Let’s meet there, at The old gas station, 2025, acrilico su tela, 130×81 cm
La pittura di Riccardo Nannini nasce dall’attenzione verso ciò che accade ogni giorno, dall’osservazione di momenti della quotidianità che vengono traslati in immagini chiare, intellegibili, di semplice immediatezza. Eppure, dentro l’apparente linearità del suo stile pittorico, si insinua sempre un elemento di incertezza, un dettaglio che introduce nel quadro una leggera tensione e impedisce alla scena di fissarsi in un ordine stabile. È il particolare modo con cui l’artista trasforma il vissuto in una narrazione mobile, aperta all’imprevisto. Non tutto, infatti, nelle nitide immagini di Nannini scorre placidamente. Alcuni elementi iconografici, per esempio, introducono nel racconto qualcosa di dissonante, che trasforma ogni scena in un piccolo mistero.
Welcome, 2025, acrilico su tela, 40×50 cm
Nannini ama dipingere le villette dei sobborghi con i loro giardini e cortili, le desolate stazioni di servizio e perfino i muretti che separano le abitazioni dalle strade un po’ malridotte, insomma quelli che delimitano lo spazio domestico e privato, elidendolo dal contesto pubblico e dall’ambiente naturale. Tutti luoghi che sembrano usciti da una pellicola di David Lynch o di Tim Burton, ma che l’artista vira in un immaginario da fumetto o cartone animato, con cui racconta storie reali o almeno plausibili. Sono posti immobili, luoghi d’attesa in cui mancano il chiasso e lo strepito della vita reale. Anche quando le scene sono affollate di figure, nei dipinti dell’artista si ha la sensazione che i personaggi siano consapevoli di essere osservati, come se stessero “recitando” la vita. Che stiano partecipando a una festa improvvisata, come in The Old Gas Station (2025), o posando in costume per una foto ricordo, come in The Carnival Party (2025), gli uomini, le donne e perfino gli animali di Nannini hanno sempre una strana fissità, come attori colti nel fermo immagine di un film muto. Eppure, Nannini adotta una tavolozza limpida, dominata da rosa, azzurri e verdi che danno all’immagine una luminosità diffusa e rendono l’atmosfera allegra. Ma, allora, perché tutto questo silenzio? Come si spiega questa enigmatica e imbambolata sospensione in un contesto evidentemente feriale? L’artista sceglie colori accesi, dispone le figure e distribuisce i pesi nello spazio, riuscendo a ottenere questo curioso contrasto che fa vibrare ogni scena.
The Unicorn, 2025, acrilico su tela, 50×40 cm
Molto, nel linguaggio pittorico di Nannini, nasce da una formazione da autodidatta. L’artista ha costruito il proprio mestiere attraverso una pratica costante, lo studio diretto della tradizione figurativa italiana e un confronto continuo con la cultura visiva contemporanea. Le esperienze nel campo dell’architettura e del design gli hanno fornito gli strumenti per pensare per immagini e per strutturare la rappresentazione con estremo rigore. Il trasferimento dalla Toscana a Barcellona lo ha poi portato a contatto con la cultura spagnola. La città catalana, con la sua luce netta, i colori saturi e la vitalità delle strade, ha introdotto nella sua pittura una dimensione più diretta e concreta. In quella realtà, nutrita dai contrasti della vita urbana, Nannini ha trovato un modo originale di raccontare il quotidiano intrecciando esperienza, osservazione e memoria. Dal punto di vista artistico, sono stati importanti anche l’incontro con il Pop Surrealismo americano – mediato in Spagna da artisti come Sergio Mora e Joan Cornellà – e con la tradizione del Costumbrismo, variante iberica della pittura di genere ottocentesca, che trae ispirazione dagli abiti, dai costumi e dagli usi popolari. Tutti questi influssi sono confluiti in un linguaggio misurato, in cui coesistono levità, ironia e attenzione verso le dinamiche sociali e culturali della contemporaneità.
Carnival Party, 2025, acrilico su tela, 40×50 cm
Nonostante l’atmosfera festosa e i colori vivaci, nella pittura di Nannini la calma è solo apparente. Una sottile inquietudine, infatti, percorre le sue narrazioni, mostrando come la vita civile si basi sul precario equilibrio tra forze strutturanti e caotiche. “Camminare sulla linea”, dice Riccardo Nannini, “significa vivere in bilico tra armonia e pericolo, tra leggerezza e disincanto”. Il titolo Walk the Line, rubato a una canzone di Johnny Cash, descrive appunto la volontà dell’artista di osservare la quotidianità e i suoi frequenti slittamenti nell’irrazionale. Dal punto di vista linguistico, Nannini riesce a creare una sorta di polarità tra una grammatica formale controllata e un contenuto iconografico dissonante.
Tiger Queen, 2024, acrilico su tela , 73×92 cm
Un esempio è Breakfast with Wolves (2025), che mostra due aspetti divergenti di una tranquilla domenica mattina. Il dipinto raffigura una coppia che fa colazione nel giardino di casa, una tipica villa monofamiliare del suburbio occidentale, mentre fuori, oltre il muretto che separa la loro proprietà dal vialetto esterno, sul manto sbrecciato del marciapiede, si aggirano due lupi selvaggi. Sono due mondi che s’incontrano: quello privato, all’apparenza familiare e rassicurante, e quello pubblico, caotico, pericoloso, dove, appunto, infuriano i lupi. In Tiger Queen (2024), al di qua di un analogo muro di cinta, oltre il quale si scorge l’ennesima villetta ordinata, una donna con una tigre al guinzaglio passeggia su un viottolo disseminato di simboli della società dei consumi: una banconota, il pasto di una famosa catena di fast food, un orologio, alcune pillole, un mozzicone di sigaretta. Intanto, un uomo fotografa la scena, come se si trattasse di un servizio di moda. È una visione inconsueta, che normalizza l’eccedente e il bizzarro, presentandoli come qualcosa di “cool”.
Breakfast with Wolves, 2025, acrilico su tela, 92×73 cm
Welcome (2025) propone, invece, una scena più esplicita: siamo questa volta all’interno dello steccato, nel giardino di una tradizionale casetta di legno. Sull’acciottolato che porta all’ingresso, il proprietario, imbracciando un fucile, attende forse un ospite indesiderato. Intorno a lui ci sono i segni di un’esistenza ordinaria, regolare, da cui non traspare alcun indizio di squilibrio. Ma è proprio qui, nell’apparente normalità, che la linea di confine s’incrina e l’irrazionale minaccia di irrompere. In fin dei conti, con la sua pittura, Riccardo Nannini rappresenta la normalità come una soglia percettiva, uno spazio in cui la regolata struttura del visibile cela, appena sotto la superficie, le forze disgregatrici dell’entropia.
«L’aurea luce dell’essere soprasostanziale, circondando i profili futuri, li manifesta e dà la possibilità al nulla astratto di passare a un nulla concreto, di diventare potenza»[1]. (Pavel Florenskij)
Brebus, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
“John Cage dice che non sapere da dove cominciare è una forma comune di paralisi. Il suo consiglio: cominciare da qualsiasi parte”. Lo scrive il designer canadese Bruce Mau nel suo celebre Manifesto incompleto per la crescita[2], un breve vademecum in 43 punti per creativi e progettisti pubblicato nel 1998. In effetti, è noto che John Cage si serviva di tecniche aleatorie e casuali per eliminare ogni aspetto soggettivo nella composizione delle sue opere. Ad esempio, usò l’I Ching – l’antico libro cinese dei mutamenti, una specie di compendio della saggezza taoista nella forma di profetici esagrammi – per creare nel 1951 l’opera per pianoforte Music of Changes. Prima di lui, i surrealisti avevano esplorato lo stesso principio con le pratiche dell’automatismo psichico e dei cadaveri eccellenti[3], che servivano ad aggirare la sorveglianza del pensiero logico e a far emergere le associazioni dell’inconscio. “Viviamo ancora sotto il regno della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo arrivare”, scriveva, infatti, André Breton nel Manifesto surrealista del 1924, “ma ai giorni nostri, i procedimenti logici non si applicano più se non alla soluzione di problemi di interesse secondario”.
Wellspring, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
Un’eco della riflessione di Breton si può trovare anche nell’attitudine di Paolo Pibi a superare la tradizionale formula della creazione pittorica. Quella, cioè, che traduce l’idea iniziale in una serie di studi e bozzetti preparatori, passa poi allo studio delle luci e dei colori e giunge, infine, all’esecuzione del dipinto. Una metodologia standard che, secondo l’artista, non porta nessuna novità all’interno della prassi pittorica.
Ascend, 2025 , acrilico su tavola, 70×50 cm
“Chi dipinge ragionevolmente”, afferma, infatti, Pibi, “non fa altro che eseguire un compito [perché] la ragione ci guida in strade già battute”[4]. A differenza dei surrealisti, da cui spesso prende le distanze, Pibi non è interessato all’elemento inconsapevole o subcosciente dell’automatismo psichico. Al contrario, rinunciando al classico iter creativo, che include la ricerca di fonti iconografiche e modelli a cui ispirarsi, prova invece a capire in che modo nascono le idee, come diventano immagini e, soprattutto, come possono essere tradotte in una pittura esatta, fedele all’originaria forma epifanica.
Moonlit Depths, 2025, acrilico su tela, 30×20 cm
Un’epifania è, in senso più ampio, un’apparizione, una forma che viene alla luce. Nel caso di Pibi è un’immagine che si coagula nella coscienza prima che l’artista la dipinga su tela. In molti hanno scritto che la sua è una pittura meditativa, ma è una definizione piuttosto generica. Infatti, molti artisti considerano la pratica pittorica come una forma di meditazione. Nel suo caso, questa propensione si manifesta nella forma di un’inconsueta capacità di concentrazione, o meglio di una particolare ricettività nei confronti delle forme che si producono nella mente e che affiorano alla coscienza vigile. Per lui “non sapere da dove cominciare” – come scrive Bruce Mau -, è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per dipingere. Bisogna, infatti, fare a meno di qualsiasi elemento possa influenzare la creazione, come il ricorso a foto, disegni o altro che non provenga direttamente dall’occhio interiore dell’artista.
Layers, 2025, acrilico su tavola, 50×70 cm
Pibi non parte da un’idea, ma trova le immagini in itinere. Il paesaggio, che è un tema iconografico ricorrente nel suo lavoro, ha a che fare con questa prassi. L’artista comincia, quasi sempre, col dipingere la volta celeste, una campitura uniforme che, solo in seguito, si riempie di presenze: l’ingombro delle nubi (Thershold, 2025), la scia luminosa delle stelle cadenti (Brebus, 2025), una processione di lune aliene (Moonlit Dephts, 2025), le maglie di una matrice reticolare (Fisherman Cottage, 2025), perfino un pattern che sembra uscito da una tela di Peter Schuyff (Anchor Point, 2025). Dal cielo l’attenzione si sposta alla conformazione del paesaggio, come in un graduale discendere verso uno stato di maggiore concentrazione. E allora affiorano le montagne, i boschi, i prati e i pianori rocciosi.
Source, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
Giunto alla definizione del primo piano, lo stato di raccoglimento è massimo, la contemplazione ha raggiunto la sua acme. Affiorano, quindi, le immagini più inaspettate: una teoria di pneumatiche pepite d’oro (Sacrae Symphoniae, 2025), una figura femminile smaterializzata, come un aggregato di particelle dipinto da un pittore puntinista (Liminal, 2025); un pozzo freatico illuminato nel recesso di una caverna (Wellspring, 2025); un vecchio fontanile sbrecciato col murale sbiadito di una Madonna (Source, 2025); infine una natura morta psichedelica, con fiori e steli iridescenti (Luminary 1, 2025) e una vanitas con fiammelle fluttuanti come spettrali fuochi fatui (Luminary 2, 2025).
