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Crypto Series: The Future is Unwritten

5 Lug

Questo testo è stato scritto in occasione dell’omonima mostra, curata dal sottoscritto insieme a Linda Tommasi, a Villa Ciani, a Lugano, dal 15 al 21 novembre 2021, e dunque riflette il clima di entusiasmo di quel particolare periodo. The Future is Unwritten, che io sappia, è stata la prima esposizione pubblica di opere di Crypto Art in Svizzera, realizzata dal comune di Lugano grazie al fondamentale contributo di un importante collezionista, Poseidon NFT Fund (oggi Poseidon DAO).

Introduzione

Di Ivan Quaroni

Se ne è parlato e scritto molto. Il nuovo hype è la Crypto art, l’arte digitale che si acquista con le cripto valute (Ethereum soprattutto) su piattaforme come SuperRare, Nifty Gateway, Rarible, Opensea o Foundation, tanto per citarne alcune. Un’arte che, a dire il vero, esisteva già, ma era completamente, o quasi, ignorata dal sistema mercantile tradizionale in ragione della sua immaterialità e quindi invendibilità. Si tratta, infatti, di opere fatte solo di immagini, animazioni, Gif o brevi video che i collezionisti non usano (almeno non tutti) per arredare il proprio salotto, ma che possono comunque essere esposte in gallerie virtuali o attraverso monitor nei musei e nelle gallerie d’arte. Nella stragrande maggioranza dei casi è un’arte nativa digitale, realizzata con software e strumenti di elaborazione delle immagini come Photoshop o Cinema 4D, ma può essere anche il prodotto della digitalizzazione di opere tradizionali, come quadri, fotografie o sculture trasformati in NFT.

L’NFT (Non Fungible Token) è un sistema crittografico che consente di fornire prove di autenticità e proprietà dell’arte digitale. La portata innovativa di questo sistema consiste nel prevenire falsificazioni di ogni tipo. L’immagine di un’opera crypto potrà anche essere copiata, ma non il suo certificato di proprietà, le cui informazioni sono fissate nella blockchain – una sorta di registro digitale delle transazioni in cripto valuta – e quindi non possono in alcun modo essere alterate. A far emergere il fenomeno hanno contribuito i numerosi articoli sull’argomento che, però, si limitavano a sottolineare la rilevanza economica di questo nuovo mercato, snocciolando cifre e record d’asta come nel caso dei 69 milioni di dollari totalizzati da Christie’s per la vendita di Everydays: The First 5000 Days di Beeple, e trascuravano invece gli aspetti culturali della crypto arte e i motivi che ne hanno favorito l’emersione.

Il grande merito della rivoluzione Crypto, per molti versi assimilabile all’esplosione del Punk alla fine degli anni Settanta (tanto da contenere elementi di filiazione fin troppo evidenti, dal fenomeno dei CryptoPunks alla collaborazione di Hackatao con i Blondie, fino all’estetica DIY di XCOPY), è stato quello di aver liberato un potenziale creativo abnorme, fornendo una dimensione mercantile a linguaggi, espressioni e grammatiche artistiche fino a quel momento marginalizzate dal sistema dell’arte tradizionale. Tra le centinaia, anzi migliaia, di artisti che si sono avventurati nel mondo degli NFT, oltre quelli che provengono da precedenti esperienze artistiche e che possono vantare un curriculum di tutto rispetto, ve ne sono molti che, invece, si sono fatti le ossa nell’industria cinematografica o in quella dei videogame, nella pubblicità o nella televisione, lavorando come graphic designerconceptual artistcharacter designerart directormatte painter3D artistvisual designer game designer, ed altri che, semplicemente, si dilettavano a produrre arte per se stessi. Per molti, soprattutto per quelli che rientrano nella categoria dei commercial artists, la scoperta degli NFT è stato un modo per ritornare a una dimensione artistica e autoriale, finalmente libera dagli obblighi imposti dalla committenza. Sono emerse, così, nuove personalità che altrimenti non avrebbero trovato posto in un settore, come quello artistico, viziato da storture sistemiche ormai note a tutti.

Un altro elemento rivoluzionario dell’ondata di Crypto Art riguarda l’accorciamento della filiera tradizionale dell’arte, che ha portato gli artisti a diretto contatto con i collezionisti, cancellando, di fatto, la mediazione economica delle gallerie e, in un primo momento, anche quella culturale dei curatori e dei critici d’arte, che sono stati poi reintegrati come elemento indispensabile di divulgazione e storytelling. Si può, infatti, affermare che la mediazione economica sia passata alle succitate piattaforme di vendita, le quali, però, si accontentano di percentuali assai minori su ogni transazione rispetto a quelle applicate nel vecchio mercato. In molti credono che questa rivoluzione stia tagliando fuori gli elementi ingiustamente considerati parassitari e che costituivano la “catena del valore” attraverso le strategie di posizionamento e l’elaborazione critica e documentaria, e che abbia finalmente restituito centralità alla figura dell’artista (e forse anche a quella del collezionista e mecenate). Ma è un’impostazione che alcune piattaforme hanno subito abbandonato, dotandosi di board interni, formati da curatori, collezionisti, artisti e membri della community che garantiscono la presenza di procedure che vagliano la qualità delle proposte artistiche.

Il problema, tuttavia, resta quello di orientarsi nella sterminata galassia della Crypto Art. Per trovare la bussola bisogna prima familiarizzare col gergo strettamente tecnico di questo nuovo mondo, imparando a distinguere, nella pletora dei neologismi, quelli che possono aiutarci a capire meglio il fenomeno. Per prima cosa bisogna capire che il cosiddetto “NFT”, il Non Fungible Token, non è l’opera, ma il dispositivo che rende possibile la sua presenza sulla blockchain. Capita spesso di riferirsi al lavoro di un artista con questo termine, ma è solo un’approssimazione comoda per distinguere questo tipo di opere da altre opere digitali. Anche “crypto arte” è una definizione di comodo per indicare – come spiega Domenico Quaranta in Surfing with Satoshi (2021, postmedia books, Milano) – “un’arte digitale oppure digitalizzata resa rara dalla sua registrazione su blockchain”. Questo significa che la Crypto Art non è un fenomeno artistico alla stregua dell’Impressionismo, del Futurismo o del Dadaismo, caratterizzato da uno stile, da una tecnica o da contenuti programmatici coerenti, ma qualcosa di estremamente variegato, tentacolare, multiforme e, dunque, molto difficile da definire. Quel che si può e si deve fare per esplorare questo nuovo territorio è ricostruire la catena del valore. Manca, infatti, una letteratura che sappia interpretare in termini artistici, critici, estetici, stilistici (ma anche politici e sociologici) il valore di opere che sembrano ricollegarsi più all’immaginario fantascientifico del cyberpunk o a quello delle subculture della rete come la Vaporwave e la Retrowave, o a quello popolare di fumetti e cartoni animati, piuttosto che non alle evoluzioni della storia dell’arte. L’unico modo per costruire una documentazione valida è iniziare ad occuparsi non del fenomeno, ma dei singoli artisti, delle loro genealogie culturali, delle ricorrenze e iterazioni che caratterizzano le loro ricerche. Solo così diventa possibile tracciare una mappa e costruire una geografia di questo universo che – ho la netta impressione – sia tutto, fuorché una moda passeggera o una temporanea tendenza della stagione pandemica.

