di Ivan Quaroni
Agnese Guido, Piccola grande plastica, 2025
Per secoli, la pittura ha avuto il compito di raccontare. Prima di diventare un’arte autonoma e una forma d’espressione solipsistica, prima che incominciassero le riflessioni sul bello e nascesse la disciplina estetica, l’immagine dipinta serviva a trasmettere una storia. Sia che riguardasse episodi sacri o leggende mitologiche, la funzione principale della pittura era quella di rendere visibile una narrazione e trasformare un evento in rappresentazione figurativa. Non si dipingeva per pura astrazione, ma con l’intento di creare una narrazione condivisa, riconoscibile, leggibile.

Silvia, Paci, Autoritratto con amiche, 2025
Da questa matrice discendono anche le opere di Agnese Guido e Silvia Paci, pittrici che recuperano il senso del racconto, declinandolo in chiave onirica, simbolica, ed evocativa. Le loro immagini si muovono, infatti, lungo la linea che collega la grande tradizione figurativa occidentale alla sensibilità contemporanea, attraverso due differenti modi di trasformare in figure pensieri ed esperienze personali. Quel che è certo è che nel loro lavoro, la pittura riesce a rappresentare in maniera istintiva e immediata vicende che richiederebbero una diversa e forse più complessa formulazione in altre forme di narrazione.
Agnese Guido, L’occhio dell’Occidente, 2025
Già nel Quattrocento, Leon Battista Alberti esortava i pittori a costruire istorie, composizioni capaci di coinvolgere emotivamente l’osservatore attraverso la dinamica delle azioni e l’intelligibilità dei sentimenti. Non è un caso che, ancora alla fine Cinquecento, Cesare Ripa provasse a codificare il significato delle immagini con la sua Iconologia, riconoscendo che dietro ogni figura, dietro ogni gesto, si nasconde un messaggio, un contenuto da decifrare. La pittura era, insomma, un linguaggio dotato di una propria struttura e grammatica, non meno articolato della scrittura, ma ben più efficace sul piano dell’immediatezza comunicativa.
Agnese Guido, Glory Tamed, 2025
Agnese Guido e Silvia Paci operano all’interno di una dimensione stratificata dell’immagine, caratterizzata dal ricorso a simboli, allegorie, trasfigurazioni o semplici associazioni visive che contribuiscono a strutturare un racconto più ampio. In un certo senso, la loro arte si avvicina allo spirito di Dino Buzzati. “Che dipinga o che scriva”, affermava il pittore e romanziere, “io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.” E, infatti, Storie dipinte[1], come le chiamava lui, sono anche quelle di Agnese Guido e Silvia Paci, che in modi diversi, ma complementari, restituiscono alla pittura il potere di evocare mondi, suggerire trame, rivelare attraverso l’apparente staticità dell’immagine le vertigini dell’esistenza interiore. Però, senza arrivare a quelle che, riferendosi allo scrittore bellunese, la critica definiva strategie iconotestuali, Guido e Paci concepiscono il dipinto come una trama possibile, una fabula che forza le buone regole del racconto, mescolando e confondendo le tradizionali unità aristoteliche di tempo, luogo e azione.
Silvia, Paci, Il domatore feroce, 2025
La vena narrativa di Agnese Guido nasce dalla trasfigurazione del quotidiano, da una capacità, insieme fantastica e sognante, di animare l’inanimato, trasformando oggetti, edifici e città in entità vive e senzienti. È un meccanismo che ricorre spesso nei cartoni animati e nei fumetti e che nel modo di dipingere dell’artista costituisce una sorta di seconda natura, una predisposizione a osservare la realtà da punti di vista inaspettati.
Agnese Guido, Camping of the Blind, 2025
L’artista riesce, infatti, a dare corpo e colore a una dimensione magica e vitale dell’esistenza che sarebbe altrimenti rubricata come mera fantasticheria o come semplice sogno ad occhi aperti. È un modo, il suo, che incanala nelle immagini dubbi e domande sul senso della vita, insomma una maniera di interrogare la realtà – e sé stessa – e provare a vedere le cose diversamente. È il genere di domande e di ipotesi che di solito si trova nei romanzi fantastici e nei racconti di fantascienza. Esiste perfino una serie di fumetti della Marvel che si chiama “What if…?”, dedicata alle ucronie e alle vicende dei supereroi ambientate in dimensioni parallele. Ma nel caso di Agnese Guido, l’elemento speculativo non riguarda mondi ulteriori o universi lontanissimi, ma la sfera più prosaica dell’esistenza, quel quotidiano su cui l’artista sovrascrive le proprie impressioni e considerazioni, concedendosi d’interpretare il mondo fenomenico attraverso un filtro fantastico che, però, non perde mai del tutto i contatti con la realtà.