Luminary 1, 2025 , acrilico su tavola, 30×25 cm
Sono effigi improvvise, figure fuori contesto che trasformano i quadri di Pibi in sogni lucidi, fatti di panorami minuziosamente descritti, oggetti fedelmente cesellati, ineccepibili morfologie che la perizia dell’artista rende credibili, quasi reali. Tutto ciò che nella sua pittura può sembrare soggettivo, capriccioso, arbitrario è, invece, il risultato di una fedele restituzione delle visioni interiori, il frutto di una zelante acribia nel tradurre in termini ottici la natura di quelle apparizioni.
Thershold, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
Semmai, quel che è personale, perfino stravagante, è il suo approccio ai materiali e un certo suo modo di “confezionare” i dipinti che guarda alle esperienze estetiche del design. Dipinti come Saint Denise (2025), Brebus, Sacrae Symphoniae e Thershold, ad esempio, testimoniano un certo gusto per l’impaginazione grafica. Sono, infatti, tutti dipinti di piccole dimensioni dove i soggetti iconografici dei tondi sono inscritti in superfici quadrate monocromatiche, che recano agli angoli le lettere del cognome dell’artista (P, I, B, I). Fanno da cornici a questi dipinti, come pure alle tele rettangolari Moonlit Dephts e Fisherman Cottage, degli spessi elastici colorati. Invece, a far da perimetro all’opera Anchor Point è una lunga cinghia di fissaggio, simile a quelle usate per assicurare i carichi durante un trasporto.
Super, 2025, acrilico su tavola, 70×23 cm
La tavola ovale su cui è dipinto Super (2025), un paesaggio artico con tanto di foro circolare e segnalatore per la pesca su ghiaccio, è addirittura inserita nel piatto di una racchetta da tennis, al posto delle corde. L’interazione tra la tavola e il supporto dà origine a più di una suggestione. Così, mentre la griglia ortogonale delle corde sembra essere migrata nel dipinto, dove assume le sembianze dell’iridato reticolo stagliato sulla calotta boreale, la racchetta che fa da cornice al quadro evoca, come un ritratto in absentia, la forma delle ciaspole usate dagli eschimesi per camminare sulla neve.
Fisherman Cottage, 2025, acrilico su tela, 30×20 cm
A parte le concessioni a quella che si potrebbe definire come una specie di estetica orientata all’oggetto, la pittura di Pibi non subisce altre distrazioni. Si concentra, piuttosto, sulla creazione di un immaginario che mira a raggiungere un alto grado di realtà. E reali, in un certo senso, le immagini che si formano durante il processo pratico e contemplativo di Pibi, lo sono davvero. Soprattutto perché scaturiscono da una percezione attenta, da una condizione di sorveglianza e discernimento dei recessi mentali. Vale a dire da una disposizione d’animo radicalmente diversa da quella che caratterizza la cosiddetta arte medianica dei sensitivi.
Sacrae Synfonie, 2025, acrilico su tela, 20×20 cm
Se, come afferma l’esperta Paola Giovetti, “nel capriccioso e bizzarro mondo del paranormale ci imbattiamo in fenomeni sconcertanti, in produzioni artistiche che sgorgano senza la partecipazione cosciente dell’autore […]”[5], nel caso di Pibi l’arte è il prodotto di un’attività lucida, letteralmente chiaroveggente, dalla quale zampillano piccoli universi plausibili, mondi minimi distillati in uno spazio stringato e conciso, ad altissima densità immaginativa.
Luminary 2, 2025, acrilico su tavola, 30×25 cm
[1] Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di Elémire Zolla, 1977, Adelphi Edizioni, Milano, p.157.
[3] Il Cadavre exquis, o “cadavere squisito”, è un gioco collettivo di scrittura o disegno su carta, nel quale più partecipanti contribuiscono alla creazione di un testo o di un’immagine senza conoscere ciò che gli altri hanno realizzato prima di loro.
[4]Intervista di Ilaria Introzzi, Nouvelle Factory, 2020, in Paolo Pibi. Luminarium, a cura di Chiara Manca, catalogo della mostra omonima, 19 gennaio – 10 febbraio 2023, Fondazione Bartoli-Felter, Cagliari.
[5] Paola Giovetti, Arte medianica. Pitture e disegni dei sensitivi, 1982, Edizioni Mediterranee, Roma, p.16.
Piazza Mimmo Paladino, 2025, acrilico su tela, 50×70 cm.
Come possano dialogare la grammatica pop di Giuseppe Veneziano e la Metafisica del pictor optimus è cosa facile da capire se si considera che nella pletora degli artisti influenzati da Giorgio De Chirico si può annoverare – oltre ai surrealisti Salvador Dalì, Max Ernst, Paul Delvaux e René Magritte – anche Andy Warhol. Il padre della Pop Art ammirava, infatti, il pittore italiano e lo considerava, in un certo senso, il precursore di quella tecnica che conferisce agli oggetti banali un nuovo statuto, elevandoli dalla sfera del quotidiano alla dimensione colta dell’arte. Nel 1982 Warhol realizzò una serie di opere ispirate a De Chirico, confluite nella mostra Warhol versus De Chirico, allestita nello stesso anno alla sala degli Orazi e Curiazi in Campidoglio a Roma e poi alla Galerie Kammer di Amburgo. Tra le opere di quel periodo ci sono anche i disegni Hector and Andromache e Furniture in the Valley ispirate a soggetti che De Chirico aveva ridipinto nel 1963.
Actarus e Adromaca, 2009, acrilico su tela, 100×72 cm.
Curiosamente, la versione originaria del 1917 di Ettore e Andromaca è stata anche la fonte di ispirazione di uno dei due dipinti metafisici di Giuseppe Veneziano che precedono la serie dedicata alle Piazze d’Italia. Si tratta di Actarus e Andromaca (2020), in cui l’artista fonde il mito classico con l’immaginario dei cartoni animati giapponesi (Atlas Ufo Robot di Go Nagai), operando uno dei suoi tipici mash-up iconografici.
L’enigma di Edipo, 2024, acrilico su tela, 100×70 cm.
L’altra opera è, invece, l’Enigma di Edipo (2024), in cui l’immagine della scultura della sfinge collocata sul plinto, presente nel dipinto originale di De Chirico, è sostituita dalla Edipo Lamp di Corrado Levi, oggetto di design ispirato al mito dell’accecamento del figlio di Laio e Giocasta. Nella logica compositiva della pittura di Veneziano, le tecniche di rielaborazione, distorsione e sostituzione di parte dell’iconografia artistica tradizionale hanno sempre giocato un ruolo fondamentale, spesso col proposito di innestare nella stabile composizione di un’opera classica (e spesso anche riconoscibile) la sua personale lettura del presente.
Piazza Michelangelo Pistoletto, 2025, acrilico su tela, 70×100 cm.
La nuova serie delle Piazze d’Italia non fa eccezione. Qui, i dipinti più apprezzati della produzione di De Chirico, quelli in cui l’artista compendia i caratteri dell’urbanistica italiana in una teoria di porticati e sculture classiche che gettano ombre lunghe sulle piazze vuote e silenziose in un limpido pomeriggio autunnale, diventano il pretesto per una riflessione sull’odierno concetto di fama e, insieme, un’occasione per fare di ogni quadro un doppio d’après, che, di volta in volta, inserisce nel ricorrente impianto della piazza dechirichiana, l’opera iconica di un diverso artista contemporaneo vivente. Se un tempo la fama era il risultato di un percorso lungo, spesso accidentato, e legato a un talento riconosciuto o a un’impresa straordinaria, oggi è diventata un bene legato alla visibilità, all’esposizione continua, alla capacità di stare al centro del palcoscenico mediatico, anche solo per un momento. Veneziano sostituisce le sculture classiche di Ariadne (o Arianna), le statue di Cavour e i monumenti equestri di Carlo Alberto di Savoia, con una teoria di iconiche opere contemporanee, che adombrano l’idea (ma anche la speranza) di un imminente adeguamento della toponomastica delle città italiane al nuovo pantheon di celebrities della società liquido-moderna. Se l’iter verso la notorietà è diventato più rapido, possiamo immaginare non solo che le opere degli artisti viventi possano più facilmente entrare a far parte dell’arredo urbano, ma che addirittura le piazze adottino il nome non solo di artisti scomparsi, ma anche di autori viventi come Maurizio Cattelan, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e Marco Lodola.
Piazza Maurizio Cattelan, 2025, acrilico su tela, 60×80 cm.
Da pittore colto, narrativo, programmaticamente post-ideologico, Veneziano costruisce le sue Piazze d’Italia come un aggiornato atlante della visione, dove l’architettura metafisica è, allo stesso tempo, spazio mentale, dispositivo estetico e palcoscenico critico. Se per De Chirico la piazza è il teatro di un enigma esistenziale, una sorta di sospensione ontologica, per Veneziano è un deposito di stratificazioni semantiche, dove si sovrappongono codici passati e presenti e dove la storia e l’attualità si passano il testimone. Nella Metafisica Pop di Veneziano, però, non ci sono elementi nostalgici, né compiaciuti anacronismi, ma immagini metafisiche in dialogo con la diabolica fenomenologia delle arti contemporanee, in cui l’instagrammabilità dell’immagine sembra aver rimpiazzato i fondamenti estetici e concettuali dell’opera.
Piazza Alessandro Mendini, 2025, acrilico su tela, 40×30 cm.
Le sculture che prendono il posto delle statue classiche sono le più emblematiche del lavoro degli artisti evocati, quelle che hanno raggiunto una certa riconoscibilità mediatica. Ad esempio, in Piazza Maurizio Cattelan (2025), il famoso dito medio installato nel 2010 davanti alla Borsa di Milano, assume la monumentalità algida di un reperto post-contemporaneo, equidistante tanto dalla svettante ciminiera industriale sulla sinistra, quanto dall’edificio classicheggiante sulla destra (una sorta di prefigurazione dell’architettura postmoderna di Aldo Rossi). In Piazza Michelangelo Pistoletto campeggia –ovviamente – una versione extra-large della Venere degli Stracci, simile a quella installata nella Piazza del Municipio di Napoli, proditoriamente data alle fiamme da anonimi vandali e, poi, sostituita da una scultura falliforme di Gaetano Pesce.
Piazza Giuseppe Veneziano, 2025, acrilico su tela, 60×80 cm.
La Montagna di sale di Mimmo Paladino occupa il primo piano della rivisitazionedi una delle opere fondative della Metafisica, L’enigma dell’ora (1911), dove sulla parete frontale del porticato, ispirato allo Spedale degli Innocenti e al Corridoio vasariano di Firenze, compare un orologio che segna cinque minuti alle 15, indicazione temporale che cristallizza “quella Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso.”[1] Nell’opera, intitolata Piazza Mimmo Paladino, Veneziano organizza lo spazio antistante il porticato come un’area sacra, un recinto simbolico su cui sorge l’opera carica di suggestioni arcaiche di Paladino. Piazza Alessandro Mendini (2025) è, invece, un tributo al grande architetto e designer – unica eccezione alla teoria di piazze dedicate ad artisti non trapassati – dove protagonista è la versione monumentale della celebre Poltrona Proust, un oggetto progettato nel 1978 e poi divenuta una delle forme più iconiche dell’estetica postmodernista.
Piazza Marco Lodola, 2025, acrilico su tela, 30×40 cm.
Non manca, infine, l’autocitazione di Piazza Giuseppe Veneziano, dove l’artista siciliano installa la sua monumentale banana blu, esposta nella piazza principale di Pietrasanta nell’estate del 2021, un’opera che tra critiche e lodi, ha attirato una grande attenzione mediatica, suscitando un salutare confronto sulla forza comunicativa di un’arte pop monumentale. Con Piazze d’Italia, Giuseppe Veneziano afferma le possibilità di una pittura che sa offrire insieme una visione e un’analisi della contemporaneità. Una pittura che guarda al passato come una risorsa, non come un vincolo e che sa agire dentro il presente con gli strumenti della cultura visiva, della storia dell’arte e della consapevolezza critica.
Piazza Fabio Novembre, 2025, acrilico su tela, 40×60 cm.
[1] Giorgio De Chirico, Memorie della mia vita (1945-1962), 2002, Bompiani, Milano, pp. 73-74.
