Il linguaggio pittorico di El Gato Chimney si è strutturato, nel tempo, in una sintassi figurativa unica, che ha saputo integrare il rigore tassonomico di un naturalista del XIX secolo con l’elegante acribia di un miniaturista medievale e il vigore visionario di un pittore simbolista. Questa sintesi è stata il prodotto di una evoluzione stilistica che, dopo gli esordi nell’ambito della street art, lo ha portato a interessarsi alle radici magiche ed esoteriche di diverse tradizioni figurative. Con un approccio da etnografo, infatti, l’artista ha composto, attraverso diversi cicli pittorici, una specie di Atlante Warburghiano, fatto d’immagini che attingono al repertorio del folclore di vari popoli, declinate, però, in un lessico personale, che cuce insieme la dimensione simbolica con l’attenzione a temi e istanze del contemporaneo.
Kasha, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
L’interesse di El Gato Chimney per l’immaginario spirituale e magico dell’estremo oriente che caratterizza in particolare questa esposizione, è il segno di un percorso di studio e rielaborazione di iconografie classiche giapponesi di cui, peraltro, si trova traccia anche nei manga e nei film d’animazione contemporanei[1]. Assecondando la propria passione per il Sol Levante, l’artista ha creato un bestiario personale, composto di animali mutanti e ibridi antropomorfi, spesso riconducibili alle tipologie degli yōkai, demoni e spiriti che, secondo i racconti tradizionali, compaiono nelle strade delle città e dei villaggi durate le notti d’estate. Si tratta di figure che, lungi dall’essere semplici mostri, svolgono un ruolo rituale, scaramantico e pedagogico nella cultura locale. Nel loro aspetto mostruoso si cela, infatti, una funzione di ammonimento e, insieme, di conservazione della memoria collettiva. Spesso rappresentati in cortei o processioni, gli yōkai sono entità soprannaturali che incarnano la paura dell’ignoto e del mutamento, esseri ambigui e mutaforma che El Gato Chimney adatta al proprio preesistente vocabolario zoomorfico.
Into the web, 2025, acquarello e tempera su carta, 150x30cm
Nelle sue opere, infatti, la ripresa di queste figure è sempre rielaborata attraverso una reinvenzione che mette in gioco forme e contenuti eterogenei, che attingono tanto all’iconografia degli emakimono, i rotoli di racconti illustrati diffusi tra l’XI e il XVI secolo, o degli ukiyo-e, le cosiddette “immagini del mondo fluttuante” delle stampe del Periodo Edo, quanto alla cultura visiva contemporanea, compresi, appunto, i linguaggi dell’illustrazione e del fumetto, di cui l’artista è un grande appassionato. Un esempio tipico di reinvenzione è Matsuri (2025), un dipinto ad acquarello e tempera in cui l’artista riprende la struttura di una celebre opera di Kawanabe Kyōsai, inserendo nell’iconografia classica della Hyakki Yagyō (“La Parata dei cento demoni”), il proprio campionario di creature dispettose e sbeffeggianti, simili a quelle evocate nelle sfilate delle feste processionali shintoiste.
The Ghost Cat, 2025, inchiostro di china e acquarello su carta, 70x50cm
Nel caso di El Gato Chimney, è soprattutto attraverso il ricorso al teriomorfismo, cioè l’attribuzione di una forma animale a divinità, spiriti o entità di origine soprannaturale, che si può ravvisare un’influenza asiatica, recepita anche attraverso la mediazione occidentale di Hieronymus Bosch o Pieter Bruegel il Vecchio che, secondo lo storico dell’arte Jurgis Baltrušaitis[2], mutuarono alcune figure mostruose da fonti estremorientali. Tuttavia, la propensione verso la creazione di una morfologia incerta tra l’umano e l’animale si trova già in precedenti lavori dell’artista. È semmai nel formato orizzontale allungato, quello già sperimentato nei libri d’artista come Namazu (2022), Giant Octopus (2022) e The Frog’s Apparition (2021), che seguono l’andamento a fisarmonica delle Moleskine, che si avverte più forte l’allusione alla tradizione dei rotoli emakimono, dove l’approccio narrativo dell’artista trova nuove soluzioni per affrontare temi che riflettono timori e paure collettive di stretta attualità. Ad esempio, Into the Web (2025) è una metafora delle politiche di controllo e sorveglianza adottate nella rete internet attraverso l’impiego degli algoritmi. Questo timore, in fondo giustificato, è incarnato nelle fattezze di un grande aracnide rosso, preso d’assalto da uno sciame di vendicativi animaletti antropomorfi. Sono gli stessi animaletti che compaiono, muniti di inchiostro e pennelli, in quella sorta di allegoria della pittura che è The Creations, dove le tecniche dell’acquarello e della tempera incontrano lo stile disegnativo e calligrafico della china.