La mostra The Future is Unwritten nasce come una selezione di opere tra le centinaia di NFT che costituiscono la collezione del Gruppo Poseidon, una delle più grandi e cospicue in Europa. I criteri di scelta hanno tenuto conto prima di tutto del principio di autorialità, che ci hanno condotto a scartare tutte le produzioni NFT non specificamente artistiche, come ad esempio i collectible, e le card. Secondariamente abbiamo valutato la rilevanza dei nomi e il loro contributo alla nascita e allo sviluppo della Crypto Art. Accanto ad artisti di caratura internazionale, come Beeple, XCOPY, Hackatao, Dangiuz, Federico Clapis, Skygolpe, Fabio Giampietro, Raphael Lacoste, Giovanni Motta, Andre Chiampo, che hanno giocato, con pesi e misure differenti, un ruolo di anticipatori, pionieri o attivisti nella definizione di questa nuova compagine, abbiamo selezionato un nucleo di artisti esordienti nell’universo NFT, come Niro Perrone, Nicola Caredda, Giuseppe Veneziano, Adriana Glaviano e Giò Roman, per la qualità e l’originalità delle loro opere. Unica eccezione al principio di autorialità, ma non a quello dell’innovazione pionieristica, è rappresentato dall’inclusione in questa mostra collectible come i due CryptoPunks del Larva Labs e l’esemplare di Bored Ape Yacht Club dello Yuga Labs, scelti per il loro valore iconico e per tutto ciò che hanno rappresentato e continuano a rappresentare per la comunità crypto, insieme dei brand, degli status symbol e, soprattutto, dei codici e dei segnali di riconoscimento e di appartenenza. La mostra ci fornisce una visione inevitabilmente parziale, ma significativa dei linguaggi che caratterizzano questo nuovo comparto dell’arte digitale, un mondo che è appena nato, ma che crediamo, come suggerisce il titolo, sarà foriero, nei prossimi anni, di ulteriori e forse imprevedibili sviluppi.

Beeple

di Ivan Quaroni

È il più importante artista della scena crypto, divenuto l’emblema di una rivoluzione che, come lui stesso ha affermato, ha aperto “un nuovo capitolo della storia dell’arte”. Il suo nome è rimbalzato su tutti i principali canali d’informazione come l’autore di Everydays: The First 5000 Days, la terza più costosa opera d’arte al mondo, dopo Rabbit di Jeff Koons e Portrait of an Artist (Pool with Two Figures) di David Hockney, battuta lo scorso 11 marzo da Christie’s per l’incredibile cifra di 69,3 milioni di dollari, cosa che lo ha reso anche il più celebre artista digitale di tutti i tempi e il primo a raggiungere il record per la vendita di un’opera immateriale. Il suo gigantesco collage, composto da 5000 immagini, ognuna delle quali è stata realizzata in uno dei 5000 giorni richiesti per completare l’intero lavoro, non solo ha sorpassato in valore Old Masters come Raffaello e Tiziano, ma ha anche segnato il passo del lungo percorso di riconoscimento delle opere digitali, che, grazie a lui, sono ora trattate sul mercato dell’arte alla stregua delle opere tradizionali. La persona che sta dietro lo pseudonimo di Beeple è Mike Winkelmann. Classe 1981, nato e cresciuto a North Fond du Lac, una piccola cittadina del Wisconsin, Beeple ha cominciato la sua carriera d’artista nel 2007, quando ha creato il ritratto di suo zio Jim, la prima delle immagini di Everydays: The First 5000 Days. Il suo immaginario è influenzato dalla cultura di massa, dal fumetto, dai cartoni animati, dalla fantascienza, ma anche dai videogame e dalla cronaca. Dopo una laurea in informatica e un’esperienza come web designer, Beeple – un nome preso in prestito da un peluche degli anni Ottanta -, si è dedicato all’arte con una disciplina esemplare, realizzando un’opera al giorno per 13 anni, usando programmi come Photoshop e Cinema 4D. Il risultato di tanta dedizione, aldilà dei suoi successi personali, è stato di aver aperto la strada a migliaia di artisti digitali snobbati dal vecchio sistema dell’arte, che li considerava poco più di semplici illustratori. 

L’opera esposta in questa mostra è GIGACHAD, un video in cento esemplari che raffigura Elon Musk a passeggio con un cane. Il Ceo di Tesla è rappresentato col corpo muscoloso di Gigachad, un personaggio meme simile all’Incredibile Hulk, accompagnato da un cane della razza giapponese Shiba Inu, simbolo della dogecoin, una criptovauta nata per scherzo nel 2013, che si sviluppò rapidamente grazie al sostegno di una community e che nel gennaio 2014 ha raggiunto una capitalizzazione di mercato di 60 milioni di dollari. Quest’opera dimostra come il mondo della crypto arte, tanto nelle immagini quanto nei contenuti, sia spesso autoreferenziale.

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Nicola Caredda

di Ivan Quaroni

Nato a Cagliari nel 1981 e formatosi all’Accademia di Belle Arti di Sassari, Nicola Caredda è un pittore visionario, nel cui stile si fondono influssi pop surrealisti e suggestioni distopiche. Il salto dalla pittura agli NFT avviene, dunque, sotto il segno di un immaginario post-apocalittico che trasferisce l’atmosfera di metafisica sospensione degli Enigmi dechirichiani in un Pianeta Terra devastato dalle macerie e dai detriti dell’era post-moderna. I suoi paesaggi mostrano ciò che rimane dopo l’ecatombe ecologica, un globo disabitato e silente, costellato di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Sono visioni notturne che raccontano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la principale causa delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema. Caredda ce ne fornisce un’immagine oleografica, la convincente prefigurazione della fine del mondo dove, però, sopravvivono tracce e segni dell’identità italiana nei reperti dell’iconografia cattolica o nei graffiti dipinti sui muri di cemento di una sterminata periferia urbana.

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Andrea Chiampo

di Ivan Quaroni

Andrea Chiampo è nato a Vicenza nel 1991. Ha studiato Disegno Industriale presso lo IAAD di Torino e dopo aver lavorato come Product designer è passato all’Entertainment Design con produzioni in ambito cinematografico, come quelle con 20th Century Fox, Netflix, MPC e The Mill. Attualmente lavora a Londra come Concept Artist presso la Disney – Industrial Light and Magic. 