La predica di San Giovanni Battista, 2025, olio su tavola, 100×100 cm.
Non sono molti, oggi, in Italia, a fare pittura con la medesima devozione dei maestri del passato, applicandosi con la sistematica, disciplinata attenzione che sempre richiede un lavoro ben fatto. Non è, però, solo l’abilità o il virtuosismo tecnico a rendere prezioso l’operato di questi rari artisti, ma è soprattutto una particolare attitudine, una disposizione d’animo, se così si può dire. Ho usato la parola “devozione”, pensando a un pittore come Jacopo Ginanneschi, per indicare non solo la sua adesione agli aspetti formali, ma anche ai valori spirituali che la pratica pittorica, così com’è anticamente intesa, richiede.
Tra questi rari artisti, infatti, molti seguono la via della perizia tecnica, della precisione esecutiva, dell’esattezza mimetica, prospettica o anatomica con uno spirito moderno, laico, tutto teso all’espressione di valori squisitamente formali. Pochi, e tra questi certamente Ginanneschi, vi uniscono quella dedizione e quell’affezione che rendono la loro pratica una forma di meditazione, o quanto meno di contemplazione. Che la pittura sia un modo di conoscere il mondo “rifacendolo” è cosa nota, ma che possa anche essere una forma di preghiera silenziosa in tempi, come i nostri, così poco ascetici, è un fatto eccezionale.
La tempesta, 2021, tempera all’uovo e olio su tavola, 70×112 cm.
Centrale nell’arte di Ginanneschi è il rapporto con la natura, quel misto di osservazione analitica e rapimento estatico da cui scaturiscono le sue visioni pittoriche. Qualche tempo fa Antonio Natali, ex direttore degli Uffizi, scriveva che “Jacopo s’incanta al cospetto della sacralità della natura”[1], sottintendendo, con l’aggettivo “sacrale”, una predisposizione che prescinde da qualsiasi fede religiosa “[ed è] perciò percepita da laici e credenti”[2]. Dal punto di vista procedurale, tutte le sue opere nascono dall’interesse per il paesaggio e dal disegno dal vero perché, come lui stesso confessa, “se mi affidassi solo al cervello diventerei presto un disco che gira a vuoto e non farei che mettere in pratica due o tre trucchi del mestiere più o meno efficaci”.
Elia nel deserto, 2023, olio su tavola, 90×90 cm.
In un certo senso, per lui, quella che Leonardo chiamava sperentia – cioè la conoscenza diretta delle cose naturali – diventa maestra e guida. Lo studio dal vero gli consente, infatti, non solo di indagare l’essenza dei fenomeni – “che cosa fa sì che un albero sia un albero, una cascata una cascata, un sasso un sasso”, spiega l’artista -, ma anche di comprendere perché, nella moltitudine di suggestioni che provengono dalla realtà, alcune sono per lui più significative di altre. Eventualità che si verifica “quando gli oggetti si caricano di una tensione metafisica e diventano presenze, quasi individui”, afferma l’artista.
I monti scuri, 2023, olio su tavola, 50×70 cm.
Per spiegare questa tensione, questo incanto delle cose, l’artista ricorre addirittura ai versi di una poesia di Montale: “Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce…”[3]. Soprattutto queste ultime righe sembrano descrivere con precisione, il lavoro preparatorio dell’artista: quel suo “frugare d’intorno”, in modo da ritrarre l’oggetto da diverse prospettive, sfalsando i piani, e quel suo indagare “che accorda e disunisce”, separando l’essenziale dal superfluo.
Guglie, 2025, olio su tela, 130×180 cm.
Ogni dipinto è sempre preceduto da una ricca produzione di carte, per lo più acquerelli con visioni di boschi, valli, fiumi, monti, rocce, radure, ma anche di architetture, strade, piazze e scorci urbani in cui le notazioni si spingono ben oltre la qualità bozzettistica, assumendo, talora, i tratti esatti e rigorosi del rilievo morfologico e topografico. Questi studi preludono alla composizione della tavola o della tela dipinta, cui l’artista si dedica, appunto, solo dopo aver penetrato e compreso “l’ultimo segreto” delle cose, quel quid irriducibile che conferisce ai suoi quadri un senso di sospensione, di prodigioso incanto che fa pensare a tanta pittura italiana degli anni Venti e Trenta del Novecento.
A corroborare la tesi di Natali “che la relazione di Jacopo con la natura sia […] di tipo ascetico; ma ora vorrei decisamente dire: mistico[4]”, ci sono i soggetti di alcuni suoi dipinti recenti, quelli che rappresentano santi ed eremiti immersi in paesaggi impervi e inospitali. Opere come il colossale nudo di San Giovanni Battista(2024), oppure Elia nel deserto (2023) o, ancora, La predica di San Giovanni Battista (2025), rivelano che non tutto deriva dall’osservazione diretta della realtà e che, a volte, l’esperienza di un luogo può evocare immagini già viste o perfino reminiscenze letterarie. Così, “Se ti metti a dipingere in mezzo a rocce ripide e piene d’anfratti”, dice l’artista, “è facile che ti venga in mente qualche quadro sui santi del deserto”. Si riferisce all’iconografia della Tebaide, che rappresenta la vita dei primi eremiti e anacoreti cristiani nel deserto intorno a Tebe, in Egitto, un tema trattato nel Rinascimento da pittori come Beato Angelico e Paolo Uccello.
San Giovanni Battista, 2024, olio su tela, 150×150 cm.
Per Ginanneschi, le figure di santi e profeti sono intimamente connesse alla raffigurazione del paesaggio selvaggio, di cui costituiscono quasi una naturale appendice. Sono lavori in cui l’artista dimostra come le sue indubbie doti pittoriche siano il frutto di una combinazione di fattori: un’attenta osservazione, una grande capacità di sintesi e una profonda conoscenza della storia dell’arte. Il risultato è una pittura esatta, plasticamente strutturata, nitida e leggibile dove, però, l’adesione ottica lascia spazio a una pletora di sottili manipolazioni visive, modificazioni prospettiche e alterazioni dei rapporti di scala che servono a strutturare una visione più sintetica e, insieme, più intima ed elegiaca della realtà.
Come si vede in certi suoi brani di paesaggio, da I monti scuri (2023) a La tempesta (2021) e Albegna (2021) in cui, come avviene nell’anacoluto letterario, assistiamo a una rottura della coerenza logica dell’immagine, senza che per questo venga meno l’osservazione scrupolosa della natura. Infatti, prospettive multiple e piani sfalsati non bastano a infrangere quello che John Ruskin, il critico inglese dei Modern Painters (1843), chiamava Truth to Nature, una predisposizione artistica a cui Ginanneschi sembra aderire, e che vede nella fedeltà alle forme naturali la via d’accesso alla comprensione di verità estetiche, morali e spirituali più alte. Ginanneschi dipinge ad olio e qualche volta a tempera su tavola e su tela, servendosi della tecnica delle velature, che consiste nella paziente stesura di strati sottili (e quasi trasparenti) di colore su strati già asciutti di pittura, di modo da ottenere effetti atmosferici che conferiscono profondità e luminosità alle immagini. Questa metodologia, che comporta tempi lunghi di esecuzione, accentua ulteriormente la predisposizione contemplativa (ma anche speculativa) dell’artista.
La città ideale, 2025, tempera su tavola, 74×94 cm.
Soprattutto nelle visioni urbane e architettoniche, dove si conferma la predilezione per la costruzione di atmosfere stranianti, l’artista procede affastellando edifici iconici, grattacieli, palazzi storici. Così è nel patchwork iconografico della Città ideale (2025), frutto di un’operazione concettuale che rimanda, più che alle omonime visioni prospettiche del rinascimento italiano, all’estetica di certa pittura postmodernista. Come la Città analoga (1973) o la Città banale (1980) di Arduino Cantafora, l’urbe di Ginanneschi si presenta come una congerie di architetture contrastanti e spazi incongrui. La sua città non è solo un contenitore di architetture e immagini, ma è soprattutto un organismo poetico, animato da tensioni interne e da una teatralità massmediatica diffusa. Milano, con le vertiginose guglie del Duomo e i portici del prospiciente Corso Vittorio Emanuele II, diventa un motivo iconografico denso di risonanze simboliche. In Guglie (2025), così come nella Città ideale, l’artista si concentra soprattutto sul carattere transitorio e al tempo stesso spettacolare del paesaggio urbano, con i ponteggi avvolti da teli stampati con finte facciate che mimano quelle reali degli edifici, con i grandi schermi e i tabelloni pubblicitari che saturano lo spazio visivo. Tra questi elementi, le immagini femminili di modelle in abbigliamento intimo sembrano il segno di un nuovo paganesimo, in cui il corpo, proiettato su scala monumentale, torna a occupare la scena urbana con la stessa potenza evocativa delle statue dell’antica Roma, come i giganteschi frammenti del Colosso di Costantino dei Musei Capitolini.
Persino gli edifici impacchettati, con le loro superfici piane, si trasformano in quinte sceniche che, nella loro bidimensionalità, evocano certe case dipinte da Beato Angelico. Non si tratta solo di registrare le metamorfosi della città contemporanea, come hanno fatto Boccioni e Sironi prima e dopo la Grande Guerra, ma di restituirne l’essenza teatrale e visionaria, quella dimensione in cui il paesaggio urbano si manifesta come palinsesto di immagini e simulacri, specchio deformante della modernità e, allo stesso tempo, campo di indagine di una pratica che sa trasformare la fenomenologia del presente in un’esperienza poetica. Ginanneschi opera questa trasfigurazione con perizia, usando gli strumenti più affinati di una disciplina secolare. Perché si possa finalmente affermare, come una volta scrisse Giorgio De Chirico, che “Non si può ostacolare, in un certo qual modo, il destino fatale della pittura bella”[5].
[1] Antonio Natali, L’incanto solare di Jacopo Ginanneschi, in Jacopo Ginanneschi. Visioni di natura, a cura di Antonio Natali e Adriano Bimbi, catalogo della mostra omonima, Sala delle Colonne, Palazzo Comunale di Pontassieve, 14 gennaio – 2 aprile 2023, Edizioni Polistampa, Firenze, p. 11.
[5] Giorgio De Chirico, Un ritratto di Tintoretto, in Giorgio De Chirico, Isabella Far, Commedia dell’arte moderna, a cura di Jole De Sanna, 2002, Abscondita, Milano, p. 134.
Studio del buio, BUKA #1, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Nella pittura di Dario Maglionico, parallelamente al ciclo delle Reificazioni, che rappresenta la parte più riconoscibile del suo linguaggio figurativo, è emerso, fin da subito, un interesse verso immagini che impongono una percezione più lenta e dilatata. Ha, infatti, eseguito, con una certa coerenza nel tempo, una serie di Studi del buio in cui tentava di indagare il modo in cui le forme si stagliano in uno spazio umbratile, quasi indistinto, caratterizzato da effetti luministici che sarebbe facile associare alle famose Pitture nere di Goya, ma che più precisamente ricordano certi dipinti scurissimi di Angelo Morbelli, uno su tutti Inverno nel Pio Albergo Trivulzio, un quadro del 1911 che fa pensare a certe tele monocrome di Jason Martin, tutte giocate sulle variazioni cangianti di nero prodotte dalla diversa incidenza della luce sulla spessa materia pittorica.
Studio del buio, Detune, 2025, oil on canvas, 40 x 30 cm
I nuovi Studi del buio sono, in un certo senso, diversi dai precedenti. Non è solo la dominanza di cromie inedite, come il rosso e il blu, prima assenti nei soggetti di questo ciclo, ma è soprattutto il cambiamento di paradigma iconografico. Sono dipinti che, come afferma l’artista, “nascono da immagini, impressioni, sensazioni e ricordi raccolti durante le serate trascorse nei club e nei centri sociali occupati di Milano in quest’ultimo anno”. La serie rappresenta persone accalcate in spazi chiusi e sale illuminate da violente scariche elettriche in gradazioni di cremisi e cobalto, ambienti che nella stesura pittorica sembrano trasmettere le pulsazioni ritmiche della musica techno.