The Great Puffy, 2025, acquarello e tempera su carta_100x70cm
Di impianto narrativo sono anche le opere in cui l’artista esprime le proprie preoccupazioni per i danni ambientali provocati dal fast fashion. A esempio in The Great Puffy (2025) e The Metamorphosis (2025), dove compaiono soffici mostri dai corpi ricoperti con patchwork di tessuti differenti, Leviatani partoriti da un’industria tessile irresponsabile. L’allusione è alle discariche di abiti accumulati nel deserto di Atacama, lungo la cordigliera del Cile, tragico effetto di un mercato globale che produce più rifiuti di quanti ne riesca a smaltire. El Gato Chimney, però, tratta l’argomento con una certa eleganza, scegliendo con cura i motivi decorativi dal repertorio tessile tradizionale giapponese e trasformando, così, ogni pattern in una trappola per lo sguardo.
Winter in April, 2025, acquarello e tempera su carta, 100x70cm
Timori di natura ecologica si possono leggere, anche solo in filigrana, nell’opera Winter in April (2025), dove un maestoso coniglio di neve è assediato da una turba di creature zoomorfe, tra le quali si annidano strane sculture di paglia, oggetti apotropaici solitamente posti all’ingresso dei villaggi contadini a protezione dei raccolti, che l’artista trasforma in talismani contro gli effetti del cambiamento climatico. Un elemento ricorrente di molte opere di El Gato Chimney è la presenza di fili e corde rosse, che spesso legano tra loro i personaggi, formando un ordito, appena distinguibile, di relazioni, tensioni e legami invisibili che governano l’enigmatico universo dell’artista. Ci sono, però, altri oggetti simbolici che ritornano, come un refrain, nel suo immaginario visivo: campanelli, maschere, ventagli, ma anche aghi, forbici, torce, coltelli e pestelli branditi, come armi, da un popolo di buffe creature lillipuziane.
The Creations, 2025, acquarello tempera e inchiostro di china su carta, 150x30cm
È un immaginario, il suo, che può assumere toni parodistici, come succede in One Day at the Shore (2025), dove una grande piovra umanoide – figura ricorrente delle stampe ukyo-e, da Kuniyoshi a Hokusai –fronteggia un esercito di creaturine acquatiche in una scena da teatro kabuki, dove il mare diventa palcoscenico dell’assurdo. Ma grottesche, quasi caricaturali, sono anche le figure di volpi, rane, topi e polpi di alcune ceramiche smaltate, con le teste impilate a formare dei piccoli totem domestici. Insomma, stravaganze e stramberie del bestiario shintoista, ma anche buddhista, abbondano un po’ ovunque nelle opere di El Gato Chimney, affascinato dal trasformismo dei bakemono, animali mutaforma dei racconti popolari, intermediari tra i mondi fenomenico e ultraterreno che spesso hanno l’aspetto di giganteschi gatti, come nei dipinti Kasha[3] (2025) e The Ghost Cat (2025). Tra le bestie polimorfiche ritratte dall’artista ci sono anche il kitzune[4], entità leggendaria in forma di volpe, l’usagi[5], il coniglio che i giapponesi associano alla luna, e, infine, il kaeru[6], la rana portafortuna.
One Day at the Shore, 2025, acquarello e tempera su carta, 50x35cm
Eppure, accanto all’invenzione e alla rilettura iconografica, colpiscono la tenuta linguistica del lavoro dell’artista e la sua capacità di tenere insieme registri differenti, combinando l’immediatezza grafica tipica dell’illustrazione con l’intensità simbolica delle miniature medioevali. Le superfici dei suoi racconti, pur gremite di figure, risultano sempre chiaramente leggibili. I colori sono vivaci, ma controllati, i tratti netti, ma dinamici. Insomma, la sua pittura costruisce uno spazio visivo chiaro, comprensibile, nonostante la disseminazione di elementi enigmatici, per non dire esoterici. Poi ci sono le opere a inchiostro di china, dove a cambiare non è solo la materia pittorica, cambia, ma anche il gesto e, dunque, la sua capacità espressiva. Nelle grandi carte, la narrazione cede spazio alla monumentalità del soggetto, il numero di figure si riduce, la forma si sfalda rispetto ai modi miniaturistici abituali e l’immagine, emerge come presenza ineludibile, che occupa tutto il campo visivo dell’osservatore. Anche qui tornano le forme animali, ma in veste più archetipica, quasi mitologica: rospi colossali, piovre dagli occhi ipnotici, giganteschi felini predatori, mostri che ricordano le figure apotropaiche dei templi buddhisti o i terribili demoni dei thangka tibetani[7].
