Studio del buio, BUKA #1, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Nella pittura di Dario Maglionico, parallelamente al ciclo delle Reificazioni, che rappresenta la parte più riconoscibile del suo linguaggio figurativo, è emerso, fin da subito, un interesse verso immagini che impongono una percezione più lenta e dilatata. Ha, infatti, eseguito, con una certa coerenza nel tempo, una serie di Studi del buio in cui tentava di indagare il modo in cui le forme si stagliano in uno spazio umbratile, quasi indistinto, caratterizzato da effetti luministici che sarebbe facile associare alle famose Pitture nere di Goya, ma che più precisamente ricordano certi dipinti scurissimi di Angelo Morbelli, uno su tutti Inverno nel Pio Albergo Trivulzio, un quadro del 1911 che fa pensare a certe tele monocrome di Jason Martin, tutte giocate sulle variazioni cangianti di nero prodotte dalla diversa incidenza della luce sulla spessa materia pittorica.
Studio del buio, Detune, 2025, oil on canvas, 40 x 30 cm
I nuovi Studi del buio sono, in un certo senso, diversi dai precedenti. Non è solo la dominanza di cromie inedite, come il rosso e il blu, prima assenti nei soggetti di questo ciclo, ma è soprattutto il cambiamento di paradigma iconografico. Sono dipinti che, come afferma l’artista, “nascono da immagini, impressioni, sensazioni e ricordi raccolti durante le serate trascorse nei club e nei centri sociali occupati di Milano in quest’ultimo anno”. La serie rappresenta persone accalcate in spazi chiusi e sale illuminate da violente scariche elettriche in gradazioni di cremisi e cobalto, ambienti che nella stesura pittorica sembrano trasmettere le pulsazioni ritmiche della musica techno.
Studio del buio, Balleremo, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Ad esempio, parole comeOtolab[1], Ivreatronic[2]o Detune[3], usate nei titoli dei quadri, suggeriscono un’origine legata al paesaggio della performance audiovisiva. Riferimenti che l’artista trasla in una grammatica dove il suono, il ritmo e la frequenza dei beat si traducono in immagini sfocate e cromaticamente sature. Lo Studio del buio diventa, così, una sorta di superficie fotosensibile, costruita come se fosse il risultato di una lunga esposizione, di una stratificazione di momenti ravvicinati che si addensano fino a generare una presenza instabile, fluida. Le immagini dipinte da Maglionico non sono soltanto la traduzione visiva di momenti del proprio vissuto, legati alla frequentazione di club e party notturni. Si può, piuttosto dire che per l’artista, come afferma Federico Ferrari, “non si tratta solo di fungere da registratore dell’evento […], ma di permettere questa effrazione del tempo che si concentra in un istante, conservando nello stesso gesto la memoria del passato e l’apertura della visione dell’avvenire (l’immagine come istantanea della storia).”[4]
Studio del buio, Otolab, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Le Blurred Frequencies a cui si riferisce il titolo della mostra non sono solo quelle della musica elettronica dove – spiega l’artista – “suoni, rumori, beat e loop si mescolano e si distorcono”, ma anche quelle di una pittura fuori fuoco, una sorta di fuzzy painting in cui forme, luci, colori collassano in visioni incerte e confuse. Allucinazioni che riflettono lo stato di trance collettiva e la sensazione di momentanea sospensione della continuità spazio-temporale. In questi nuovi Studi del buio le figure non esistono come entità isolate, ma come corpi inseriti in una fitta trama di relazioni, unità che si dissolvono in una massa corale, fluida, non gerarchica. La luce fioca e soffusa gioca un ruolo centrale, spingendo i volumi dei corpi in una dimensione incerta tra apparizione e sparizione, dove a brillare nitidamente sono solo le pulsantiere dei pannelli di controllo dei mixer, mentre tutto il resto è avvolto in una penombra da cui affiorano, come per un effetto stroboscopico, lampi d’immagini statiche.
Studio del buio, Ivreatronic, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Sono istantanee che l’artista sottrae al flusso instabile e sincopato dei ricordi, ma che impongono, proprio per la loro natura incerta, una fruizione più meditata. Perché, come giustamente nota Ferrari, “Ritrovare l’intervallo, la pausa, nel concatenarsi delle immagini è forse […] il primo gesto da compiere per riappropriarsi dello sguardo, rendendo giustizia alle immagini, rendendo alle immagini la loro capacità di essere giuste con il reale.”[5] Gli Studi del buio sono dunque questo: un modo per acuire lo sguardo dell’osservatore, intensificare la sua intelligenza visiva e permettergli, finalmente, di desincronizzarsi[6] dal tempo standard.