Studio del buio, Balleremo, 2025, oil on canvas, 55 x 40 cm
Ad esempio, parole comeOtolab[1], Ivreatronic[2]o Detune[3], usate nei titoli dei quadri, suggeriscono un’origine legata al paesaggio della performance audiovisiva. Riferimenti che l’artista trasla in una grammatica dove il suono, il ritmo e la frequenza dei beat si traducono in immagini sfocate e cromaticamente sature. Lo Studio del buio diventa, così, una sorta di superficie fotosensibile, costruita come se fosse il risultato di una lunga esposizione, di una stratificazione di momenti ravvicinati che si addensano fino a generare una presenza instabile, fluida. Le immagini dipinte da Maglionico non sono soltanto la traduzione visiva di momenti del proprio vissuto, legati alla frequentazione di club e party notturni. Si può, piuttosto dire che per l’artista, come afferma Federico Ferrari, “non si tratta solo di fungere da registratore dell’evento […], ma di permettere questa effrazione del tempo che si concentra in un istante, conservando nello stesso gesto la memoria del passato e l’apertura della visione dell’avvenire (l’immagine come istantanea della storia).”[4]
Studio del buio, Otolab, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Le Blurred Frequencies a cui si riferisce il titolo della mostra non sono solo quelle della musica elettronica dove – spiega l’artista – “suoni, rumori, beat e loop si mescolano e si distorcono”, ma anche quelle di una pittura fuori fuoco, una sorta di fuzzy painting in cui forme, luci, colori collassano in visioni incerte e confuse. Allucinazioni che riflettono lo stato di trance collettiva e la sensazione di momentanea sospensione della continuità spazio-temporale. In questi nuovi Studi del buio le figure non esistono come entità isolate, ma come corpi inseriti in una fitta trama di relazioni, unità che si dissolvono in una massa corale, fluida, non gerarchica. La luce fioca e soffusa gioca un ruolo centrale, spingendo i volumi dei corpi in una dimensione incerta tra apparizione e sparizione, dove a brillare nitidamente sono solo le pulsantiere dei pannelli di controllo dei mixer, mentre tutto il resto è avvolto in una penombra da cui affiorano, come per un effetto stroboscopico, lampi d’immagini statiche.
Studio del buio, Ivreatronic, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
Sono istantanee che l’artista sottrae al flusso instabile e sincopato dei ricordi, ma che impongono, proprio per la loro natura incerta, una fruizione più meditata. Perché, come giustamente nota Ferrari, “Ritrovare l’intervallo, la pausa, nel concatenarsi delle immagini è forse […] il primo gesto da compiere per riappropriarsi dello sguardo, rendendo giustizia alle immagini, rendendo alle immagini la loro capacità di essere giuste con il reale.”[5] Gli Studi del buio sono dunque questo: un modo per acuire lo sguardo dell’osservatore, intensificare la sua intelligenza visiva e permettergli, finalmente, di desincronizzarsi[6] dal tempo standard.
Studio del buio, Lobo #1, 2025, oil on canvas, 80 x 65 cm
[1] Collettivo di artisti multimediali fondato a Milano nel 2001 e formato da musicisti, dj, videoartisti, videomaker, web designer, grafici, pittori e architetti impegnati in sperimentazioni a cavallo tra musica elettronica e arte digitale.
[2] Si tratta di un’etichetta discografica, ma anche di un collettivo di produttori, dj e musicisti fondato dal cantautore italiano Cosmo, che organizza eventi culturali dedicati alla musica elettronica.
[3] Il Detune è un club milanese dedicato alla musica live che ha preso posto dello storico Atomic Bar.
[4] Federico Ferrari, L’insieme vuoto. Per una pragmatica dell’immagine, 2013, Johan & Levi editore, Milano, p. 35.
[6] Espressione usata dal designer canadese Bruce Mau nel suo famoso An Incomplete Manifesto for Growth, scritto nel 1998 e pubblicato sul numero di marzo/aprile 1999 di «I.D. Magazine».
Per secoli, la pittura ha avuto il compito di raccontare. Prima di diventare un’arte autonoma e una forma d’espressione solipsistica, prima che incominciassero le riflessioni sul bello e nascesse la disciplina estetica, l’immagine dipinta serviva a trasmettere una storia. Sia che riguardasse episodi sacri o leggende mitologiche, la funzione principale della pittura era quella di rendere visibile una narrazione e trasformare un evento in rappresentazione figurativa. Non si dipingeva per pura astrazione, ma con l’intento di creare una narrazione condivisa, riconoscibile, leggibile.
Silvia, Paci, Autoritratto con amiche, 2025
Da questa matrice discendono anche le opere di Agnese Guido e Silvia Paci, pittrici che recuperano il senso del racconto, declinandolo in chiave onirica, simbolica, ed evocativa. Le loro immagini si muovono, infatti, lungo la linea che collega la grande tradizione figurativa occidentale alla sensibilità contemporanea, attraverso due differenti modi di trasformare in figure pensieri ed esperienze personali. Quel che è certo è che nel loro lavoro, la pittura riesce a rappresentare in maniera istintiva e immediata vicende che richiederebbero una diversa e forse più complessa formulazione in altre forme di narrazione.
Agnese Guido, L’occhio dell’Occidente, 2025
Già nel Quattrocento, Leon Battista Alberti esortava i pittori a costruire istorie, composizioni capaci di coinvolgere emotivamente l’osservatore attraverso la dinamica delle azioni e l’intelligibilità dei sentimenti. Non è un caso che, ancora alla fine Cinquecento, Cesare Ripa provasse a codificare il significato delle immagini con la sua Iconologia, riconoscendo che dietro ogni figura, dietro ogni gesto, si nasconde un messaggio, un contenuto da decifrare. La pittura era, insomma, un linguaggio dotato di una propria struttura e grammatica, non meno articolato della scrittura, ma ben più efficace sul piano dell’immediatezza comunicativa.
Agnese Guido, Glory Tamed, 2025
Agnese Guido e Silvia Paci operano all’interno di una dimensione stratificata dell’immagine, caratterizzata dal ricorso a simboli, allegorie, trasfigurazioni o semplici associazioni visive che contribuiscono a strutturare un racconto più ampio. In un certo senso, la loro arte si avvicina allo spirito di Dino Buzzati. “Che dipinga o che scriva”, affermava il pittore e romanziere, “io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.” E, infatti, Storie dipinte[1], come le chiamava lui, sono anche quelle di Agnese Guido e Silvia Paci, che in modi diversi, ma complementari, restituiscono alla pittura il potere di evocare mondi, suggerire trame, rivelare attraverso l’apparente staticità dell’immagine le vertigini dell’esistenza interiore. Però, senza arrivare a quelle che, riferendosi allo scrittore bellunese, la critica definiva strategie iconotestuali, Guido e Paci concepiscono il dipinto come una trama possibile, una fabula che forza le buone regole del racconto, mescolando e confondendo le tradizionali unità aristoteliche di tempo, luogo e azione.
Silvia, Paci, Il domatore feroce, 2025
La vena narrativa di Agnese Guido nasce dalla trasfigurazione del quotidiano, da una capacità, insieme fantastica e sognante, di animare l’inanimato, trasformando oggetti, edifici e città in entità vive e senzienti. È un meccanismo che ricorre spesso nei cartoni animati e nei fumetti e che nel modo di dipingere dell’artista costituisce una sorta di seconda natura, una predisposizione a osservare la realtà da punti di vista inaspettati.
Agnese Guido, Camping of the Blind, 2025
L’artista riesce, infatti, a dare corpo e colore a una dimensione magica e vitale dell’esistenza che sarebbe altrimenti rubricata come mera fantasticheria o come semplice sogno ad occhi aperti. È un modo, il suo, che incanala nelle immagini dubbi e domande sul senso della vita, insomma una maniera di interrogare la realtà – e sé stessa – e provare a vedere le cose diversamente. È il genere di domande e di ipotesi che di solito si trova nei romanzi fantastici e nei racconti di fantascienza. Esiste perfino una serie di fumetti della Marvel che si chiama “What if…?”, dedicata alle ucronie e alle vicende dei supereroi ambientate in dimensioni parallele. Ma nel caso di Agnese Guido, l’elemento speculativo non riguarda mondi ulteriori o universi lontanissimi, ma la sfera più prosaica dell’esistenza, quel quotidiano su cui l’artista sovrascrive le proprie impressioni e considerazioni, concedendosi d’interpretare il mondo fenomenico attraverso un filtro fantastico che, però, non perde mai del tutto i contatti con la realtà.
Agnese Guido, Il troll, 2025
Con una pittura in cui convivono impulsi espressionistici e venature surrealiste, Guido illustra l’assurdità della commedia umana. Adotta un registro che spazia tra il lirico e l’ironico, tra il poetico e il farsesco, per squadernare ciò che è ordinario, ribaltando prospettive e rapporti di scala e sovvertendo ogni tipo di gerarchia, come accade, nei quadri grandi, da Camping of the Blind (2025) a L’occhio dell’Occidente (2025), fino a Piccola grande plastica (2025).
Agnese Guido, Autoritratto pensando ad un quadro, 2025
Nei suoi dipinti, infatti, figure umane e oggetti sono spesso sovradimensionati o miniaturizzati. Insomma, la loro statura non obbedisce alle leggi della fisica, ma alle esigenze del racconto. Tutto può diventare importante. Il banale può essere sublimato, come nel caso di Autoritratto pensando a un quadro (2025), dove il primo piano è occupato da un bidone dell’immondizia. Oppure, al contrario, le protagoniste di quadri come Glory Tamed (2025) e Will to Purify a Way to Die (2022), possono assumere dimensioni lillipuziane. Sono gli effetti di un relativismo pittorico che fa somigliare ogni scena a un giallo onirico, disseminato di falsi indizi e piste morte.
Agnese Guido, Comfortably in Danger, 2025
L’attitudine narrativa della pittura di Silvia Paci deriva dall’amore per la letteratura, la mitologia e il folclore. Leggende, storie popolari e racconti biblici costituiscono, infatti, il fondamento culturale e psicologico su cui l’artista costruisce il proprio immaginario simbolico, dove convergono memorie individuali e archetipi universali.
Silvia, Paci, Il paese della cuccagna, 2025
Quel che le favole e le esperienze reali hanno in comune è la fitta trama di menzogne, illusioni e falsità che trasformano le vicende più banali in avvincenti racconti del mistero. Silvia Paci cerca nel repertorio favolistico la matrice di frottole, fandonie e fantasie che condizionano l’esistenza umana. In un certo senso, i suoi dipinti sono atti psicomagici con i quali ritualizza in immagini fatti e circostanze del suo vissuto, proiettandoli all’interno di trame che sembrano uscite dalla penna di Carlo Collodi, dei Fratelli Grimm o diCharles Perrault. L’autoritratto dell’artista è un elemento ricorrente nei suoi dipinti, spesso costruiti come scene corali, affollate di personaggi come le tele del Seicento, dove verità e finzione si fondono senza soluzione di continuità.
Silvia, Paci, All My Friends Are Weird, 2025
Ad esempio, Il Paese della Cuccagna (2025) – riferimento a un archetipo narrativo presente in molti racconti, da Hans nel paese della Cuccagna dei Grimm al Paese dei Balocchi di Pinocchio, fino a Il Paese di Bengodi di Boccaccio –, come pure l’opera All my Friends Are Weird (2025), raffigurano i piaceri del gioco o del travestimento, introducendo il tema ricorrente della bugia, attorno a cui ruota tutta la recente produzione dell’artista. Maschere e feticci, infatti, compaiono in molte tele come simboli di simulazione o affettazione, ingredienti fondamentali di ogni pantomima. In particolare, i feticci sono bambole di pezza, oggetti fatti a mano dall’artista per essere inseriti nei quadri, accanto ai ritratti di amici e conoscenti.
