Let’s meet there, at The old gas station, 2025, acrilico su tela, 130×81 cm
La pittura di Riccardo Nannini nasce dall’attenzione verso ciò che accade ogni giorno, dall’osservazione di momenti della quotidianità che vengono traslati in immagini chiare, intellegibili, di semplice immediatezza. Eppure, dentro l’apparente linearità del suo stile pittorico, si insinua sempre un elemento di incertezza, un dettaglio che introduce nel quadro una leggera tensione e impedisce alla scena di fissarsi in un ordine stabile. È il particolare modo con cui l’artista trasforma il vissuto in una narrazione mobile, aperta all’imprevisto. Non tutto, infatti, nelle nitide immagini di Nannini scorre placidamente. Alcuni elementi iconografici, per esempio, introducono nel racconto qualcosa di dissonante, che trasforma ogni scena in un piccolo mistero.
Welcome, 2025, acrilico su tela, 40×50 cm
Nannini ama dipingere le villette dei sobborghi con i loro giardini e cortili, le desolate stazioni di servizio e perfino i muretti che separano le abitazioni dalle strade un po’ malridotte, insomma quelli che delimitano lo spazio domestico e privato, elidendolo dal contesto pubblico e dall’ambiente naturale. Tutti luoghi che sembrano usciti da una pellicola di David Lynch o di Tim Burton, ma che l’artista vira in un immaginario da fumetto o cartone animato, con cui racconta storie reali o almeno plausibili. Sono posti immobili, luoghi d’attesa in cui mancano il chiasso e lo strepito della vita reale. Anche quando le scene sono affollate di figure, nei dipinti dell’artista si ha la sensazione che i personaggi siano consapevoli di essere osservati, come se stessero “recitando” la vita. Che stiano partecipando a una festa improvvisata, come in The Old Gas Station (2025), o posando in costume per una foto ricordo, come in The Carnival Party (2025), gli uomini, le donne e perfino gli animali di Nannini hanno sempre una strana fissità, come attori colti nel fermo immagine di un film muto. Eppure, Nannini adotta una tavolozza limpida, dominata da rosa, azzurri e verdi che danno all’immagine una luminosità diffusa e rendono l’atmosfera allegra. Ma, allora, perché tutto questo silenzio? Come si spiega questa enigmatica e imbambolata sospensione in un contesto evidentemente feriale? L’artista sceglie colori accesi, dispone le figure e distribuisce i pesi nello spazio, riuscendo a ottenere questo curioso contrasto che fa vibrare ogni scena.
The Unicorn, 2025, acrilico su tela, 50×40 cm
Molto, nel linguaggio pittorico di Nannini, nasce da una formazione da autodidatta. L’artista ha costruito il proprio mestiere attraverso una pratica costante, lo studio diretto della tradizione figurativa italiana e un confronto continuo con la cultura visiva contemporanea. Le esperienze nel campo dell’architettura e del design gli hanno fornito gli strumenti per pensare per immagini e per strutturare la rappresentazione con estremo rigore. Il trasferimento dalla Toscana a Barcellona lo ha poi portato a contatto con la cultura spagnola. La città catalana, con la sua luce netta, i colori saturi e la vitalità delle strade, ha introdotto nella sua pittura una dimensione più diretta e concreta. In quella realtà, nutrita dai contrasti della vita urbana, Nannini ha trovato un modo originale di raccontare il quotidiano intrecciando esperienza, osservazione e memoria. Dal punto di vista artistico, sono stati importanti anche l’incontro con il Pop Surrealismo americano – mediato in Spagna da artisti come Sergio Mora e Joan Cornellà – e con la tradizione del Costumbrismo, variante iberica della pittura di genere ottocentesca, che trae ispirazione dagli abiti, dai costumi e dagli usi popolari. Tutti questi influssi sono confluiti in un linguaggio misurato, in cui coesistono levità, ironia e attenzione verso le dinamiche sociali e culturali della contemporaneità.
