di Ivan Quaroni
Punto di rottura
Quella della Corea è stata una storia particolarmente travagliata, segnata dalle continue ingerenze delle potenze straniere. Nel XIX secolo, il Paese del calmo mattino è stato oggetto di aggressioni da parte di Russia e Giappone e di potenze occidentali come la Francia e gli Stati Uniti che, pretestuosamente, intendevano liberarla dall’influenza del confinante impero cinese. Agli inizi del XX secolo, la penisola era diventata prima un protettorato del Giappone (1905), poi una sua colonia (1910). Lo sfruttamento economico e le repressioni politiche e culturali messi in atto dal governo nipponico, particolarmente oppressivo, cessarono solo con la sconfitta del Sol Levante nella Seconda Guerra mondiale. Dopo il conflitto, la Corea venne suddivisa in due zone d’occupazione. La linea di demarcazione del 38° parallelo separava, infatti, il territorio settentrionale, presidiato dalle truppe sovietiche, da quello meridionale, sottoposto all’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti. Una situazione per certi versi simile a quella europea, dove gli ex territori del Terzo Reich vennero separati dalle potenze vincitrici in due blocchi ideologicamente antitetici, quello orientale, controllato dall’Unione Sovietica e quello occidentale, protetto dalle forze alleate.
La proclamazione nel 1948 di due stati distinti, la Repubblica di Corea e la Repubblica Democratica Popolare di Corea, ognuna delle quali reclamava la sovranità giuridica sull’intero territorio, è all’origine delle tensioni che contrapposero le due diverse entità politiche. Tensioni che esplosero nel 1950, quando le truppe nordcoreane sconfinarono a sud del 38° parallelo provocando l’immediato intervento a fianco dell’esercito sudcoreano delle forze armate statunitensi stanziate nel Pacifico e di quelle dell’ONU. Fu l’inizio della Guerra di Corea, che durerò fino al 1953 provocando due milioni e ottocentomila vittime, tra morti, feriti e dispersi. Ma fu anche uno dei momenti di maggior tensione della Guerra Fredda, dato che al cosiddetto Korean Conflict – come lo chiamano gli americani per sottolineare il fatto che si tratta piuttosto di una guerra di posizione – parteciparono anche le truppe della Repubblica Popolare Cinese a fianco di quelle nordcoreane, esacerbando, così, la contrapposizione ideologica tra il modello capitalista e quello comunista. Alla fine delle ostilità, le trattative tra i rappresentanti dei diversi schieramenti fissò ancora una volta la linea di demarcazione tra gli eserciti delle due Coree al 38° parallelo, lasciando sostanzialmente invariata la situazione prebellica.
Minhee-Kim, Sue, 2023, oil on canvas, 130×130 cm.
Influsso occidentale
Dalla metà del XX secolo, le divergenze politiche, sociali ed economiche che separavano le due Coree si riflettevano anche sul piano delle identità culturali e artistiche. Mentre in Corea del Nord si affermava lo stile del Realismo Socialista, nella Corea del Sud cominciava a farsi sentire l’influenza delle correnti dell’arte europea e statunitense.
Soprattutto i principi dell’Arte Informale e dell’Espressionismo Astratto offrivano ai giovani artisti sudcoreani l’opportunità di esprimere l’angoscia e il turbamento generati dalla guerra civile. Centrale, in tal senso, fu l’esperienza dell’Associazione Hyun-Dae fondata a Seoul nel 1957, di cui fecero parte artisti come Park Seo-Bo e Chung Chang Sup, futuri pionieri di Dansaekhwa, il movimento di pittura monocromatica degli anni Settanta che oggi fa tendenza nel mondo del collezionismo internazionale.
