di Ivan Quaroni
Il linguaggio pittorico di El Gato Chimney si è strutturato, nel tempo, in una sintassi figurativa unica, che ha saputo integrare il rigore tassonomico di un naturalista del XIX secolo con l’elegante acribia di un miniaturista medievale e il vigore visionario di un pittore simbolista. Questa sintesi è stata il prodotto di una evoluzione stilistica che, dopo gli esordi nell’ambito della street art, lo ha portato a interessarsi alle radici magiche ed esoteriche di diverse tradizioni figurative. Con un approccio da etnografo, infatti, l’artista ha composto, attraverso diversi cicli pittorici, una specie di Atlante Warburghiano, fatto d’immagini che attingono al repertorio del folclore di vari popoli, declinate, però, in un lessico personale, che cuce insieme la dimensione simbolica con l’attenzione a temi e istanze del contemporaneo.
Kasha, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
L’interesse di El Gato Chimney per l’immaginario spirituale e magico dell’estremo oriente che caratterizza in particolare questa esposizione, è il segno di un percorso di studio e rielaborazione di iconografie classiche giapponesi di cui, peraltro, si trova traccia anche nei manga e nei film d’animazione contemporanei[1]. Assecondando la propria passione per il Sol Levante, l’artista ha creato un bestiario personale, composto di animali mutanti e ibridi antropomorfi, spesso riconducibili alle tipologie degli yōkai, demoni e spiriti che, secondo i racconti tradizionali, compaiono nelle strade delle città e dei villaggi durate le notti d’estate. Si tratta di figure che, lungi dall’essere semplici mostri, svolgono un ruolo rituale, scaramantico e pedagogico nella cultura locale. Nel loro aspetto mostruoso si cela, infatti, una funzione di ammonimento e, insieme, di conservazione della memoria collettiva. Spesso rappresentati in cortei o processioni, gli yōkai sono entità soprannaturali che incarnano la paura dell’ignoto e del mutamento, esseri ambigui e mutaforma che El Gato Chimney adatta al proprio preesistente vocabolario zoomorfico.
Into the web, 2025, acquarello e tempera su carta, 150x30cm
Nelle sue opere, infatti, la ripresa di queste figure è sempre rielaborata attraverso una reinvenzione che mette in gioco forme e contenuti eterogenei, che attingono tanto all’iconografia degli emakimono, i rotoli di racconti illustrati diffusi tra l’XI e il XVI secolo, o degli ukiyo-e, le cosiddette “immagini del mondo fluttuante” delle stampe del Periodo Edo, quanto alla cultura visiva contemporanea, compresi, appunto, i linguaggi dell’illustrazione e del fumetto, di cui l’artista è un grande appassionato. Un esempio tipico di reinvenzione è Matsuri (2025), un dipinto ad acquarello e tempera in cui l’artista riprende la struttura di una celebre opera di Kawanabe Kyōsai, inserendo nell’iconografia classica della Hyakki Yagyō (“La Parata dei cento demoni”), il proprio campionario di creature dispettose e sbeffeggianti, simili a quelle evocate nelle sfilate delle feste processionali shintoiste.
The Ghost Cat, 2025, inchiostro di china e acquarello su carta, 70x50cm
Nel caso di El Gato Chimney, è soprattutto attraverso il ricorso al teriomorfismo, cioè l’attribuzione di una forma animale a divinità, spiriti o entità di origine soprannaturale, che si può ravvisare un’influenza asiatica, recepita anche attraverso la mediazione occidentale di Hieronymus Bosch o Pieter Bruegel il Vecchio che, secondo lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis[2], mutuarono alcune figure mostruose da fonti estremorientali. Tuttavia, la propensione verso la creazione di una morfologia incerta tra l’umano e l’animale si trova già in precedenti lavori dell’artista. È semmai nel formato orizzontale allungato, quello già sperimentato nei libri d’artista come Namazu (2022), Giant Octopus (2022) e The Frog’s Apparition (2021), che seguono l’andamento a fisarmonica delle Moleskine, che si avverte più forte l’allusione alla tradizione dei rotoli emakimono, dove l’approccio narrativo dell’artista trova nuove soluzioni per affrontare temi che riflettono timori e paure collettive di stretta attualità. Ad esempio, Into the Web (2025) è una metafora delle politiche di controllo e sorveglianza adottate nella rete internet attraverso l’impiego degli algoritmi. Questo timore, in fondo giustificato, è incarnato nelle fattezze di un grande aracnide rosso, preso d’assalto da uno sciame di vendicativi animaletti antropomorfi. Sono gli stessi animaletti che compaiono, muniti di inchiostro e pennelli, in quella sorta di allegoria della pittura che è The Creations, dove le tecniche dell’acquarello e della tempera incontrano lo stile disegnativo e calligrafico della china.
