«L’aurea luce dell’essere soprasostanziale, circondando i profili futuri, li manifesta e dà la possibilità al nulla astratto di passare a un nulla concreto, di diventare potenza»[1]. (Pavel Florenskij)
Brebus, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
“John Cage dice che non sapere da dove cominciare è una forma comune di paralisi. Il suo consiglio: cominciare da qualsiasi parte”. Lo scrive il designer canadese Bruce Mau nel suo celebre Manifesto incompleto per la crescita[2], un breve vademecum in 43 punti per creativi e progettisti pubblicato nel 1998. In effetti, è noto che John Cage si serviva di tecniche aleatorie e casuali per eliminare ogni aspetto soggettivo nella composizione delle sue opere. Ad esempio, usò l’I Ching – l’antico libro cinese dei mutamenti, una specie di compendio della saggezza taoista nella forma di profetici esagrammi – per creare nel 1951 l’opera per pianoforte Music of Changes. Prima di lui, i surrealisti avevano esplorato lo stesso principio con le pratiche dell’automatismo psichico e dei cadaveri eccellenti[3], che servivano ad aggirare la sorveglianza del pensiero logico e a far emergere le associazioni dell’inconscio. “Viviamo ancora sotto il regno della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo arrivare”, scriveva, infatti, André Breton nel Manifesto surrealista del 1924, “ma ai giorni nostri, i procedimenti logici non si applicano più se non alla soluzione di problemi di interesse secondario”.
Wellspring, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
Un’eco della riflessione di Breton si può trovare anche nell’attitudine di Paolo Pibi a superare la tradizionale formula della creazione pittorica. Quella, cioè, che traduce l’idea iniziale in una serie di studi e bozzetti preparatori, passa poi allo studio delle luci e dei colori e giunge, infine, all’esecuzione del dipinto. Una metodologia standard che, secondo l’artista, non porta nessuna novità all’interno della prassi pittorica.
Ascend, 2025 , acrilico su tavola, 70×50 cm
“Chi dipinge ragionevolmente”, afferma, infatti, Pibi, “non fa altro che eseguire un compito [perché] la ragione ci guida in strade già battute”[4]. A differenza dei surrealisti, da cui spesso prende le distanze, Pibi non è interessato all’elemento inconsapevole o subcosciente dell’automatismo psichico. Al contrario, rinunciando al classico iter creativo, che include la ricerca di fonti iconografiche e modelli a cui ispirarsi, prova invece a capire in che modo nascono le idee, come diventano immagini e, soprattutto, come possono essere tradotte in una pittura esatta, fedele all’originaria forma epifanica.
Moonlit Depths, 2025, acrilico su tela, 30×20 cm
Un’epifania è, in senso più ampio, un’apparizione, una forma che viene alla luce. Nel caso di Pibi è un’immagine che si coagula nella coscienza prima che l’artista la dipinga su tela. In molti hanno scritto che la sua è una pittura meditativa, ma è una definizione piuttosto generica. Infatti, molti artisti considerano la pratica pittorica come una forma di meditazione. Nel suo caso, questa propensione si manifesta nella forma di un’inconsueta capacità di concentrazione, o meglio di una particolare ricettività nei confronti delle forme che si producono nella mente e che affiorano alla coscienza vigile. Per lui “non sapere da dove cominciare” – come scrive Bruce Mau -, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per dipingere. Bisogna, infatti, fare a meno di qualsiasi elemento possa influenzare la creazione, come il ricorso a foto, disegni o altro che non provenga direttamente dall’occhio interiore dell’artista.
Layers, 2025, acrilico su tavola, 50×70 cm
Pibi non parte da un’idea, ma trova le immagini in itinere. Il paesaggio, che è un tema iconografico ricorrente nel suo lavoro, ha a che fare con questa prassi. L’artista comincia, quasi sempre, col dipingere la volta celeste, una campitura uniforme che, solo in seguito, si riempie di presenze: l’ingombro delle nubi (Thershold, 2025), la scia luminosa delle stelle cadenti (Brebus, 2025), una processione di lune aliene (Moonlit Dephts, 2025), le maglie di una matrice reticolare (Fisherman Cottage, 2025), perfino un pattern che sembra uscito da una tela di Peter Schuyff (Anchor Point, 2025). Dal cielo l’attenzione si sposta alla conformazione del paesaggio, come in un graduale discendere verso uno stato di maggiore concentrazione. E allora affiorano le montagne, i boschi, i prati e i pianori rocciosi.
Source, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
Giunto alla definizione del primo piano, lo stato di raccoglimento è massimo, la contemplazione ha raggiunto la sua acme. Affiorano, quindi, le immagini più inaspettate: una teoria di pneumatiche pepite d’oro (Sacrae Symphoniae, 2025), una figura femminile smaterializzata, come un aggregato di particelle dipinto da un pittore puntinista (Liminal, 2025); un pozzo freatico illuminato nel recesso di una caverna (Wellspring, 2025); un vecchio fontanile sbrecciato col murale sbiadito di una Madonna (Source, 2025); infine una natura morta psichedelica, con fiori e steli iridescenti (Luminary 1, 2025) e una vanitas con fiammelle fluttuanti come spettrali fuochi fatui (Luminary 2, 2025).
Luminary 1, 2025 , acrilico su tavola, 30×25 cm
Sono effigi improvvise, figure fuori contesto che trasformano i quadri di Pibi in sogni lucidi, fatti di panorami minuziosamente descritti, oggetti fedelmente cesellati, ineccepibili morfologie che la perizia dell’artista rende credibili, quasi reali. Tutto ciò che nella sua pittura può sembrare soggettivo, capriccioso, arbitrario è, invece, il risultato di una fedele restituzione delle visioni interiori, il frutto di una zelante acribia nel tradurre in termini ottici la natura di quelle apparizioni.