The Rumble, 2025, china ink on paper, 200x450cm
In queste figure, dove l’inchiostro è steso con variazioni tonali che vanno dal grigio chiaro al nero più profondo, le anatomie si fanno incerte, fluttuanti, come masse organiche che affiorano da un magma indistinto. La resa espressiva è affidata a una spontaneità vigile, in un equilibrio sottile tra disciplina e libertà. Ma queste nuove opere in bianco e nero, molte delle quali rappresentano rane e rospi benauguranti – da D Green (2025) a Master Toad (2025) fino a Kawanabe, velato tributo uno dei maggiori pittori giapponesi dell’Ottocento[8] – non costituiscono un semplice pendant tecnico delle composizioni a colori ma, in qualche modo ne rappresentano il controcanto concettuale. Se le prime costruiscono un mondo, le seconde ne evocano il fondamento simbolico. Se le prime usano la struttura del racconto visivo, le seconde si manifestano come apparizioni o epifanie. Queste sono, infatti, opere dominate da figure liminari e polisemiche, che funzionano indifferentemente se a osservarle è lo sguardo divertito di un bambino oppure quello di un cultore delle “cose orientali”, che sa interpretare il senso di ogni figura. Così, la grande rana che dà il titolo alla mostra non è soltanto un simbolo da decifrare, ma un’icona eccedente, fuori scala, meravigliosamente scenografica, che cattura e coinvolge, generando un effetto di ammirata stupefazione. Ed è già più di quanto faccia normalmente gran parte della cosiddetta arte contemporanea.
The Metamorphosis, 2025, acquarello e tempera su carta, 70x100cm
[1] In particolare, la produzione dello Studio Ghibli è ricca di riferimenti all’iconografia delle creature del folclore popolare e shintoista in anime come La città incantata (2001) e Principessa Mononoke (1997) di Hayao Miyazaki e Pom Poko (1994) e La storia della Principessa Splendente (2013) di Isao Takahata.
[2] Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, 1997, Adelphi, Milano, p. 242.
[3]Kasha, che significa letteralmente “carro di fuoco”, è un demone felino in cui si trasformerebbero alcuni gatti giunti in età avanzata. Talvolta è rappresentato come un traghettatore di anime, che trasporta i dannati all’inferno su un carretto.
[4]Kitsune è uno spirito in forma di volpe che può entrare nei sogni, diventare invisibile, assumere sembianze umane, specialmente di donna, e perfino volare.
[5]Tsuki no usagi è una figura immaginaria presente nella mitologia di diversi paesi dell’Estremo Oriente, in particolare Cina e Giappone. Rappresenta un coniglio che risiede sulla Luna, seduto sulle zampe posteriori accanto a un pestello da cucina, impegnato a preparare il mochi, un tipico dolce tradizionale.
[6] La parola Kaeru, che in giapponese significa “tornare”, è omofona di Kaeru, la rana. Questo ha fatto delle rane i simboli del “ritorno” della ricchezza e della buona sorte.
[7] I Thangka sono dipinti tibetani sacri su tela, incorniciati con tessuti di broccato. Rappresentano immagini sacre come mandala, ruote della vita, divinità e Buddha del Buddismo tibetano.
[8]Kawanabe Kyōsai (1831-1889) è stato un pittore e incisore giapponese, a cavallo tra i periodi Edo e Meiji.
Nicola Caredda, Sauvage, 2024, acrilico su tela, 120×100 cm
La pittura in Italia è tornata d’attualità. Lo testimoniano le numerose mostre ad essa dedicate nelle gallerie d’arte e le recenti rassegne istituzionali che, però, puntano più sulla quantità che sulla qualità. Si mappano le nuove generazioni, si cercano legami con le tradizioni immediatamente precedenti, si tenta, un po’ a fatica per la verità, di individuare temi e iconografie ricorrenti, ma la pittura è un’arte difficile. “Il terribile problema della pittura (l’arte più difficile che ci sia)”, scriveva Giorgio De Chirico, “non si risolve a chiacchiere e facilonerie”[1]. Il magistero della pittura richiede sacrificio e duro lavoro, perciò un buon criterio di selezione dei pittori odierni non dovrebbe basarsi unicamente su presupposti anagrafici, ma qualitativi.
Silvia Paci, La Maga Armida, 2023, olio su tela, 136×205 cm
Già, ma come si definisce la qualità in pittura? E soprattutto chi può definirla? “Viviamo in un paese in cui ciascuno crede di sapere qualcosa di pittura, e quindi di poter dire la sua”, o almeno così la pensava Federico Zeri, secondo cui “è frequentissimo che, qui da noi, si parli di opere d’arte senza un’adeguata preparazione, senza cioè avere educato l’occhio alla lettura del fatto figurativo”[2]. Se a questo si aggiunge la favorevole congiuntura che ha riportato la pittura alla ribalta delle cronache e che, inevitabilmente, ha prodotto nuove schiere di accoliti – non solo tra gli artisti più giovani, ma perfino tra i galleristi (improvvisamente fulminati sulla via di Damasco) e tra i curatori à la page (che giurano di essere, fin dalla prima ora, strenui difensori di questa pratica secolare) – riuscire a compiere una selezione, a separare, come si dice, il grano dal loglio, diventa un’impresa davvero difficile. Ma se a farlo è una galleria come quella di Antonio Colombo, che dal 1998, anno della sua fondazione, ha ospitato le mostre dei migliori pittori italiani, e un curatore, come il sottoscritto, che non ha mai fatto mistero della sua marcata predilezione per quadri e pittori, potrebbe venirne fuori qualcosa di buono.