Cresciuto in una famiglia di antiquari, circondato da stampe antiche, sculture e opere d’arte, Chiampo ha sviluppato una spiccata sensibilità estetica che traspare non solo nei lavori commerciali, ma soprattutto nelle opere NFT. Sono, infatti, opere che esplorano l’inconscio, attraverso la creazione di ambienti surreali, costruiti come complessi di caverne e cunicoli formati da rocce millenarie. Sparsi in questi landscape mineralizzati, che sembrano quasi fatti di grafite, compaiono scheletri, teschi e detriti ossei che rimandano a una sorta di gigantesco memento mori. Lo stile digitale di Chiampo richiama quello delle incisioni, ma con i temi tradizionali della Vanitas e della Melancholia trasferiti in una dimensione aliena e post-apocalittica. Abilissimo nella resa degli effetti di traslucenza, texturing e illuminazione, Chiampo è riuscito a costruire un linguaggio visivo capace di indagare il lato oscuro dell’uomo. I suoi lavori, soprattutto quelli della serie intitolata Futured Past, danno corpo e immagine a una gamma di ossessioni, paure, allucinazioni che abitano lo spirito umano fin dai tempi più remoti.

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Federico Clapis

di Ivan Quaroni

La sua arte è il risultato di un’epifania spirituale, di un’illuminazione che l’ha condotto ad abbandonare nel 2015, al culmine della sua popolarità, una carriera di youtuber, attore e performer con un vasto seguito per dedicarsi unicamente alla creazione dei suoi lavori. 

Nato a Milano nel 1987, Federico Clapis è uno dei più noti artisti della scena crypto, ma le sue opere esistono da prima che nascessero gli NFT. Realizzate in bronzo, resina e cemento, le sue sculture sono state create mescolando progettazione digitale e raffinate tecniche di lavorazione artigianale. La sua ricerca ruota attorno a due polarità, una interiore, basata sull’introspezione individuale attraverso l’esercizio di pratiche meditative come l’Out of Body Experience, l’altra esteriore, incentrata sull’osservazione della società e sulle sue traiettorie possibile. Il tema principale dei suoi lavori è, infatti, il rapporto tra l’uomo e la tecnologia. O, meglio, il ruolo pervasivo che essa avrà nella vita quotidiana delle prossime generazioni, plasmando le abitudini e costumi di una civiltà che l’artista immagina da un punto di vista retrospettivo, come se si trattasse di una scoperta archeologica avvenuta in un remoto futuro. Anche i suoi NFT conservano queste qualità iperstizionali. Sono cioè, in riferimento al termine iperstizione inventato dal filosofo accelerazionista Nick Land, delle profezie che si auto-avverano per il semplice motivo di essere riuscite a penetrare nell’immaginario collettivo. Come nel caso delle opere, oramai diventate iconiche, Babydrone in Space e Connection in Space, che raccontano, e insieme plasmano, l’idea di un futuro plausibile, dove perfino l’esperienza della maternità potrà assumere inediti sviluppi e nuovi significati. 

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Dangiuz

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Nato a Torino nel 1995, Leopoldo D’Angelo, meglio conosciuto col nome di Dangiuz, appartiene a una generazione che si è nutrita delle subculture della rete ed è stata influenzata dalla diffusione online di generi estetici e musicali, come ad esempio la Synthwave e l’Outrun. Questi elementi hanno, infatti, contribuito alla definizione del suo stile, soprattutto nei riferimenti visivi alla fantascienza degli anni Ottanta e Novanta. Le sue visioni sono ambientate in una notturna congerie urbana, illuminata da ologrammi e scariche incandescenti di neon, scenario di un futuro prossimo più che plausibile. Dangiuz ci catapulta, infatti, nella dura realtà del Conglomerato, lo Sprawl del William Gibson di Count Zero (1986) o la Neo-Tokyo immaginata da Katsuhiro Otomo in Akira (1988), un agghiacciante incubo verticale di sopraelevate e grattacieli collegati da ponti sospesi, affacciati su un’abissale giungla di livelli stradali. È, infatti, in una megalopoli che ricorda la Los Angeles di Rick Dekard che si ambientano le sue storie. I suoi personaggi, buie silhouette stagliate sui lampi intermittenti della metastasi urbana, abitano una realtà che incarna tutti gli squilibri del tardo-capitalismo: dalle feroci disuguaglianze sociali dell’economia globale all’immane catastrofe ecologica, dalla polverizzazione del patto sociale al controllo delle multinazionali, dalla connettività post-umana dei servo-meccanismi alla claustrale solitudine dell’individuo isolato nella propria cellula abitativa. È un mondo che cade a pezzi, un universo cyberpunk che recentemente si è evoluto in una nuova dimensione estetica, iniziata con l’opera Wasteland, la descrizione di un mondo di carcasse in rovina.

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Fabio Giampietro

di Ivan Quaroni

È considerato uno dei pionieri italiani della crypto art, ma viene, come altri artisti NFT, dalla pittura tradizionale. Fabio Giampietro, nato a Milano nel 1974, ha dipinto per anni immense megalopoli viste dall’alto, organismi urbani proliferanti, che sembrano usciti dalle fantasie distopiche di un romanzo di Neal Stephenson, l’inventore del termine mataverso. I suoi quadri affondano le radici nella tradizione del Futurismo e dell’Aeropittura italiana del primo dopoguerra e nelle ricerche spazialiste, ma la passione per la tecnologia caratterizza da oltre un decennio la sua indagine artistica. La maggior parte dei suoi dipinti è ispirata a New York, il primo modello di città futuribile che più tardi sarebbe stato soppiantato dalle nuove megalopoli asiatiche. La sua è una metropoli vista dall’alto, quasi a volo d’uccello, su cui si spalanca il vertiginoso scorcio del reticolo urbano. Non a caso Giampietro chiama questi lavori Vertigini, riferendosi allo spaventoso disorientamento generato dall’altezza dei grattacieli. Una sensazione che, tra i primi in Italia, è riuscito trasferire in VR con l’installazione Hyperplanes of Simultaneity, che ha vinto il prestigioso Lumen Prize, il più importante riconoscimento nell’ambito delle opere d’arte create con mezzi tecnologici. Le opere crypto di Giampietro sono tutte ricavate da dipinti ad olio di grandi dimensioni e dunque conservano intenzionalmente intatta l’originale grana pittorica dell’immagine.