Thershold, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
Semmai, quel che è personale, perfino stravagante, è il suo approccio ai materiali e un certo suo modo di “confezionare” i dipinti che guarda alle esperienze estetiche del design. Dipinti come Saint Denise (2025), Brebus, Sacrae Symphoniae e Thershold, ad esempio, testimoniano un certo gusto per l’impaginazione grafica. Sono, infatti, tutti dipinti di piccole dimensioni dove i soggetti iconografici dei tondi sono inscritti in superfici quadrate monocromatiche, che recano agli angoli le lettere del cognome dell’artista (P, I, B, I). Fanno da cornici a questi dipinti, come pure alle tele rettangolari Moonlit Dephts e Fisherman Cottage, degli spessi elastici colorati. Invece, a far da perimetro all’opera Anchor Point è una lunga cinghia di fissaggio, simile a quelle usate per assicurare i carichi durante un trasporto.
Super, 2025, acrilico su tavola, 70×23 cm
La tavola ovale su cui è dipinto Super (2025), un paesaggio artico con tanto di foro circolare e segnalatore per la pesca su ghiaccio, è addirittura inserita nel piatto di una racchetta da tennis, al posto delle corde. L’interazione tra la tavola e il supporto dà origine a più di una suggestione. Così, mentre la griglia ortogonale delle corde sembra essere migrata nel dipinto, dove assume le sembianze dell’iridato reticolo stagliato sulla calotta boreale, la racchetta che fa da cornice al quadro evoca, come un ritratto in absentia, la forma delle ciaspole usate dagli eschimesi per camminare sulla neve.
Fisherman Cottage, 2025, acrilico su tela, 30×20 cm
A parte le concessioni a quella che si potrebbe definire come una specie di estetica orientata all’oggetto, la pittura di Pibi non subisce altre distrazioni. Si concentra, piuttosto, sulla creazione di un immaginario che mira a raggiungere un alto grado di realtà. E reali, in un certo senso, le immagini che si formano durante il processo pratico e contemplativo di Pibi, lo sono davvero. Soprattutto perché scaturiscono da una percezione attenta, da una condizione di sorveglianza e discernimento dei recessi mentali. Vale a dire da una disposizione d’animo radicalmente diversa da quella che caratterizza la cosiddetta arte medianica dei sensitivi.
Sacrae Synfonie, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
Se, come afferma l’esperta Paola Giovetti, “nel capriccioso e bizzarro mondo del paranormale ci imbattiamo in fenomeni sconcertanti, in produzioni artistiche che sgorgano senza la partecipazione cosciente dell’autore […]”[5], nel caso di Pibi l’arte è il prodotto di un’attività lucida, letteralmente chiaroveggente, dalla quale zampillano piccoli universi plausibili, mondi minimi distillati in uno spazio stringato e conciso, ad altissima densità immaginativa.
Luminary 2, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
[1] Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di Elémire Zolla, 1977, Adelphi Edizioni, Milano, p.157.
[3] Il Cadavre exquis, o “cadavere squisito”, è un gioco collettivo di scrittura o disegno su carta, nel quale più partecipanti contribuiscono alla creazione di un testo o di un’immagine senza conoscere ciò che gli altri hanno realizzato prima di loro.
[4]Intervista di Ilaria Introzzi, Nouvelle Factory, 2020, in Paolo Pibi. Luminarium, a cura di Chiara Manca, catalogo della mostra omonima, 19 gennaio – 10 febbraio 2023, Fondazione Bartoli-Felter, Cagliari.
[5] Paola Giovetti, Arte medianica. Pitture e disegni dei sensitivi, 1982, Edizioni Mediterranee, Roma, p.16.
Nicola Caredda, Sauvage, 2024, acrilico su tela, 120×100 cm
La pittura in Italia è tornata d’attualità. Lo testimoniano le numerose mostre ad essa dedicate nelle gallerie d’arte e le recenti rassegne istituzionali che, però, puntano più sulla quantità che sulla qualità. Si mappano le nuove generazioni, si cercano legami con le tradizioni immediatamente precedenti, si tenta, un po’ a fatica per la verità, di individuare temi e iconografie ricorrenti, ma la pittura è un’arte difficile. “Il terribile problema della pittura (l’arte più difficile che ci sia)”, scriveva Giorgio De Chirico, “non si risolve a chiacchiere e facilonerie”[1]. Il magistero della pittura richiede sacrificio e duro lavoro, perciò un buon criterio di selezione dei pittori odierni non dovrebbe basarsi unicamente su presupposti anagrafici, ma qualitativi.
Silvia Paci, La Maga Armida, 2023, olio su tela, 136×205 cm
Già, ma come si definisce la qualità in pittura? E soprattutto chi può definirla? “Viviamo in un paese in cui ciascuno crede di sapere qualcosa di pittura, e quindi di poter dire la sua”, o almeno così la pensava Federico Zeri, secondo cui “è frequentissimo che, qui da noi, si parli di opere d’arte senza un’adeguata preparazione, senza cioè avere educato l’occhio alla lettura del fatto figurativo”[2]. Se a questo si aggiunge la favorevole congiuntura che ha riportato la pittura alla ribalta delle cronache e che, inevitabilmente, ha prodotto nuove schiere di accoliti – non solo tra gli artisti più giovani, ma perfino tra i galleristi (improvvisamente fulminati sulla via di Damasco) e tra i curatori à la page (che giurano di essere, fin dalla prima ora, strenui difensori di questa pratica secolare) – riuscire a compiere una selezione, a separare, come si dice, il grano dal loglio, diventa un’impresa davvero difficile. Ma se a farlo è una galleria come quella di Antonio Colombo, che dal 1998, anno della sua fondazione, ha ospitato le mostre dei migliori pittori italiani, e un curatore, come il sottoscritto, che non ha mai fatto mistero della sua marcata predilezione per quadri e pittori, potrebbe venirne fuori qualcosa di buono.
