruzione richiede una certa dose di immaginazione.
Per lui il disegno è un “abito mentale”, costruito attraverso una pratica pluriennale, ma anche una forma di rievocazione che ha caratteristiche terapeutiche. “Per me”, spiega, “la memoria è anche anamnesi, un ricordare che cura”[7]. Quest’idea – in parte derivata dalla filosofia platonica, in cui la “reminiscenza” è considerata il supremo atto conoscitivo, in parte mutuata dal linguaggio medico, dove è usata per designare la raccolta particolareggiata delle informazioni di un paziente -, la si ritrova in molti dipinti di Cantàfora, pervasi da una delicata rêverie.
L’ora perduta, 2020, Vinilico su tavola, 70 x 50 cm
Nei grandi lavori come La Città banale (1980) e Stanze di città. Roma (1983), presentati rispettivamente alla Biennale di Architettura di Venezia del 1980 e alla Biennale d’Arte di Venezia del 1984 – esposti per la prima volta insieme in questa mostra –, la vena memoriale sembra assumere un valore quasi programmatico, riconducibile alla prassi dello studio di Aldo Rossi o all’eredità concettuale del postmodernismo. Al contrario, nei dipinti privati – se così possiamo definirli – il tono elegiaco si distingue per una qualità particolare, espressa attraverso una grammatica di predilezioni e ricorrenze. In primo luogo, fatta eccezione per i periodici autoritratti, nei quadri di Cantàfora spicca l’assenza di figure umane, ereditata dalla Metafisica novecentesca, ma anche dalle Città ideali del Rinascimento. A ciò si aggiungono le atmosfere immobili, quasi cristallizzate, conseguenza di una volontà di “bloccare un momento di tempo sfuggente, guidato dalla malinconia del ricordo”[8]. Emblematica, in tal senso, è la raffigurazione dell’orologio a muro – talvolta con le lancette ferme su un’ora meridiana (Au prochain toc il sera…, 2023), altre volte senza lancette (L’ora perduta, 2020) -, che rimanda al dipinto L’enigma dell’Ora (1911) di Giorgio De Chirico. Un altro elemento chiave è la luce, fulcro di tutta la sua produzione pittorica, che condensa l’idea di una memoria ricostruttiva e, in un certo senso, palliativa, nell’ossessione, tipicamente hopperiana, per riverberi, riflessi e giochi d’ombra che nei suoi quadri scandiscono gli scorci di interni architettonici: ingressi, corridoi, androni, vani scale e varchi, insomma stanze di transito che, paradossalmente, si trasformano in una teoria di sale d’attesa, dove il flusso temporale sembra interrompersi.
Au prochain toc il sera…, 2023, Vinilico e olio su tavola, cm 70×50
La sospensione evocata da questi luoghi suggerisce una pausa contemplativa. Le pareti bicromatiche, simili a boiserie dipinte, accolgono giochi di luce e ombre: le finestre proiettano arabeschi geometrici (Scale III, 2020) e reticoli luminosi (Porta sul giroscale, 2025; Finestra e fontana, 2025). Gli aditi sono spesso contraddistinti da simbolici pavimenti a scacchiera, immancabili nelle aule dei templi massonici, come nelle case dei primi del Novecento (Au N. 5 de la rue Centrale à Lausanne II, 2024; Stanza con acquaio, 2025). Le stanze con fontane e piscine coperte, simili ad ambienti termali, acuiscono l’impressione di calma e placidità (Primo interno milanese, 1985-2023; Nell’acqua, 2024; Riflessi II, 2020).
Au N 5 de la rue Centrale à Lausanne II, 2024, Vinilico e olio su tavola, cm 50×35
Il tutto è dipinto con una precisione di dettagli che richiama l’acribia descrittiva di certe pagine di Gadda. Ad esempio, quelle in cui lo scrittore delinea, con matematica esattezza, forma e proporzioni delle mattonelle milanesi in uso tra il 1890 e il 1910[9]. Non sorprende che sia Gadda sia Cantàfora siano di estrazione borghese meneghina ed abbiano ricevuto, pur in tempi diversi, una formazione tecnica al Politecnico di Milano: il primo come ingegnere, il secondo come architetto. Un tratto comune, questo, che si riflette nell’approccio analitico, evidente nei rispettivi ambiti artistici.