The Great Puffy, 2025, acquarello e tempera su carta_100x70cm
Di impianto narrativo sono anche le opere in cui l’artista esprime le proprie preoccupazioni per i danni ambientali provocati dal fast fashion. A esempio in The Great Puffy (2025) e The Metamorphosis (2025), dove compaiono soffici mostri dai corpi ricoperti con patchwork di tessuti differenti, Leviatani partoriti da un’industria tessile irresponsabile. L’allusione è alle discariche di abiti accumulati nel deserto di Atacama, lungo la cordigliera del Cile, tragico effetto di un mercato globale che produce più rifiuti di quanti ne riesca a smaltire. El Gato Chimney, però, tratta l’argomento con una certa eleganza, scegliendo con cura i motivi decorativi dal repertorio tessile tradizionale giapponese e trasformando, così, ogni pattern in una trappola per lo sguardo.
Winter in April, 2025, acquarello e tempera su carta, 100x70cm
Timori di natura ecologica si possono leggere, anche solo in filigrana, nell’opera Winter in April (2025), dove un maestoso coniglio di neve è assediato da una turba di creature zoomorfe, tra le quali si annidano strane sculture di paglia, oggetti apotropaici solitamente posti all’ingresso dei villaggi contadini a protezione dei raccolti, che l’artista trasforma in talismani contro gli effetti del cambiamento climatico. Un elemento ricorrente di molte opere di El Gato Chimney è la presenza di fili e corde rosse, che spesso legano tra loro i personaggi, formando un ordito, appena distinguibile, di relazioni, tensioni e legami invisibili che governano l’enigmatico universo dell’artista. Ci sono, però, altri oggetti simbolici che ritornano, come un refrain, nel suo immaginario visivo: campanelli, maschere, ventagli, ma anche aghi, forbici, torce, coltelli e pestelli branditi, come armi, da un popolo di buffe creature lillipuziane.
The Creations, 2025, acquarello tempera e inchiostro di china su carta, 150x30cm
È un immaginario, il suo, che può assumere toni parodistici, come succede in One Day at the Shore (2025), dove una grande piovra umanoide – figura ricorrente delle stampe ukyo-e, da Kuniyoshi a Hokusai –fronteggia un esercito di creaturine acquatiche in una scena da teatro kabuki, dove il mare diventa palcoscenico dell’assurdo. Ma grottesche, quasi caricaturali, sono anche le figure di volpi, rane, topi e polpi di alcune ceramiche smaltate, con le teste impilate a formare dei piccoli totem domestici. Insomma, stravaganze e stramberie del bestiario shintoista, ma anche buddhista, abbondano un po’ ovunque nelle opere di El Gato Chimney, affascinato dal trasformismo dei bakemono, animali mutaforma dei racconti popolari, intermediari tra i mondi fenomenico e ultraterreno che spesso hanno l’aspetto di giganteschi gatti, come nei dipinti Kasha[3] (2025) e The Ghost Cat (2025). Tra le bestie polimorfiche ritratte dall’artista ci sono anche il kitzune[4], entità leggendaria in forma di volpe, l’usagi[5], il coniglio che i giapponesi associano alla luna, e, infine, il kaeru[6], la rana portafortuna.