Paolo Pibi, Die inneren augen, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Sotto il magniloquente titolo di Pittori d’Italia e l’ironico sottotitolo Giovani, giovanissimi… anzi maturi – tributo all’arguzia di Ennio Flaiano e al celebre paradosso (Certo, certissimo… anzi probabile) con cui lo scrittore e giornalista abruzzese evidenziava il labile confine tra il vero e il falso – abbiamo riunito dodici giovani e meno giovani pittori italiani in un compendio minimo. Una mostra che non vuole essere la versione tridimensionale di un atlante, di un almanacco o di un regesto ambizioso della nuova pittura del Belpaese, ma semmai un laicissimo Libro d’Ore, con dodici artisti che più diversi non si può, a incarnare la devozione verso il più antico dei linguaggi visivi.
El Gato Chimney, Street Madness, 2023, gouache e acquerello su carta cotone, 70×50 cm
Sono artisti che provengono da varie regioni d’Italia, alcuni dei quali hanno vissuto o vivono ancora all’estero, a dimostrazione che se un genoma italico della pittura esiste, non può che essere spurio, contaminato, ibrido. Nessun genius loci e tantomeno nessuna definizione di una presunta “pittura sovranista” (come qualcuno ha tentato di fare) può descrivere le complesse circostanze che hanno contribuito alla loro formazione. Per fortuna, nessun pittore la cui arte sia intimamente italiana ha mai dovuto esibire un certificato di cittadinanza. Si ricorderà che Giorgio De Chirico dipingeva le sue “Piazze d’Italia” dalle sponde della Senna, senza per questo essere meno italiano, lui che in Italia non ci era nemmeno nato.
Melania Toma, Luna-Creature, 2023, pigmenti, carboncino, fibre di lana e olio su tela, 180×150 cm
108 (Guido Bisagni), Nicola Caredda, El Gato Chimney, Jacopo Ginanneschi, Agnese Guido, Dario Maglionico, Fulvia Mendini, Riccardo Nannini, Silvia Negrini, Silvia Paci, Paolo Pibi e Melania Toma sono artisti di generazioni differenti – nati tra il 1966 e il 1996 -, ognuno dei quali rappresenta un approccio, un linguaggio o uno stile singolare nell’ampio spettro espressivo della pittura. Trovare sintonie, concordanze, corrispondenze nelle opere di questi artisti richiede un complicato lavoro di cucitura, insomma un tentativo, per niente facile, di individuare affinità e analogie che aiutino a tessere un ordito leggibile o almeno probabile degli umori della pittura italiana.
Prima di cominciare, si tenga a mente che – come ricordava lo storico dell’arte francese Henri Focillon – Leon Battista Alberti considerava la pittura una realtà magica o, meglio, “un meccanismo ragionato con una parte di mistero”. Pensava, inoltre, che lo sguardo del pittore fosse privilegiato perché “come il filosofo, meglio del filosofo, il pittore costruisce un mondo”[3].
Agnese Guido, Learning, 2021, ceramica smaltata, 34x21x1 cm
Questo è evidente nell’opera di Melania Toma, basata sull’interpolazione tra pittura, scultura e arte tessile. Nei suoi dipinti astratti, le forme si coagulano in maniera ambigua e sfuggente, riflettendo l’idea di possibili ibridazioni tra l’organico e l’inorganico, l’umano e l’inumano. È il suo modo di costruire un mondo che scarta l’eredità delle politiche coloniali e azzera, nell’ottica di una nuova ecologia, ogni gerarchia tra gli enti, abolendo la distinzione tra soggetto e oggetto e tra individuo e collettività. L’artista interpreta i propri quadri, simili a feticci e realizzati con pittura a olio, carboncino, pigmenti naturali e fibre tessili, come dei dispositivi per guarire identità ferite e frammentate.
Melania Toma, Danza-Creature, 2023, pigmenti, carboncino e olio su tela, 80×80 cm
La pittura di 108 è, invece, concepita come una specie di autoritratto in divenire, che con le sue forme morbide e scorrevoli traduce nel linguaggio astratto la natura inquieta e mutevole dell’identità. Le sue figure fluide, plasmate in una palette di toni scuri interrotti da rari inserti geometrici colorati, formano diagrammi di flussi di coscienza, schemi misteriosi in precario equilibrio tra ordine e caos.
108, After the rain 2, 2023, tecnica mista su tela, 80×60 cm
Astratta, nonostante gli esiti figurativi, è la procedura pittorica di Paolo Pibi, che trasla in immagini idee e vagheggiamenti mentali, senza peraltro servirsi di alcun supporto iconografico (fotografie, disegni o altro). Il risultato è inevitabilmente somigliante a un’allucinazione ad occhi aperti, qualcosa di surreale e, allo stesso tempo, estremamente dettagliato, costruito con l’acribia di un miniaturista capace di rendere verosimile e plausibile un’illusione o una fantasticheria.
Paolo Pibi, Le lune e il falò, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Un mondo fantastico, di pura invenzione è anche quello meticolosamente dipinto da El Gato Chimney, che trasfigura in forme simboliche di uccelli e altre creature zoomorfe motivi psicologici, ma anche concetti ricavati dal folclore e dalle tradizioni esoteriche e alchemiche. Il conflitto tra i desideri dell’individuo e le convenzioni sociali, come pure quello tra materia e spirito sono sovente rappresentati con l’immagine di un animale avvolto e quasi avvinto da filamenti e fibre da cui tenta di liberarsi, mentre il tema della parata di Yōkai, mostri e fantasmi della mitologia giapponese mirabilmente dipinti sulle pagine di una Moleskine, è invece un’allegoria dell’irrompere dell’irrazionale nella dimensione quotidiana.