Carnival Party, 2025, acrilico su tela, 40×50 cm
Nonostante l’atmosfera festosa e i colori vivaci, nella pittura di Nannini la calma è solo apparente. Una sottile inquietudine, infatti, percorre le sue narrazioni, mostrando come la vita civile si basi sul precario equilibrio tra forze strutturanti e caotiche. “Camminare sulla linea”, dice Riccardo Nannini, “significa vivere in bilico tra armonia e pericolo, tra leggerezza e disincanto”. Il titolo Walk the Line, rubato a una canzone di Johnny Cash, descrive appunto la volontà dell’artista di osservare la quotidianità e i suoi frequenti slittamenti nell’irrazionale. Dal punto di vista linguistico, Nannini riesce a creare una sorta di polarità tra una grammatica formale controllata e un contenuto iconografico dissonante.
Tiger Queen, 2024, acrilico su tela , 73×92 cm
Un esempio è Breakfast with Wolves (2025), che mostra due aspetti divergenti di una tranquilla domenica mattina. Il dipinto raffigura una coppia che fa colazione nel giardino di casa, una tipica villa monofamiliare del suburbio occidentale, mentre fuori, oltre il muretto che separa la loro proprietà dal vialetto esterno, sul manto sbrecciato del marciapiede, si aggirano due lupi selvaggi. Sono due mondi che s’incontrano: quello privato, all’apparenza familiare e rassicurante, e quello pubblico, caotico, pericoloso, dove, appunto, infuriano i lupi. In Tiger Queen (2024), al di qua di un analogo muro di cinta, oltre il quale si scorge l’ennesima villetta ordinata, una donna con una tigre al guinzaglio passeggia su un viottolo disseminato di simboli della società dei consumi: una banconota, il pasto di una famosa catena di fast food, un orologio, alcune pillole, un mozzicone di sigaretta. Intanto, un uomo fotografa la scena, come se si trattasse di un servizio di moda. È una visione inconsueta, che normalizza l’eccedente e il bizzarro, presentandoli come qualcosa di “cool”.
Breakfast with Wolves, 2025, acrilico su tela, 92×73 cm
Welcome (2025) propone, invece, una scena più esplicita: siamo questa volta all’interno dello steccato, nel giardino di una tradizionale casetta di legno. Sull’acciottolato che porta all’ingresso, il proprietario, imbracciando un fucile, attende forse un ospite indesiderato. Intorno a lui ci sono i segni di un’esistenza ordinaria, regolare, da cui non traspare alcun indizio di squilibrio. Ma è proprio qui, nell’apparente normalità, che la linea di confine s’incrina e l’irrazionale minaccia di irrompere. In fin dei conti, con la sua pittura, Riccardo Nannini rappresenta la normalità come una soglia percettiva, uno spazio in cui la regolata struttura del visibile cela, appena sotto la superficie, le forze disgregatrici dell’entropia.
Nicola Caredda, Sauvage, 2024, acrilico su tela, 120×100 cm
La pittura in Italia è tornata d’attualità. Lo testimoniano le numerose mostre ad essa dedicate nelle gallerie d’arte e le recenti rassegne istituzionali che, però, puntano più sulla quantità che sulla qualità. Si mappano le nuove generazioni, si cercano legami con le tradizioni immediatamente precedenti, si tenta, un po’ a fatica per la verità, di individuare temi e iconografie ricorrenti, ma la pittura è un’arte difficile. “Il terribile problema della pittura (l’arte più difficile che ci sia)”, scriveva Giorgio De Chirico, “non si risolve a chiacchiere e facilonerie”[1]. Il magistero della pittura richiede sacrificio e duro lavoro, perciò un buon criterio di selezione dei pittori odierni non dovrebbe basarsi unicamente su presupposti anagrafici, ma qualitativi.
Silvia Paci, La Maga Armida, 2023, olio su tela, 136×205 cm
Già, ma come si definisce la qualità in pittura? E soprattutto chi può definirla? “Viviamo in un paese in cui ciascuno crede di sapere qualcosa di pittura, e quindi di poter dire la sua”, o almeno così la pensava Federico Zeri, secondo cui “è frequentissimo che, qui da noi, si parli di opere d’arte senza un’adeguata preparazione, senza cioè avere educato l’occhio alla lettura del fatto figurativo”[2]. Se a questo si aggiunge la favorevole congiuntura che ha riportato la pittura alla ribalta delle cronache e che, inevitabilmente, ha prodotto nuove schiere di accoliti – non solo tra gli artisti più giovani, ma perfino tra i galleristi (improvvisamente fulminati sulla via di Damasco) e tra i curatori à la page (che giurano di essere, fin dalla prima ora, strenui difensori di questa pratica secolare) – riuscire a compiere una selezione, a separare, come si dice, il grano dal loglio, diventa un’impresa davvero difficile. Ma se a farlo è una galleria come quella di Antonio Colombo, che dal 1998, anno della sua fondazione, ha ospitato le mostre dei migliori pittori italiani, e un curatore, come il sottoscritto, che non ha mai fatto mistero della sua marcata predilezione per quadri e pittori, potrebbe venirne fuori qualcosa di buono.