Paolo Pibi, Die inneren augen, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Sotto il magniloquente titolo di Pittori d’Italia e l’ironico sottotitolo Giovani, giovanissimi… anzi maturi – tributo all’arguzia di Ennio Flaiano e al celebre paradosso (Certo, certissimo… anzi probabile) con cui lo scrittore e giornalista abruzzese evidenziava il labile confine tra il vero e il falso – abbiamo riunito dodici giovani e meno giovani pittori italiani in un compendio minimo. Una mostra che non vuole essere la versione tridimensionale di un atlante, di un almanacco o di un regesto ambizioso della nuova pittura del Belpaese, ma semmai un laicissimo Libro d’Ore, con dodici artisti che più diversi non si può, a incarnare la devozione verso il più antico dei linguaggi visivi.
El Gato Chimney, Street Madness, 2023, gouache e acquerello su carta cotone, 70×50 cm
Sono artisti che provengono da varie regioni d’Italia, alcuni dei quali hanno vissuto o vivono ancora all’estero, a dimostrazione che se un genoma italico della pittura esiste, non può che essere spurio, contaminato, ibrido. Nessun genius loci e tantomeno nessuna definizione di una presunta “pittura sovranista” (come qualcuno ha tentato di fare) può descrivere le complesse circostanze che hanno contribuito alla loro formazione. Per fortuna, nessun pittore la cui arte sia intimamente italiana ha mai dovuto esibire un certificato di cittadinanza. Si ricorderà che Giorgio De Chirico dipingeva le sue “Piazze d’Italia” dalle sponde della Senna, senza per questo essere meno italiano, lui che in Italia non ci era nemmeno nato.
Melania Toma, Luna-Creature, 2023, pigmenti, carboncino, fibre di lana e olio su tela, 180×150 cm
108 (Guido Bisagni), Nicola Caredda, El Gato Chimney, Jacopo Ginanneschi, Agnese Guido, Dario Maglionico, Fulvia Mendini, Riccardo Nannini, Silvia Negrini, Silvia Paci, Paolo Pibi e Melania Toma sono artisti di generazioni differenti – nati tra il 1966 e il 1996 -, ognuno dei quali rappresenta un approccio, un linguaggio o uno stile singolare nell’ampio spettro espressivo della pittura. Trovare sintonie, concordanze, corrispondenze nelle opere di questi artisti richiede un complicato lavoro di cucitura, insomma un tentativo, per niente facile, di individuare affinità e analogie che aiutino a tessere un ordito leggibile o almeno probabile degli umori della pittura italiana.
Prima di cominciare, si tenga a mente che – come ricordava lo storico dell’arte francese Henri Focillon – Leon Battista Alberti considerava la pittura una realtà magica o, meglio, “un meccanismo ragionato con una parte di mistero”. Pensava, inoltre, che lo sguardo del pittore fosse privilegiato perché “come il filosofo, meglio del filosofo, il pittore costruisce un mondo”[3].
Agnese Guido, Learning, 2021, ceramica smaltata, 34x21x1 cm
Questo è evidente nell’opera di Melania Toma, basata sull’interpolazione tra pittura, scultura e arte tessile. Nei suoi dipinti astratti, le forme si coagulano in maniera ambigua e sfuggente, riflettendo l’idea di possibili ibridazioni tra l’organico e l’inorganico, l’umano e l’inumano. È il suo modo di costruire un mondo che scarta l’eredità delle politiche coloniali e azzera, nell’ottica di una nuova ecologia, ogni gerarchia tra gli enti, abolendo la distinzione tra soggetto e oggetto e tra individuo e collettività. L’artista interpreta i propri quadri, simili a feticci e realizzati con pittura a olio, carboncino, pigmenti naturali e fibre tessili, come dei dispositivi per guarire identità ferite e frammentate.
Melania Toma, Danza-Creature, 2023, pigmenti, carboncino e olio su tela, 80×80 cm
La pittura di 108 è, invece, concepita come una specie di autoritratto in divenire, che con le sue forme morbide e scorrevoli traduce nel linguaggio astratto la natura inquieta e mutevole dell’identità. Le sue figure fluide, plasmate in una palette di toni scuri interrotti da rari inserti geometrici colorati, formano diagrammi di flussi di coscienza, schemi misteriosi in precario equilibrio tra ordine e caos.