El Gato Chimney, That place inside you, 2024, gouache e acquerello su carta cotone, 153×100 cm
Ispirata alle fiabe e ai racconti popolari, la pittura di Silvia Paci ha un impianto fortemente narrativo, tutto giocato sull’alternanza di registri drammatici e umoristici e sulla mescolanza di iconografie sacre e profane. Per costruire le sue visioni, popolate di personaggi in preda a una febbrile agitazione, l’artista usa un linguaggio espressionistico, connotato da una gamma cromatica ridotta e riconoscibile. Talvolta, l’artista introduce all’interno delle sue tele, l’immagine di oggetti da lei stessa creati, come bambole di pezza e curiosi copricapi, che intensificano la straniante sensazione di assistere a un misterioso rituale o a una sorta di possessione collettiva.
Silvia Paci, Il martirio di S.Eutropio, 2023, olio su tela, 170×150 cm
I dipinti di Agnese Guido hanno sempre un’atmosfera surreale, risultato di un particolare modo di interpretare la realtà ordinaria che indaga soprattutto gli aspetti più curiosi, poetici, buffi o imprevisti. Il carattere sognante delle immagini, la sospensione tra incanto e stupefazione e la tendenza ad animare oggetti o paesaggi inanimati, sono elementi caratteristici di tutta la sua pittura, che dialoga tanto con la tradizione simbolista ed espressionista, quanto con la cultura popolare dei fumetti e dei cartoni animati.
Agnese Guido, Allegoria del relax, 2023, olio su lino, 192x145cm
Riccardo Nannini usa una grammatica pop e surreale, in parte derivata dai fumetti, per dipingere tele in cui i simboli del consumismo odierno compaiono, come un’interferenza, all’interno di narrazioni oniriche e fantastiche. Nei suoi lavori più recenti, l’artista riflette sul rapporto tra singolo e collettività, rappresentando piccoli gruppi di individui distribuiti in un arcipelago di minuti isolotti. L’atmosfera feriale di queste Isole felici non riesce a occultare, però, il senso di solitudine che serpeggia nella calca di personaggi impegnati in attività ludiche o di svago. La presenza sporadica di alieni dalla pelle verde allude, inoltre, al tema diversità, sia essa sociale, culturale o sessuale.
Nannini Riccardo, El Reencuentro, 2023, acrilico su tela, 114×195 cm
Sintetico, piatto, ma elegantissimo è l’alfabeto visivo di Fulvia Mendini, che nei suoi dipinti compie una concisa schematizzazione formale. Il limpido tratto lineare, la ricercata bidimensionalità e i raffinati accostamenti cromatici sono segni distintivi di una maniera pittorica che l’artista declina in una gamma di ritratti ieratici e di succinte nature morte, dove all’impianto geometrico si affianca il gusto per la descrizione di dettagli come gioielli, decori e ornamenti che impreziosiscono le sue composizioni.
Fulvia Mendini, Luce, 2024, acrilico su tela, 60×50 cm
Di stretta osservanza cartesiana è la pittura di Silvia Negrini, dominata dal lucidus ordo della geometria, arma logica e calcolata che l’artista applica a un’economia di gesti minimi con i quali si propone di cogliere l’essenza imperturbabile delle cose. Così, ad esempio, riduce in efficaci diagrammi le morfologie dei paesaggi o tramuta in poligoni le architetture e gli oggetti, riuscendo a produrre immagini semplici e perfettamente leggibili. La sua grammatica formale, fatta di contorni netti e tinte piatte, può essere interpretata come un adattamento dei principi del Modernismo alle mutate esigenze espressive della pittura concettuale contemporanea.
Silvia Negrini, Land, 2020, smalto su tavola, 30X40 cm
Di segno opposto è, invece, l’attitudine di Nicola Caredda, che dipinge meticolose visioni di un futuro distopico, somigliante a una grande e desolata periferia urbana. L’artista attinge alla memoria di posti visti in passato, scorci di luoghi e angoli di città ricombinati in un paesaggio inventato ma plausibile, che mostra i resti di un mondo trascorso attraverso detriti e rifiuti della civiltà consumistica. Sono visioni notturne di spazi disabitati, disseminati di indizi e segni che rimandano alla cultura italiana, e che compendiano atmosfere e stati d’animo vissuti dall’artista in immagini di perturbante bellezza, che suscitano un immediato piacere retinico.
Nicola Caredda, (call me baby!), 2024, acrilico su tela, 50×40 cm
Dalla memoria di luoghi e persone reali ha origine il processo creativo di Dario Maglionico, che ricostruisce i ricordi, inevitabilmente alterandoli con l’ausilio dei programmi di modellazione 3D e della fotogrammetria, usati come strumenti per generare immagini che servono allo studio compositivo dei suoi soggetti. La pittura è, dunque, la fase finale di un iter operativo che si conclude con le Reificazioni, un ciclo di dipinti in continua evoluzione che rappresentano uno studio sulla percezione dello spazio e del tempo. Nelle sue opere, i personaggi compaiono simultaneamente in diversi punti dello spazio, come forme fantasma persistenti, che marcano i luoghi lasciando una sorta di residuo esperienziale.
Dario Maglionico, Reificazione #91, 2024, olio su tela, 140 x 90 cm
L’arte di Jacopo Ginanneschi nasce da un’attenta osservazione della Natura e dal recupero dei valori tecnici e compositivi degli antichi maestri, da cui deriva anche l’idea di un’adesione verso l’essenza, più che l’apparenza, delle cose. Nei suoi olii su tavola, infatti, si possono notare alcune piccole incongruenze, discrepanze generate dall’adozione della prospettiva multipla o dal fatto che le immagini sono sovente costruite combinando visioni di luoghi diversi. Il risultato è una pittura insieme realistica e straniata, veridica e surreale, che coglie l’incanto nelle forme fenomeniche e la magia nel quotidiano.
Jacopo Ginanneschi, Sant’Antonio Abate trova il rifugio di San Paolo Eremita, olio su tavola, 90×90 cm, 2024
[1] Giorgio De Chirico, Impressionismo, in Giorgio De Chirico, Isabella Far, Commedia dell’arte moderna, a cura di Jole de Sanna, 2002, Abscondita, Milano, p. 51.