Riflessi II, 2020, Vinilico su tavola, cm 70×50
Nel caso di Cantàfora, quest’approccio consiste nel saper concentrare, come ha scritto Fulvio Irace, “il suo sguardo ‘esatto’ e iperrealistico su un’idea di spazio abitato, intriso di uno spleen di ascendenza nordica, assai congeniale, d’altra parte, al suo carattere introverso e meditativo”[10]. C’è, però, anche la capacità d’integrare l’esattezza con l’invenzione, cioè di creare qualcosa di diverso a partire da ciò che si conosce. Come nel caso della tavola intitolata Filarete, Codussi (2021), dove due architetture veneziane poste in luoghi diversi della città, vengono affiancate con uno stratagemma che ricorda i postmoderni accostamenti di edifici di La Città banale (1980) o delle Stanze di città. Il quadro rappresenta uno scorcio del sestiere di Castello con la vista dell’abside della Basilica di San Pietro, accanto alla quale si staglia il bianco campanile rinascimentale in pietra d’Istria eretto da Mauro Codussi, mentre a sinistra, su una grande affissione, compare un illusionistico capriccio architettonico con il bugnato di Cà del Duca, palazzo affacciato sul Canal Grande, nel sestiere di San Marco, realizzato, appunto, dal Filarete. “Reinventare spazi conosciuti, è costruire un mattone sull’altro”, confessa Cantàfora, “un luogo già costruito con i mattoni di una conoscenza garantita, e il risultato è ogni volta differente”[11].
Filarete, Codussi, 2021. Vinilico su tavola, cm 80×120
Come nel caso di alcuni d’apres che che riprendono sue opere del passato, inquadrandole in una cornice geometrica dipinta. Ad esempio, Sala teatrale (1975-2023), dove il motivo della visione urbana da un interno anticipa la serie dei Teatri di città e mostra come la conoscenza pregressa degli edifici rappresentati si unisca a una propensione combinatoria fantastica. Una disposizione che ritroviamo in Primo interno milanese (1985-2023), dove le due finestre simmetriche si aprono sulla visione diurna e fluidificante del sobrio carattere costruttivo del capoluogo lombardo.
Primo interno milanese, 1985-2023, olio su tela, cm 80×105
L’elemento inventivo è, in verità, sempre presente nelle opere di Cantàfora, anche se in una forma sottile, invisibilmente intrecciata con la realtà oggettiva di un edificio o di un paesaggio. Un esempio è la grande tela intitolata Stanza di Città Roma (1983), concepita come una sorta di creativa interpolazione tra il modello rappresentato dalla Città analoga(1973), con la sua studiata giustapposizione di edifici di epoche e stili differenti, e il genere settecentesco dei quadri di quadrerie. In particolare, il famoso dipinto Gallerie di vedute di Roma antica (1758) di Giovanni Paolo Pannini, da cui il dipinto di Cantàfora sembra aver mutuato l’impianto architettonico con le grandi volte a botte. Ma l’estro dell’artista si trova anche nel modo in cui continuamente reinventa il tema del rapporto tra interno ed esterno architettonico (Quando ritornerà, 2023; Riflessi II, 2020), quasi traducendo in immagini l’idea di “Ripetizione differente”[12] teorizzata dal filosofo Gilles Deleuze, anticipatrice di quella tendenza postmoderna che nella pittura italiana si sarebbe espressa nelle correnti del Citazionismo, dell’Anacronismo e della Pittura colta. Inventiva e anamnesi s’intrecciano, invece, nel motivo, assiduamente reiterato, della città d’acqua, che comprende tanto i capricci lagunari – da Le Venezie possibili (2014), esposto al Musée des Beaux-Arts di Nancy[13], al già citato Filarete Codussi (2021) – fino alle fantasie nordiche di Giornate di novembre I e Giornate di novembre II, entrambe del 2025, in cui l’artista rappresenta, sotto un cielo boreale, un rettifilo di edifici industriali che si specchiano nelle acque dei canali o delle darsene di una non meglio precisata città dell’Europa settentrionale.