Studio del buio, Lobo #1, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
[1] Collettivo di artisti multimediali fondato a Milano nel 2001 e formato da musicisti, dj, videoartisti, videomaker, web designer, grafici, pittori e architetti impegnati in sperimentazioni a cavallo tra musica elettronica e arte digitale.
[2] Si tratta di un’etichetta discografica, ma anche di un collettivo di produttori, dj e musicisti fondato dal cantautore italiano Cosmo, che organizza eventi culturali dedicati alla musica elettronica.
[3] Il Detune è un club milanese dedicato alla musica live che ha preso posto dello storico Atomic Bar.
[4] Federico Ferrari, L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine, 2013, Johan & Levi editore, Milano, p. 35.
[6] Espressione usata dal designer canadese Bruce Mau nel suo famoso An Incomplete Manifesto for Growth, scritto nel 1998 e pubblicato sul numero di marzo/aprile 1999 di «I.D. Magazine».
Per secoli, la pittura ha avuto il compito di raccontare. Prima di diventare un’arte autonoma e una forma d’espressione solipsistica, prima che incominciassero le riflessioni sul bello e nascesse la disciplina estetica, l’immagine dipinta serviva a trasmettere una storia. Sia che riguardasse episodi sacri o leggende mitologiche, la funzione principale della pittura era quella di rendere visibile una narrazione e trasformare un evento in rappresentazione figurativa. Non si dipingeva per pura astrazione, ma con l’intento di creare una narrazione condivisa, riconoscibile, leggibile.
Silvia, Paci, Autoritratto con amiche, 2025
Da questa matrice discendono anche le opere di Agnese Guido e Silvia Paci, pittrici che recuperano il senso del racconto, declinandolo in chiave onirica, simbolica, ed evocativa. Le loro immagini si muovono, infatti, lungo la linea che collega la grande tradizione figurativa occidentale alla sensibilità contemporanea, attraverso due differenti modi di trasformare in figure pensieri ed esperienze personali. Quel che è certo è che nel loro lavoro, la pittura riesce a rappresentare in maniera istintiva e immediata vicende che richiederebbero una diversa e forse più complessa formulazione in altre forme di narrazione.
Agnese Guido, L’occhio dell’Occidente, 2025
Già nel Quattrocento, Leon Battista Alberti esortava i pittori a costruire istorie, composizioni capaci di coinvolgere emotivamente l’osservatore attraverso la dinamica delle azioni e l’intelligibilità dei sentimenti. Non è un caso che, ancora alla fine Cinquecento, Cesare Ripa provasse a codificare il significato delle immagini con la sua Iconologia, riconoscendo che dietro ogni figura, dietro ogni gesto, si nasconde un messaggio, un contenuto da decifrare. La pittura era, insomma, un linguaggio dotato di una propria struttura e grammatica, non meno articolato della scrittura, ma ben più efficace sul piano dell’immediatezza comunicativa.
Agnese Guido, Glory Tamed, 2025
Agnese Guido e Silvia Paci operano all’interno di una dimensione stratificata dell’immagine, caratterizzata dal ricorso a simboli, allegorie, trasfigurazioni o semplici associazioni visive che contribuiscono a strutturare un racconto più ampio. In un certo senso, la loro arte si avvicina allo spirito di Dino Buzzati. “Che dipinga o che scriva”, affermava il pittore e romanziere, “io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.” E, infatti, Storie dipinte[1], come le chiamava lui, sono anche quelle di Agnese Guido e Silvia Paci, che in modi diversi, ma complementari, restituiscono alla pittura il potere di evocare mondi, suggerire trame, rivelare attraverso l’apparente staticità dell’immagine le vertigini dell’esistenza interiore. Però, senza arrivare a quelle che, riferendosi allo scrittore bellunese, la critica definiva strategie iconotestuali, Guido e Paci concepiscono il dipinto come una trama possibile, una fabula che forza le buone regole del racconto, mescolando e confondendo le tradizionali unità aristoteliche di tempo, luogo e azione.