Silvia, Paci, Giocolandia, 2025
Paci inventa anche bizzarre calzature dotate di zampe o artigli, come quelle che sostituiscono le tradizionali pantoufle de verre in Giocolandia (2025), dove l’artista interpreta appunto il ruolo di una novella Cenerentola. Bugie, panzane, fanfaluche sono concetti che affiorano in tutte le opere, assumendo ora l’aspetto di personaggi del romanzo di Collodi, dal famoso burattino (Trasformazione, 2025) al Gatto e la Volpe (Just Friends, 2025), da Mangiafuoco alla Fata turchina (Naso lungo, gambe corte, 2025), ora la fisionomia della pittrice stessa (Autoritratto, 2025) o dei suoi compagni d’avventura (Autoritratto con amiche, 2025).
Silvia, Paci, Naso lungo, gambe corte, 2025
Insomma, Agnese Guido e Silvia Paci restituiscono alla pittura uno scopo narrativo attraverso trasfigurazioni allegoriche e autobiografie mascherate. Le loro immagini possono essere interpretate come rappresentazioni dell’inconscio o come raffigurazioni mentali in cui convivono tracce e frammenti di storie potenziali. Storie a volte enigmatiche, ma dipinte con stile.
Silvia, Paci, Just Friends , 2025
[1]Storie dipinte, appunto, era il titolo della prima personale tenuta da Buzzati nel 1958 nella Galleria dei Re Magi a Milano e del relativo catalogo in 520 esemplari, stampato dai tipi dell’Officina d’Arte Grafica A. Luchini e C., ripubblicato nel 1977 dalle Edizioni del Libraio di Via S. Andrea Milano e poi nel 2013 da Mondadori in una nuova edizione curata da Lorenzo Viganò.
Nel limbo che separa la veglia dal sonno, quando la percezione si allenta e la realtà comincia a perdere i propri contorni, si entra in uno stato di coscienza ipnagogico, una condizione in cui possono manifestarsi apparizioni, allucinazioni, visioni alterate. È un momento in cui affiorano visioni brevi e intense, spesso isolate dal contesto, ma che si impongono chiaramente anche in assenza di una struttura narrativa. Lo scrive anche Pavel Florenskij, in un celebre saggio sull’icona, dove afferma che “al valico del sonno e della veglia, prima che si varchi l’intervallo tra i due territori, al confine dove si toccano, la nostra anima è circondata da visioni.[1]” Infatti, spiega il teologo, matematico e teorico dell’arte russo, “il sonno profondo, quello vero, in quanto tale, non si accompagna a visioni e soltanto lo stato metà sonno e metà veglia, appunto il confine tra sonno e veglia, è il tempo, o meglio il tempo-ambiente della scaturigine delle immagini oniriche.[2]”
Extra Brown Sugar, 2025, acrilico su tela, 50x40cm
Da questo “tempo-ambiente” derivano anche le visioni dipinte da Nicola Caredda, che traduce le immagini ipnagogiche in paesaggi mentali dove si accumulano i detriti industriali, urbanistici e culturali di una civiltà estinta. Le sue sono, infatti, vedute di scenari futuri, possibili conseguenze dell’attuale impatto antropico sull’ecosistema terrestre, oppure, semplicemente, posti desolati, periferie dell’anima in bilico tra i nonluoghidi Marc Augé e gli spazi liminali[3] della nuova estetica digitale. Sono territori di confine, zone marginali che funzionano come soglie d’ingresso a una realtà alternativa, bloccata in un eterno crepuscolo che illumina, con la sua luce serotina, oggetti, suppellettili e rovine del nostro presente. Il carattere metafisico di queste periferie disabitate è scandito dal nitore realistico delle immagini, dalle perfette volumetrie dei ruderi architettonici e dalle forme finemente cesellate dei residui della società dei consumi. Sono visioni che hanno la qualità dei sogni lucidi.
The Big Pineapple, 2025, acrilico su tela, 120x100cm
Nei quadri di Caredda, infatti, non ci sono deformazioni, distorsioni o travisamenti della realtà, ma nitide premonizioni di un tempo a venire che, in qualche modo, ci appare familiare, come se l’avessimo già vissuto. Nick Land, il controverso filosofo inglese, ex membro della CCRU, l’Unità di Ricerca di Cultura Cibernetica dell’Università di Warwick, ha chiamato questo tipo di fenomeno Iperstizione. Il concetto di hyperstition (iperstizione), derivato dalla crasi dei termini hype e superstition, è una narrazione che si autorealizza quando viene condivisa e interiorizzata da un gran numero di persone. La sua forza non risiede nella capacità di descrivere scenari distanti nel tempo, ma nel modo in cui condiziona la percezione del presente nella psicologia delle masse e attraverso fenomeni virali come la memetica. Come afferma Tommaso Guariento, esperto di Cultural Studies, “nella razionalità circolare della cibernetica, il futuro retroagisce sul passato e quindi, quando una narrazione si auto-realizza, quello che accade non è la manifestazione nel futuro di un desiderio presente, ma la provenienza dal futuro di elementi che vengono catturati da una storia.[4]” Come nella trama di Terminator, il film di James Cameron.
Pink Behind the Scenes, 2025, acrilico su tela, 50x40cm
Le opere di Caredda sono dispositivi iperstizionali nel senso che non descrivono un futuro possibile, ma lo attivano. La sua pittura ipnagogica diventa, così, uno strumento operativo che influenza l’immaginario del presente, di fatto riscrivendolo. Proprio per questo, nelle sue tele, le immagini non si presentano come illusioni fantastiche, né come chimere surreali. In realtà, non solo ogni oggetto è riconoscibile nella sua qualità di merce o feticcio della società attuale – dalla bottiglia di Coca Cola alle vecchie bombolette spray Krylon, fino alla rivista Toiletpaper di Maurizio Cattelan – ma anche le architetture e le infrastrutture sono quelle di edifici, cabine telefoniche, distributori di benzina, autostrade e cavalcavia di cui è disseminato il sistema viario italiano. Caredda è estremamente realistico quando si tratta di evocare luoghi e cose più o meno note, ma lo è altrettanto quando inventa oggetti verosimili come il vaso di fiori di The Big Pineapple(2025), con quel bizzarro motivo decorativo di mosche ripetute, o la scultura di sapore quasi classicheggiante che rappresenta la testa di un cane Spaniel nel dipinto Brown Sugar Extra (2025).
Armed Spray, 2025, acrilico su tela 50x40cm
La luce gioca un ruolo essenziale in questa dinamica di definizione realistica, intensificando la consistenza degli oggetti e scandendone nitidamente le forme. Il risultato è la creazione di un universo perfettamente leggibile, sebbene sospeso in un tempo elastico, in cui convivono tracce del passato, configurazioni attuali e presenze potenziali. I dipinti di Caredda catturano i barbagli di un futuro eventuale, non descrivono uno sviluppo necessario. Se è vero, come sostiene Franco “Bifo” Berardi che “lo stato presente del mondo può essere descritto come la simultanea occorrenza vibrazionale di molte possibilità[5]”, allora le visioni di Caredda possono essere interpretate come “l’effetto temporaneo e instabile di una polarizzazione, la fissazione provvisoria di un modello”[6]. Un modello fino ad ora plausibile, ma che, forse, può ancora essere scongiurato.
[1] Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, a cura di Elémire Zolla, 1997, Adelphi, Milano, p. 20.
[3] Nell’estetica di Internet, gli spazi liminali sono luoghi vuoti o abbandonati che appaiono inquietanti, desolati e surreali. Quest’estetica ha acquisito rilevanza nel 2019 con la diffusione virale di un post su 4chan che mostrava uno spazio denominato “Backrooms”. In seguito, immagini di spazi liminali sono state condivise su varie piattaforme online, tra cui Reddit, Twitter e TikTok. Ne scrive Valentina Tanni in: Exit Reality. Vaporwave, backrooms, weirdcoree altri paesaggi oltre la soglia, 2023, Nero edizioni, Roma.
Il linguaggio pittorico di El Gato Chimney si è strutturato, nel tempo, in una sintassi figurativa unica, che ha saputo integrare il rigore tassonomico di un naturalista del XIX secolo con l’elegante acribia di un miniaturista medievale e il vigore visionario di un pittore simbolista. Questa sintesi è stata il prodotto di una evoluzione stilistica che, dopo gli esordi nell’ambito della street art, lo ha portato a interessarsi alle radici magiche ed esoteriche di diverse tradizioni figurative. Con un approccio da etnografo, infatti, l’artista ha composto, attraverso diversi cicli pittorici, una specie di Atlante Warburghiano, fatto d’immagini che attingono al repertorio del folclore di vari popoli, declinate, però, in un lessico personale, che cuce insieme la dimensione simbolica con l’attenzione a temi e istanze del contemporaneo.
Kasha, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
L’interesse di El Gato Chimney per l’immaginario spirituale e magico dell’estremo oriente che caratterizza in particolare questa esposizione, è il segno di un percorso di studio e rielaborazione di iconografie classiche giapponesi di cui, peraltro, si trova traccia anche nei manga e nei film d’animazione contemporanei[1]. Assecondando la propria passione per il Sol Levante, l’artista ha creato un bestiario personale, composto di animali mutanti e ibridi antropomorfi, spesso riconducibili alle tipologie degli yōkai, demoni e spiriti che, secondo i racconti tradizionali, compaiono nelle strade delle città e dei villaggi durate le notti d’estate. Si tratta di figure che, lungi dall’essere semplici mostri, svolgono un ruolo rituale, scaramantico e pedagogico nella cultura locale. Nel loro aspetto mostruoso si cela, infatti, una funzione di ammonimento e, insieme, di conservazione della memoria collettiva. Spesso rappresentati in cortei o processioni, gli yōkai sono entità soprannaturali che incarnano la paura dell’ignoto e del mutamento, esseri ambigui e mutaforma che El Gato Chimney adatta al proprio preesistente vocabolario zoomorfico.
Into the web, 2025, acquarello e tempera su carta, 150x30cm
Nelle sue opere, infatti, la ripresa di queste figure è sempre rielaborata attraverso una reinvenzione che mette in gioco forme e contenuti eterogenei, che attingono tanto all’iconografia degli emakimono, i rotoli di racconti illustrati diffusi tra l’XI e il XVI secolo, o degli ukiyo-e, le cosiddette “immagini del mondo fluttuante” delle stampe del Periodo Edo, quanto alla cultura visiva contemporanea, compresi, appunto, i linguaggi dell’illustrazione e del fumetto, di cui l’artista è un grande appassionato. Un esempio tipico di reinvenzione è Matsuri (2025), un dipinto ad acquarello e tempera in cui l’artista riprende la struttura di una celebre opera di Kawanabe Kyōsai, inserendo nell’iconografia classica della Hyakki Yagyō (“La Parata dei cento demoni”), il proprio campionario di creature dispettose e sbeffeggianti, simili a quelle evocate nelle sfilate delle feste processionali shintoiste.
The Ghost Cat, 2025, inchiostro di china e acquarello su carta, 70x50cm
Nel caso di El Gato Chimney, è soprattutto attraverso il ricorso al teriomorfismo, cioè l’attribuzione di una forma animale a divinità, spiriti o entità di origine soprannaturale, che si può ravvisare un’influenza asiatica, recepita anche attraverso la mediazione occidentale di Hieronymus Bosch o Pieter Bruegel il Vecchio che, secondo lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis[2], mutuarono alcune figure mostruose da fonti estremorientali. Tuttavia, la propensione verso la creazione di una morfologia incerta tra l’umano e l’animale si trova già in precedenti lavori dell’artista. È semmai nel formato orizzontale allungato, quello già sperimentato nei libri d’artista come Namazu (2022), Giant Octopus (2022) e The Frog’s Apparition (2021), che seguono l’andamento a fisarmonica delle Moleskine, che si avverte più forte l’allusione alla tradizione dei rotoli emakimono, dove l’approccio narrativo dell’artista trova nuove soluzioni per affrontare temi che riflettono timori e paure collettive di stretta attualità. Ad esempio, Into the Web (2025) è una metafora delle politiche di controllo e sorveglianza adottate nella rete internet attraverso l’impiego degli algoritmi. Questo timore, in fondo giustificato, è incarnato nelle fattezze di un grande aracnide rosso, preso d’assalto da uno sciame di vendicativi animaletti antropomorfi. Sono gli stessi animaletti che compaiono, muniti di inchiostro e pennelli, in quella sorta di allegoria della pittura che è The Creations, dove le tecniche dell’acquarello e della tempera incontrano lo stile disegnativo e calligrafico della china.