108, After the rain 2, 2023, tecnica mista su tela, 80×60 cm
Astratta, nonostante gli esiti figurativi, è la procedura pittorica di Paolo Pibi, che trasla in immagini idee e vagheggiamenti mentali, senza peraltro servirsi di alcun supporto iconografico (fotografie, disegni o altro). Il risultato è inevitabilmente somigliante a un’allucinazione ad occhi aperti, qualcosa di surreale e, allo stesso tempo, estremamente dettagliato, costruito con l’acribia di un miniaturista capace di rendere verosimile e plausibile un’illusione o una fantasticheria.
Paolo Pibi, Le lune e il falò, 2024, acrilico su tavola, 30x25cm
Un mondo fantastico, di pura invenzione è anche quello meticolosamente dipinto da El Gato Chimney, che trasfigura in forme simboliche di uccelli e altre creature zoomorfe motivi psicologici, ma anche concetti ricavati dal folclore e dalle tradizioni esoteriche e alchemiche. Il conflitto tra i desideri dell’individuo e le convenzioni sociali, come pure quello tra materia e spirito sono sovente rappresentati con l’immagine di un animale avvolto e quasi avvinto da filamenti e fibre da cui tenta di liberarsi, mentre il tema della parata di Yōkai, mostri e fantasmi della mitologia giapponese mirabilmente dipinti sulle pagine di una Moleskine, è invece un’allegoria dell’irrompere dell’irrazionale nella dimensione quotidiana.
El Gato Chimney, That place inside you, 2024, gouache e acquerello su carta cotone, 153×100 cm
Ispirata alle fiabe e ai racconti popolari, la pittura di Silvia Paci ha un impianto fortemente narrativo, tutto giocato sull’alternanza di registri drammatici e umoristici e sulla mescolanza di iconografie sacre e profane. Per costruire le sue visioni, popolate di personaggi in preda a una febbrile agitazione, l’artista usa un linguaggio espressionistico, connotato da una gamma cromatica ridotta e riconoscibile. Talvolta, l’artista introduce all’interno delle sue tele, l’immagine di oggetti da lei stessa creati, come bambole di pezza e curiosi copricapi, che intensificano la straniante sensazione di assistere a un misterioso rituale o a una sorta di possessione collettiva.
Silvia Paci, Il martirio di S.Eutropio, 2023, olio su tela, 170×150 cm
I dipinti di Agnese Guido hanno sempre un’atmosfera surreale, risultato di un particolare modo di interpretare la realtà ordinaria che indaga soprattutto gli aspetti più curiosi, poetici, buffi o imprevisti. Il carattere sognante delle immagini, la sospensione tra incanto e stupefazione e la tendenza ad animare oggetti o paesaggi inanimati, sono elementi caratteristici di tutta la sua pittura, che dialoga tanto con la tradizione simbolista ed espressionista, quanto con la cultura popolare dei fumetti e dei cartoni animati.
Agnese Guido, Allegoria del relax, 2023, olio su lino, 192x145cm
Riccardo Nannini usa una grammatica pop e surreale, in parte derivata dai fumetti, per dipingere tele in cui i simboli del consumismo odierno compaiono, come un’interferenza, all’interno di narrazioni oniriche e fantastiche. Nei suoi lavori più recenti, l’artista riflette sul rapporto tra singolo e collettività, rappresentando piccoli gruppi di individui distribuiti in un arcipelago di minuti isolotti. L’atmosfera feriale di queste Isole felici non riesce a occultare, però, il senso di solitudine che serpeggia nella calca di personaggi impegnati in attività ludiche o di svago. La presenza sporadica di alieni dalla pelle verde allude, inoltre, al tema diversità, sia essa sociale, culturale o sessuale.
Nannini Riccardo, El Reencuentro, 2023, acrilico su tela, 114×195 cm
Sintetico, piatto, ma elegantissimo è l’alfabeto visivo di Fulvia Mendini, che nei suoi dipinti compie una concisa schematizzazione formale. Il limpido tratto lineare, la ricercata bidimensionalità e i raffinati accostamenti cromatici sono segni distintivi di una maniera pittorica che l’artista declina in una gamma di ritratti ieratici e di succinte nature morte, dove all’impianto geometrico si affianca il gusto per la descrizione di dettagli come gioielli, decori e ornamenti che impreziosiscono le sue composizioni.