Silvia, Paci, Il domatore feroce, 2025
La vena narrativa di Agnese Guido nasce dalla trasfigurazione del quotidiano, da una capacità, insieme fantastica e sognante, di animare l’inanimato, trasformando oggetti, edifici e città in entità vive e senzienti. È un meccanismo che ricorre spesso nei cartoni animati e nei fumetti e che nel modo di dipingere dell’artista costituisce una sorta di seconda natura, una predisposizione a osservare la realtà da punti di vista inaspettati.
Agnese Guido, Camping of the Blind, 2025
L’artista riesce, infatti, a dare corpo e colore a una dimensione magica e vitale dell’esistenza che sarebbe altrimenti rubricata come mera fantasticheria o come semplice sogno ad occhi aperti. È un modo, il suo, che incanala nelle immagini dubbi e domande sul senso della vita, insomma una maniera di interrogare la realtà – e sé stessa – e provare a vedere le cose diversamente. È il genere di domande e di ipotesi che di solito si trova nei romanzi fantastici e nei racconti di fantascienza. Esiste perfino una serie di fumetti della Marvel che si chiama “What if…?”, dedicata alle ucronie e alle vicende dei supereroi ambientate in dimensioni parallele. Ma nel caso di Agnese Guido, l’elemento speculativo non riguarda mondi ulteriori o universi lontanissimi, ma la sfera più prosaica dell’esistenza, quel quotidiano su cui l’artista sovrascrive le proprie impressioni e considerazioni, concedendosi d’interpretare il mondo fenomenico attraverso un filtro fantastico che, però, non perde mai del tutto i contatti con la realtà.
Agnese Guido, Il troll, 2025
Con una pittura in cui convivono impulsi espressionistici e venature surrealiste, Guido illustra l’assurdità della commedia umana. Adotta un registro che spazia tra il lirico e l’ironico, tra il poetico e il farsesco, per squadernare ciò che è ordinario, ribaltando prospettive e rapporti di scala e sovvertendo ogni tipo di gerarchia, come accade, nei quadri grandi, da Camping of the Blind (2025) a L’occhio dell’Occidente (2025), fino a Piccola grande plastica (2025).
Agnese Guido, Autoritratto pensando ad un quadro, 2025
Nei suoi dipinti, infatti, figure umane e oggetti sono spesso sovradimensionati o miniaturizzati. Insomma, la loro statura non obbedisce alle leggi della fisica, ma alle esigenze del racconto. Tutto può diventare importante. Il banale può essere sublimato, come nel caso di Autoritratto pensando a un quadro (2025), dove il primo piano è occupato da un bidone dell’immondizia. Oppure, al contrario, le protagoniste di quadri come Glory Tamed (2025) e Will to Purify a Way to Die (2022), possono assumere dimensioni lillipuziane. Sono gli effetti di un relativismo pittorico che fa somigliare ogni scena a un giallo onirico, disseminato di falsi indizi e piste morte.
Agnese Guido, Comfortably in Danger, 2025
L’attitudine narrativa della pittura di Silvia Paci deriva dall’amore per la letteratura, la mitologia e il folclore. Leggende, storie popolari e racconti biblici costituiscono, infatti, il fondamento culturale e psicologico su cui l’artista costruisce il proprio immaginario simbolico, dove convergono memorie individuali e archetipi universali.
Silvia, Paci, Il paese della cuccagna, 2025
Quel che le favole e le esperienze reali hanno in comune è la fitta trama di menzogne, illusioni e falsità che trasformano le vicende più banali in avvincenti racconti del mistero. Silvia Paci cerca nel repertorio favolistico la matrice di frottole, fandonie e fantasie che condizionano l’esistenza umana. In un certo senso, i suoi dipinti sono atti psicomagici con i quali ritualizza in immagini fatti e circostanze del suo vissuto, proiettandoli all’interno di trame che sembrano uscite dalla penna di Carlo Collodi, dei Fratelli Grimm o diCharles Perrault. L’autoritratto dell’artista è un elemento ricorrente nei suoi dipinti, spesso costruiti come scene corali, affollate di personaggi come le tele del Seicento, dove verità e finzione si fondono senza soluzione di continuità.