Giornate di novembre I, 2025, vinilico e acrilico su tavola, cm 70×50
Insomma, Cantàfora è un pittore di difficile classificazione. Non è un iperrealista, ma la sua è una pittura esatta, più vera del vero. Non è, come si diceva, un architetto-pittore, sebbene immagini di edifici e interni architettonici affollino le sue opere. Non è un pittore citazionista, nel senso del movimento guidato da Maurizio Calvesi, nonostante il fatto che, come notava qualcuno, nella sua pittura ci sia “il precedente di De Chirico spaziale e, poi, di quegli ambienti spettrali che dalla metafisica derivarono Grosz, Grossberg, Raderscheidt nella Germania degli anni venti; e magari qualche iperrealista, un Monroy e anche i nostri Ferroni, Titonel, Sarri, Ceccotti e quel delirante esistenziale dello spagnolo Lopez Garcia”[14]. È, invece, un pittore cólto, cioè coltivato, istruito, enciclopedico, un po’ anatomista e un po’ entomologo, ma anche tassidermista, modellista, architetto, insegnante e feramatore. Insomma, un pittore unico.
Le secret de l’aleph,2023, vinilico e olio su tavola, cm 70×50
[1] Gianni Contessi, Intervista ad Arduino Cantafora, in Arduino Cantafora. Quadri di un’esposizione, a cura di Francesco Moschini, galleria A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma, 21 febbraio – 13 marzo 1979, edizioni A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma, 1979.
[2] Francesco Moschini, L’architettura della realtà e la realtà dell’architettura, in Arduino Cantàfora, Le stagioni delle case. La Casa del Sole Nascente e l’annesso Ospedale di St. James, Edizioni Kappa, Roma, 1980, p. 5.
[3] Henri Focillon, Elogio della mano, in Henri Focillon, Vita delle forme. Seguito da Elogio della mano, Giulio Einaudi, Torino, 2000, p. 114.
[5] Luca Ribichini, Arduino Cantàfora. I bastioni di Orione, «AR Magazine», N. 129/130, Rivista dell’Ordine degli Architetti P. P. C. di Roma e Provincia, gennaio-settembre 2024, p. 254.
[9] “…l’apotèma di quelle mattonelle misurava centimetri 5,196: mentrechè il raggio del circolo circoscritto raggiungeva i 60 millimetri: le due misure sono interdipendenti, per il che non occorre aver noi alcuna notizia di trigonometria, ma ci pensa il cervello stesso dell’esagono”. Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa. Disegni milanesi, Adelphi, Milano, 2014, p. 87.
[10] Fulvio Irace, Cose, Case, Città. Cantafora e Mendini a confronto, «Arte», aprile 2016, Cairo Editore, Milano, p.117.
[11] Gianni Contessi, Intervista ad Arduino Cantafora, Op. cit.
[12] Pubblicato in Francia nel 1968, il saggio di Gilles Deleuze, Différence et repétition, è pubblicato in Italia per la prima volta nel 1971, col titolo Differenza e ripetizione, nella traduzione di Giuseppe Guglielmi per i tipi de Il Mulino, Bologna.
[13]Architectures Impossibles, a cura di Sophie Laroche, catalogo dell’esposizione al Musée des Beaux-Arts, Nancy, Francia, 19 novembre 2022 – 19 marzo 2023, Snoeck Publishers, Gand, Belgio, 2022.
[14] Dario Micacchi, Quindici stanze per una casa, «L’Unità», martedì 23 novembre 1982, Società editrice l’Unità, Roma.
Perché una pittura così minimale, concisa, asciutta, stesa a smalto in colori piatti che evocano le tinture industriali, non rinuncia definitivamente alla rappresentazione figurativa, fermandosi, invece, sulla soglia della pura astrazione? Non sarà proprio quest’affascinante incongruenza a rendere la pittura di Silvia Negrini così seducente?
Colpisce, come, nella sua elegante e fredda sintesi espressiva, i soggetti dei dipinti – principalmente paesaggi, interni o oggetti disposti con metodo in spazi ordinati – risultino sempre riconoscibili, pur nella loro natura diagrammatica. E ancora di più, sorprende che non vi sia, da parte dell’artista, né una volontà narrativa e tantomeno un’adesione emotiva o sentimentale ai temi iconografici trattati.
Larch, 2024, smalto su tavola, cm 30×30
Insomma, la pittura di Silvia Negrini avrebbe tutte le caratteristiche per essere definita “astratta”, almeno nei termini della teoria di Wilhelm Worringer. Nella sua fortunata opera, Abstraktion und Einfühlung (1908)[1], lo storico dell’arte tedesco definiva, infatti, due contrapposte pulsioni artistiche: la prima, che consiste nell’atteggiamento di immedesimazione con le forme organiche, la cosiddetta “empatia” (einfühlung), tipica dell’arte classica e rinascimentale; la seconda che si manifesta, invece, nella tendenza astratta, animata da un sentimento antinaturalistico che tende all’inorganico ed è proprio delle civiltà preclassiche e orientali.