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Adriana Glaviano

di Ivan Quaroni

Nata a Palermo, ma diplomata all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, Adriana Glaviano ha lavorato come grafica e illustratrice per numerose riviste di moda, diventando prima Fashion Editor di “Vogue Italia”, poi collaborando come vicedirettore moda a riviste del gruppo Rcs come “Amica”, “Io Donna” e “Anna” e, infine, assmendo l’incarico di Fashion Director di “Vogue Gioiello” e “Vogue Pelle”. Oggi lavora sia nel campo dell’editoria e della moda, sia come artista, autrice di sontuosi wallpaper ispirati alla pittura e al genere dei trompe-l’oeil. L’influenza dell’arte barocca è visibile anche nelle sue opere digitali, popolate di animali esotici e disseminate di rovine architettoniche immerse in un lussureggiante paesaggio naturale. L’opera Jungle Palace, realizzata in esclusiva per la galleria d’arte NFTART.CH di Lugano, è un monumento alla natura selvaggia, ma anche all’arte e all’architettura del passato, una perfetta combinazione tra un bestiario esotico e un paesaggio arcadico rivisitato alla luce dell’incombente catastrofe climatica. Con quest’opera, Adriana Glaviano oppone agli effetti distruttivi della società consumista e tardo-capitalista, gli eterni valori della bellezza e dell’arte.

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Hackatao

di Ivan Quaroni

Punta di diamante della frangia italiana della crypto arte, gli Hackatao sono un duo di artisti riconosciuto a livello internazionale tra i pionieri della rivoluzione NFT. Il loro nome è formato dalla crasi delle parole hacker e tao, indicazioni di un retroterra culturale che mescola antagonismo cyberpunk e spiritualità nel segno di un’arte di immediata riconoscibilità, che combina elementi pop surrealisti ed immaginario manga. Gli “Hacker del Tao” sono due artisti che combinano i loro talenti in una grammatica che fonde l’impulso disegnativo dell’uno con la sensibilità cromatica e strutturale dell’altra. Il loro sodalizio nasce a Milano nel 2007 e si concretizza prima nella creazione dei Podmork, sculture in resina e ceramica che formano un campionario di figure a metà tra l’estetica kawaii giapponese e la moda lowbrow dei vinyl toys, poi nel passaggio a una pittura pop, in cui le forme dei loro bizzarri personaggi sono riempite da una fitta trama di disegni, una sorta di ipertesto visivo in cui si annidano frasi, immagini e riferimenti che formano un ininterrotto flusso di coscienza e, allo stesso tempo, una trappola ottica per l’osservatore. Il cortocircuito generato dalla combinazione tra linearismo grafico e pittura flat – una polarizzazione che ricorda la diade taoista di Yin e Yang -, è, infatti, la caratteristica principale della ricerca degli Hackatao, mantenuta intatta anche nel formato digitale. Il loro contributo alla definizione della crypto arte è fondamentale e passa attraverso una serie di sperimentazioni che combinano la pittura su quadro a elementi di animazione digitale. Nel 2018, quando vivono già da sette anni in uno sperduto borgo medievale sulle Alpi Carnie, arriva la svolta con l’ingresso nell’ancora misconosciuto mondo degli NFT. In reazione alle vecchie logiche elitarie del sistema dell’arte, cominciano a realizzare lavori digitali ricevendo l’apprezzamento di una community ancora esoterica, ma in procinto di espandersi a macchia d’olio. Solo dopo giungono l’attenzione rapace delle case d’asta e le vendite milionarie che li fanno balzare agli onori della cronaca. Il loro lavoro resta però fedele alla loro estetica binaria anche nel nuovo formato digitale, come dimostrano le opere esposte in questa mostra. La prima è Beyond the Void, un lavoro finito sulla copertina di “NFT Mag”, prima rivista dedicata alla crypto arte pubblicata su OpenSea, ma è soprattutto un tributo a Lucio Fontana, l’artista che con i suoi tagli, ha gettato luce su ciò che sta oltre la superficie del quadro, aprendo le porte della percezione alla comprensione di uno spazio ulteriore. L’NFT Beyond the Void nasce, infatti, da una esperienza espositiva degli Hackatao al Museo di Cà la Ghironda di Ponte Ronca, nei pressi di Bologna, dove hanno proiettato un proprio lavoro sull’opera Concetto Spaziale-Attese, sette tagli, creando, così, un intimo dialogo con la tridimensionalità di Fontana. Le altre due sono opere nate dalla collaborazione con la band punk americana dei Blondie in occasione del 93° anniversario della nascita di Andy Warhol. Rappresentano, con il tipico stile degli Hackatao, la cantante del gruppo Debbie Harry, oggetto, già nel 1985, di una delle sue prime opere digitali realizzate da Warhol con un Commodore Amiga 2000. I lavori della serie Hack the Borders rappresentano quindi un collegamento non solo tra le rivoluzioni della crypto art e del movimento punk, ma anche tra il mondo degli NFT e le prime seminali sperimentazioni digitali del padre della Pop Art.

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Raphaël Lacoste

di Ivan Quaroni

Nato in Francia nel 1971, ma residente a Montreal dal 2002, Raphaël Lacoste ha lavorato nel mondo dei videogame come art director dei franchise Prince of PersiaAssassin’s Creed, e poi nell’industria cinematografica in qualità di Concept Artist, Production Designer e Matt Painter in film come Terminator Salvation (2009), Journey to the Center of the Earth (2008), Death Race (2008), Repo Men (2010), Immortals (2011) e Jupiter Ascending (2015). Nel suo universo visivo il paesaggio ha un ruolo centrale. Influenzato dalla fantascienza e dal cyberpunk, ma anche da pittori romantici come Caspar David Friedrich e Albert Bierstadt e da fotografi contemporanei come Greg Girard e Gregory Crewdson, Lacoste ha creato l’immaginario di un futuro ipertecnologico dove immensi edifici verticali, simili a nuove cattedrali gotiche, sorgono accanto a scenari naturalistici incontaminati. Come nella serie AI Metropolis, che rappresenta le vicende di un gruppo di esploratori al confine tra i territori selvaggi e gli immensi conglomerati urbani. In questo connubio tra mondo naturale e civiltà avanzata, Lacoste ha scoperto un nuovo senso del sublime. Non più il sentimento kantiano di sgomento generato dalla visione delle forze distruttive della natura, quello delle tempeste di William Turner o del Wanderer above the Sea of Fog di Friedrich, ma quello che proviamo davanti allo smisurato sviluppo della tecnologia umana e dei suoi artefatti: un sublime per l’era dell’Antropocene.

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Larva Labs

di Ivan Quaroni

Quando nel giugno 2017 viene lanciato il progetto CryptoPunks, lo standard di token ERC-721 di Ethereum non era ancora qualcosa di reale. A creare quelle che più tardi sarebbero diventate le più popolari icone nel mondo NFT è stato Larva Labs, uno studio di New York composto dagli ingegneri creativi Matt Hall e John Watkinson che hanno tokenizzato 10.000 ritratti in grafica 8bit di personaggi unici per tipologia e caratteristiche estetiche. Dell’intero lotto, 9000 di questi esemplari unici sono stati lanciati sul mercato, mentre i restanti 1000 sono rimasti di proprietà dello studio che li ha creati. Di fatto, i CryptoPunks sono un insieme di avatar generati casualmente, alcuni dei quali sono più rari, come ad esempio la serie Zombie o quella degli alieni. Il loro valore è più simbolico che estetico, perché non solo rappresentano uno dei più antichi esempi di Non Fungible Token, ma hanno anche saputo avviare una florida economia. Un mercato che ha attirato l’attenzione di case d’asta come Christie’s che lo scorso maggio ha venduto una raccolta di 9 esemplari a quasi 17 milioni di dollari.