Silvia, Paci, All My Friends Are Weird, 2025
Ad esempio, Il Paese della Cuccagna (2025) – riferimento a un archetipo narrativo presente in molti racconti, da Hans nel paese della Cuccagna dei Grimm al Paese dei Balocchi di Pinocchio, fino a Il Paese di Bengodi di Boccaccio –, come pure l’opera All my Friends Are Weird (2025), raffigurano i piaceri del gioco o del travestimento, introducendo il tema ricorrente della bugia, attorno a cui ruota tutta la recente produzione dell’artista. Maschere e feticci, infatti, compaiono in molte tele come simboli di simulazione o affettazione, ingredienti fondamentali di ogni pantomima. In particolare, i feticci sono bambole di pezza, oggetti fatti a mano dall’artista per essere inseriti nei quadri, accanto ai ritratti di amici e conoscenti.
Silvia, Paci, Giocolandia, 2025
Paci inventa anche bizzarre calzature dotate di zampe o artigli, come quelle che sostituiscono le tradizionali pantoufle de verre in Giocolandia (2025), dove l’artista interpreta appunto il ruolo di una novella Cenerentola. Bugie, panzane, fanfaluche sono concetti che affiorano in tutte le opere, assumendo ora l’aspetto di personaggi del romanzo di Collodi, dal famoso burattino (Trasformazione, 2025) al Gatto e la Volpe (Just Friends, 2025), da Mangiafuoco alla Fata turchina (Naso lungo, gambe corte, 2025), ora la fisionomia della pittrice stessa (Autoritratto, 2025) o dei suoi compagni d’avventura (Autoritratto con amiche, 2025).
Silvia, Paci, Naso lungo, gambe corte, 2025
Insomma, Agnese Guido e Silvia Paci restituiscono alla pittura uno scopo narrativo attraverso trasfigurazioni allegoriche e autobiografie mascherate. Le loro immagini possono essere interpretate come rappresentazioni dell’inconscio o come raffigurazioni mentali in cui convivono tracce e frammenti di storie potenziali. Storie a volte enigmatiche, ma dipinte con stile.
Silvia, Paci, Just Friends , 2025
[1]Storie dipinte, appunto, era il titolo della prima personale tenuta da Buzzati nel 1958 nella Galleria dei Re Magi a Milano e del relativo catalogo in 520 esemplari, stampato dai tipi dell’Officina d’Arte Grafica A. Luchini e C., ripubblicato nel 1977 dalle Edizioni del Libraio di Via S. Andrea Milano e poi nel 2013 da Mondadori in una nuova edizione curata da Lorenzo Viganò.
Nel limbo che separa la veglia dal sonno, quando la percezione si allenta e la realtà comincia a perdere i propri contorni, si entra in uno stato di coscienza ipnagogico, una condizione in cui possono manifestarsi apparizioni, allucinazioni, visioni alterate. È un momento in cui affiorano visioni brevi e intense, spesso isolate dal contesto, ma che si impongono chiaramente anche in assenza di una struttura narrativa. Lo scrive anche Pavel Florenskij, in un celebre saggio sull’icona, dove afferma che “al valico del sonno e della veglia, prima che si varchi l’intervallo tra i due territori, al confine dove si toccano, la nostra anima è circondata da visioni.[1]” Infatti, spiega il teologo, matematico e teorico dell’arte russo, “il sonno profondo, quello vero, in quanto tale, non si accompagna a visioni e soltanto lo stato metà sonno e metà veglia, appunto il confine tra sonno e veglia, è il tempo, o meglio il tempo-ambiente della scaturigine delle immagini oniriche.[2]”
Extra Brown Sugar, 2025, acrilico su tela, 50x40cm
Da questo “tempo-ambiente” derivano anche le visioni dipinte da Nicola Caredda, che traduce le immagini ipnagogiche in paesaggi mentali dove si accumulano i detriti industriali, urbanistici e culturali di una civiltà estinta. Le sue sono, infatti, vedute di scenari futuri, possibili conseguenze dell’attuale impatto antropico sull’ecosistema terrestre, oppure, semplicemente, posti desolati, periferie dell’anima in bilico tra i nonluoghidi Marc Augé e gli spazi liminali[3] della nuova estetica digitale. Sono territori di confine, zone marginali che funzionano come soglie d’ingresso a una realtà alternativa, bloccata in un eterno crepuscolo che illumina, con la sua luce serotina, oggetti, suppellettili e rovine del nostro presente. Il carattere metafisico di queste periferie disabitate è scandito dal nitore realistico delle immagini, dalle perfette volumetrie dei ruderi architettonici e dalle forme finemente cesellate dei residui della società dei consumi. Sono visioni che hanno la qualità dei sogni lucidi.