Frozen Lake, 2024, smalto su tavola, cm 30×60
Certo, il procedimento astrattivo di Silvia Negrini non si spinge fino all’adozione di una grammatica aniconica, ma resta nel perimetro di una rappresentazione analogica di oggetti concreti. L’immagine viene, però, schematizzata e compendiata in forme logiche, regolari, accuratamente ripartite sulle liscie superfici delle sue tavole.
“Superficie e rappresentazione”, scriveva Filiberto Menna, “costituiscono quindi i due termini fondamentali di riferimento all’interno dei quali si instaura il discorso specifico della pittura”[2]. Ma tra questi due poli, è soprattutto la superficie a giocare un ruolo fondamentale, “condizionando anche l’altro termine del binomio, che viene così ricondotto nell’ambito di un sistema inteso già in termini di convenzionalismo linguistico”[3].
Vale a dire, nel caso della pittura di Silvia Negrini, che è soprattutto il linguaggio a condizionare la rappresentazione, vincolandola all’interno di una grammatica dominata dal rigore geometrico e prospettico.
Questa attitudine formalista si esprime attraverso un’economia di gesti minimi, con cui l’artista plasma in poligoni e forme schematiche gli oggetti, le architetture e perfino i paesaggi. Lo scopo è di cogliere la sostanza imperturbabile della realtà, la natura non mutevole, e quindi essenziale delle cose. Per questo i dipinti di Negrini sono sempre disabitati, senza tracce di presenza umana. L’artista trasforma, infatti, lo spazio fenomenico in un luogo imperturbabile, rarefatto, anzi densamente spopolato.
Pool, 2024, smalto su tavola, cm 30×60
E, così, non solo stanze, piscine, edifici, cabine nautiche, muri, campi da squash e da golf, ma anche laghi ghiacciati, colline, declivi, pendii, forre e banchise diventano immagini paradigmatiche. Segnali che rimarcano la differenza tra la realtà accidentale, vivida, ma imperfetta, e quella, invece, ideale, archetipica, puramente mentale, che l’artista traduce in pittura.
Another Wall, 2024, smalto su tavola, cm 30×30
Si può dire, parafrasando Filiberto Menna, che la sua arte “passa, quindi, dal piano di una pratica ermeneutica a quello di una pratica semiotica: il significato non è più cercato nella relazione tra i segni e le cose, ma nella correlazione dei segni tra loro”[4]. Non importa, in questo caso, quanto stretto sia il rapporto che la pittura intrattiene con la realtà concreta, quanto il modo in cui quella realtà viene codificata in un sistema linguistico. E la pittura di Negrini è appunto questo, un idioma visivo per esprimere il mondo iperuranio delle idee.
[1] Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, nuova edizione a cura di Andrea Pinotti, traduzione di Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 2008.
[2] Filiberto Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino, 2001, p. 23.
Il lavoro di Giuditta Branconi si distingue per la densità visiva e la compattezza concettuale. La sua pittura, ricca e lussureggiante, crea una rete sovrabbondante di segni da cui emergono immagini di rara ed elegante levità. Ogni sua opera è un perimetro carico di tensioni e contrasti, dove forme e figure si intrecciano, si sovrappongono e talvolta si districano, dando vita a una composizione capace di irretire lo sguardo dello spettatore. La saturazione visiva di segni e colori, così come la pletora dei riferimenti iconografici che continuamente oscillano tra cultura alta e popolare, trasformano la superficie della tela in uno spazio ossimorico, in cui convergono innumerevoli suggestioni, effigi, simulacri e simboli incongruenti. Una tale plenitudine “grafica” (da intendersi, secondo l’etimo greco, di “scrittura visiva”) non è solo il risultato di una procedura cumulativa, di una agonistica stratificazione di apporti segnico-gestuali, ma piuttosto è l’esito di un calibrato lavoro di misurazione, di pesatura, verrebbe da dire, in cui il composito mondo pittorico di Giuditta Branconi prende corpo come per effetto di una progressiva affinazione, di una costante molatura di forme. La saturazione iconografica che ne segue trasforma le doppie superfici dei suoi quadri in diagrammi enigmatici, che obbligano all’esplorazione ottica, intrappolando la retina in un labirinto semiotico, in un complesso reticolo dove sintassi, semantica e pragmatica delle immagini s’intrecciano senza soluzione di continuità.