Paolo Pibi, Die inneren augen, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Sotto il magniloquente titolo di Pittori d’Italia e l’ironico sottotitolo Giovani, giovanissimi… anzi maturi – tributo all’arguzia di Ennio Flaiano e al celebre paradosso (Certo, certissimo… anzi probabile) con cui lo scrittore e giornalista abruzzese evidenziava il labile confine tra il vero e il falso – abbiamo riunito dodici giovani e meno giovani pittori italiani in un compendio minimo. Una mostra che non vuole essere la versione tridimensionale di un atlante, di un almanacco o di un regesto ambizioso della nuova pittura del Belpaese, ma semmai un laicissimo Libro d’Ore, con dodici artisti che più diversi non si può, a incarnare la devozione verso il più antico dei linguaggi visivi.
El Gato Chimney, Street Madness, 2023, gouache e acquerello su carta cotone, 70×50 cm
Sono artisti che provengono da varie regioni d’Italia, alcuni dei quali hanno vissuto o vivono ancora all’estero, a dimostrazione che se un genoma italico della pittura esiste, non può che essere spurio, contaminato, ibrido. Nessun genius loci e tantomeno nessuna definizione di una presunta “pittura sovranista” (come qualcuno ha tentato di fare) può descrivere le complesse circostanze che hanno contribuito alla loro formazione. Per fortuna, nessun pittore la cui arte sia intimamente italiana ha mai dovuto esibire un certificato di cittadinanza. Si ricorderà che Giorgio De Chirico dipingeva le sue “Piazze d’Italia” dalle sponde della Senna, senza per questo essere meno italiano, lui che in Italia non ci era nemmeno nato.
Melania Toma, Luna-Creature, 2023, pigmenti, carboncino, fibre di lana e olio su tela, 180×150 cm
108 (Guido Bisagni), Nicola Caredda, El Gato Chimney, Jacopo Ginanneschi, Agnese Guido, Dario Maglionico, Fulvia Mendini, Riccardo Nannini, Silvia Negrini, Silvia Paci, Paolo Pibi e Melania Toma sono artisti di generazioni differenti – nati tra il 1966 e il 1996 -, ognuno dei quali rappresenta un approccio, un linguaggio o uno stile singolare nell’ampio spettro espressivo della pittura. Trovare sintonie, concordanze, corrispondenze nelle opere di questi artisti richiede un complicato lavoro di cucitura, insomma un tentativo, per niente facile, di individuare affinità e analogie che aiutino a tessere un ordito leggibile o almeno probabile degli umori della pittura italiana.
Prima di cominciare, si tenga a mente che – come ricordava lo storico dell’arte francese Henri Focillon – Leon Battista Alberti considerava la pittura una realtà magica o, meglio, “un meccanismo ragionato con una parte di mistero”. Pensava, inoltre, che lo sguardo del pittore fosse privilegiato perché “come il filosofo, meglio del filosofo, il pittore costruisce un mondo”[3].
Agnese Guido, Learning, 2021, ceramica smaltata, 34x21x1 cm
Questo è evidente nell’opera di Melania Toma, basata sull’interpolazione tra pittura, scultura e arte tessile. Nei suoi dipinti astratti, le forme si coagulano in maniera ambigua e sfuggente, riflettendo l’idea di possibili ibridazioni tra l’organico e l’inorganico, l’umano e l’inumano. È il suo modo di costruire un mondo che scarta l’eredità delle politiche coloniali e azzera, nell’ottica di una nuova ecologia, ogni gerarchia tra gli enti, abolendo la distinzione tra soggetto e oggetto e tra individuo e collettività. L’artista interpreta i propri quadri, simili a feticci e realizzati con pittura a olio, carboncino, pigmenti naturali e fibre tessili, come dei dispositivi per guarire identità ferite e frammentate.