[2] Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, a cura di Ludovica Ripa di Meana, 1999, Neri Pozza, Milano, p. 7.
[3] Henri Focillon, Piero della Francesca, trad. italiana di Fabrizia Lanza Pietromarchi, Abscondita, Milano, p. 38.
Sopravvivenze metafisiche nella pittura italiana contemporanea.
di Ivan Quaroni
“Torino è la città più profonda, la più enigmatica, la più inquietante, non solo d’Italia ma di tutto il mondo.” (Giorgio De Chirico)
Stimmung del pomeriggio d’autunno
Il breve soggiorno torinese del maestro della Metafisica rimanda, idealmente, a quello dell’ultimo Friedrich Nietzsche, che nel capoluogo sabaudo, prima di impazzire, scrive il suo celebre Ecce Homo. In de Chirico le impressioni generate dalla permanenza torinese si sovrappongono, infatti, a quelle del filosofo tedesco, che di Torino notava la “meravigliosa limpidezza”, i “colori d’autunno” e che, con viva sensibilità, avvertiva “uno squisito senso di benessere diffuso su tutte le cose”. Parole simili echeggiano nella prosa di de Chirico, quando afferma che “La vera stagione di Torino, il cui fascino metafisico appare al meglio, è l’autunno”.[1]
L’autunno che Torino mi ha rivelato è felice, certo non di una felicità squillante e variopinta. È qualcosa di vasto, allo stesso tempo vicino e lontano, una grande serenità, una grande purezza prossima alla gioia che prova il convalescente alla fine di una lunga e penosa malattia. […] Per conto mio sono portato a credere che questa armonia, così squisita da diventare quasi insostenibile, non sia stata estranea alla follia di Nietzsche”.[2]
Torino ispira i quadri di de Chirico nel periodo tra il 1912 e il 1915. In particolare, l’artista rimane affascinato dalle grandi piazze, dalle simmetrie dei portici, dai colonnati e dalle statue, elementi che confluiranno nel suo vocabolario pittorico, insieme a quella particolare atmosfera, a “quella Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso”[3].
Nei dipinti di de Chirico non troviamo solo la trascrizione di quel sentimento, di quell’impressione, ma qualcosa di più profondo. La Stimmung – termine tedesco che si può tradurre con la parola “atmosfera” – non è uno stato d’animo umorale, come ad esempio il mood anglosassone, ma è una disposizione d’animo che si estende allo spazio, quasi una tonalità affettiva che coinvolge il luogo e il paesaggio, tracciando una sorta di linea d’ombra tra il visibile e l’invisibile.
A Parigi, dove giunge da Torino nel 1912, de Chirico espone al Salon d’Automne alcuni di quei quadri in cui insegue quel misterioso sentimento che aveva scoperto nei libri di Nietzsche, quella malinconia dei pomeriggi autunnali delle città italiane, da cui maturerà l’idea di una pittura capace di vedere “oltre i muri”.
“La rivelazione, il principio nuovo [dell’arte di de Chirico]”, scrive Riccardo Dottori, “riguarda una realtà che non è il semplice esistente, quella del Verismo, la realtà immediata ‘così come ci appare’ e che dobbiamo riprodurre, ma una realtà altra da ciò che vediamo e che dobbiamo rappresentare […]”[4]. “Un quadro”, afferma de Chirico, “ci si rivela senza che noi vediamo nulla e addirittura senza che pensiamo a nulla e può anche essere che la vista di qualcosa ci riveli un quadro ma in questo caso il quadro non sarà una riproduzione fedele di ciò che ha determinato la sua rivelazione ma gli rassomiglierà vagamente come il viso di una persona che vediamo in sogno […]”[5].
La rivelazione è dunque un atto divinatorio, oracolare, basato sull’intuizione di nuovi modi di vedere la realtà in cui le sensazioni visive sollecitano non solo l’occhio, ma anche la mente. Sono idee che de Chirico ricava dall’estetica e dalla metafisica di Schopenhauer – nella traduzione francese di August Dietrich (Métaphysique et Esthétique, Parigi, 1909) – e da La nascita della tragedia greca di Nietzsche. Nell’esperienza della rivelazione, che l’artista definisce come “metodo nietzschiano”, non è l’occhio a vedere, ma lo spirito attivo. La pittura metafisica diventa, così, un’attività simile alla mantica e al vaticinio.
Nelle “Piazze d’Italia”, il carattere enigmatico della rivelazione è reso, pittoricamente, creando uno stato di sospensione e di serena malinconia. Gli scorci prospettici dei portici che inquadrano l’immagine dirigono l’occhio verso una linea d’orizzonte su cui si stagliano gli sbuffi di vapore delle locomotive, segnali di una ricercata crasi tra il tempo eterno e circolare della classicità e il tempo presente e progressivo della modernità, rappresentato anche dalle ciminiere. “La città dechirichiana”, conferma Gioia Mori, “è disegnata con piazze ampie e portici, con scorci prospettici nitidi, e si arricchisce di edifici italiani, reali o dipinti, che vengono trasformati in moderne icone dello spaesamento”[6].
Neue Stimmung
Quale sia stata la portata della Metafisica nell’arte del secolo scorso è ben visibile non solo nella frangia belga del Surrealismo (René Magritte e Paul Delvaux), ma in molta pittura figurativa tra le due Guerre, dagli artisti che parteciparono all’esperienza di Valori Plastici al Novecento di Margherita Sarfatti, dalla Neue Sachlickeit al Realismo Magico italo-tedesco propugnato da Franz Roh e Massimo Bontempelli, fino alla remota esperienza del Precisionismo americano.