Non si esce impassibili dai quadri di Giuditta Branconi. Semplicemente perché davanti all’esubero di stimolazioni visive non si può indugiare noncuranti e imperturbabili. Su quelle tele s’imprimono codici eterocliti e tradizioni antitetiche che formano un mélange di costrutti visivi. L’effetto mélange è prodotto dalla stringente sutura delle immagini, giustapposte e quasi ibridate le une con le altre. Ci sono nuvole strappate al catalogo dell’antica arte cinese, quelle che, si credeva, proteggessero l’imperatore (Figlio del cielo) e fungessero – segno inopinabile di buon auspicio – da veicolo di trasporto degli immortali. Ci sono gli angeli suonatori di tromba, di stretta osservanza barocca, simili agli Israfil coranici che annunciano il giorno del Giudizio finale (Our Dreams Aren’t Just Dreams, 2024). Ma si trovano anche farfalle e uccelli che evocano i Paradeisos persiani, dove il ductus classico s’imbastardisce con quello del tatuaggio Old School e perfino dei cartoni animati. Queste immagini convivono con quelle di maestosi cavalli criniti, distillati quasi da un mirabolante regesto d’incisioni rinascimentali (I Wish I Was Born a Rich Blonde Girl, 2024). Nell’immaginifico florilegio di emblemi si annidano anche tracce mnestiche di Liberty e Jugendstil e – perché no? – dei Fairy Painting vittoriani, con il loro profluvio di fatine alate (Regina di cuori, 2024).
Il gioco delle referenze visive è complicato. Richiederebbe un acume investigativo degno di Sherlock Holmes, ma sarebbe comunque un gioco a perdere, perché nel setaccio della pittura di Branconi tutto si trasforma si adatta, si altera, si converte in qualcosa d’inedito. E questa qualità mutante, metamorfica è l’arma terribile di un’arte che non si lascia definire, né catalogare, né irregimentare dentro alcun casellario. Eppure, la vocazione cangiante di quest’arte non ha nulla dell’ambiguità di tanta pittura coeva, indecisa sul crinale che separa l’astratto dal mimetico. Ci sono oggi, nella pittura italiana, troppi pittori irrisolti, nei cui quadri le figure aleggiano fantasmatiche, come larve incerte. Non si capisce mai cosa stiano rappresentando, con la scusa che la pittura debba esprimere l’inesprimibile. In Giuditta Branconi, invece, no, la pittura è chiara, anzi squillante, una pittura insieme calibrata e spiritata, che somiglia a una glossolalia visiva[1].
Etimologicamente, “spirito” deriva dal latino spiritus, che significa “soffio”, “respiro”. Tutto nella sua pittura è dunque animato, cioè “dotato d’anima”, quindi mobile, pulsante, vivo. L’impressione generale che si ricava dalla visione delle sue tele è, infatti, di movimento incessante, di slittamento perpetuo, ma anche di coesione. Le immagini sono, infatti, concatenate, connesse fra loro. Forse per questo abbondano figure di nastri, fiocchi e nappe che annodano e rinsaldano legami iconografici sottilissimi. In questa plenitudine mobile, la figura femminile assume una rilevanza particolare. conquistando lo statuto di Leitmotiv, una ricorrenza analoga a quella dei temi del teatro wagneriano, che si ripresentano, variati di atto in atto, intrecciati con l’ordito drammatico della partitura. Nella pittura di Giuditta Branconi, donne, bambine, streghe, fate e dee conquistano la duplice epidermide del quadro affiorando dal rumore di fondo esornativo, facendosi largo tra schemi e trame che sembrano imbrigliare, contenere e perimetrare le figure. Così, quando scorgiamo una presenza muliebre tra le maglie della tessitura grafica, ci accorgiamo che è una figura in lotta con lo sfondo (pittorico), proprio come nella Storia reale è in conflitto col contesto (sociale), dominato dalla cultura patriarcale. O, almeno, questa è una delle possibili interpretazioni, in un insieme concettuale traboccante di segni e significati che non ammette una sola chiave di decodifica.
