di Ivan Quaroni
“Che nel mistero delle proprie onde
Ogni terrena voce fa naufragio”
(Giuseppe Ungaretti)
Ci sono due tipi di artisti, quelli che sono allineati al proprio tempo e quelli che non lo sono. La schiera dei primi è attenta alle vicende della cronaca, della politica, insomma alle urgenze della società. Di questa falange fanno parte gli artivisti di cui scrive Vincenzo Trione[1], quelli che trascinano l’arte nel piano dell’azione, trasformando l’impulso creativo in una forma di civismo estetico, di politica dell’immagine che, nel peggiore dei casi, sconfina nella propaganda o nella contro-propaganda. La seconda torma cerca un senso fuori dalla congiuntura storica, dalla pressione del presente, dalla dimensione prosaica del quotidiano, finendo, così, per trasmigrare nella sfera di una ciclicità senza fine, di un’eternità che assume una delle multiformi, e talvolta indistinte, fisionomie dell’Iperuranio platonico.
Entrambi gli schieramenti sono inevitabilmente immersi nello zeitgeist, avvinti nella contingenza, nella trama computazionale di Chronos. Perfino un artista come Sandro Bracchitta, che intuitivamente ascriveremmo al campo sovrastorico, finisce per fare i conti col presente, con le forze centrifughe del sociale, con le emergenze ineludibili che lacerano la pellicola simbolica che l’artista ha costruito come una sorta di recinto operativo, in cui meditare sulle istanze ricorsive dell’esistenza, al riparo dall’aggressiva agentività del mondo reale.
Il suo linguaggio visivo si forma tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, stimolato (e quasi illuminato) dall’Arte Povera, di cui Bracchitta ammira la sensibilità materica e la vocazione alla forma oggettuale, nonché dalle grammatiche della Transavanguardia e della coeva pittura neoespressionista tedesca, da cui deriva il gusto per la sintesi grafica, liberata dalla mimesi. L’educazione negli anni dell’Accademia si compie a Firenze, capitale, insieme a Bologna, delle tendenze postmoderniste e delle sperimentazioni della musica New Wave, le cui sonorità contribuiscono alla costruzione della sua bildung, saldandosi alle sollecitazioni visive ricevute in quel periodo.
A questo coagulo di esperienze si aggiungono altri due fattori. Prima di tutto l’origine territoriale dell’artista, il suo essere siciliano, dunque intrinsecamente permeato dalla presenza del mare e dell’Etna, con le conseguenze che questo comporta nell’elaborazione del suo immaginario cromatico e figurativo. Poi la passione per le tecniche incisorie, che investe sia la sua produzione artistica, sia la sua attività di docente di Incisione e Grafica d’arte presso diverse Accademie italiane.
Il risultato di questa pluralità di suggestioni è la costruzione, nel tempo, di un alfabeto visivo di segni e simboli che rappresentano la fragilità umana in un mondo abitato da forze portentose e, insieme, stupefacenti.
Fluido Cuore, Pigmenti, acrilico e acquerello su carta, cm 62×50
I segni di Bracchitta assumono le forme stringate ed essenziali di ciotole, case o barche, contenitori che riassumono bisogni primari dell’uomo, come il cibo, il riparo, il movimento (o la migrazione) e che raccontano la condizione di precarietà della vicenda esistenziale. Nell’immaginario pittorico dell’artista, le figure si stagliano su uno spazio cromatico astratto, ma di consistenza tattile. La superficie delle tele è infatti animata da una vibrazione materica, che agisce come una sorta di perturbazione ritmica del fondo. Su questa morfologia increspata, ottenuta dall’impasto di sabbia e pigmenti a cementare la massa magmatica del colore, si stagliano i contorni corruschi dei suoi pittogrammi aurei. Il racconto di Bracchitta riguarda l’eterna collisione dell’uomo con le forze elementali: l’acqua, l’aria, il fuoco. O meglio, il mare, il cielo, il plasma lavico su cui fluttuano le figure baluginanti dei natanti e delle sfere celesti. Barche, piroghe, lune, soli e stelle abitano dimensioni che suggeriscono, di volta in volta, le sembianze di un firmamento notturno, di una buia distesa di acque, di un cielo vespertino incendiato dai bagliori del magma etneo.