The Big Pineapple, 2025, acrilico su tela, 120x100cm
Nei quadri di Caredda, infatti, non ci sono deformazioni, distorsioni o travisamenti della realtà, ma nitide premonizioni di un tempo a venire che, in qualche modo, ci appare familiare, come se l’avessimo già vissuto. Nick Land, il controverso filosofo inglese, ex membro della CCRU, l’Unità di Ricerca di Cultura Cibernetica dell’Università di Warwick, ha chiamato questo tipo di fenomeno Iperstizione. Il concetto di hyperstition (iperstizione), derivato dalla crasi dei termini hype e superstition, è una narrazione che si autorealizza quando viene condivisa e interiorizzata da un gran numero di persone. La sua forza non risiede nella capacità di descrivere scenari distanti nel tempo, ma nel modo in cui condiziona la percezione del presente nella psicologia delle masse e attraverso fenomeni virali come la memetica. Come afferma Tommaso Guariento, esperto di Cultural Studies, “nella razionalità circolare della cibernetica, il futuro retroagisce sul passato e quindi, quando una narrazione si auto-realizza, quello che accade non è la manifestazione nel futuro di un desiderio presente, ma la provenienza dal futuro di elementi che vengono catturati da una storia.[4]” Come nella trama di Terminator, il film di James Cameron.
Pink Behind the Scenes, 2025, acrilico su tela, 50x40cm
Le opere di Caredda sono dispositivi iperstizionali nel senso che non descrivono un futuro possibile, ma lo attivano. La sua pittura ipnagogica diventa, così, uno strumento operativo che influenza l’immaginario del presente, di fatto riscrivendolo. Proprio per questo, nelle sue tele, le immagini non si presentano come illusioni fantastiche, né come chimere surreali. In realtà, non solo ogni oggetto è riconoscibile nella sua qualità di merce o feticcio della società attuale – dalla bottiglia di Coca Cola alle vecchie bombolette spray Krylon, fino alla rivista Toiletpaper di Maurizio Cattelan – ma anche le architetture e le infrastrutture sono quelle di edifici, cabine telefoniche, distributori di benzina, autostrade e cavalcavia di cui è disseminato il sistema viario italiano. Caredda è estremamente realistico quando si tratta di evocare luoghi e cose più o meno note, ma lo è altrettanto quando inventa oggetti verosimili come il vaso di fiori di The Big Pineapple(2025), con quel bizzarro motivo decorativo di mosche ripetute, o la scultura di sapore quasi classicheggiante che rappresenta la testa di un cane Spaniel nel dipinto Brown Sugar Extra (2025).
Armed Spray, 2025, acrilico su tela 50x40cm
La luce gioca un ruolo essenziale in questa dinamica di definizione realistica, intensificando la consistenza degli oggetti e scandendone nitidamente le forme. Il risultato è la creazione di un universo perfettamente leggibile, sebbene sospeso in un tempo elastico, in cui convivono tracce del passato, configurazioni attuali e presenze potenziali. I dipinti di Caredda catturano i barbagli di un futuro eventuale, non descrivono uno sviluppo necessario. Se è vero, come sostiene Franco “Bifo” Berardi che “lo stato presente del mondo può essere descritto come la simultanea occorrenza vibrazionale di molte possibilità[5]”, allora le visioni di Caredda possono essere interpretate come “l’effetto temporaneo e instabile di una polarizzazione, la fissazione provvisoria di un modello”[6]. Un modello fino ad ora plausibile, ma che, forse, può ancora essere scongiurato.
[1] Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di Elémire Zolla, 1997, Adelphi, Milano, p. 20.
[3] Nell’estetica di Internet, gli spazi liminali sono luoghi vuoti o abbandonati che appaiono inquietanti, desolati e surreali. Quest’estetica ha acquisito rilevanza nel 2019 con la diffusione virale di un post su 4chan che mostrava uno spazio denominato “Backrooms”. In seguito, immagini di spazi liminali sono state condivise su varie piattaforme online, tra cui Reddit, Twitter e TikTok. Ne scrive Valentina Tanni in: Exit Reality. Vaporwave, backrooms, weirdcoree altri paesaggi oltre la soglia, 2023, Nero edizioni, Roma.