The Great Puffy, 2025, acquarello e tempera su carta_100x70cm
Di impianto narrativo sono anche le opere in cui l’artista esprime le proprie preoccupazioni per i danni ambientali provocati dal fast fashion. A esempio in The Great Puffy (2025) e The Metamorphosis (2025), dove compaiono soffici mostri dai corpi ricoperti con patchwork di tessuti differenti, Leviatani partoriti da un’industria tessile irresponsabile. L’allusione è alle discariche di abiti accumulati nel deserto di Atacama, lungo la cordigliera del Cile, tragico effetto di un mercato globale che produce più rifiuti di quanti ne riesca a smaltire. El Gato Chimney, però, tratta l’argomento con una certa eleganza, scegliendo con cura i motivi decorativi dal repertorio tessile tradizionale giapponese e trasformando, così, ogni pattern in una trappola per lo sguardo.
Winter in April, 2025, acquarello e tempera su carta, 100x70cm
Timori di natura ecologica si possono leggere, anche solo in filigrana, nell’opera Winter in April (2025), dove un maestoso coniglio di neve è assediato da una turba di creature zoomorfe, tra le quali si annidano strane sculture di paglia, oggetti apotropaici solitamente posti all’ingresso dei villaggi contadini a protezione dei raccolti, che l’artista trasforma in talismani contro gli effetti del cambiamento climatico. Un elemento ricorrente di molte opere di El Gato Chimney è la presenza di fili e corde rosse, che spesso legano tra loro i personaggi, formando un ordito, appena distinguibile, di relazioni, tensioni e legami invisibili che governano l’enigmatico universo dell’artista. Ci sono, però, altri oggetti simbolici che ritornano, come un refrain, nel suo immaginario visivo: campanelli, maschere, ventagli, ma anche aghi, forbici, torce, coltelli e pestelli branditi, come armi, da un popolo di buffe creature lillipuziane.
The Creations, 2025, acquarello tempera e inchiostro di china su carta, 150x30cm
È un immaginario, il suo, che può assumere toni parodistici, come succede in One Day at the Shore (2025), dove una grande piovra umanoide – figura ricorrente delle stampe ukyo-e, da Kuniyoshi a Hokusai –fronteggia un esercito di creaturine acquatiche in una scena da teatro kabuki, dove il mare diventa palcoscenico dell’assurdo. Ma grottesche, quasi caricaturali, sono anche le figure di volpi, rane, topi e polpi di alcune ceramiche smaltate, con le teste impilate a formare dei piccoli totem domestici. Insomma, stravaganze e stramberie del bestiario shintoista, ma anche buddhista, abbondano un po’ ovunque nelle opere di El Gato Chimney, affascinato dal trasformismo dei bakemono, animali mutaforma dei racconti popolari, intermediari tra i mondi fenomenico e ultraterreno che spesso hanno l’aspetto di giganteschi gatti, come nei dipinti Kasha[3] (2025) e The Ghost Cat (2025). Tra le bestie polimorfiche ritratte dall’artista ci sono anche il kitzune[4], entità leggendaria in forma di volpe, l’usagi[5], il coniglio che i giapponesi associano alla luna, e, infine, il kaeru[6], la rana portafortuna.
One Day at the Shore, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
Eppure, accanto all’invenzione e alla rilettura iconografica, colpiscono la tenuta linguistica del lavoro dell’artista e la sua capacità di tenere insieme registri differenti, combinando l’immediatezza grafica tipica dell’illustrazione con l’intensità simbolica delle miniature medioevali. Le superfici dei suoi racconti, pur gremite di figure, risultano sempre chiaramente leggibili. I colori sono vivaci, ma controllati, i tratti netti, ma dinamici. Insomma, la sua pittura costruisce uno spazio visivo chiaro, comprensibile, nonostante la disseminazione di elementi enigmatici, per non dire esoterici. Poi ci sono le opere a inchiostro di china, dove a cambiare non è solo la materia pittorica, cambia, ma anche il gesto e, dunque, la sua capacità espressiva. Nelle grandi carte, la narrazione cede spazio alla monumentalità del soggetto, il numero di figure si riduce, la forma si sfalda rispetto ai modi miniaturistici abituali e l’immagine, emerge come presenza ineludibile, che occupa tutto il campo visivo dell’osservatore. Anche qui tornano le forme animali, ma in veste più archetipica, quasi mitologica: rospi colossali, piovre dagli occhi ipnotici, giganteschi felini predatori, mostri che ricordano le figure apotropaiche dei templi buddhisti o i terribili demoni dei thangka tibetani[7].
The Rumble, 2025, china ink on paper, 200x450cm
In queste figure, dove l’inchiostro è steso con variazioni tonali che vanno dal grigio chiaro al nero più profondo, le anatomie si fanno incerte, fluttuanti, come masse organiche che affiorano da un magma indistinto. La resa espressiva è affidata a una spontaneità vigile, in un equilibrio sottile tra disciplina e libertà. Ma queste nuove opere in bianco e nero, molte delle quali rappresentano rane e rospi benauguranti – da D Green (2025) a Master Toad (2025) fino a Kawanabe, velato tributo uno dei maggiori pittori giapponesi dell’Ottocento[8] – non costituiscono un semplice pendant tecnico delle composizioni a colori ma, in qualche modo ne rappresentano il controcanto concettuale. Se le prime costruiscono un mondo, le seconde ne evocano il fondamento simbolico. Se le prime usano la struttura del racconto visivo, le seconde si manifestano come apparizioni o epifanie. Queste sono, infatti, opere dominate da figure liminari e polisemiche, che funzionano indifferentemente se a osservarle è lo sguardo divertito di un bambino oppure quello di un cultore delle “cose orientali”, che sa interpretare il senso di ogni figura. Così, la grande rana che dà il titolo alla mostra non è soltanto un simbolo da decifrare, ma un’icona eccedente, fuori scala, meravigliosamente scenografica, che cattura e coinvolge, generando un effetto di ammirata stupefazione. Ed è già più di quanto faccia normalmente gran parte della cosiddetta arte contemporanea.
The Metamorphosis, 2025, acquarello e tempera su carta, 70x100cm
[1] In particolare, la produzione dello Studio Ghibli è ricca di riferimenti all’iconografia delle creature del folclore popolare e shintoista in anime come La città incantata (2001) e Principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki e Pom Poko (1994) e La storia della Principessa Splendente (2013) di Isao Takahata.
[2] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, 1997, Adelphi, Milano, p. 242.
[3]Kasha, che significa letteralmente “carro di fuoco”, è un demone felino in cui si trasformerebbero alcuni gatti giunti in età avanzata. Talvolta è rappresentato come un traghettatore di anime, che trasporta i dannati all’inferno su un carretto.
[4]Kitsune è uno spirito in forma di volpe che può entrare nei sogni, diventare invisibile, assumere sembianze umane, specialmente di donna, e perfino volare.
[5]Tsuki no usagi è una figura immaginaria presente nella mitologia di diversi paesi dell’Estremo Oriente, in particolare Cina e Giappone. Rappresenta un coniglio che risiede sulla Luna, seduto sulle zampe posteriori accanto a un pestello da cucina, impegnato a preparare il mochi, un tipico dolce tradizionale.
[6] La parola Kaeru, che in giapponese significa “tornare”, è omofona di Kaeru, la rana. Questo ha fatto delle rane i simboli del “ritorno” della ricchezza e della buona sorte.
[7] I Thangka sono dipinti tibetani sacri su tela, incorniciati con tessuti di broccato. Rappresentano immagini sacre come mandala, ruote della vita, divinità e Buddha del Buddismo tibetano.
[8]Kawanabe Kyōsai (1831-1889) è stato un pittore e incisore giapponese, a cavallo tra i periodi Edo e Meiji.
Arduino Cantàfora, Brano di città, 1974-2023, Olio su tela, 80 x 109 cm
In occasione della Art Week e della Design Week milanesi, la galleria di Antonio Colombo approfondisce il rapporto con l’artista milanese Arduino Cantàfora trasformando radicalmente gli allestimenti della precedente mostra, Anamnesi, in una nuova esposizione, intitolata Cantàfora Reload e l’utopia razionalista di Columbus, dedicata al confronto tra il linguaggio moderno degli arredi razionalisti prodotti negli anni Trenta, con il marchio Columbus, dalla Ditta A. L. Colombo di Milano e la grammatica postmoderna e citazionista della pittura Cantàfora. Unica eccezione è la sala d’ingresso della mostra, rimasta inalterata, in cui è possibile vedere per la prima volta insieme due opere storiche di grandi dimensioni, La città banale (1980) e Stanza di Città – Roma (1983), esposte rispettivamente alla Biennale di Architettura di Venezia del 1980 e alla Biennale d’Arte di Venezia del 1984.
L’idea di questa mostra, rinnovata nel concetto e nei contenuti, nasce dai curiosi destini incrociati diArduino Cantàfora e Antonio Colombo. Il padre del pittore, Alfonso Cantàfora, è stato, infatti, per molti anni il direttore tecnico dell’azienda fondata dall’industriale milanese Angelo Luigi Colombo, padre del gallerista, che ne ha poi continuato l’attività fino al 2023. Da un lato, l’artista è cresciuto osservando i mobili Columbus, costruiti con tubi di acciaio senza saldatura, trafilati e curvati a freddo e poi cromati, perfetti esempi di una concezione razionale e avveniristica dell’arredamento d’interni; dall’altro, Antonio Colombo ha visto nascere e crescere il talento pittorico di Arduino Cantàfora, seguendone gli sviluppi e le evoluzioni nel corso del tempo e finendo per diventare suo gallerista.
Arduino Cantàfora, Atrio, 1978-2023, Olio su tela, 80 x 79 cm
Cantàfora Reload e l’utopia razionalista di Columbus è, dunque, una mostra che muove dalle vicende biografiche dei due protagonisti, per avviare un confronto tra due concezioni estetiche apparentemente opposte – quelle del Modernismo e del Postmodernismo – che trovano un punto d’incontro nella sottile trama di analogie e corrispondenze che legano la pittura di Cantàfora al rigoroso design dei mobiliColumbus.
Tra i mobili Columbus prodotti negli anni Trenta, sono stati selezionati per questa mostra, alcuni oggetti di grande valore storico, come, ad esempio, il tavolino tondo e la sedia a sbalzo esposti per la prima volta nel 1933 al Padiglione Futurista dellaV Triennale delle Arti Decorative e Industriali moderne, la prima tenutasi a Milano nel palazzo costruito da Giovanni Muzio. Gli oggetti prodotti dalla Ditta A. L. Colombo, con il loro design ultramoderno, facevano parte degli arredi della sala d’attesa di una Stazione per aeroporto civile progettata da Enrico Prampolini e costruita nel Parco Sempione.
Sedia a sbalzo, Enrico Prampolini, Padiglione Futurista, Stazione per Aeroporto civile, V Triennale di Milano, 1933
Molto importante è anche lo sgabello a sbalzo esposto, sempre alla V Triennale, all’interno della Casa sul lago per l’artista progettata dal Gruppo di Architetti e Ingegneri Comaschi, rappresentanti di punta del Razionalismo lariano. In mostra è presente anche il prototipo di una poltrona di Pietro Bottoni, esposta nella Sala di attesa per un medico, alla VI Triennale del 1936. Si tratta di una “Poltrona da grande riposo” con innovativa sospensione elastica a telaio incrociato.