Quanto al valore iconico della Metafisica, basterà ricordare le opere di Andy Warhol che replicano le Muse Inquietanti e le Piazze d’Italia, considerate come parte del mito contemporaneo, alla stregua delle zuppe Campbell e dei ritratti di Marilyn Monroe. Addirittura, come rileva Gioia Mori, “la Metafisica è considerata da Warhol come matrice linguistica della Pop Art: la tecnica di agnizione e prelievo dal quotidiano e il nuovo statuto di elemento oracolare che de Chirico attribuiva a cose, spazi, ricordi, con il conseguente spostamento dal quotidiano alla sfera alta dell’arte, corrisponde al processo subito dagli oggetti raffigurati da Warhol, che dal consumo di massa vengono trasferiti in ambito colto”[7].
Oggi, a oltre un secolo dalla creazione dei primi dipinti metafisici, è lecito domandarsi in quali forme e sotto quali mascheramenti si nasconda l’eredità della Stimmung e come questo particolare stato d’animo filosofico sia potuto sopravvivere all’avvento della postmodernità, alle teorie di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e a quelle di Jean Baudrillaud sulla sparizione dell’arte.
La Stimmung dechirichiana s’inquadrava all’interno di un discorso sul valore metafisico delle immagini. Per il Pictor Optimusil termine Metafisica (derivante dal greco “ta meta ta physika”, che significa “ciò che segue dopo la fisica.”) non designava ciò che esiste oltre l’apparenza sensibile della realtà empirica, in un ipotetico universo invisibile, ma l’enigma e il mistero delle cose stesse, degli oggetti comuni e perfino banali.
“Ora io nella parola ‘metafisica’ non ci vedo nulla di tenebroso:”, scriveva de Chirico nel 1919, “è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare ‘metafisica’ e tanto più metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità”[8].
Una Stimmung odierna, un’eventuale Neue Stimmung, difficilmente avrà le caratteristiche di quella originale. Per usare un’espressione popolare, “troppa acqua è passata sotto i ponti” e noi viviamo oggi in un mondo diverso, radicalmente distante da quello del primo anteguerra.
Tuttavia, tracce spurie o degradate di Stimmung sembrano sopravvivere nel frasario pittorico di alcuni artisti italiani, talora assumendo significati nuovi, in un ventaglio di accezioni che spaziano dal concettuale all’ironico, dal nostalgico al citazionista, dal magico al surreale.
Lichtung
Ilaria Del Monte imprime caratteri di precisione e vividezza plastica a un universo mentale che fonde l’ordinario con il fantastico, traducendolo, così, in un racconto d’impressionante coerenza visiva. Elemento centrale della sua costruzione è il concetto heideggeriano di Lichtung, traducibile con la parola “chiaroscuro”, ma in un’accezione che designa l’apparizione di un’entità, il suo venire alla luce da un’oscurità irriducibile. I dipinti di Del Monte sono, infatti, pervasi da atmosfere vespertine e autunnali, che avvolgono le sue misteriose rappresentazioni nella calda e malinconica luce crepuscolare della Stimmung dechirichiana.
Ilaria Del Monte, Still Life, 2020, olio su tela 80×55 cm
Luogo prediletto delle sue visioni, popolate di figure femminili, testimoni di bizzarre e magiche apparizioni, è la casa, che l’artista trasforma in uno spazio di transizione delle forme naturali, metaforico teatro di conflitti interiori. Nelle sue opere, l’interno borghese accoglie l’irruzione delle forze primigenie, come nel caso di Sopra il giardino (2020), dove il pavimento ligneo è sfondato da un’improvvisa fioritura di rose, o come nell’enigmatica epifania di un cervide in Still life (2020) o dei due giganteschi lepidotteri di Falene (2020). Altrove, la natura si fonde letteralmente con lo spazio claustrale della stanza, infrangendo i confini che separano l’ambiente domestico dal paesaggio circostante. Pesci rossi (2020), ad esempio, è una miniatura fantastica che mostra una fanciulla nuda su un divano, mentre immerge i piedi in uno stagno di ninfee in cui guizzano grandi carpe rosse.
Ciò che vi è di metafisico nei lavori di Ilaria Del Monte è la qualità arcana e misteriosa delle sue immagini, permeate di allusioni magiche e umori psicanalitici che l’artista condensa in forme cristalline, dalle volumetrie nitide e perfettamente leggibili.
Regesto
La pittura di Paolo De Biasi si configura come una forma di scrittura che indaga le possibilità espressive di una pratica millenaria, potenzialmente capace di produrre significati diversi rispetto a quelli di qualsiasi altra forma di narrazione lineare. Per lui “il quadro è uno spazio finito nel reale ma infinito nel possibile”[9], cioè un luogo di rivelazioni che la pittura può plasmare in immagini intellegibili. Un linguaggio che, nel suo caso, tradisce una formazione da architetto, sensibile alla costruzione dello spazio e della forma di oggetti con cui costruisce un personalissimo catalogo di memorie e visioni.
Paolo De Biasi, Padiglione, 2020, acrilico su tela, 100×70 cm
La ricerca di De Biasi – che egli intende come disciplina di verifica delle relazioni tra il “vedere” e il “pensare” – consiste nella creazione di uno spazio pittorico ideale, ma costellato di oggetti e forme riconoscibili e perfino di frammenti di opere del passato. L’elemento citazionistico della sua pittura, che include riferimenti alle antichità greche ed egizie (Daccapo, 2017) e schegge iconografiche di Giotto (Allorquando, 2018), Lorenzo Monaco e Leonardo (Sebbene lo fosse, 2019), è subordinato alla ripresa dei paradigmi fondanti dell’arte occidentale. Per De Biasi sono elementi di un alfabeto ricostruttivo che recupera i lemmi classici e moderni. In Dimora (2019) e in Padiglione (2020), ad esempio, la rappresentazione di strutture architettoniche di valore puramente segnaletico in un clima di metafisica sospensione, e peraltro simili a volti umani, è arricchita dall’inserzione di citazioni specifiche. Nel primo dipinto, all’interno dell’arco a tutto sesto compare la figura di Victorine Meurent, la celebre modella di Le Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet; mentre nel secondo, l’iscrizione dell’anno 1925 allude all’allestimento del Padiglione dell’Espirit Nouveau di Le Corbusier durante l’Exposition International des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi. De Biasi dimostra che la pratica pittorica è un regesto di forme ricorsive, eternamente ritornanti, che contribuiscono alla periodica rifondazione delle grammatiche visive.