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Giovanni Motta

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Giovanni Motta è uno dei crypto artisti italiani che meglio incarna l’epocale transizione dall’arte fisica al mondo immateriale degli NFT. Nato a Verona nel 1971, arriva all’arte dopo un passato da pubblicitario. Il disegno, però, è una sua passione fin dall’infanzia. Dal 2000 inizia ad esporre in gallerie e spazi pubblici le proprie opere, disegni, dipinti e sculture 3D che rivelano la sua passione per i manga e gli anime, ma anche per i cartoni animati americani. Al centro del suo lavoro c’è Jonny Boy, personaggio che incarna l’innocenza dell’infanzia, ma che è anche metafora del bambino interiore che abita la coscienza di ogni uomo. La sua pittura quasi iperrealista, ma contaminata dalla cultura pop, ha un messaggio tanto semplice quanto potente: la ricoperta della creatività infantile come energia vitale che risiede nella memoria degli individui e che può essere riscoperta attraverso un lavoro di scavo psicologico e spirituale. Tutte le sue opere nascono dalla quotidiana pratica della meditazione regressiva, una tecnica che gli permette di far riaffiorare dalle profondità sepolte dell’inconscio ricordi vividi del passato, che poi traduce in immagini che catturano il senso di stupore ed eccitazione delle esperienze infantili. Questo sentimento di entusiasmo è codificato nella forma della metafora videoludica. Le fluttuazioni di Jonny, infatti, richiamano la condizione del player immerso nel flusso del gioco, in una dimensione di dilatazione sinestetica che altera la percezione del tempo. Jonny è, dunque, il simbolo di tutte le qualità del bambino, non ancora corrotto dal cinismo della vita adulta.

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Niro Perrone

di Ivan Quaroni

Aretino, classe 1985, Niro Perrone ha scoperto il mondo degli NFT nel 2020, in piena crisi pandemica, quando ha iniziato a disegnare storie per i suoi figli. Prima lavorava in ambito musicale come Producer e Dj, pubblicando singoli ed EP con etichette indipendenti. I suoi disegni nascono come flash narrativi ispirati alle vicende della sua vita quotidiana, ma diventano presto opere quando passa dalla matita alla tavoletta grafica. Diventate un’occupazione a tempo pieno, le opere di Niro Perrone, pubblicate su Instagram, iniziano a circolare in rete. Poi, con l’esplosione dell’arte crypto, crea i suoi primi NFT, caratterizzati da uno stile che ricorda quello della cosiddetta Linea Chiara del fumetto francese degli anni Ottanta. Vengono in mente autori come Moebius e Jacques Tardi, soprattutto per la pulizia e la chiarezza di contorni con cui Perrone da forma alle sue narrazioni.  Sono storie fantastiche popolate di personaggi ibridi, chimere e mostri caratterizzati, però, da una vivacissima gamma cromatica, che stempera i contenuti, talvolta drammatici, delle sue creazioni.  All’interno di questo caleidoscopico affollamento di figure, proiezione di un universo insieme allegro e nevrotico, si trovano talvolta personaggi iconici, come nel caso di Vicious Murphy, in cui riconosciamo un lubrico RoboCop intento a masturbare un device elettronico della Omni Consumer Product, l’immaginaria multinazionale costruttrice del cyborg nel popolare film di Paul Verhoven.

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Giò Roman

di Ivan Quaroni

Nato nel 1987 a Galatina, Giovanni Romano aka Gio’ Roman, è laureato in Economia e Marketing. All’arte è arrivato più tardi, da autodidatta, nel 2017, realizzando una serie di opere che raccontano storie d’amore proiettate in futuribili scenari urbani, che rimandano, quasi classicamente, alle notturne ambientazioni di Blade Runner. La sua opera, intitolata Forever, dedicata a Koby Bryant e a sua figlia, ha fatto il giro del mondo. Condivisa sui social da Alicia Keys e riprodotta su una t-shirt vestita dalla popolare comica americana Leasly Jones durante il Late Night Set, l’opera rappresenta la stella del basket americano mentre accompagna la figlia in un’aerea schiacciata sullo sfondo di un romantico cielo al tramonto. Non tutti i suoi lavori, però, rivelano una vena lirica. L’opera Provocation, ad esempio, ci introduce nei meandri di un’utopia negativa, in cui alla rovina dell’arte tradizionale, rappresentata dai capolavori di Leonardo, Vermeer, Van Gogh, Picasso e Munch sparsi sul pavimento nel caveau, corrisponde il collasso della blockchain e degli NFT, simbolizzati dalle crytovalute Bitcoin ed Ethereum e dalle icone dei Cryptopunk.

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Skygolpe

di Ivan Quaroni

“Skygolpe è l’identità. Skygolpe è il vuoto. Il suo lavoro esplora la loro giustapposizione, insieme all’esistenza fisica e digitale del corpo”. Questo è il succinto ed enigmatico statement con cui si presenta uno dei più famosi crypto artisti italiani su Artifex, uno dei molti marketplace che ospitano le sue opere. Appassionato di filosofia e con alle spalle un’esperienza di collaborazione con Stix, un celebre street artist inglese, dopo il suo ritorno in Italia dopo sei anni di permanenza a Londra, Skygolpe ha realizzato dipinti, fotografie, installazioni e lavori digitali. Prima dell’esplosione degli NFT, il suo lavoro era caratterizzato da una matrice concettuale, un elemento che contraddistingue anche le sue opere cypto, sebbene con un’attitudine nuova, che lo spinge a indagare i contrasti e le polarità che caratterizzano la società contemporanea. Il nome che si è scelto, Skygolpe, è il riflesso di questo interesse verso elementi eterocliti, come la bizzarra crasi tra il concetto di golpe (colpo di stato) e l’immagine del cielo. Il ritratto, o meglio la forma del volto umano, costituisce il motivo iconografico di tutta la sua ricerca, un perimetro cognitivo ed estetico entro il quale dipana la sua indagine sui rapporti tra identità e alienazione, ma anche tra dimensione fisica e virtuale. Questa sagoma anonima, ossessivamente reiterata, diventa così il contenitore di una pletora di frizioni, incontri, collisioni stilistiche tra le più variegate, che polverizzano l’idea, tanto cara all’arte tradizionale, dello sviluppo di un linguaggio coerente. Il lavoro di Skygolpe accoglie infatti, una moltitudine di grammatiche visive, una babele di vocabolari grafici che si declinano, anche attraverso le sue numerose collaborazioni con artisti di ogni genere e provenienza, in un regesto enciclopedico di stili, che ruota attorno all’immagine simbolo di un’umanità fragile, alla continua ricerca del proprio centro di gravità permanente.