Piero Bottoni, Poltrona per la “Sala d’attesa per lo studio di un medico” esposta alla VI Triennale di Milano, 1936.
Nella pittura di Cantàfora l’esattezza e la razionalità che contraddistinguono le produzioni Columbus si ritrovano nel modo in cui le visioni architettoniche e urbane obbediscono al rigore della geometria descrittiva, tra scorci prospettici e proiezioni assonometriche che l’artista immerge nel lirismo dei ricordi.
Le nuove opere esposte in questa mostra sono, infatti, riletture e reinterpretazioni recenti di iconografie dipinte da Cantàfora tra gli anni Settanta e Ottanta. Sono quasi dei D’apres alla maniera del Giorgio De Chirico autocitazionista, reminiscenze che l’artista inscrive in sfondi astratti di sapore vagamente neoplastico, quasi si trattasse di immagini incorniciate, istantanee di un futuro anteriore o, meglio, ipotesi di un passato continuamente attualizzato nelle forme di imponenti prospetti urbanistici e monumentali interni architettonici, scanditi da precise scansioni chiaroscurali.
Arduino Cantàfora, Il salso abisso marino, 1981-2023, Olio su tela, 58,5 x 46,5 cm
In mostra ci saranno anche le prospettive parallele dai titoli enigmatici, tratti dalla Tempesta shakespeariana, che diverranno fonte di ispirazione dei capoversi dei racconti contenuti nel volume pubblicato da Einaudi nel 1988 “Quindici stanze per una casa”.
Biografie
Arduino Cantàfora
Arduino Cantàfora nasce a Milano nel 1945. Già giovanissimo nutre la curiosità per le forme organiche, l’anatomia e l’entomologia, passioni rimaste vive anche durante i suoi studi di architettura. Scopre molto presto il linguaggio del disegno, che diventa il suo strumento privilegiato di appropriazione delle forme. Il pittore esordisce affrontando la spinosa sfida tecnica della pittura a olio e diventando copista di Caravaggio. Da quel momento in avanti il piacere tecnico e artigianale della pittura non lo abbandonerà più. Durante gli studi di architettura al Politecnico di Milano, perfeziona la rappresentazione pittorica dell’architettura della città storica. Le sue interpretazioni sono tutte giocate su ombre e luci, in un’ispirazione fedelmente caravaggesca. Le competenze che matura in questi anni gli saranno preziose durante la collaborazione con l’architetto Aldo Rossi (1973-1978), ma influenzeranno anche la sua futura produzione, dominata dalla traduzione dell’architettura in pittura. Nel 1973, Cantàfora espone alla Triennale di Milano “La Città analoga”, attualmente di proprietà del Museo del Novecento del capoluogo lombardo. Questo dipinto di grandi dimensioni diventa il manifesto de La Tendenza, un movimento architettonico che reintegra elementi del razionalismo europeo del XX secolo ponendo la storia dei luoghi al centro del progetto. La Tendenza sarà oggetto di una retrospettiva al Centre Pompidou di Parigi nel 2012. Cantàfora partecipa di nuovo alla Triennale di Milano nel 1981 e 1988. A Venezia, alla Biennale di Architettura, nel 1978 e 1980 e nel 1984 alla Biennale d’Arte. Tra il 1985 e il 1986 è a Berlino, su invito del Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). La città gli ispira una serie di dipinti che saranno esposti al museo Martin-Gropius-Bau proprio a Berlino. Le due grandi tele, “Das andere Berlin, 1984” saranno acquisite, nel 2006, dal Museo Nazionale d’Arte Moderna (MNAM) al Centre Georges Pompidou di Parigi. I due dipinti sono parte delle 89 opere di Cantàfora in possesso del museo parigino. Nel corso degli anni ’90, il pittore concepisce diverse scenografie per la Scala di Milano e per altri prestigiosi palcoscenici come quello del Festival di Aix en Provence. Il suo lavoro di scenografo gli vale il secondo posto al Premio Ubu, il più importante riconoscimento teatrale italiano. Tra il 2022 e il 2023, è invitato a due importanti mostre pubbliche: “Architectures impossibles” al Musée des Beaux-arts di Nancy e “Un tiempo propio” al Centre Pompidou di Malaga, dove sono esposte due grandi tele berlinesi della collezione del Centro Pompidou di Parigi. Arduino Cantàfora è stato professore di architettura all’Università di Venezia (IUAV) dal 1982 al 1986, all’Accademia di Architettura di Mendrisio (AAM) dal 1998 al 2011 e “visiting professor” alla Yale University nel 1988. Nel 1989 è stato nominato professore ordinario presso l’Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL), dove ha diretto la cattedra di espressione visiva. Dal 2011 è professore onorario all’EPFL. È autore di diverse pubblicazioni sull’architettura e sulla didattica, oltre a diversi racconti pubblicati da Einaudi.
Mobili Columbus
La produzione dei mobili in tubo metallico viene avviata dall’azienda A.L. Colombo di Milano nel 1933 e si conclude nel dopoguerra. Tutto incomincia quando viene acquisita la licenza esclusiva per la produzione in Italia dei mobili metallici dell’azienda zurighese Wohnbedarf, che aveva sviluppato modelli con molti architetti, tra cui Alvar Aalto, Sigfried Giedion, Werner Moser, Alfred Roth o Flora Steiger, ma soprattutto con Marcel Breuer che dalla metà degli anni Venti aveva progettato all’interno del Bauhaus con il tubolare d’acciaio. Columbus realizza, su licenza, mobili “originali” con la competenza specialistica e di qualità nella lavorazione del tubo d’acciaio ma anche della sua curvatura, esito di un processo assieme meccanico e di perizia esecutiva manuale. Non è dunque un caso che l’architetto Giuseppe Terragni – e prima di lui Giuseppe Pagano, fra l’altro per il design di un diffusissimo portaombrelli – si rivolgesse proprio a Columbus per gli arredi in tubo metallico degli edifici comaschi della seconda metà degli anni Trenta, come la Casa del Fascio o l’asilo Sant’Elia. Poltrona e sedia, con il caratteristico sbalzo elastico, adottate in entrambe le architetture, vennero prodotte in piccole serie “industriali”. Fra i progettisti italiani, un’altra collaborazione prestigiosa di Columbus è stata con Piero Bottoni, in occasione della VI Triennale di Milano del 1936, dove per la Sala d’attesa per lo studio di un medico vengono sperimentate diverse soluzioni per poltrone basate su un originale incrocio elastico. Quella di Columbus è una vicenda importante per la storia del design italiano, che è stato possibile salvaguardare e ricostruire grazie alla meritoria volontà di Antonio Colombo, figlio di Angelo Luigi, che ha voluto costituire l’Archivio Columbus, incentivando studi, pubblicazioni (il volume Flessibili splendori. Il mobile in tubolare metallico. Il caso Columbus, Electa, 1998), iniziative e mostre, come quelle che si svolgeranno quest’anno in cui ricorre il centenario di fondazione dell’azienda paterna. L’Archivio Columbus rappresenta un unicum a livello internazionale di un patrimonio salvaguardato nel tempo, costituito da centinaia di arredi originali, progetti e disegni, cataloghi e pubblicità propri e della concorrenza, stampi in legno per la produzione e documenti. Un antesignano archivio d’impresa, attivo dalla metà degli anni Novanta, che ben testimonia la dimensione caratteristica dell’imprenditoria avanzata in Italia, unione di capacità di ricerca e innovazione, dialogo con il progetto e un’appropriata e visionaria dimensione culturale.
INFORMAZIONI
Cantàfora Reload e l’utopia razionalista di Columbus
A cura di Ivan Quaroni
2 Aprile – 30 Aprile 2025
Antonio Colombo Arte Contemporanea, Via Solferino 44 – 20121 Milano
Orari di apertura: martedì – venerdì, 10.00 / 13.30 e 15.00 / 19.00 – sabato 15.00 / 19.00
Stanza di Città -Roma, 1983, olio su tela, cm 400×200
Per comodità o forse per una certa pigrizia della critica, Arduino Cantàfora è sempre stato incasellato nella sfuggente categoria degli “architetti-pittori”, professionisti inclini allo sconfinamento disciplinare, cui appartengono figure di spicco come Antonio Sant’Elia, Enrico Prampolini, Ico Parisi, Giò Ponti, Ugo La Pietra, Riccardo Dalisi, Alessandro Mendini e, naturalmente, Aldo Rossi, suo mentore e maestro. Gianni Contessi, autore del libro Architetti-Pittori e Pittori-Architetti. Da Giotto all’età contemporanea (Dedalo edizioni, Bari, 1985), sosteneva, però, che la pittura di Cantàfora, fortemente influenzata dalla sua formazione “realista” e caravaggesca, avesse poco a che fare con la sua attività di architetto. Scriveva, infatti, che “Essa dunque, in senso stretto, non fa neppure parte di quell’architettura dipinta che sembra essere uno dei bracci più o meno secolari della così detta Tendenza”[1], il movimento architettonico guidato da Aldo Rossi, di cui La città analoga, dipinto di Cantàfora presentato alla Triennale di Milano del 1973, rappresentava un emblematico manifesto visivo. E, in effetti, anche Francesco Moschini, analizzando quel dipinto, che considerava un’appendice visiva del tema rossiano della città contradditoria, una specie di collage di edifici storici e stili differenti, notava una discontinuità nel percorso di Cantàfora: “[…] sembrava d’un tratto che egli avesse negato la sua più autentica formazione «realista» che dal ’68 in poi lo aveva visto impegnato in una serie di riletture caravaggesche”[2].
La città banale, 1980, olio su tela, cm 200×400
Certo, la collaborazione con Aldo Rossi, durata fino al 1979, aveva vincolato Cantàfora al soggetto architettonico, ma il suo approccio alla pittura era rimasto quello tipico del naturalista, abituato a osservare e catalogare la morfologia delle forme organiche. Prima di diventare copista di Caravaggio, infatti, si era impratichito di anatomia, tassidermia ed entomologia, discipline che, insieme all’interesse per le scienze, avevano affinato la sua capacità di osservazione e analisi della realtà.
La pittura di Cantàfora è, dunque, il risultato di una formazione peculiare, cui hanno contribuito numerosi fattori. Relegarla alla categoria della “pittura d’architettura” significa non riconoscerne la vera natura, ovvero quella di essere, semplicemente, “pittura”. Anzi, “grande pittura”, che dialoga non solo con la tradizione artistica lombarda del Cinque e Seicento, ma anche con il Divisionismo di Angelo Morbelli, la Metafisica di De Chirico, i maestri del Realismo Magico tra le due Guerre e i realisti nordeuropei, come il danese Vilhelm Hammershøi. Più che un “architetto-pittore”, si potrebbe definire un “pittore-pittore”, se non si rischiasse, così, di confonderlo con il gruppo degli artisti analitici che così venivano chiamati negli anni Settanta. E allora basterebbe chiamarlo “pittore”, una sola volta, così da accomunarlo, finalmente, alla schiera dei suoi simili.
Quando ritornerà, 2023, Vinilico e olio su tavola, cm 70×50
Il disegno rappresenta la pietra angolare dell’arte di Cantàfora, una pratica fondamentale anche per l’apprendistato degli artisti antichi (e di molti moderni). Come osservava Henri Focillon: “Quale che sia la forza di ricezione e di invenzione della mente, senza il concorso della mano essa non darebbe vita che a un tumulto interiore”[3]. Il disegno si fa con le mani, “esse sono lo strumento della creazione”, scriveva lo storico dell’arte francese, “ma prima di tutto l’organo della conoscenza”[4]. Un’affermazione riecheggia anche nelle parole di Cantàfora, quando dichiara che “Il disegno ha rappresentato il senso del mio guardare il mondo e, nella misura del possibile, la maniera di cercare di capirlo”[5]. Per lui il disegno non è solo uno strumento di ricostruzione, ma anche di riflessione e comprensione della realtà. Disegnando, l’artista scopre che le forme naturali tendono a ripetersi: “Quando vedo nel cranio umano i forami per il passaggio dei nervi, li ritrovo identici nel cranio di un bovino o di un primate o di un elefante”[6].