[1] Secondo il vocabolario Treccani, la Glossolalia è un esercizio o gioco della favella che conia parole e filastrocche di sillabe insensate: si osserva normalmente nei bambini, ma anche negli adulti che vi ricorrono in certi ritornelli o ritmi di canzoni, mentre costituisce un fenomeno morboso in alcuni casi di schizofrenia. Con “glossolalia visiva”, l’autore intende esprimere il senso di un affastellamento d’immagini simile a quello costituito, nella lingua parlata, da certe musicali filastrocche infantili o dai ritmi incantatorii delle giaculatorie.
GIUDITTA BRANCONI
BRAVA
23.01.2025 – 29.03.2025
L.U.P.O. Gallery, Corso Buenos Aires 2, 20124 Milano
Fin dall’antichità, il volto è stato considerato la manifestazione più completa della vita interiore e della spiritualità umana: il luogo in cui emozioni, pensieri e stati d’animo prendono forma visibile attraverso la morfologia anatomica. Come afferma Juan Eduardo Cirlot, “il volto di per sé simboleggia l’«apparire» dell’anima nel corpo, il manifestarsi della vita spirituale”[1]. In questo sistema simbolico, gli occhi occupano un ruolo centrale come fulcro visivo ed espressivo. Plotino sosteneva addirittura che l’occhio non potrebbe vedere il sole se non fosse, a suo modo, esso stesso un sole. Un apparente paradosso che Cirlot spiega così: “Se il sole è faro di luce, e la luce è simbolo dell’intelligenza e dello spirito, l’atto di vedere esprime una corrispondenza con l’azione spirituale e simboleggia, quindi, il comprendere”[2].
Questo valore simbolico, indagato da artisti e pensatori nel corso dei secoli, trova oggi una nuova interpretazione nella pittura di Daniela Volpi, artista che recupera l’aspetto ideale e archetipico del volto, ricollegandosi alle antiche origini della ritrattistica.
In effetti, il ritratto greco, nelle sue prime forme, si presentava come un’effigie priva di caratteri distintivi, che non aspirava a suggerire alcuna somiglianza fisiognomica tra il soggetto e la sua rappresentazione. Solo con l’epoca classica i Greci avviarono la rivoluzione della mimesis, introducendo un realismo che però conservava una tensione idealistica, rendendo i soggetti rappresentati non ascrivibili a un individuo specifico. Fu solo nella romanità che il ritratto assunse la forma di rappresentazione fisiognomica di persone reali, distinguendosi dai prototipi di bellezza ideale dei greci.
Ombre di un altro tempo, 2024, tecnica mista su tela, 100×150 cm.
Tuttavia, nelle epoche successive, l’elemento idealistico continuò a contaminare l’approccio realistico almeno fino all’Ottocento, grazie al diffondersi di modelli tradizionali codificati dalla trattatistica tecnica, formata per lo più da manuali di disegno e pittura. Dal Cinquecento fino all’alba del Romanticismo, infatti, questi modelli fungevano da base schematica per l’artista, che li integrava con le necessarie osservazioni dal vero. Il metodo realistico era, quindi, il risultato di una progressiva correzione dello schema classico. Come spiega lo storico dell’arte Ernst H. Gombrich, “La rivoluzione greca [cioè realistica] può aver cambiato la funzione e le forme dell’arte, ma non poteva cambiare la logica del fare immagine, il semplice fatto, cioè, che senza una materia e senza uno schema che possa essere abbozzato e modificato, nessun artista potrebbe imitare la realtà”[3].
La pittura di Daniela Volpi, in un certo senso, si riconnette all’idea antica di ritratto ideale, immagine che non aderisce all’identità di un singolo, ma semmai incarna quell’archetipo di bellezza che i greci compendiavano nel concetto di kosmos, un “ordine”, e insieme un “ornamento”, quasi complessione di armonia ed eleganza.
Nella pratica artistica di Daniela Volpi, il ruolo dei modelli, degli schemi riproposti dalla trattatistica, è assunto da immagini che rimandano, in parte, alla moderna comunicazione massmediatica. Sono facce e volti che sembrano sottratti alla catena della mercificazione capitalistica per essere sottoposti a una radicale revisione, a un’alterazione profonda della loro funzione d’uso. Questi “modelli” contemporanei, che non si possono confondere con quelli di altre epoche, tanto da ricordare certe fisionomie proposte dalle riviste di moda o dalla pubblicità del nostro tempo, sono opportunamente modificati e trasfigurati per essere, infine, restituiti a una dimensione simbolica e sacrale del corpo umano.