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Giuseppe Veneziano

di Ivan Quaroni e Linda Tommasi

Nato a Mazzarino, in Sicilia, nel 1971, con una formazione di architetto e un passato da vignettista satirico, Giuseppe Veneziano è oggi uno dei principali artisti italiani della corrente New Pop. Con il suo linguaggio pittorico, insieme originale e riconoscibile, l’artista affronta temi sensibili come la politica, il sesso e la religione, attraverso cui ci fornisce un’immagine oggettiva e disincantata della società odierna. Le sue tele sono popolate da personalità storiche e celebrità del presente, icone del cinema e personaggi dei fumetti e dei cartoni animati. Per Veneziano non c’è differenza tra fiction e realtà, elementi che tendono a mescolarsi e confondersi nell’odierna società mediatica. L’artista lavora sull’impatto iconico dei suoi soggetti, siano essi estrapolati da un’opera del passato, da una striscia a fumetti o da una foto di cronaca. Quel che conta, è la capacità comunicativa delle immagini, che diventano come i vocaboli di un linguaggio universale e comprensibile, proprio perché radicato nella cultura di massa globale. Il suo esordio negli NFT trae spunto dalla Madonna Northbrook, dipinta da Raffaello attorno al 1507. Elemento tipico dell’arte di Veneziano è, infatti, l’appropriazione iconografica di fonti del passato (soprattutto opere del Rinascimento italiano), in cui l’artista opera una sostituzione delle figure originali con personalità storiche, celebrità contemporanee o personaggi provenienti da cinema, cartoni animati e fumetti. Nella sua Madonna of the Sacred Heart, che contiene un omaggio al Jonny Boy di Giovanni Motta, Veneziano riesce a trovare un perfetto equilibrio espressivo, che gli consente di riattualizzare, vivificandola con una grammatica adeguata ai tempi correnti, il miracolo della pittura antica. 

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XCOPY

di Ivan Quaroni

Figura leggendaria di artista crypto tra i più influenti, XCOPY è un personaggio misterioso, di cui si sa poco o nulla, se non che opera a Londra e che è stato uno dei pionieri della rivoluzione NFT, attivo, addirittura prima dello sviluppo della blockchain Ethereum sull’effimera piattaforma di Ascribe e poi su marketplace d’avanguardia come RARE Art Labs e Digital Objects. I suoi lavori compaiono già dal 2010 su tumblr con uno stile grezzo e graffiante, che richiama alla memoria le produzioni DIY e delle prime sperimentazioni multimediali. Nell’estetica della rete, le sue immagini spiccano per l’originalità stilistica ed il forte impatto grafico, ma anche per i messaggi critici nei confronti della società contemporanea. Realizzati sotto forma di Gif, sovrapponendo immagini sintetiche simili a graffiti caratterizzate da una palette cromatica essenziale, i lavori di XCOPY colpiscono proprio per la loro efficacia comunicativa, una combinazione di disegno scarno e di animazione minimale, tutta giocata su effetti di intermittenza. I soggetti sono volti quasi scarabocchiati, maschere mostruose, teschi o scheletri che lampeggiano su sfondi monocromi. Sono visioni disturbate dai glitch oppure dal tipico “effetto neve” provocato dall’interferenza dei segnali elettromagnetici sugli schermi dei vecchi televisori a tubo catodico, lo stesso evocato da William Gibson nel celebre incipit di Neuromante. Il linguaggio visivo di XCOPY è figlio della cultura antagonista degli hacker, ma anche evoluzione digitale dell’estetica anarcoide del punk.

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Yuga Labs

di Ivan Quaroni

Se i CryptoPunks hanno aperto la strada al mercato degli oggetti da collezione digitali rari, la cui scarsità è verificabile, il progetto denominato Bored Ape Yacht Club ne rappresenta l’ideale continuazione. Sviluppato da Yuga Labs, il Bored Ape Yacht Club è una raccolta di 10,000 illustrazioni di personaggi che rappresentano altrettanti ritratti di scimmie dall’espressione annoiata. Di queste immagini non ne esistono due uguali, perché ognuna delle scimmie possiede colori, accessori o caratteristiche uniche. Come suggerisce il nome, il Bored Ape Yacht Club è una specie di società elitaria e possedere uno di questi NFT è il solo modo per entrare nel club, dato che consente agli utenti l’accesso a un esclusivo server Discord, dove altri proprietari, comprese alcune celebrità, si incontrano e chattano. I membri di questo club, riconoscibili dai loro avatar con l’effige di una delle scimmie annoiate, si ritrovano sui social media formando una sorta di confraternita digitale. Anche in questo caso, considerate le cifre da record raggiunte da alcuni di questi avatar, non conta tanto il loro contenuto estetico, quanto il valore di status symbol ed il fatto che possedere un NFT Bored Ape sblocca l’accesso per ulteriori oggetti da collezione NFT, come gli esemplari di Mutant Ape Yacht Club o i cani di Bored Ape Kennel Club.

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Crypto Series: Orkhan Isayev. Nostalgia di un futuro passato

19 Dic

di Ivan Quaroni

Retro-Futurismo è il nome di una tendenza letteraria e artistica che esprime un sentimento nostalgico verso i futuri passati e che, in particolare, trae ispirazione dalle visioni ottimistiche elaborate tra il Secondo Dopoguerra e gli anni Ottanta del secolo scorso. Visioni a cui non furono estranee sia le due fiere organizzate nel 1939 e nel 1964 dalla General Motors col titolo di Futurama, che presentavano innovative idee per plasmare la vita e la società del mondo a venire, sia il progetto di città futuribile denominato EPCOT (Experimental Prototype Community of Tomorrow), elaborato nel 1960 nientemeno che da Walt Disney, ma mai realizzato a causa della sua prematura scomparsa. 

Nella narrativa come nelle arti visive, lo stile retro-futuristico emerge come l’espressione di un’insoddisfazione verso il presente e le sue possibili evoluzioni e, quindi, come il segno di una conseguente fuga verso mondi meno catastrofici. Soprattutto le immagini elaborate negli anni Sessanta e Settanta sono quelle che, più di altre, hanno saputo proiettare – attraverso illustrazioni, fumetti, cartoni animati e film – l’idea di un futuro pieno di potenzialità, immaginato come un tempo in cui finalmente si realizza il sogno di una società libera, democratica, tecnologicamente avanzata e lanciata verso la conquista dello spazio e la colonizzazione di nuovi mondi. Una visione, questa, che si discosta notevolmente dalle previsioni distopiche di certa Fantascienza e soprattutto del Cyberpunk, che ci hanno abituato alla visione di universi desolati, devastati dall’ecatombe climatica, prostrati dalla corruzione e dallo squilibrio sociale, governati dal puro profitto e plasmati da un uso spregiudicato e amorale della tecnologia in ogni campo dell’agire umano.