Fulvia Mendini, Luce, 2024, acrilico su tela, 60×50 cm
Di stretta osservanza cartesiana è la pittura di Silvia Negrini, dominata dal lucidus ordo della geometria, arma logica e calcolata che l’artista applica a un’economia di gesti minimi con i quali si propone di cogliere l’essenza imperturbabile delle cose. Così, ad esempio, riduce in efficaci diagrammi le morfologie dei paesaggi o tramuta in poligoni le architetture e gli oggetti, riuscendo a produrre immagini semplici e perfettamente leggibili. La sua grammatica formale, fatta di contorni netti e tinte piatte, può essere interpretata come un adattamento dei principi del Modernismo alle mutate esigenze espressive della pittura concettuale contemporanea.
Silvia Negrini, Land, 2020, smalto su tavola, 30X40 cm
Di segno opposto è, invece, l’attitudine di Nicola Caredda, che dipinge meticolose visioni di un futuro distopico, somigliante a una grande e desolata periferia urbana. L’artista attinge alla memoria di posti visti in passato, scorci di luoghi e angoli di città ricombinati in un paesaggio inventato ma plausibile, che mostra i resti di un mondo trascorso attraverso detriti e rifiuti della civiltà consumistica. Sono visioni notturne di spazi disabitati, disseminati di indizi e segni che rimandano alla cultura italiana, e che compendiano atmosfere e stati d’animo vissuti dall’artista in immagini di perturbante bellezza, che suscitano un immediato piacere retinico.
Nicola Caredda, (call me baby!), 2024, acrilico su tela, 50×40 cm
Dalla memoria di luoghi e persone reali ha origine il processo creativo di Dario Maglionico, che ricostruisce i ricordi, inevitabilmente alterandoli con l’ausilio dei programmi di modellazione 3D e della fotogrammetria, usati come strumenti per generare immagini che servono allo studio compositivo dei suoi soggetti. La pittura è, dunque, la fase finale di un iter operativo che si conclude con le Reificazioni, un ciclo di dipinti in continua evoluzione che rappresentano uno studio sulla percezione dello spazio e del tempo. Nelle sue opere, i personaggi compaiono simultaneamente in diversi punti dello spazio, come forme fantasma persistenti, che marcano i luoghi lasciando una sorta di residuo esperienziale.
Dario Maglionico, Reificazione #91, 2024, olio su tela, 140 x 90 cm
L’arte di Jacopo Ginanneschi nasce da un’attenta osservazione della Natura e dal recupero dei valori tecnici e compositivi degli antichi maestri, da cui deriva anche l’idea di un’adesione verso l’essenza, più che l’apparenza, delle cose. Nei suoi olii su tavola, infatti, si possono notare alcune piccole incongruenze, discrepanze generate dall’adozione della prospettiva multipla o dal fatto che le immagini sono sovente costruite combinando visioni di luoghi diversi. Il risultato è una pittura insieme realistica e straniata, veridica e surreale, che coglie l’incanto nelle forme fenomeniche e la magia nel quotidiano.
Jacopo Ginanneschi, Sant’Antonio Abate trova il rifugio di San Paolo Eremita, olio su tavola, 90×90 cm, 2024
[1] Giorgio De Chirico, Impressionismo, in Giorgio De Chirico, Isabella Far, Commedia dell’arte moderna, a cura di Jole de Sanna, 2002, Abscondita, Milano, p. 51.
[2] Federico Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, a cura di Ludovica Ripa di Meana, 1999, Neri Pozza, Milano, p. 7.
[3] Henri Focillon, Piero della Francesca, trad. italiana di Fabrizia Lanza Pietromarchi, Abscondita, Milano, p. 38.
Il Pop Surrealism, conosciuto anche col meno lusinghiero nome di Lowbrow Art – un termine intraducibile in italiano, ma che sostanzialmente indica un’arte popolare, incolta, corriva -, è stato un movimento artistico americano che si è affermato negli anni Novanta del secolo scorso in antitesi alle dominanti tendenze concettuali del mondo artistico ufficiale. Questo movimento ha saputo raccogliere e rielaborare tutto il coagulo delle esperienze della sottocultura statunitense, dalle Hot Rod (le auto customizzate e decorate con motivi fiammanti) all’estetica del surf e dello skateboard, dal fumetto psichedelico al punk rock, dall’immaginario dei cartoni animati ai B-movie horror e fantascientifici, inglobando, nel corso del tempo, codici visivi considerati a torto marginali, come il graffitismo, il tatuaggio, la grafica, l’illustrazione, la folk art o quella dei cosiddetti outsider.
Nonostante le sue origini americane, il Pop Surrealismo si è trasformato, nei primi anni del nuovo millennio, in un movimento internazionale che ha sparso i suoi semi in ogni angolo del globo. Due sono stati gli elementi catalitici che ne hanno favorito la diffusione planetaria: internet e la nascita di riviste come Juxtapoz e Hi-Fructose, che hanno svolto una funzione “evangelizzatrice” nella propagazione di questo nuovo “verbo figurativo”, caratterizzato dal ricorso a un immaginario insieme popolare e fantastico. Di qui la definizione di Pop Surrealism, che sottolinea il duplice debito verso l’arte Pop, largamente intesa come coacervo di espressioni ispirate all’iconografia massmediatica della società dei consumi, e verso il surrealismo, termine che in questo caso include non solo la corrente storica fondata da André Breton, ma tutte le forme di arte fantastica precedenti e successive.