Agnese Guido, Il troll, 2025
Con una pittura in cui convivono impulsi espressionistici e venature surrealiste, Guido illustra l’assurdità della commedia umana. Adotta un registro che spazia tra il lirico e l’ironico, tra il poetico e il farsesco, per squadernare ciò che è ordinario, ribaltando prospettive e rapporti di scala e sovvertendo ogni tipo di gerarchia, come accade, nei quadri grandi, da Camping of the Blind (2025) a L’occhio dell’Occidente (2025), fino a Piccola grande plastica (2025).
Agnese Guido, Autoritratto pensando ad un quadro, 2025
Nei suoi dipinti, infatti, figure umane e oggetti sono spesso sovradimensionati o miniaturizzati. Insomma, la loro statura non obbedisce alle leggi della fisica, ma alle esigenze del racconto. Tutto può diventare importante. Il banale può essere sublimato, come nel caso di Autoritratto pensando a un quadro (2025), dove il primo piano è occupato da un bidone dell’immondizia. Oppure, al contrario, le protagoniste di quadri come Glory Tamed (2025) e Will to Purify a Way to Die (2022), possono assumere dimensioni lillipuziane. Sono gli effetti di un relativismo pittorico che fa somigliare ogni scena a un giallo onirico, disseminato di falsi indizi e piste morte.
Agnese Guido, Comfortably in Danger, 2025
L’attitudine narrativa della pittura di Silvia Paci deriva dall’amore per la letteratura, la mitologia e il folclore. Leggende, storie popolari e racconti biblici costituiscono, infatti, il fondamento culturale e psicologico su cui l’artista costruisce il proprio immaginario simbolico, dove convergono memorie individuali e archetipi universali.
Silvia, Paci, Il paese della cuccagna, 2025
Quel che le favole e le esperienze reali hanno in comune è la fitta trama di menzogne, illusioni e falsità che trasformano le vicende più banali in avvincenti racconti del mistero. Silvia Paci cerca nel repertorio favolistico la matrice di frottole, fandonie e fantasie che condizionano l’esistenza umana. In un certo senso, i suoi dipinti sono atti psicomagici con i quali ritualizza in immagini fatti e circostanze del suo vissuto, proiettandoli all’interno di trame che sembrano uscite dalla penna di Carlo Collodi, dei Fratelli Grimm o di Charles Perrault. L’autoritratto dell’artista è un elemento ricorrente nei suoi dipinti, spesso costruiti come scene corali, affollate di personaggi come le tele del Seicento, dove verità e finzione si fondono senza soluzione di continuità.
Silvia, Paci, All My Friends Are Weird, 2025
Ad esempio, Il Paese della Cuccagna (2025) – riferimento a un archetipo narrativo presente in molti racconti, da Hans nel paese della Cuccagna dei Grimm al Paese dei Balocchi di Pinocchio, fino a Il Paese di Bengodi di Boccaccio –, come pure l’opera All my Friends Are Weird (2025), raffigurano i piaceri del gioco o del travestimento, introducendo il tema ricorrente della bugia, attorno a cui ruota tutta la recente produzione dell’artista. Maschere e feticci, infatti, compaiono in molte tele come simboli di simulazione o affettazione, ingredienti fondamentali di ogni pantomima. In particolare, i feticci sono bambole di pezza, oggetti fatti a mano dall’artista per essere inseriti nei quadri, accanto ai ritratti di amici e conoscenti.
Silvia, Paci, Giocolandia, 2025
Paci inventa anche bizzarre calzature dotate di zampe o artigli, come quelle che sostituiscono le tradizionali pantoufle de verre in Giocolandia (2025), dove l’artista interpreta appunto il ruolo di una novella Cenerentola. Bugie, panzane, fanfaluche sono concetti che affiorano in tutte le opere, assumendo ora l’aspetto di personaggi del romanzo di Collodi, dal famoso burattino (Trasformazione, 2025) al Gatto e la Volpe (Just Friends, 2025), da Mangiafuoco alla Fata turchina (Naso lungo, gambe corte, 2025), ora la fisionomia della pittrice stessa (Autoritratto, 2025) o dei suoi compagni d’avventura (Autoritratto con amiche, 2025).
Silvia, Paci, Naso lungo, gambe corte, 2025
Insomma, Agnese Guido e Silvia Paci restituiscono alla pittura uno scopo narrativo attraverso trasfigurazioni allegoriche e autobiografie mascherate. Le loro immagini possono essere interpretate come rappresentazioni dell’inconscio o come raffigurazioni mentali in cui convivono tracce e frammenti di storie potenziali. Storie a volte enigmatiche, ma dipinte con stile.
Silvia, Paci, Just Friends , 2025
[1] Storie dipinte, appunto, era il titolo della prima personale tenuta da Buzzati nel 1958 nella Galleria dei Re Magi a Milano e del relativo catalogo in 520 esemplari, stampato dai tipi dell’Officina d’Arte Grafica A. Luchini e C., ripubblicato nel 1977 dalle Edizioni del Libraio di Via S. Andrea Milano e poi nel 2013 da Mondadori in una nuova edizione curata da Lorenzo Viganò.