Dansaekhwa, che letteralmente significa appunto “pittura monocromatica”, è un termine introdotto recentemente per designare il gruppo di artisti che, a distanza di vent’anni dalla fine della guerra civile, rompeva definitivamente con i linguaggi dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto. Spesso accostato alla pittura minimalista, questo movimento combinava lo spirito tradizionale coreano con l’astrazione occidentale in una congerie di ricerche originali, dove la predilezione per le tinte monocolore e per i moduli geometrici si fondeva con la sperimentazione di nuove tecniche ed il recupero di materiali tradizionali.
Il successo occidentale di Dansaekhwa è dovuto, in parte, a una serie di mostre collettive organizzate da Alexander Gray Associates (Overcoming the Modern. Dansaekhwa: The Korean Monochrome Movement, 2014, New York), Blum & Poe (From All Sides: Tansaekhwa on Abstraction, 2014, Los Angeles), Boghossian Foundation (When Process Becomes Form: Dansaekhwa and Korean Abstraction, 2016, Bruxelles) e ancora Blum & Poe (Dansaekhwa and Minimalism, 2016, Los Angeles e New York) e anche a una pletora di esposizioni personali dedicate ai suoi principali esponenti da importanti gallerie come Perrotin (Park Seo Bo, Chung Chang-sup), Pace (Lee Ufan), Tina Kim (Ha Chong-Hyun) e White Cube (Park Seo Bo).
Tuttavia, il relativamente recente interessamento dei player occidentali per Dansaekhwa e per gli artisti di generazioni successive come Haegue Yang, Lee Bul, Liu Wei e Anicka Yi, non è stato il risultato di un improvviso innamoramento euro-americano per gli esponenti dell’arte di questa lontana penisola asiatica, ma piuttosto è dovuto alla politica culturale adottata dai governi filocapitalisti e strenuamente anticomunisti succedutisi alla guida della Corea del Sud fin dal dopoguerra. Una politica che, naturalmente, ha beneficiato del pieno sostegno degli interlocutori occidentali. Prova ne è il fatto che un movimento come Minjung, una corrente artistica e sociopolitica nata tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta in seno al movimento democratico durante la dittatura militare del presidente Chun Doo-Hwan e in reazione al Massacro di Gwangju (1980), non sia stato oggetto di alcuna riscoperta da parte del collezionismo occidentale. Eppure, l’arte Minjung, per lo più realizzata da collettivi artistici che mettevano in dubbio i concetti di autorialità individuale e criticavano il formalismo di Dansaekhwa e il suo disinteresse verso le questioni sociali e politiche, ha avuto un ruolo importante ha segnato l’evoluzione dell’identità culturale e democratica del paese.
Seong Jin Jeong, Relief, 2022, Polystyrene, Digital print gypsum, Epoxy, 163x34x20 cm
Soft Power
L’immagine cool e attrattiva della Corea del Sud negli ultimi anni si deve, infatti, a decisioni governative strategiche come l’adozione, fin dagli anni Ottanta, dunque in un momento di grande sviluppo economico e industriale, di una politica di national branding che ha puntato sulla cultura come strumento di promozione degli interessi della nazione, formalmente in un’ottica di “dialogo e collaborazione multilaterale” con altri paesi asiatici e occidentali. Risultato di questo soft power, che è il segno dell’ammodernamento dell’immagine del paese all’apice della sua ascesa capitalista, è stata la travolgente onda di prodotti d’intrattenimento e spettacolo che ha invaso prima i paesi asiatici limitrofi, poi il resto del mondo. L’hanno chiamata Hallyu (Korean Wave), un fenomeno che proietta il carattere dinamico, pop e ipertecnologico con cui la Corea del Sud si presenta sul palcoscenico internazionale attraverso la musica, il cinema, le serie TV e, infine, anche l’arte contemporanea.