Metapsycologie
Paolo Pibi usa il paesaggio come pretesto iconografico per una pittura che indaga i confini percettivi della realtà in termini di visone. Attraverso una grammatica retinica, ad alta definizione ottica, l’artista dipinge immagini ambigue, che suggeriscono l’idea di un landscape modificato, artefatto e, per certi versi, simile a un costrutto mentale. La sua riflessione sull’origine della visione è ispirata alla teoria della Metapsicologia di Freud. Per il padre della psicanalisi se esiste una Metafisica, cioè una dottrina filosofica che studia le cause prime della realtà, deve esistere una Metapsicologia che descriva le modalità di costruzione e funzionamento dei processi psichici. Pibi affronta il problema della formazione delle immagini e del loro delinearsi nel campo concreto della pratica pittorica attraverso un metodo erratico, esplorativo.
Paolo Pibi, Metapsychologie 2, 2020, acrilico su tela – 50×50 cm
L’artista, infatti, non progetta le immagini in anticipo, ma le trova, per così dire, “in corso d’opera”, usando il linguaggio come una disciplina cognitiva che gli consente di imparare qualcosa su se stesso e sul mondo. Ciò che scopre è che il mondo reale e quello virtuale della pittura sono entrambi il frutto di una proiezione mentale e psicologica. I dipinti dell’artista mostrano, infatti, una realtà che sottende, e insieme prescinde, la morfologia paesaggistica, rivelando la natura geometrica e dunque schematica e costruttiva dell’esperienza ottica. Ne sono un perfetto esempio Metapsycologie 1 (2020) e Metapsycologie 2, paesaggi classici, quasi arcadici, che rivelano la presenza di un’altra dimensione, una sorta di meta-realtà formativa che è poi il luogo stesso di elaborazione delle immagini. Ed è proprio attraverso questo vulnus interpretativo, questo trauma rivelatorio, che si dispiega la Stimming di Paolo Pibi, uno stato d’animo perturbante che ci obbliga a riconsiderare gli angusti limiti della nostra percezione sensibile.
Finis mundi
Nicola Caredda trasferisce l’atmosfera sospesa e rarefatta degli Enigmi di de Chirico in un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi, dipinti con la puntigliosa acribia di un miniaturista, mostrano gli amabili resti di una società trascorsa, di un mondo definitivamente tramontato, forse a causa della propria follia. Ciò che rimane, dopo la catastrofe nucleare e l’ecatombe ecologica, è un globo disabitato e silente, una natura morta di proporzioni planetarie, costellata di rovine industriali, architetture scheletriche e malinconici reperti della società dei consumi. Guardando alla Metafisica e al Realismo Magico, al Pop Surrealismo americano e al fumetto fantascientifico, l’artista costruisce un linguaggio che traghetta il gusto romantico per le rovine gotiche e la propensione per il mistero di tanta pittura simbolista nel vocabolario iconografico della modernità liquida. Le sue visioni notturne, con angoli di luna park in frantumi, residui di prefabbricati ed elettrodomestici abbandonati, sommersi da una vegetazione proliferante, testimoniano la fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene Stoemer, sono la causa principale delle modificazioni ambientali, strutturali e climatiche del nostro ecosistema.
Nicola Caredda, Untitlhell with icemed, 2020, acrilico su tela , 30x40cm
Nella Wasteland post-apocalittica di Caredda – un mondo disseminato di graffiti e codici linguistici e pubblicitari di una società estinta, dove la natura sommerge i ruderi del paesaggio antropico – i simulacri e le vestigia della civiltà occidentale assumono il valore di feticci neometafisici. Il racconto iconografico di Caredda illustra il disastro attraverso le immagini dell’archeologia ludica dei parchi di divertimento, archetipo allegorico (e ironico) di una civiltà irresponsabile, ma anche tramite la riduzione del paesaggio a un immenso drive-in desertificato, con le carcasse delle auto abbandonate e le cadenti strutture dei chioschi e delle biglietterie. Quella dipinta da Caredda, è la Stimmung di una tregenda, ultima e catartica proiezione oleografica della finis mundi.
Melancholia
Che la pittura di Ciro Palumbo sia stata influenzata dai giacimenti nostalgici e immaginifici di certo Novecento, attraverso i filtri del simbolismo svizzero di Böcklin e Klinger, è evidente soprattutto nella scelta di recuperare frammenti dell’armamentario iconografico metafisico. Infatti, nelle tele dell’artista torinese le tracce mnestiche di Savino e de Chirico entrano a far parte di un alfabeto pittorico in bilico tra Surrealismo e Rappel a l’ordre.