Su questo tipo di conoscenza analitica della morfologia delle forme, s’innesta poi la personalità dell’artista, con la sua inclinazione evocativa e nostalgica. Cantàfora sviluppa, infatti, una concezione del disegno come “memoria” su cui edifica nuovi immaginari. Dato che i ricordi sono sempre imperfetti, la loro ricostruzione richiede una certa dose di immaginazione.
Per lui il disegno è un “abito mentale”, costruito attraverso una pratica pluriennale, ma anche una forma di rievocazione che ha caratteristiche terapeutiche. “Per me”, spiega, “la memoria è anche anamnesi, un ricordare che cura”[7]. Quest’idea – in parte derivata dalla filosofia platonica, in cui la “reminiscenza” è considerata il supremo atto conoscitivo, in parte mutuata dal linguaggio medico, dove è usata per designare la raccolta particolareggiata delle informazioni di un paziente -, la si ritrova in molti dipinti di Cantàfora, pervasi da una delicata rêverie.
L’ora perduta, 2020, Vinilico su tavola, 70 x 50 cm
Nei grandi lavori come La Città banale (1980) e Stanze di città. Roma (1983), presentati rispettivamente alla Biennale di Architettura di Venezia del 1980 e alla Biennale d’Arte di Venezia del 1984 – esposti per la prima volta insieme in questa mostra –, la vena memoriale sembra assumere un valore quasi programmatico, riconducibile alla prassi dello studio di Aldo Rossi o all’eredità concettuale del postmodernismo. Al contrario, nei dipinti privati – se così possiamo definirli – il tono elegiaco si distingue per una qualità particolare, espressa attraverso una grammatica di predilezioni e ricorrenze. In primo luogo, fatta eccezione per i periodici autoritratti, nei quadri di Cantàfora spicca l’assenza di figure umane, ereditata dalla Metafisica novecentesca, ma anche dalle Città ideali del Rinascimento. A ciò si aggiungono le atmosfere immobili, quasi cristallizzate, conseguenza di una volontà di “bloccare un momento di tempo sfuggente, guidato dalla malinconia del ricordo”[8]. Emblematica, in tal senso, è la raffigurazione dell’orologio a muro – talvolta con le lancette ferme su un’ora meridiana (Au prochain toc il sera…, 2023), altre volte senza lancette (L’ora perduta, 2020) -, che rimanda al dipinto L’enigma dell’Ora (1911) di Giorgio De Chirico. Un altro elemento chiave è la luce, fulcro di tutta la sua produzione pittorica, che condensa l’idea di una memoria ricostruttiva e, in un certo senso, palliativa, nell’ossessione, tipicamente hopperiana, per riverberi, riflessi e giochi d’ombra che nei suoi quadri scandiscono gli scorci di interni architettonici: ingressi, corridoi, androni, vani scale e varchi, insomma stanze di transito che, paradossalmente, si trasformano in una teoria di sale d’attesa, dove il flusso temporale sembra interrompersi.
Au prochain toc il sera…, 2023, Vinilico e olio su tavola, cm 70×50
La sospensione evocata da questi luoghi suggerisce una pausa contemplativa. Le pareti bicromatiche, simili a boiserie dipinte, accolgono giochi di luce e ombre: le finestre proiettano arabeschi geometrici (Scale III, 2020) e reticoli luminosi (Porta sul giroscale, 2025; Finestra e fontana, 2025). Gli aditi sono spesso contraddistinti da simbolici pavimenti a scacchiera, immancabili nelle aule dei templi massonici, come nelle case dei primi del Novecento (Au N. 5 de la rue Centrale à Lausanne II, 2024; Stanza con acquaio, 2025). Le stanze con fontane e piscine coperte, simili ad ambienti termali, acuiscono l’impressione di calma e placidità (Primo interno milanese, 1985-2023; Nell’acqua, 2024; Riflessi II, 2020).
Au N 5 de la rue Centrale à Lausanne II, 2024, Vinilico e olio su tavola, cm 50×35
Il tutto è dipinto con una precisione di dettagli che richiama l’acribia descrittiva di certe pagine di Gadda. Ad esempio, quelle in cui lo scrittore delinea, con matematica esattezza, forma e proporzioni delle mattonelle milanesi in uso tra il 1890 e il 1910[9]. Non sorprende che sia Gadda sia Cantàfora siano di estrazione borghese meneghina ed abbiano ricevuto, pur in tempi diversi, una formazione tecnica al Politecnico di Milano: il primo come ingegnere, il secondo come architetto. Un tratto comune, questo, che si riflette nell’approccio analitico, evidente nei rispettivi ambiti artistici.
Riflessi II, 2020, Vinilico su tavola, cm 70×50
Nel caso di Cantàfora, quest’approccio consiste nel saper concentrare, come ha scritto Fulvio Irace, “il suo sguardo ‘esatto’ e iperrealistico su un’idea di spazio abitato, intriso di uno spleen di ascendenza nordica, assai congeniale, d’altra parte, al suo carattere introverso e meditativo”[10]. C’è, però, anche la capacità d’integrare l’esattezza con l’invenzione, cioè di creare qualcosa di diverso a partire da ciò che si conosce. Come nel caso della tavola intitolata Filarete, Codussi (2021), dove due architetture veneziane poste in luoghi diversi della città, vengono affiancate con uno stratagemma che ricorda i postmoderni accostamenti di edifici di La Città banale (1980) o delle Stanze di città. Il quadro rappresenta uno scorcio del sestiere di Castello con la vista dell’abside della Basilica di San Pietro, accanto alla quale si staglia il bianco campanile rinascimentale in pietra d’Istria eretto da Mauro Codussi, mentre a sinistra, su una grande affissione, compare un illusionistico capriccio architettonico con il bugnato di Cà del Duca, palazzo affacciato sul Canal Grande, nel sestiere di San Marco, realizzato, appunto, dal Filarete. “Reinventare spazi conosciuti, è costruire un mattone sull’altro”, confessa Cantàfora, “un luogo già costruito con i mattoni di una conoscenza garantita, e il risultato è ogni volta differente”[11].
Filarete, Codussi, 2021. Vinilico su tavola, cm 80×120
Come nel caso di alcuni d’apres che che riprendono sue opere del passato, inquadrandole in una cornice geometrica dipinta. Ad esempio, Sala teatrale (1975-2023), dove il motivo della visione urbana da un interno anticipa la serie dei Teatri di città e mostra come la conoscenza pregressa degli edifici rappresentati si unisca a una propensione combinatoria fantastica. Una disposizione che ritroviamo in Primo interno milanese (1985-2023), dove le due finestre simmetriche si aprono sulla visione diurna e fluidificante del sobrio carattere costruttivo del capoluogo lombardo.
Primo interno milanese, 1985-2023, olio su tela, cm 80×105
L’elemento inventivo è, in verità, sempre presente nelle opere di Cantàfora, anche se in una forma sottile, invisibilmente intrecciata con la realtà oggettiva di un edificio o di un paesaggio. Un esempio è la grande tela intitolata Stanza di Città Roma (1983), concepita come una sorta di creativa interpolazione tra il modello rappresentato dalla Città analoga(1973), con la sua studiata giustapposizione di edifici di epoche e stili differenti, e il genere settecentesco dei quadri di quadrerie. In particolare, il famoso dipinto Gallerie di vedute di Roma antica (1758) di Giovanni Paolo Pannini, da cui il dipinto di Cantàfora sembra aver mutuato l’impianto architettonico con le grandi volte a botte. Ma l’estro dell’artista si trova anche nel modo in cui continuamente reinventa il tema del rapporto tra interno ed esterno architettonico (Quando ritornerà, 2023; Riflessi II, 2020), quasi traducendo in immagini l’idea di “Ripetizione differente”[12] teorizzata dal filosofo Gilles Deleuze, anticipatrice di quella tendenza postmoderna che nella pittura italiana si sarebbe espressa nelle correnti del Citazionismo, dell’Anacronismo e della Pittura colta. Inventiva e anamnesi s’intrecciano, invece, nel motivo, assiduamente reiterato, della città d’acqua, che comprende tanto i capricci lagunari – da Le Venezie possibili (2014), esposto al Musée des Beaux-Arts di Nancy[13], al già citato Filarete Codussi (2021) – fino alle fantasie nordiche di Giornate di novembre I e Giornate di novembre II, entrambe del 2025, in cui l’artista rappresenta, sotto un cielo boreale, un rettifilo di edifici industriali che si specchiano nelle acque dei canali o delle darsene di una non meglio precisata città dell’Europa settentrionale.
Giornate di novembre I, 2025, vinilico e acrilico su tavola, cm 70×50
Insomma, Cantàfora è un pittore di difficile classificazione. Non è un iperrealista, ma la sua è una pittura esatta, più vera del vero. Non è, come si diceva, un architetto-pittore, sebbene immagini di edifici e interni architettonici affollino le sue opere. Non è un pittore citazionista, nel senso del movimento guidato da Maurizio Calvesi, nonostante il fatto che, come notava qualcuno, nella sua pittura ci sia “il precedente di De Chirico spaziale e, poi, di quegli ambienti spettrali che dalla metafisica derivarono Grosz, Grossberg, Raderscheidt nella Germania degli anni venti; e magari qualche iperrealista, un Monroy e anche i nostri Ferroni, Titonel, Sarri, Ceccotti e quel delirante esistenziale dello spagnolo Lopez Garcia”[14]. È, invece, un pittore cólto, cioè coltivato, istruito, enciclopedico, un po’ anatomista e un po’ entomologo, ma anche tassidermista, modellista, architetto, insegnante e feramatore. Insomma, un pittore unico.
Le secret de l’aleph,2023, vinilico e olio su tavola, cm 70×50
[1] Gianni Contessi, Intervista ad Arduino Cantafora, in Arduino Cantafora. Quadri di un’esposizione, a cura di Francesco Moschini, galleria A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma, 21 febbraio – 13 marzo 1979, edizioni A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma, 1979.
[2] Francesco Moschini, L’architettura della realtà e la realtà dell’architettura, in Arduino Cantàfora, Le stagioni delle case. La Casa del Sole Nascente e l’annesso Ospedale di St. James, Edizioni Kappa, Roma, 1980, p. 5.
[3] Henri Focillon, Elogio della mano, in Henri Focillon, Vita delle forme. Seguito da Elogio della mano, Giulio Einaudi, Torino, 2000, p. 114.
[5] Luca Ribichini, Arduino Cantàfora. I bastioni di Orione, «AR Magazine», N. 129/130, Rivista dell’Ordine degli Architetti P. P. C. di Roma e Provincia, gennaio-settembre 2024, p. 254.
[9] “…l’apotèma di quelle mattonelle misurava centimetri 5,196: mentrechè il raggio del circolo circoscritto raggiungeva i 60 millimetri: le due misure sono interdipendenti, per il che non occorre aver noi alcuna notizia di trigonometria, ma ci pensa il cervello stesso dell’esagono”. Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa. Disegni milanesi, Adelphi, Milano, 2014, p. 87.
[10] Fulvio Irace, Cose, Case, Città. Cantafora e Mendini a confronto, «Arte», aprile 2016, Cairo Editore, Milano, p.117.
[11] Gianni Contessi, Intervista ad Arduino Cantafora, Op. cit.
[12] Pubblicato in Francia nel 1968, il saggio di Gilles Deleuze, Différence et repétition, è pubblicato in Italia per la prima volta nel 1971, col titolo Differenza e ripetizione, nella traduzione di Giuseppe Guglielmi per i tipi de Il Mulino, Bologna.
[13]Architectures Impossibles, a cura di Sophie Laroche, catalogo dell’esposizione al Musée des Beaux-Arts, Nancy, Francia, 19 novembre 2022 – 19 marzo 2023, Snoeck Publishers, Gand, Belgio, 2022.
[14] Dario Micacchi, Quindici stanze per una casa, «L’Unità», martedì 23 novembre 1982, Società editrice l’Unità, Roma.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.