L’Hallyu esplode intorno al Duemila, quando le soap opera coreane fanno breccia a Taiwan e nella Cina continentale, rendendo celebri attori e attrici coreani. Poi si estende anche ad altre nazioni come Thailandia e Malesia, dove si diffondono non solo le serie televisive, ma anche la musica K-Pop di gruppi come Sechs Kies, Diva, GOD e Baby VOX. Persino in Giappone, lo storico nemico insieme al quale la Corea del Sud ha ospitato il Campionato Mondiale di Calcio del 2002, il boom dell’Hallyu si diffonde grazie all’enorme successo del drama televisivo Winter Sonata, che racconta la travagliata ricerca del padre perduto da parte del figlio Joon-sang. Una telenovela dai risvolti inquietanti, che può essere letta anche come una dura critica al ruolo parentale nella società contemporanea.
In Europa e negli Stati Uniti la Korean Wave si presenta, invece, come una Nouvelle Vague che conquista le giurie dei principali Festival cinematografici con autori come Park Chan-wook, regista di Old Boy, il compianto Kim Ki-duk, conosciuto per capolavori come Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (Bom-yeoleumga-eulgyeoulgeuligobom) e Ferro 3 – La casa vuota (Bin-jip); Im Kwon-taek, autore di Ebbro di donne e di pittura (Chihwaseon); Lee Chang-dong, regista di pellicole come Oasis (Oasiseu) e Poetry (Si); e soprattutto Bong Joon-ho, vincitore con Parasite di tre Premi Oscar e della Palma d’Oro a Cannes.
Goyoson x Sungermone, Goblin (indefinable), 2023, mixed media dimensions variable
Il Dark Side della Korean Wave
Nonostante le tattiche geopolitiche di Soft Power, esercitate a colpi di finanziamenti, sgravi, fiscali e facilitazioni destinate all’industria culturale per potenziare l’economia interna ed estera e che proiettano l’ologramma di una nazione prospera e avanzata, con colossi tech come Samsung, LG e Daewoo a fare da capofila, le produzioni cinematografiche e seriali della Corea del Sud trasmettono anche l’immagine di una realtà contraddittoria, stretta nella morsa delle diseguaglianze economiche generate dal capitalismo avanzato.
Film come Parasite e serie tv come Squid Game svelano, infatti, il profondo malessere di una nazione in cui il tasso di suicidi è tra i più alti al mondo e dove la crisi del welfare ha prodotto fenomeni allarmanti di autolesionismo non solo tra i giovani, ma perfino tra gli anziani. Oltre ai vecchi che si tolgono la vita per non pesare sul reddito delle famiglie, ci sono ragazzi e giovani adulti che, per ragioni principalmente economiche e sociali (debito studentesco che non riescono a pagare, frustrazione generata da una scarsa mobilità sociale, fallimento finanziario e disoccupazione), cadono in depressione e decidono di farla finita. Un recente articolo pubblicato lo scorso 14 aprile 2023 dalla CNN sottolinea il dramma degli Hikikkomori coreani che ha messo in allarme anche l’attuale governo, obbligandolo a varare una misura volta al loro reinserimento sociale attraverso l’erogazione di una pensione di 650 mila won al mese che servirebbero a supportarne la stabilità emotiva e psicologica e a promuoverne la crescita e la salute. Attualmente il 3,1% dei giovani sudcoreani tra i 19 e i 39 anni, circa 338 mila persone, sono classificati come “giovani solitari con tendenze alla reclusione”. Nato in Giappone, il fenomeno degli Hikikkomori, evoluzione deteriore fenomeno degli Otaku degli anni Novanta, è divenuto la spia di un disagio che riguarda le fasce più giovani e deboli delle società capitalistiche avanzate dell’Asia. In particolare, in Corea del Sud, come spiega Dario Ronzoni in un articolo su Linkiesta pubblicato il 16 ottobre 2021, “Le disuguaglianze sociali, al centro di quasi tutti i film e le serie tv prodotte in Corea, provocano rabbia e [un] risentimento che, sostiene Byung-Chul han, viene sfogato su di sé”. Infatti, secondo il filosofo, uno dei massimi pensatori sudcoreani e docente di Teoria della Cultura all’Universität der Künste di Berlino, la depressione sarebbe il risultato delle pressanti richieste di una società ultraliberista caratterizzata dall’imperativo della prestazione. Pressioni che, però, sfociano in una sofferenza che l’individuo si auto-impone in termini masochistici.