Le cromie che caratterizzano queste geografie interiori sono sempre le stesse: il blu oltremare che allude alle profondità abissali o alle lontananze cosmiche; il rosso cadmio o cardinale che simboleggia la materia vivente del flusso sanguigno, del versamento eruttivo, del fuoco; infine, l’oro che esemplifica la luce, radiazione elettromagnetica percepibile dall’occhio umano, presupposto di visibilità e condizione di discernimento. Non l’oro metafisico delle icone bizantine, incorruttibile rimando alla dimensione eterna e sovrasensibile del divino, ma quello smaccatamente falso dell’orone, dell’ottonella e della metallina, sostanze assai più pedestri e, dunque, adatte a raffigurare il topos della fragilità esistenziale su cui l’artista da sempre insiste.
Ma proprio qui, nell’introdurre il tema del “corruttibile” con il ricorso a un materiale nuovo, l’armamentario iconografico di Bracchitta trova un punto di contatto con le urgenze del presente, avvicinando, per così dire, il suo alfabeto di forme simboliche al piano della contingenza.
Semi e Mare, 2021, Acrilico, floccaggio e pigmenti su tela, cm 30×30
Con Unda Mater, nuovo capitolo della sua ricerca, l’artista appare più sensibile alla sostanza prosaica del mondo odierno. La sostituzione dell’orone, il simil-oro comunemente usato per la doratura dei mobili, con la metallina, fatta di polietilene tereftalato metallizzato, impiegata sia nelle sue opere pittoriche che nella grande installazione plastica che domina lo spazio centrale della galleria, non risponde a una scelta meramente formale. Infatti, questo materiale, progettato nel 1969 dalla NASA per i veicoli spaziali, è oggi comunemente usato per la produzione di coperte isotermiche, usate in campo medicale per prevenire i casi di ipotermia. Le vediamo spesso addosso alle vittime di incidenti stradali e, più spesso, sulle spalle dei migranti che approdano esausti sulle nostre coste. Sono chiamate internazionalmente emergency blanket (coperte d’emergenza) e sono diventate un materiale ricorrente nelle attuali produzioni artistiche. Basti dare uno sguardo all’installazione Heaven and Hell Simultaneously (2016) di Mircea Cantor, alle Welsh Emergency Blankets (2018) di Daniel Trivedy, alla serie di fotografie intitolate Wind Sculptures (2015) di Giuseppe Lo Schiavo, alla scultura Bow Human (2010) di Pamela Rosenkrantz o alla gigantesca installazione The Blanket (2018) di Alexander Shtanuk, composta da tremila moduli di polietilene tereftalato e presentata al “Burning Man”, il celebre festival dedicato alle creazioni effimere che si tiene ogni anno nel deserto del Nevada, per capire che le coperte isotermiche sono entrate ormai di diritto nell’immaginario contemporaneo.
Sandro Bracchitta usa questo materiale tecnico come sostituto della foglia d’oro, in forma di ritagli quadrati che applica pazientemente sulle tele, per disegnare gli stringati profili delle sue barche, o per rivestire l’interno della scultura in foggia di piroga di Unda Mater (2022), l’installazione che dà il titolo alla mostra.
La metallina (altro nome della coperta isotermica), usata dall’artista per plasmare le forme primarie delle sue imbarcazioni – che poi sono le stesse delle ciotole, dei primitivi gusci rovesciati o delle elementari case che costellano, fin dagli esordi, la sua polisemica ricerca pittorica – collega il tema della sopravvivenza a quello delle migrazioni che hanno segnato, fin dall’antichità, la storia dell’uomo. Eppure, questo suo nuovo prelevamento oggettuale non è inquadrabile nel segno di quelle pratiche visive che guardano alla cronaca e all’attualità per documentare le derive politiche e sociali del nostro tempo. Piuttosto, quello di Bracchitta è un gesto di appropriazione che eradica un frammento materiale dal contesto storico per costringerlo nei termini del proprio lessico. L’artista non si adatta, ma adatta, potremmo dire, la materia tecnologica odierna, fagocitandola nel proprio vocabolario, senza, peraltro, alterare il fulcro della propria indagine. Un’indagine che non riguarda l’attualità, cioè il carattere transeunte di ciò che è vivo e presente e, tantomeno la dimensione imperscrutabile dell’eterno, ma, piuttosto, il costitutivo stato di precarietà dell’uomo, la sua fragilità e mortalità. Tutti elementi ineluttabili che, però, sono anche all’origine di ogni energia vivificante, d’ogni passione ed entusiasmo.
Questo è il punctum della pittura di Bracchitta, il codice cifrato nel concetto di Unda Mater, che è immagine del ritmo, dell’alternanza… di quell’altalena di stati contrari che chiamiamo vita.
[1] Vincenzo Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno, 2022, Giulio Einaudi editore, Torino.