Orkhan Isayev, VICTORY AEROMOBILE – ARTEMIS CLASSIC Y5, Poseidon Deploy Collection #2

Nell’arte di Orkhan Isayev, retrofuturismo e cyberpunk si fondono nella costruzione di un immaginario visivo in bilico tra nostalgia del passato e inevitabile deriva distopica. Un mondo che, almeno inizialmente, è concepito come una sorta di età dell’oro, la cosiddetta Great Utopia, un tempo di ordine e decoro sociale, in cui la struttura urbana delle città è il risultato della combinazione tra la conservazione dei monumenti antichi e lo sviluppo di una tecnologia avanzata, così come l’avrebbe immaginata qualcuno che avesse vissuto tra i Roaring Twenties e gli anni Quaranta del Novecento. Come afferma l’artista stesso “I was interested in Futurism from an early age, but I also always liked 20th century nostalgia because it was very intense, and I was always looking for ways to show it together”.

A dominare lo skyline delle città di Orkhan Isayev è, infatti, lo stile Decò che influenzò la pittura, l’architettura, le arti decorative e la moda dalla metà tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento.

Basta uno sguardo alla serie Utopia su Foundation (https://foundation.app/@Isayev_art) e alla serie Victory Aeromobiles su SuperRare (https://superrare.com/isayev_art) per accorgersi che nelle sue metropoli futuribili, le monumentali vestigia del passato come il Colosseo o la Tour Eiffel, l’Opera House di Sydney o la CN Tower di Toronto, la Statua della Libertà o la Sagrada Familia di Barcellona, sono circondate da una massa di edifici ipertecnologici, le cui superfici scintillanti di acciaio richiamano appunto le modanature e le forme dell’architettura modernista americana, la stessa che fa capolino nei fumosi paesaggi urbani di Blade Runner. Con la sola differenza che le città di Orkhan Isayev sembrano l’espressione di una società in apparenza felice e pacificata, la versione ottimistica ed ecologica di una fantascienza positiva, che nemmeno il candore di Star Wars aveva saputo incarnare. Invece, l’anello di congiunzione con l’immaginario distopico di Blade Runner è rappresentato dalla figura di Syd Mead, il mitico concept artist della pellicola di Ridley Scott, che Orkhan annovera tra le sue principali fonti d’ispirazione, insieme a Moebius, il disegnatore francese che ha reinventato il fumetto fantascientifico degli anni Settanta e Ottanta. 

I lavori di Orkhan Isayev sono caratterizzati da un disegno pulito, che richiama i modi della ligne clair (linea chiara) del fumetto francese e belga. Le sue immagini sono riconoscibili anche per la gamma cromatica uniforme ed elegantemente flat, in cui spiccano i toni accesi del rosso, dell’azzurro e del giallo. La sua è una grammatica visiva che recupera alcuni elementi del passato, inserendoli, però, in una variante personale e nostalgica del genere Sci-Fi tra gli anni Sessanta e Ottanta che non avrebbe potuto esistere in quei decenni. La nostalgia è, infatti, il tratto principale di molte produzioni contemporanee, un segno della demolizione del futuro operata dalla società attuale che lascia una ferita aperta nelle nuove generazioni, a cui gli artisti rispondono con una fuga all’indietro, verso un’epoca che esprimeva ancora una fiducia cieca nell’avvenire.

Oltre a essere un creatore di mondi, capace di immaginare il futuro delle capitali mondiali nell’ipotetica epoca di Great Utopia, – da Roma a Berlino, da Shanghai a New York, fino a Baku –, Orkhan Isayev dimostra di essere anche un abile tessitore di storie e inventore di personaggi che potrebbero benissimo diventare protagonisti di una graphic novel o di una serie animata. La passione per lo storytelling, saldata alla sua inconfondibile grammatica grafica, emerge soprattutto in Valkyria Project. The Chronicles, un ciclo di illustrazioni (https://opensea.io/collection/valkyriathechronicles) che presenta tutti i comprimari di una storia ambientata a Valkyria, subito dopo l’era di Great Utopia, in un periodo in cui le cose sembrano aver preso una piega diversa. 

Proprio in questa serie di lavori è più visibile l’influsso del Cyberpunk, con le sue sfumature distopiche, perfettamente incarnate tanto dai Guardians, gli eroi tutori dell’ordine, quanto dai loro antagonisti criminali della Infernal Family, come pure dai membri del Great Council che governano Valkyria. Tra armature corazzate e corpi tecnologicamente e cognitivamente aumentati, i personaggi di Orkhan si muovono in una dimensione in cui trionfano le sperimentazioni biotech, dove uomini e macchine, carne e circuiti si fondono nei corpi di cyborg militarmente potenziati. 

A questa serie, di cui fanno parte non solo personaggi di contorno (Michellaneous), ma anche i “ritratti” di macchine robot (Machines) e armamenti speciali (Aeronauts), si aggiungono anche squarci di paesaggio urbano, angoli di città e quartieri di Valkyria City, come nel caso dell’opera Sector Alpha: Northern Block N° 256, in cui ritroviamo i limpidi profili degli edifici di Great Utopia. Insomma, non mancano gli ingredienti per la costruzione di un vero e proprio copione che potrebbe, prima o poi, trasformarsi in sceneggiatura.

Crypto Series: Emanuele Ferrari. Hiding is sexy

25 Nov

di Ivan Quaroni

Emanuele Ferrari, I Am Thirsty

Viviamo in un’epoca iper-fotografica, in cui questa pratica, inventata poco più di cento anni fa, e un tempo riservata a specialisti e appassionati, è diventata talmente diffusa da costituire uno strumento di validazione del vissuto di milioni di persone. Qualsiasi momento della nostra vita, infatti, sia esso importante o insignificante, viene immortalato e condiviso quasi immediatamente sui social network, come se costituisse il tassello di un’autobiografia per immagini e, insieme, lo strumento di verifica delle nostre esperienze. “Esiste addirittura un’espressione caratteristica”, come giustamente ha osservato Valentina Tanni, “entrata ormai a far parte del linguaggio del web, che ben esprime l’esistenza di questa fiducia residua nella capacità probante delle fotografie: Pics or it didn’t happen (se non hai le foto, vuol dire che non è successo)”[1]. All’opposto esiste, invece, una fotografia professionale che può essere variamente intesa come forma d’arte, come strumento di advertising o come mezzo di documentazione o reportage. Il lavoro di Emanuele Ferrari assomma alcune caratteristiche di entrambe le dimensioni, quella amatoriale e quella professionale, condividendo, cioè, sia la relazione con la tecnologia digitale e i social media tipica della post-fotografia, sia il carattere autoriale e sperimentale delle ricerche artistiche contemporanee. 