Gimsapi, Loading.. (2), oil on canvas, 323×130 cm
L’entusiastica risposta occidentale
Il carattere pessimistico e perfino distopico di molti prodotti culturali sudcoreani non ha, però, scoraggiato l’occidente, che ha entusiasticamente accolto la Korean Wave non solo favorendo le strategie governative di Soft Power ed elargendo i massimi riconoscimenti a film, serie tv e produzioni musicali, ma anche rendendo la Corea Del Sud meta di una serie d’ingenti investimenti.
Nel solo campo dell’arte contemporanea, oltre alle numerose mostre dedicate a Dansaekhwa e a esponenti di generazioni successive – a cui vanno aggiunte le importanti esposizioni Korean Eye 2020: Creativity and Daydream (Saatchi Gallery di Londra e Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, 2020) e Hallyu! The Korean Wave, (Victoria & Albert Museum di Londra, 2022) –, estremamente significative sono le aperture di nuove sedi a Seoul di gallerie come Perrotin (la prima nel 2016, la seconda nel 2022), Various Small Fires (2019), Pace (2021), König (2021), Thaddaeus Ropac (la prima nel 2021, la seconda inaugurerà il prossimo settembre), Lehmann Maupin (2022), Gladstone (2022), Peres Projects (2023) e White Cube (2024). A fare da acceleratore c’è anche lo sbarco nel 2022 a Seoul di Frieze Art Fair al COEX Convention Art Exhibition Center nel distretto di Gangnam, in stretta collaborazione con il Kiaf, la fiera dell’associazione delle gallerie coreane. Ma non basta, perché a confermare il ruolo di nuova capitale dell’arte contemporanea assunto da Seoul contribuiscono sia la presenza in città del National Museum of Modern and Contemporary Art, del Leeum Samsung Museum of Art e del vicino dello Ho-Am Art Museum di Yongin, sia la notizia dell’apertura nel 2025 del Centre Pompidou presso la Tower 63 della Hanwha Culture Foundation, nel cuore del distretto finanziario.
Lee Sung Min, Hit hit!, acrylic, ink and color on korean traditional paper, 90×140 cm
Generazioni
Nonostante il successo di Dansaekhwa e di alcuni artisti più giovani, la conoscenza della storia e delle evoluzioni dell’arte contemporanea coreana in occidente è ancora agli inizi. Le maggiori difficoltà di comprensione riguardano le differenze espressive e linguistiche generatesi nelle diverse generazioni di artisti che si sono avvicendate dal dopoguerra in avanti. Differenze che rispecchiano le vicende politiche e sociali del paese, di cui spesso gli occidentali non conoscono la storia.
Chi ha visto la serie tv Squid Game, sa che il conflitto generazionale è una delle chiavi per comprendere la recente evoluzione di questo paese, spesso riflessa anche nelle sue vicende artistiche. Dopo Dansaekhwa e il movimento politico e artistico Minjung durante la dittatura di Chun Doo-Hwan, la generazione degli artisti nati negli anni ’70 e ’80 è quella che ha sperimentato gli effetti del boom economico. Questa “generazione di mezzo”, rappresentata da artisti come Lee Jinju, Jwa Haesun, Baek Heaven, Jang Jongwan, Sim Raejung, Lee Eunsil e molti altri, a cui la Arario Gallery di Seoul ha dedicato l’esposizione The 13th Heistation nel 2021, è stata la prima a poter viaggiare e studiare all’estero, ma ha dovuto, però, fare i conti con la mentalità tradizionalista dei loro padri, vivendo quindi il conflitto e la transizione tra due diversi mondi e modi di vivere.