Melania Toma, Danza-Creature, 2023, pigmenti, carboncino e olio su tela, 80×80 cm
La pittura di 108 è, invece, concepita come una specie di autoritratto in divenire, che con le sue forme morbide e scorrevoli traduce nel linguaggio astratto la natura inquieta e mutevole dell’identità. Le sue figure fluide, plasmate in una palette di toni scuri interrotti da rari inserti geometrici colorati, formano diagrammi di flussi di coscienza, schemi misteriosi in precario equilibrio tra ordine e caos.
108, After the rain 2, 2023, tecnica mista su tela, 80×60 cm
Astratta, nonostante gli esiti figurativi, è la procedura pittorica di Paolo Pibi, che trasla in immagini idee e vagheggiamenti mentali, senza peraltro servirsi di alcun supporto iconografico (fotografie, disegni o altro). Il risultato è inevitabilmente somigliante a un’allucinazione ad occhi aperti, qualcosa di surreale e, allo stesso tempo, estremamente dettagliato, costruito con l’acribia di un miniaturista capace di rendere verosimile e plausibile un’illusione o una fantasticheria.
Paolo Pibi, Le lune e il falò, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Un mondo fantastico, di pura invenzione è anche quello meticolosamente dipinto da El Gato Chimney, che trasfigura in forme simboliche di uccelli e altre creature zoomorfe motivi psicologici, ma anche concetti ricavati dal folclore e dalle tradizioni esoteriche e alchemiche. Il conflitto tra i desideri dell’individuo e le convenzioni sociali, come pure quello tra materia e spirito sono sovente rappresentati con l’immagine di un animale avvolto e quasi avvinto da filamenti e fibre da cui tenta di liberarsi, mentre il tema della parata di Yōkai, mostri e fantasmi della mitologia giapponese mirabilmente dipinti sulle pagine di una Moleskine, è invece un’allegoria dell’irrompere dell’irrazionale nella dimensione quotidiana.
El Gato Chimney, That place inside you, 2024, gouache e acquerello su carta cotone, 153×100 cm
Ispirata alle fiabe e ai racconti popolari, la pittura di Silvia Paci ha un impianto fortemente narrativo, tutto giocato sull’alternanza di registri drammatici e umoristici e sulla mescolanza di iconografie sacre e profane. Per costruire le sue visioni, popolate di personaggi in preda a una febbrile agitazione, l’artista usa un linguaggio espressionistico, connotato da una gamma cromatica ridotta e riconoscibile. Talvolta, l’artista introduce all’interno delle sue tele, l’immagine di oggetti da lei stessa creati, come bambole di pezza e curiosi copricapi, che intensificano la straniante sensazione di assistere a un misterioso rituale o a una sorta di possessione collettiva.
Silvia Paci, Il martirio di S.Eutropio, 2023, olio su tela, 170×150 cm
I dipinti di Agnese Guido hanno sempre un’atmosfera surreale, risultato di un particolare modo di interpretare la realtà ordinaria che indaga soprattutto gli aspetti più curiosi, poetici, buffi o imprevisti. Il carattere sognante delle immagini, la sospensione tra incanto e stupefazione e la tendenza ad animare oggetti o paesaggi inanimati, sono elementi caratteristici di tutta la sua pittura, che dialoga tanto con la tradizione simbolista ed espressionista, quanto con la cultura popolare dei fumetti e dei cartoni animati.
Agnese Guido, Allegoria del relax, 2023, olio su lino, 192x145cm
Riccardo Nannini usa una grammatica pop e surreale, in parte derivata dai fumetti, per dipingere tele in cui i simboli del consumismo odierno compaiono, come un’interferenza, all’interno di narrazioni oniriche e fantastiche. Nei suoi lavori più recenti, l’artista riflette sul rapporto tra singolo e collettività, rappresentando piccoli gruppi di individui distribuiti in un arcipelago di minuti isolotti. L’atmosfera feriale di queste Isole felici non riesce a occultare, però, il senso di solitudine che serpeggia nella calca di personaggi impegnati in attività ludiche o di svago. La presenza sporadica di alieni dalla pelle verde allude, inoltre, al tema diversità, sia essa sociale, culturale o sessuale.