Con l’espansione del Pop Surrealismo ben oltre i confini della controcultura americana e con la progressiva inclusione tra le sue fila di numerosi artisti che provenivano dalle più variegate esperienze artistiche, il movimento si è, però, trasformato in un contenitore ipertrofico di linguaggi e stili contrastanti che hanno finito per diluirne l’iniziale (e fondamentale) spinta antagonista, lasciando, così, spazio a una pletora di espressioni derivative.
Nel primo decennio degli anni Duemila, e fino al primo lustro della decade successiva, questa tendenza artistica si è diffusa anche in Italia, grazie alla mediazione di un manipolo di gallerie alternative e di un ristretto numero di appassionati giornalisti, critici d’arte e collezionisti. Il primo avamposto italiano del Pop Surrealismo è stata la galleria Mondo Bizzarro, fondata a Bologna nel 2000 e trasferitasi a Roma tre anni più tardi, che nella sua programmazione ospita artisti di punta del movimento come Mark Ryden, Mario Peck, Gary Baseman, Camille Rose Garcia e Todd Schorr, alternandoli a fumettisti e autori italiani come Filippo Scozzari, Roberto Baldazzini e Massimo Giacon. Nel 2007, sempre a Roma, hanno aperto i battenti anche le gallerie Mondopop e Dorothy Circus. La prima, fondata da David Vecchiato e Serena Melandri, ha saputo mescolare nomi di grido del movimento con esponenti della street art italiana e internazionale, con un approccio attento alla politica dei prezzi che, accanto ad opere originali, comprendeva multipli, poster, giocattoli e gadget firmati dagli artisti. Dorothy Circus, creata da Alexandra Mazzanti, ha invece mostrato fin dagli esordi una predilezione per opere caratterizzate da ambientazioni fiabesche e suggestioni gotiche, come Ray Caesar, Miss Van, Kukula e Tara McPherson.
Dal 2010 anche la galleria milanese Antonio Colombo Arte Contemporanea ha avviato una programmazione serrata di artisti pop surrealisti, tra i quali Ryan Heshka, Tim Biskup, Gary Baseman, Anthony Ausgang, Eric White, intervallati da artisti italiani come El Gato Chimney, Massimo Giacon, Dario Arcidiacono e Fulvia Mendini. Dal 2008 a Milano la The Don Gallery di Matteo Donini si è impegnata nella divulgazione di artisti che spaziano dalla Street art alla Lowbrow Art, proponendo mostre con lavori di Ron English, Jeremy Fish, The London Police, Microbo, Bo130 ed Ericailcane. Incursioni nel campo delle ricerche italiane affini al movimento americano vengono compiute anche dalla milanese Galleria Bonelli, che tratta le opere di Nicola Verlato, Fulvio Di Piazza e Marco Mazzoni e dalla galleria Area/b, che si fa portavoce di Italian Newbrow, uno scenario solo parzialmente assimilabile ai linguaggi pop surrealisti.
Importantissime per l’affermazione del Pop Surrealismo in Italia sono state anche le numerose mostre pubbliche, spesso organizzate con il contributo di critici curiosi e attenti alle evoluzioni delle grammatiche figurative, in spazi come il Museo Madre di Napoli (Urban Superstar Show, 2007), il Macro di Roma (Apocalypse Wow. Pop Surrealism, Neopop, Urban Art, 2009), il Museo Carandente di Spoleto (Pop Surrealism, What a Wonderfool World, 2010), la Scuola dei Mercanti di Venezia (The Emergence of Pop Imagist, 2010), il Centro Camerale Alessi di Perugia (Urban Pop Surrealismo, 2011), il Fortino di Forte dei Marmi (Italian Newbrow, 2011), il Palazzo delle Stelline di Milano (La natura squisita. Ai confini del pop, 2012). La massiccia ondata di mostre pop surrealiste è stata poi amplificata dall’attenzione dei media generalisti, ma praticamente ignorata da riviste di settore come Flash Art, il cui editore, però, ha dato alle stampe un libro dedicato al movimento Italian Newbrow(2010).
Genoma italiano
La facilità con cui in Italia attecchisce la nuova sensibilità pop surrealista nel campo delle ricerche pittoriche neofigurative è stata il sintomo di un’insofferenza diffusa verso le dinamiche elitarie e intellettualistiche che tutt’ora dominano il sistema dell’arte nostrano, arroccato su posizioni neo-concettuali che premiano le ricerche multimediali, relegando la pittura a un ruolo marginale.