Il linguaggio pittorico di El Gato Chimney si è strutturato, nel tempo, in una sintassi figurativa unica, che ha saputo integrare il rigore tassonomico di un naturalista del XIX secolo con l’elegante acribia di un miniaturista medievale e il vigore visionario di un pittore simbolista. Questa sintesi è stata il prodotto di una evoluzione stilistica che, dopo gli esordi nell’ambito della street art, lo ha portato a interessarsi alle radici magiche ed esoteriche di diverse tradizioni figurative. Con un approccio da etnografo, infatti, l’artista ha composto, attraverso diversi cicli pittorici, una specie di Atlante Warburghiano, fatto d’immagini che attingono al repertorio del folclore di vari popoli, declinate, però, in un lessico personale, che cuce insieme la dimensione simbolica con l’attenzione a temi e istanze del contemporaneo.
Kasha, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
L’interesse di El Gato Chimney per l’immaginario spirituale e magico dell’estremo oriente che caratterizza in particolare questa esposizione, è il segno di un percorso di studio e rielaborazione di iconografie classiche giapponesi di cui, peraltro, si trova traccia anche nei manga e nei film d’animazione contemporanei[1]. Assecondando la propria passione per il Sol Levante, l’artista ha creato un bestiario personale, composto di animali mutanti e ibridi antropomorfi, spesso riconducibili alle tipologie degli yōkai, demoni e spiriti che, secondo i racconti tradizionali, compaiono nelle strade delle città e dei villaggi durate le notti d’estate. Si tratta di figure che, lungi dall’essere semplici mostri, svolgono un ruolo rituale, scaramantico e pedagogico nella cultura locale. Nel loro aspetto mostruoso si cela, infatti, una funzione di ammonimento e, insieme, di conservazione della memoria collettiva. Spesso rappresentati in cortei o processioni, gli yōkai sono entità soprannaturali che incarnano la paura dell’ignoto e del mutamento, esseri ambigui e mutaforma che El Gato Chimney adatta al proprio preesistente vocabolario zoomorfico.
Into the web, 2025, acquarello e tempera su carta, 150x30cm
Nelle sue opere, infatti, la ripresa di queste figure è sempre rielaborata attraverso una reinvenzione che mette in gioco forme e contenuti eterogenei, che attingono tanto all’iconografia degli emakimono, i rotoli di racconti illustrati diffusi tra l’XI e il XVI secolo, o degli ukiyo-e, le cosiddette “immagini del mondo fluttuante” delle stampe del Periodo Edo, quanto alla cultura visiva contemporanea, compresi, appunto, i linguaggi dell’illustrazione e del fumetto, di cui l’artista è un grande appassionato. Un esempio tipico di reinvenzione è Matsuri (2025), un dipinto ad acquarello e tempera in cui l’artista riprende la struttura di una celebre opera di Kawanabe Kyōsai, inserendo nell’iconografia classica della Hyakki Yagyō (“La Parata dei cento demoni”), il proprio campionario di creature dispettose e sbeffeggianti, simili a quelle evocate nelle sfilate delle feste processionali shintoiste.
The Ghost Cat, 2025, inchiostro di china e acquarello su carta, 70x50cm
Nel caso di El Gato Chimney, è soprattutto attraverso il ricorso al teriomorfismo, cioè l’attribuzione di una forma animale a divinità, spiriti o entità di origine soprannaturale, che si può ravvisare un’influenza asiatica, recepita anche attraverso la mediazione occidentale di Hieronymus Bosch o Pieter Bruegel il Vecchio che, secondo lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis[2], mutuarono alcune figure mostruose da fonti estremorientali. Tuttavia, la propensione verso la creazione di una morfologia incerta tra l’umano e l’animale si trova già in precedenti lavori dell’artista. È semmai nel formato orizzontale allungato, quello già sperimentato nei libri d’artista come Namazu (2022), Giant Octopus (2022) e The Frog’s Apparition (2021), che seguono l’andamento a fisarmonica delle Moleskine, che si avverte più forte l’allusione alla tradizione dei rotoli emakimono, dove l’approccio narrativo dell’artista trova nuove soluzioni per affrontare temi che riflettono timori e paure collettive di stretta attualità. Ad esempio, Into the Web (2025) è una metafora delle politiche di controllo e sorveglianza adottate nella rete internet attraverso l’impiego degli algoritmi. Questo timore, in fondo giustificato, è incarnato nelle fattezze di un grande aracnide rosso, preso d’assalto da uno sciame di vendicativi animaletti antropomorfi. Sono gli stessi animaletti che compaiono, muniti di inchiostro e pennelli, in quella sorta di allegoria della pittura che è The Creations, dove le tecniche dell’acquarello e della tempera incontrano lo stile disegnativo e calligrafico della china.