Nannini Riccardo, El Reencuentro, 2023, acrilico su tela, 114×195 cm
Sintetico, piatto, ma elegantissimo è l’alfabeto visivo di Fulvia Mendini, che nei suoi dipinti compie una concisa schematizzazione formale. Il limpido tratto lineare, la ricercata bidimensionalità e i raffinati accostamenti cromatici sono segni distintivi di una maniera pittorica che l’artista declina in una gamma di ritratti ieratici e di succinte nature morte, dove all’impianto geometrico si affianca il gusto per la descrizione di dettagli come gioielli, decori e ornamenti che impreziosiscono le sue composizioni.
Fulvia Mendini, Luce, 2024, acrilico su tela, 60×50 cm
Di stretta osservanza cartesiana è la pittura di Silvia Negrini, dominata dal lucidus ordo della geometria, arma logica e calcolata che l’artista applica a un’economia di gesti minimi con i quali si propone di cogliere l’essenza imperturbabile delle cose. Così, ad esempio, riduce in efficaci diagrammi le morfologie dei paesaggi o tramuta in poligoni le architetture e gli oggetti, riuscendo a produrre immagini semplici e perfettamente leggibili. La sua grammatica formale, fatta di contorni netti e tinte piatte, può essere interpretata come un adattamento dei principi del Modernismo alle mutate esigenze espressive della pittura concettuale contemporanea.
Silvia Negrini, Land, 2020, smalto su tavola, 30X40 cm
Di segno opposto è, invece, l’attitudine di Nicola Caredda, che dipinge meticolose visioni di un futuro distopico, somigliante a una grande e desolata periferia urbana. L’artista attinge alla memoria di posti visti in passato, scorci di luoghi e angoli di città ricombinati in un paesaggio inventato ma plausibile, che mostra i resti di un mondo trascorso attraverso detriti e rifiuti della civiltà consumistica. Sono visioni notturne di spazi disabitati, disseminati di indizi e segni che rimandano alla cultura italiana, e che compendiano atmosfere e stati d’animo vissuti dall’artista in immagini di perturbante bellezza, che suscitano un immediato piacere retinico.
Nicola Caredda, (call me baby!), 2024, acrilico su tela, 50×40 cm
Dalla memoria di luoghi e persone reali ha origine il processo creativo di Dario Maglionico, che ricostruisce i ricordi, inevitabilmente alterandoli con l’ausilio dei programmi di modellazione 3D e della fotogrammetria, usati come strumenti per generare immagini che servono allo studio compositivo dei suoi soggetti. La pittura è, dunque, la fase finale di un iter operativo che si conclude con le Reificazioni, un ciclo di dipinti in continua evoluzione che rappresentano uno studio sulla percezione dello spazio e del tempo. Nelle sue opere, i personaggi compaiono simultaneamente in diversi punti dello spazio, come forme fantasma persistenti, che marcano i luoghi lasciando una sorta di residuo esperienziale.
Dario Maglionico, Reificazione #91, 2024, olio su tela, 140 x 90 cm
L’arte di Jacopo Ginanneschi nasce da un’attenta osservazione della Natura e dal recupero dei valori tecnici e compositivi degli antichi maestri, da cui deriva anche l’idea di un’adesione verso l’essenza, più che l’apparenza, delle cose. Nei suoi olii su tavola, infatti, si possono notare alcune piccole incongruenze, discrepanze generate dall’adozione della prospettiva multipla o dal fatto che le immagini sono sovente costruite combinando visioni di luoghi diversi. Il risultato è una pittura insieme realistica e straniata, veridica e surreale, che coglie l’incanto nelle forme fenomeniche e la magia nel quotidiano.
Jacopo Ginanneschi, Sant’Antonio Abate trova il rifugio di San Paolo Eremita, olio su tavola, 90×90 cm, 2024
[1] Giorgio De Chirico, Impressionismo, in Giorgio De Chirico, Isabella Far, Commedia dell’arte moderna, a cura di Jole de Sanna, 2002, Abscondita, Milano, p. 51.
[2] Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, a cura di Ludovica Ripa di Meana, 1999, Neri Pozza, Milano, p. 7.
[3] Henri Focillon, Piero della Francesca, trad. italiana di Fabrizia Lanza Pietromarchi, Abscondita, Milano, p. 38.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.