Fragilità e potenza, 2024, acrilico su tela, 100×70 cm
La loro anonimia è il risultato di un processo di sublimazione del ritratto che si oppone ai moderni meccanismi di reificazione dell’immagine femminile. In un mondo dove il volto e il corpo delle donne sono costantemente mercificati, venduti come prodotti dell’industria cosmetica – e si pensi qui a come sia stato distorto l’etimo originale di questo aggettivo – o alla peggio, di quella pornografica, l’operazione di Daniela Volpi non può che assumere un significato etico. L’artista riesce, infatti, a dissolvere l’originaria patina glamour di certi ritratti, trasmutando, quasi alchemicamente, le fisionomie in effigi che alludono alla dimensione più intima e recondita della personalità femminile. Dipinti dai titoli emblematici come Fragilità e potenza, Ombre di un altro tempoo L’eco dei ricordi sono ben lontani dalla tradizione del ritratto veristico. La pittura stessa si avvale di espedienti espressionistici, come, ad esempio, l’aggiunta di ampie campiture blu su parte del viso oppure di velature rosse che lampeggiano sull’epidermide, esplosioni cromatiche elementi astratti e antinaturalistici che stemperano l’impianto realistico di questi ritratti. Anche lo sfondo monocromo e uniforme, privo di ambientazione, contribuisce a sospendere questi volti in una dimensione immateriale, di valore puramente paradigmatico, da cui affiora, come elemento focale, lo sguardo, convenzionalmente interpretato come il riflesso più autentico dell’anima.
In dipinti come Reminiscenza, Altrove e Andréas, i volti rappresentati dall’artista hanno sguardi frontali e diretti che irretiscono l’osservatore, obbligandolo a un dialogo silente con l’effige femminile. Un dialogo che, fatalmente, si traduce in una meditazione sulla natura della bellezza che, come ha scritto il filosofo Stefano Zecchi, “è una domanda radicale di significato non riducibile in termini psicologici”[4]. La capacità dell’artista di trasmettere questa irriducibilità della bellezza attraverso lo sguardo, una “soglia” tra l’interiorità e il mondo esterno, e dunque tra il visibile e l’invisibile, è anche un modo per esprimere in immagine quello che James Hillman ha definito “il codice dell’anima”[5].
Evanescenza, 2025, acrilico su tela, 120×100 cm.
L’intensità emotiva dei volti muliebri di Daniela Volpi è in parte dovuta al fatto che ogni viso è concepito come un’entità autonoma, frutto di un processo intuitivo e creativo che si sviluppa come un corpo a corpo con l’immagine che lentamente s’imprime sulla tela. Per l’artista, infatti, il processo pittorico coinvolge qualcosa di più della semplice tecnica: è un viaggio interiore in cui l’intuizione e la riflessione giocano un ruolo fondamentale. In questo senso, la pittura di Daniela Volpi si configura come una risposta al bisogno umano di connessione e comprensione reciproca. Il gradiente affettivo che permea le sue opere rappresenta un invito a guardare oltre l’apparenza, a scoprire la verità e la complessità dell’essere umano in tutta la sua vulnerabilità e profondità. Come dimostra anche uno dei suoi ultimi dipinti, intitolato Introspezioni proiettive, dove per la prima volta non un viso, ma un corpo nudo, fragile e tormentato, diventa specchio di una condizione esistenziale dolente e, insieme, simulacro della natura imperitura e incorruttibile dell’anima.
[1] Juan Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli, 2021, Adelphi, Milano, p. 492.
[3] Ernst H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, Traduzione di Renzo Federici, 1965, Einaudi, Torino, p. 181.
[4] Stefano Zecchi, Dopo l’infinito cosa c’è, Papà? Fare il padre navigando a vista, 2012, Mondadori, Milano,
[5] James Hillman, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione e destino, 2009, Adelphi, Milano
Nella chiesa di Santo Spirito, ai piedi della Polittico della Pentecoste dipinto da Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, l’artista contemporaneo Vanni Cuoghi ha immaginato una fioritura di foglie giganti di salvia. Le foglie, realizzate in legno sagomato e dipinte ad acrilico e olio, assolvono la funzione di quinte teatrali. L’artista mette qui letteralmente in scena la propria pittura, creando un muto dialogo con l’opera del Bergognone, pittore lombardo che lavorò con Bramante alla decorazione della chiesa di Santa Maria presso San Satiro a Milano intorno alla metà dell’ultimo decennio del XV secolo. Com’è noto, la chiesa milanese è celebre per lo sfondamento prospettivo dell’abside cieca dietro l’altare, dove il grande architetto del Rinascimento ricreò illusionisticamente, con la tecnica del basso rilievo, una volta a botte con il soffitto a cassettoni. Questo stesso motivo compare nello sfondo architettonico del Polittico della Pentecoste, che rappresenta, come recita il titolo dell’opera, la Discesa dello Spirito Santo sulla Madonna e sugli Apostoli.