The Great Puffy, 2025, acquarello e tempera su carta_100x70cm
Di impianto narrativo sono anche le opere in cui l’artista esprime le proprie preoccupazioni per i danni ambientali provocati dal fast fashion. A esempio in The Great Puffy (2025) e The Metamorphosis (2025), dove compaiono soffici mostri dai corpi ricoperti con patchwork di tessuti differenti, Leviatani partoriti da un’industria tessile irresponsabile. L’allusione è alle discariche di abiti accumulati nel deserto di Atacama, lungo la cordigliera del Cile, tragico effetto di un mercato globale che produce più rifiuti di quanti ne riesca a smaltire. El Gato Chimney, però, tratta l’argomento con una certa eleganza, scegliendo con cura i motivi decorativi dal repertorio tessile tradizionale giapponese e trasformando, così, ogni pattern in una trappola per lo sguardo.
Winter in April, 2025, acquarello e tempera su carta, 100x70cm
Timori di natura ecologica si possono leggere, anche solo in filigrana, nell’opera Winter in April (2025), dove un maestoso coniglio di neve è assediato da una turba di creature zoomorfe, tra le quali si annidano strane sculture di paglia, oggetti apotropaici solitamente posti all’ingresso dei villaggi contadini a protezione dei raccolti, che l’artista trasforma in talismani contro gli effetti del cambiamento climatico. Un elemento ricorrente di molte opere di El Gato Chimney è la presenza di fili e corde rosse, che spesso legano tra loro i personaggi, formando un ordito, appena distinguibile, di relazioni, tensioni e legami invisibili che governano l’enigmatico universo dell’artista. Ci sono, però, altri oggetti simbolici che ritornano, come un refrain, nel suo immaginario visivo: campanelli, maschere, ventagli, ma anche aghi, forbici, torce, coltelli e pestelli branditi, come armi, da un popolo di buffe creature lillipuziane.
The Creations, 2025, acquarello tempera e inchiostro di china su carta, 150x30cm
È un immaginario, il suo, che può assumere toni parodistici, come succede in One Day at the Shore (2025), dove una grande piovra umanoide – figura ricorrente delle stampe ukyo-e, da Kuniyoshi a Hokusai –fronteggia un esercito di creaturine acquatiche in una scena da teatro kabuki, dove il mare diventa palcoscenico dell’assurdo. Ma grottesche, quasi caricaturali, sono anche le figure di volpi, rane, topi e polpi di alcune ceramiche smaltate, con le teste impilate a formare dei piccoli totem domestici. Insomma, stravaganze e stramberie del bestiario shintoista, ma anche buddhista, abbondano un po’ ovunque nelle opere di El Gato Chimney, affascinato dal trasformismo dei bakemono, animali mutaforma dei racconti popolari, intermediari tra i mondi fenomenico e ultraterreno che spesso hanno l’aspetto di giganteschi gatti, come nei dipinti Kasha[3] (2025) e The Ghost Cat (2025). Tra le bestie polimorfiche ritratte dall’artista ci sono anche il kitzune[4], entità leggendaria in forma di volpe, l’usagi[5], il coniglio che i giapponesi associano alla luna, e, infine, il kaeru[6], la rana portafortuna.