Ciro Palumbo, La casa magica, 2020, olio su tela, 40×50 cm
Quel che affiora prepotentemente dalla pittura di Palumbo, capillarmente irrorata da una rêverie di stampo classicista, è l’immaginazione mitopoietica, una potente spinta fantastica a creare nuovi miti e nuove narrazioni in cui affiorano, accanto a iconografie inedite, forme e figure d’immediata riconoscibilità. Una di queste è l’isola dei morti di böckliniana memoria, il massiccio scoglio di pietra, chiuso da svettanti cipressi, che Palumbo replica in miriadi di varianti, trasformandolo in un’allegoria mobile e fluttuante del bisogno di raccoglimento e contemplazione dell’uomo moderno. Una simbologia, questa, che richiama quella dell’hortus conclusus e che fa il paio con la metafora del viaggio, dell’attraversamento precario e instabile del mare magnum rappresentato da un piccolo natante che reca sulla prua l’immagine dipinta di un occhio, allusione alla missione visionaria e profetica dell’arte. L’universo di Palumbo, intriso di un’autunnale luce vespertina, include anche un altro topos dechirichiano, quello dell’interno metafisico, concepito come una scatola prospettica costellata di oggetti enigmatici e aperta, tramite una porta o una finestra, alla visione di un paesaggio esterno, una sorta di quadro nel quadro. In queste stanze silenti e malinconiche confluiscono, oltre alle suddette iconografie dell’isola (Interno magico, 2020) e del natante (Viaggio con la luna, 2020), anche quella pletora di giocattoli, ninnoli (La casa magica, 2020) e architetture miniaturizzate (E d’improvviso, 2020) che, pur costituendo un accorato tributo all’estetica di Savinio, s’inquadrano nell’originale linguaggio di Palumbo, capace di traslare i lemmi della pittura metafisica in una teoria di forme mobili e instabili, più adatte a rappresentare la fondamentale precarietà dei tempi attuali
Metastoria
Olinsky è il nome che adombra il progetto pittorico di Paolo Sandano, artista contemporaneo innamorato della storia, che affida le sue fantasie a un personaggio fittizio, un oscuro pittore, originario della Slavonia Occidentale che attraversa le vicende dell’arte del secolo scorso alla ricerca di un’improbabile illuminazione artistica a cavallo tra vecchio e nuovo continente.
Nella sua pittura parabolica, affetta da un compulsivo nomadismo tra i linguaggi classici e le grammatiche avanguardiste, Olinsky include il ricco immaginario visivo di Walt Disney, che considera il più grande artista del XX secolo. Tutta la sua produzione pittorica è, infatti, abitata da una figura di muride, personale stilizzazione del Topolino disneyano e, insieme, alter ego che incarna i sogni, le aspirazioni, ma anche le delusioni e i tracolli dell’artista (Il pittore fallito, 1933), e che riflette, per estensione, la condizione esistenziale dell’umanità tutta, protesa verso un futuro quanto mai incerto.
Olinsky, Felicità 1920, olio su tela, 80×60 cm
L’incontro di Olinsky con la Metafisica matura attraverso i giovanili approcci al genere arcadico (Eine Kleines Trumpet Konzert) e a quello romantico (Solo), in cui è lecito ravvisare i primi segnali di una predilezione per atmosfere incantate e stupefatte, talora venate di malinconia. Sarà, tuttavia nei dipinti della maturità, compresi tra gli anni Venti e Trenta, che Olinsky dimostrerà di aver assimilato i codici metafisici di Carlo Carrà (Felicità, 1920) e del giovane Mario Sironi (Un attimo prima, 1930), parafrasando, con la propria pittura, la lezione giottesca del primo e il malinconico incanto delle periferie urbane del secondo. Olinsky è il primo e forse il solo artista che sia riuscito a tradurre la Stimmung in un sentimento di tragicomica catarsi iconografica.
Metapop
L’esempio di Andy Warhol, che tradusse e rinnovò la pittura di de Chirico nel linguaggio della Pop art, dimostra come la Metafisica fosse già entrata a far parte dell’immaginario comune, esattamente come le più celebri icone dell’arte. La mostra Warhol versus de Chirico, allestita a Roma tra il 1982 e il 1983 alla sala degli Orazi e Curazi in Campidoglio, evidenziava, peraltro, come gli After de Chirico di Warhol, pur nella ripetizione differente della procedura serigrafica, mantenessero inalterate le atmosfere silenziose e rarefatte del Pictor Optimus, preservando il senso di straniamento e di sospensione delle sue Piazze d’Italia e il carattere misterioso ed enigmatico dei suoi manichini. Tra le opere di de Chirico revisionate in chiave pop dall’artista americano, c’è anche Ettore e Andromaca, dipinto cardine del periodo ferrarese che rappresenta, in chiave metafisica, l’episodio dell’Iliade relativo all’ultimo abbraccio tra Ettore e Andromaca, prima del fatale scontro dell’eroe troiano con Achille. Si tratta di un soggetto iconografico risalente al 1917, che de Chirico avrebbe ripreso in numerosissime varianti pittoriche e scultorie, ben prima della rilettura Warholiana.
Non stupisce, quindi, che un artista come Giuseppe Veneziano abbia rintracciato proprio in quest’opera il paradigma iconografico della fusione tra Metafisica e Pop Art, aggiungendovi il proprio personale contributo autoriale.
Giuseppe Veneziano, Actarus e Andromaca, 2020, acrilico su tela, 80×60
Actarus e Andromaca (2020) è un mash up iconografico ottenuto dalla fusione di due figure antitetiche, capaci di generare un cortocircuito tra passato e presente, tra storia dell’arte e cultura di massa. Nel tradizionale impianto iconografico dechirichiano, Veneziano non solo opera la sostituzione del manichino di Ettore con la figura di Actarus, popolare eroe della serie animata giapponese Atlas Ufo Robot, ma inscrive l’impalcatura iconografica dell’opera nel rigoroso e riconoscibilissimo registro cromatico della sua pittura. Una pittura che ha dimostrato, in più occasioni, di saper interpretare il presente attraverso immagini polisemiche, che dischiudono molteplici possibilità interpretative, e che, proprio per questo, hanno lo stesso carattere enigmatico e interrogativo dei feticci metafisici.
[1] Giorgio De Chirico, Scritti/1. Romanzi e scritti critici e teorici, a cura di Andrea Cortellessa, 2008, Milano, p. 1043.
[8] Giorgio De Chirico, Noi metafisici, articolo apparso in “Cronache d’attualità”, Roma, 15 febbraio 1919; ristampato in Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 66-71; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, pp. 270-276.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.