Come si legge in molti articoli e interviste a lui dedicati, il suo nome è stato inserito per due anni di seguito tra i venti fotografi internazionali più influenti del web secondo il WIP Index, che misura il grado di popolarità dei personaggi che usano internet come strumento di comunicazione, addirittura terzo nella sezione fashion, dopo due giganti come Mario Testino e Terry Richardson.

Emanuele Ferrari, Belly Bottom

Emanuele Ferrari ha collaborato con importanti marchi come Fendi, Diesel, Nike, Coca Cola, Moschino, Krizia, Fila, Liu Jo, Calzedonia e Marc Jacobs, pubblicando le sue foto sulle pagine di Vanity Fair, Vogue, GQ, Max, Rolling Stone, Icon, Purple ed El Pais. È stato, però, grazie a Instagram che la sua arte ha raggiunto un livello inedito di notorietà, garantito dagli oltre 408mila follower sul suo profilo. Ferrari ha, infatti, subito intuito il potenziale della rete nel campo della comunicazione, imparando a confrontarsi con una comunità di appassionati che lo ha poi seguito nella scoperta del mondo degli NFT e della fotografia certificata sulla blockchain, di cui oggi è uno dei più originali protagonisti.

Nato a Milano nel 1975, Emanuele Ferrari, come più volte ha dichiarato, è approdato alla fotografia per gioco e per passione. I suoi studi non hanno infatti niente a che vedere con l’apprendimento delle tecniche dell’ottava arte. Dopo il Liceo scientifico, ha rischiato invece di laurearsi in Economia e Commercio, che poi ha abbandonato per dedicarsi al lavoro prima come informatico poi, finalmente, trasformando la sua giovanile passione per la fotografia in una professione. I suoi primi amatoriali scatti li fa con una vecchia Minolta a rullino durante il periodo delle scuole medie. Più tardi, quando la passione per la fotografia riaffiora, come un fiume carsico, nell’età matura, diventa una pratica da apprendere sul campo e da affinare con l’esperienza e lo studio dei grandi fotografi del passato e del presente.

Emanuele Ferrari, Kurt Likes Ice Cream

Da vero autodidatta, che si è conquistato una reputazione grazie al lavoro e alla dedizione, ma anche al suo spirito gioioso e irriverente, Emanuele Ferrari sostiene che le scuole di fotografia non servono e che per imparare basta seguire la propria passione fino a trovare autonomamente il proprio stile. Forse è proprio questa sua libertà dai vincoli e dalle regole della fotografia classica a rendere il suo linguaggio così fresco ed effervescente. Sembra, infatti, che dei suoi scatti Ferrari preferisca quelli in cui emerge il carattere estemporaneo, che rivela una qualità nascosta, sorprendente o imprevista dell’immagine femminile. Il suo approccio, soprattutto nella produzione personale, slegata da ogni committenza commerciale, è antitetico a quello della cosiddetta staged photography, che vorrebbe riprodurre la naturalezza della realtà con una fotografia “ragionata”, “preparata”, letteralmente “messa in scena” come un allestimento teatrale o un set cinematografico. Ferrari sceglie, invece, di mostrarci una realtà più imperfetta, quella che si coglie, anche solo per una frazione di secondo, quando si è immersi nel flusso della vita: una posa, un gesto, un atteggiamento che rivelano tutta la bellezza che sta fuori dai canoni del lessico pubblicitario, dentro le pieghe della quotidianità. Una quotidianità che è poi anche quella professionale degli shooting, in cui il fotografo esegue centinaia di scatti, che poi scandaglia con meticolosità ossessiva, per selezionare solo quelli che corrispondono al suo sguardo personale. La fotografia di Emanuele Ferrari si esplicita in due tempi. Il primo è quello della bulimica cattura delle immagini, che richiede attenzione, ma anche intuito, rapidità, prontezza di riflessi. Il secondo è quello della scelta, del vaglio analitico delle immagini, momento apicale nella definizione del suo stile, che scarta tutto ciò che è convenzionale, per portare alla luce nuovi aspetti della bellezza femminile. In questo, il fotografo milanese sembra ereditare, pur modificandola, la lezione di grandi maestri come Harry Peccinotti, Richard Kern o Terry Richardson, che hanno scardinato le regole della fotografia erotica, immergendola nella dimensione ordinaria del quotidiano. 

Emanuele Ferrari, Pois

Emanuele Ferrari non si considera un fotografo erotico, forse perché racconta il corpo femminile attraverso una serie di elisioni, cesure ed esclusioni di dettagli espressivi come il volto e gli occhi delle ragazze che fotografa, che rischierebbero di definire e circoscrivere l’identità del soggetto, lasciando poco spazio all’immaginazione di chi guarda. Nascono così alcune delle opere recentemente acquisite dalla collezione Poseidon Dao, come Breath and SkinHide and SeekLoosing Something, Wet Town e My Own Way, dove l’assenza, la sottrazione o il parziale occultamento del volto delle modelle forza lo sguardo dell’osservatore a concentrarsi sulla potenza espressiva del corpo, che diventa, così, una forma variamente leggibile, non più vincolata a una particolare identità fisiognomica e, quindi, aperta a diverse interpretazioni. 

Ferrari ha scritto, quasi programmaticamente, una massima che chiarisce perfettamente il senso della sua ricerca fotografica: “Showing is boring… hiding is sexy”. Vale a dire che la bellezza e la seduzione si trovano più in quel che si omette che in quel che si mostra di un’immagine. Scatti come PoisRoom o Berlin Morning funzionano, infatti, come dispositivi che attivano l’immaginazione e che suscitano inaspettati palpiti nel cuore dell’osservatore. Perché è vero, come recita un vecchio detto, che “la malizia – ma anche la bellezza, secondo Oscar Wilde – sta tutta negli occhi di chi guarda”. 

Emanuele Ferrari, Super Bowl

Le foto di Ferrari, infatti, “seducono” in senso etimologico. Il verbo “sedurre” viene dal latino “seducere”, che significa appunto “tirare in disparte”, “separare”, “condurre via”. E con la sua ricerca Ferrari ci conduce via soprattutto dalla banalità della comunicazione visiva, fuori dall’inquinamento semiotico che affolla ogni angolo delle nostre città, traendoci idealmente in disparte, in un luogo in cui è ancora possibile guardare un’immagine, senza sentirsi visivamente aggrediti. 

Emanuele Ferrari, Room 303

Crypto Art


[1] Valentina Tanni, Memestetica. Il settembre eterno dell’arte, 2021, Nero edizioni, Roma, pp. 42-43.