One Day at the Shore, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
Eppure, accanto all’invenzione e alla rilettura iconografica, colpiscono la tenuta linguistica del lavoro dell’artista e la sua capacità di tenere insieme registri differenti, combinando l’immediatezza grafica tipica dell’illustrazione con l’intensità simbolica delle miniature medioevali. Le superfici dei suoi racconti, pur gremite di figure, risultano sempre chiaramente leggibili. I colori sono vivaci, ma controllati, i tratti netti, ma dinamici. Insomma, la sua pittura costruisce uno spazio visivo chiaro, comprensibile, nonostante la disseminazione di elementi enigmatici, per non dire esoterici. Poi ci sono le opere a inchiostro di china, dove a cambiare non è solo la materia pittorica, cambia, ma anche il gesto e, dunque, la sua capacità espressiva. Nelle grandi carte, la narrazione cede spazio alla monumentalità del soggetto, il numero di figure si riduce, la forma si sfalda rispetto ai modi miniaturistici abituali e l’immagine, emerge come presenza ineludibile, che occupa tutto il campo visivo dell’osservatore. Anche qui tornano le forme animali, ma in veste più archetipica, quasi mitologica: rospi colossali, piovre dagli occhi ipnotici, giganteschi felini predatori, mostri che ricordano le figure apotropaiche dei templi buddhisti o i terribili demoni dei thangka tibetani[7].
The Rumble, 2025, china ink on paper, 200x450cm
In queste figure, dove l’inchiostro è steso con variazioni tonali che vanno dal grigio chiaro al nero più profondo, le anatomie si fanno incerte, fluttuanti, come masse organiche che affiorano da un magma indistinto. La resa espressiva è affidata a una spontaneità vigile, in un equilibrio sottile tra disciplina e libertà. Ma queste nuove opere in bianco e nero, molte delle quali rappresentano rane e rospi benauguranti – da D Green (2025) a Master Toad (2025) fino a Kawanabe, velato tributo uno dei maggiori pittori giapponesi dell’Ottocento[8] – non costituiscono un semplice pendant tecnico delle composizioni a colori ma, in qualche modo ne rappresentano il controcanto concettuale. Se le prime costruiscono un mondo, le seconde ne evocano il fondamento simbolico. Se le prime usano la struttura del racconto visivo, le seconde si manifestano come apparizioni o epifanie. Queste sono, infatti, opere dominate da figure liminari e polisemiche, che funzionano indifferentemente se a osservarle è lo sguardo divertito di un bambino oppure quello di un cultore delle “cose orientali”, che sa interpretare il senso di ogni figura. Così, la grande rana che dà il titolo alla mostra non è soltanto un simbolo da decifrare, ma un’icona eccedente, fuori scala, meravigliosamente scenografica, che cattura e coinvolge, generando un effetto di ammirata stupefazione. Ed è già più di quanto faccia normalmente gran parte della cosiddetta arte contemporanea.
The Metamorphosis, 2025, acquarello e tempera su carta, 70x100cm
[1] In particolare, la produzione dello Studio Ghibli è ricca di riferimenti all’iconografia delle creature del folclore popolare e shintoista in anime come La città incantata (2001) e Principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki e Pom Poko (1994) e La storia della Principessa Splendente (2013) di Isao Takahata.
[2] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, 1997, Adelphi, Milano, p. 242.
[3] Kasha, che significa letteralmente “carro di fuoco”, è un demone felino in cui si trasformerebbero alcuni gatti giunti in età avanzata. Talvolta è rappresentato come un traghettatore di anime, che trasporta i dannati all’inferno su un carretto.
[4] Kitsune è uno spirito in forma di volpe che può entrare nei sogni, diventare invisibile, assumere sembianze umane, specialmente di donna, e perfino volare.
[5] Tsuki no usagi è una figura immaginaria presente nella mitologia di diversi paesi dell’Estremo Oriente, in particolare Cina e Giappone. Rappresenta un coniglio che risiede sulla Luna, seduto sulle zampe posteriori accanto a un pestello da cucina, impegnato a preparare il mochi, un tipico dolce tradizionale.
[6] La parola Kaeru, che in giapponese significa “tornare”, è omofona di Kaeru, la rana. Questo ha fatto delle rane i simboli del “ritorno” della ricchezza e della buona sorte.
[7] I Thangka sono dipinti tibetani sacri su tela, incorniciati con tessuti di broccato. Rappresentano immagini sacre come mandala, ruote della vita, divinità e Buddha del Buddismo tibetano.
[8] Kawanabe Kyōsai (1831-1889) è stato un pittore e incisore giapponese, a cavallo tra i periodi Edo e Meiji.