Chi ha beneficiato in pieno degli effetti del boom economico, della rivoluzione digitale e dell’apertura internazionale generata dall’Hallyu è stata, invece, la generazione degli anni Novanta, oggetto di questa esposizione in quattro tempi intitolata K90-99.
Minhee-Kim, Twins, 2023, oil on canvas 130×130 cm
K90-99
La mostra, che raccoglie le opere di ventuno artisti nati tra il 1990 e il 1999, è frutto di una attenta ricognizione sul campo compiuta dalla galleria L.U.P.O. nell’estate del 2022, una sorta di inedita indagine periscopica tra gallerie, istituzioni e scuole d’arte, alla ricerca di temi, motivi e procedure che caratterizzano le produzioni pittoriche e plastiche della prima generazione davvero cosmopolita e globalista dell’arte coreana. A convincere il gallerista Massimiliano Lorenzelli e il suo staff sono stati i racconti dei protagonisti dell’esposizione, che hanno messo in luce non solo il persistere del conflitto generazionale, con tutte le difficoltà che questo comporta in termini di emancipazione e affermazione personale, ma anche il vantaggio offerto dalla facilità di relazione con la rete delle gallerie e delle istituzioni pubbliche.
La curatrice Hyun Jeoung Moon, chiamata a tirare le fila delle complesse e variegate tendenze che innervano la scena emergente dell’arte coreana, ha individuato quattro temi per altrettanti rounds espositivi.
Il primo round, Beyond Human: Exploring Cyborg Body and Technology affronta il tema dell’influsso del cyberpunk e dell’estetica post-human nei lavori di Minhee Kim, Ahyeon Ryu, Jihyoung Han, Jio Yoo e Seon Jin Jeong, che testimoniano la metabolizzazione di linguaggi visivi di matrice globale.
Miryu Yoon, Wondering How Things Change, 2023, oil on canvas, 41×27 cm each
Il secondo round, Visual Narrative: Experimenting Images Through Painting and Sculpture, fa il punto sulla natura ambigua e ubiqua delle immagini nella società contemporanea e sul loro rapporto con la realtà materiale e oggettuale attraverso lo sguardo di Miryu Yoon, Goyson, Sang So Kim, Seo Yoon Yi e Sungermone.
Se Eun Yu, Like a ghost on a finite space, 2023, Oil and acrylic on canvas
All’impatto della tecnologia e di internet è dedicato, invece, il terzo round, Hybrid Visions: Searching for Digital Era, in cui gli artisti Kai Oh, Gimsapi, Alex Inomuseki, Eun Yu e Seong Min Li contaminano media tradizionali come pittura, collage e fotomontaggio con i linguaggi che dominano dell’immaginario digitale, come anime, meme, emoji e glitch.
Jihyoung Han, Little Ice Age, 2022, oil and acrylic on canvas, 53×80 cm
L’ultimo round, Transcultural Fusion: K-Art as a Convergence of Multi-culture, attraverso le opere di Suyon Huh, Ji Won Han, Lee Seoung Hee, Chung Kook Lee, Eun Shil Hwang e Lee Eun, è forse quello che meglio riassume e circoscrive la specificità della giovane arte coreana. Cioè, quella di essere l’espressione plurale e multimediale dei sentimenti contradditori che animano una società consumistica dove la cultura pop si intreccia alle angosce e alle sofferenze della generazione che più ha patito le conseguenze della pandemia ed ha ancora indelebilmente impresse nella memoria le drammatiche immagini della strage di Halloween del 2022, quando nel quartiere di Itaewon, trasformato in una calca infernale, perdono la vita, calpestate a morte, 156 persone.
K90-99 è la prima mostra italiana dedicata alle tendenze della giovane arte coreana, un’arte ambigua, contaminata, bizzarra, ma anche complessa, curiosa, inattesa e terribilmente seducente.