One Day at the Shore, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
Eppure, accanto all’invenzione e alla rilettura iconografica, colpiscono la tenuta linguistica del lavoro dell’artista e la sua capacità di tenere insieme registri differenti, combinando l’immediatezza grafica tipica dell’illustrazione con l’intensità simbolica delle miniature medioevali. Le superfici dei suoi racconti, pur gremite di figure, risultano sempre chiaramente leggibili. I colori sono vivaci, ma controllati, i tratti netti, ma dinamici. Insomma, la sua pittura costruisce uno spazio visivo chiaro, comprensibile, nonostante la disseminazione di elementi enigmatici, per non dire esoterici. Poi ci sono le opere a inchiostro di china, dove a cambiare non è solo la materia pittorica, cambia, ma anche il gesto e, dunque, la sua capacità espressiva. Nelle grandi carte, la narrazione cede spazio alla monumentalità del soggetto, il numero di figure si riduce, la forma si sfalda rispetto ai modi miniaturistici abituali e l’immagine, emerge come presenza ineludibile, che occupa tutto il campo visivo dell’osservatore. Anche qui tornano le forme animali, ma in veste più archetipica, quasi mitologica: rospi colossali, piovre dagli occhi ipnotici, giganteschi felini predatori, mostri che ricordano le figure apotropaiche dei templi buddhisti o i terribili demoni dei thangka tibetani[7].
The Rumble, 2025, china ink on paper, 200x450cm
In queste figure, dove l’inchiostro è steso con variazioni tonali che vanno dal grigio chiaro al nero più profondo, le anatomie si fanno incerte, fluttuanti, come masse organiche che affiorano da un magma indistinto. La resa espressiva è affidata a una spontaneità vigile, in un equilibrio sottile tra disciplina e libertà. Ma queste nuove opere in bianco e nero, molte delle quali rappresentano rane e rospi benauguranti – da D Green (2025) a Master Toad (2025) fino a Kawanabe, velato tributo uno dei maggiori pittori giapponesi dell’Ottocento[8] – non costituiscono un semplice pendant tecnico delle composizioni a colori ma, in qualche modo ne rappresentano il controcanto concettuale. Se le prime costruiscono un mondo, le seconde ne evocano il fondamento simbolico. Se le prime usano la struttura del racconto visivo, le seconde si manifestano come apparizioni o epifanie. Queste sono, infatti, opere dominate da figure liminari e polisemiche, che funzionano indifferentemente se a osservarle è lo sguardo divertito di un bambino oppure quello di un cultore delle “cose orientali”, che sa interpretare il senso di ogni figura. Così, la grande rana che dà il titolo alla mostra non è soltanto un simbolo da decifrare, ma un’icona eccedente, fuori scala, meravigliosamente scenografica, che cattura e coinvolge, generando un effetto di ammirata stupefazione. Ed è già più di quanto faccia normalmente gran parte della cosiddetta arte contemporanea.
The Metamorphosis, 2025, acquarello e tempera su carta, 70x100cm
[1] In particolare, la produzione dello Studio Ghibli è ricca di riferimenti all’iconografia delle creature del folclore popolare e shintoista in anime come La città incantata (2001) e Principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki e Pom Poko (1994) e La storia della Principessa Splendente (2013) di Isao Takahata.
[2] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, 1997, Adelphi, Milano, p. 242.
[3]Kasha, che significa letteralmente “carro di fuoco”, è un demone felino in cui si trasformerebbero alcuni gatti giunti in età avanzata. Talvolta è rappresentato come un traghettatore di anime, che trasporta i dannati all’inferno su un carretto.
[4]Kitsune è uno spirito in forma di volpe che può entrare nei sogni, diventare invisibile, assumere sembianze umane, specialmente di donna, e perfino volare.
[5]Tsuki no usagi è una figura immaginaria presente nella mitologia di diversi paesi dell’Estremo Oriente, in particolare Cina e Giappone. Rappresenta un coniglio che risiede sulla Luna, seduto sulle zampe posteriori accanto a un pestello da cucina, impegnato a preparare il mochi, un tipico dolce tradizionale.
[6] La parola Kaeru, che in giapponese significa “tornare”, è omofona di Kaeru, la rana. Questo ha fatto delle rane i simboli del “ritorno” della ricchezza e della buona sorte.
[7] I Thangka sono dipinti tibetani sacri su tela, incorniciati con tessuti di broccato. Rappresentano immagini sacre come mandala, ruote della vita, divinità e Buddha del Buddismo tibetano.
[8]Kawanabe Kyōsai (1831-1889) è stato un pittore e incisore giapponese, a cavallo tra i periodi Edo e Meiji.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.