Salviamoci!, 2024, acrilico e olio su tavola, dimensioni variabili
Il dipinto su tavola sagomata di Cuoghi è pensato appositamente per gli spazi della Cappella in cui è conservato il grande dipinto a otto scomparti commissionato da Domenico Tassi. L’installazione pittorica interloquisce con l’opera del Bergognone su due distinti livelli, uno spaziale e prospettico, l’altro tematico e simbolico. Da una parte, infatti, l’opera di Cuoghi amplifica la percezione tridimensionale della pala d’altare, creando una relazione con il vertiginoso scorcio prospettico della volta sovrastante la Vergine, dall’altra enfatizza, dal punto di vista narrativo, il messaggio salvifico implicito nel polittico. La salvia è una pianta della famiglia delle Laminaceae che deriva il proprio nome dal termine latino salvus, che significa “salvo”, “sicuro”, “sano”. Conosciuta fin dall’antichità per le sue proprietà salutari e comunemente usata dai Latini, che la consideravano un’erba sacra, la salvia rimanda, infatti, foneticamente al verbo “salvare”. Cuoghi crea dunque un legame tra l’allusione salvifica cui sottende l’immagine di questa pianta aromatica e l’effusione dello Spirito Santo, superbamente raffigurata dal Bergognone, che simboleggia il suggello del significato dell’opera salvifica di Cristo e della rivelazione del mistero della Divinità.
Come scrive l’artista: “Viviamo in un momento storico complesso, sorretto da fragili equilibri che potrebbero venire a mancare da un momento all’altro e siamo anche reduci da una pandemia che ha segnato le nostre vite, modificando le abitudini e rendendoci diffidenti nei confronti dell’altro. Come se non bastasse, conflitti e nuove guerre bussano alle porte di casa nostra e una grave crisi climatica minaccia l’intero pianeta. Ecco, quindi che la mia opera assume un taglio politico, diventando un’allegoria della salvezza”.
Oltre al collegamento con il tema iconografico della pala d’altare, l’opera intitolata Salviamoci! testimonia anche la particolare predilezione di Vanni Cuoghi per la creazione di una pittura espansa, capace, cioè, di dialogare con lo spazio assumendo forme di volta in volta nuove, che travalicano il perimetro fisico in cui solitamente è confinata la pittura da cavalletto. Questa attitudine dell’artista deriva dagli studi in Scenografia intrapresi all’Accademia di Brera e da successive esperienze nell’ambito della decorazione e della pittura murale, che hanno segnato in maniera inequivocabile la sua ricerca artistica, sempre attenta a considerare lo spettatore come una parte attiva nel processo di fruizione, attraverso l’interpretazione, se non addirittura, la creazione di nuovi significati.
Salviamoci, 2024, stampa digitale su carta cm 50×35
VANNI CUOGHI | SALVIAMOCI!
BERGAMO – CHIESA DI SANTO SPIRITO – 30 NOVEMBRE 2024 – 12 GENNAIO 2025
DALMINE – SPAZIO BART presso AZ CHIMICA – 23 NOVEMBRE 2024 – 12 GENNAIO 2025
Dal 30 novembre 2024 al 12 gennaio 2025, la Chiesa di Santo Spirito a Bergamo, chiesa in stile rinascimentale situata nella piazza omonima, all’incrocio tra via Pignolo e via Torquato Tasso, ospita il progetto espositivo di Vanni Cuoghi (Genova, 1966) dal titolo Salviamoci! Curata da Marco Fioretti e con un testo e un intervento critico di Ivan Quaroni, la rassegna si sviluppa in due momenti, il primo da sabato 23 novembre 2024 con la presentazione del progetto e un’esposizione di alcune opere dell’artista presso BART, spazio espositivo dell’azienda AZ Chimica a Dalmine (BG) e il secondo che inaugurerà il 30 novembre 2014, con una grande installazione, posizionata ai piedi della Polittico della Pentecoste di Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, nella chiesa di Santo Spirito a Bergamo.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.