A colpire gli estensori italiani di questo stile internazionale è stata soprattutto la relativa facilità con cui gli artisti americani sono riusciti a organizzare un sistema alternativo a quello ufficiale, costruendo in breve tempo una rete di relazioni con collezionisti e appassionati che hanno portato alla fondazione di riviste specializzate e spazi espositivi dedicati alla nuova temperie contro-culturale del Surrealismo Pop. Un sistema alla cui diffusione hanno contribuito peraltro anche istituzioni pubbliche come, ad esempio, il Museum Of Contemporary Art di Los Angeles, e gallerie universitarie come quelle della CSU Northridge e della Otis Parsons School of Design[1].
Più che l’armamentario iconografico, sospeso tra fantasia e immaginario pop, è stata l’abilità organizzativa e commerciale degli artisti americani a ispirare i pittori italiani, i quali, forse troppo ottimisticamente, hanno sperato di riprodurre le stesse dinamiche in un contesto che si dimostrerà, a conti fatti, assai meno ricettivo.
Sul piano strettamente formale, tuttavia, non si può dire che sia mai veramente esistito un movimento Pop Surrealista italiano, derivato da quello americano. Gli artisti che in Italia hanno risposto all’appello delle mostre pop surrealiste provenivano, infatti, da esperienze maturate, per lo più, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio nel contesto della cosiddetta Nuova Figurazione, una definizione forse non originalissima – dato che era già stata applicata ad alcune correnti pittoriche figurative del secondo dopoguerra – con cui si designava l’ambito delle indagini artistiche che guardavano alla cultura di massa, al fumetto, al cinema e alla letteratura come a inesauribili fonti d’ispirazione.
Nello specifico, molti dei linguaggi pittorici emersi in Italia in quel periodo mostravano già una propensione sia verso l’elemento fantastico, eccentrico, surreale, sia verso l’immediatezza dell’immaginario pop, consumistico e massmediatico, come dimostrano numerose esposizioni del periodo, da Sui Generis, curata nel 2000 da Alessandro Riva al PAC di Milano, a La linea dolce della Nuova Figurazione e Ars in Fabula, entrambe curate da Maurizio Sciaccaluga rispettivamente alla Galleria Annovi di Sassuolo (2001) e al Palazzo Pretorio di Certaldo (2006), da La Nuova Figurazione Italiana… To be Continued (2007), curata da Chiara Canali alla Fabbrica Borroni di Bollate, alla rassegna Arte italiana 1968-2007, curata nel 2007 da Vittorio Sgarbi al Palazzo Reale di Milano, fino alla celebre mostra milanese Street Art Sweet Art (2007), ancora una volta curata da Alessandro Riva al PAC.
Sono anni, quelli della prima decade del Duemila, in cui l’attenzione verso i giovani pittori e scultori figurativi è ai massimi livelli, grazie anche al costante monitoraggio dei premi nazionali e all’interessamento delle riviste di settore, che documentano l’emergere di una scena artistica capace di combinare la tensione verso il fantastico con le inedite possibilità di saccheggio dell’immaginario mediatico offerte da internet. Il risultato è una miscela figurativa esplosiva, caratterizzata non solo dall’affermazione di linguaggi che fanno appello all’immediatezza e alla godibilità delle immagini pop, ma anche da una attitudine alla contaminazione dei codici espressivi e da una volontà di esplorazione dei territori della fiction che si ritrovano, qualche anno più tardi, anche nella scena Italian Newbrow, che nasce come diretta conseguenza delle esplorazioni neofigurative. Come notava Gianni Canova in un articolo del 2011, «Italian Newbrow è la rivendicazione orgogliosa di tutto il bazar delle iconografie popolari – non solo il fumetto, la Tv, il cinema di serie B, ma anche il tatuaggio, il graffito, il cartoon, il pop design – assemblate con la tecnica del cut & paste digitale (che poi è l’evoluzione del collage cubo-futurista)»[2]. Si può dire, infatti, che gran parte degli elementi che contraddistinguono il Pop Surrealism – cioè le pratiche di saccheggio mediatico, i procedimenti di mash up iconografico, l’insistenza sull’elemento fiabesco e fantastico – siano già presenti nella Nuova Figurazione nel momento in cui, proprio a partire da quel fatidico anno 2007, la corrente americana comincia a diffondersi in Italia. Se esistono analogie tra la pittura fantastica e pop italiana, ben rappresentata in questa mostra, è il movimento Lowbrow, queste riguardano spesso il comune utilizzo di fonti iconografiche derivate dal web, e dunque la confidenza, tipica della cosiddetta Google generation, con gli strumenti digitali, oltre che l’evidente insofferenza per le grammatiche post-concettuali che dominano il circuito dell’arte “alta”, o presunta tale.
Eccentrici, apocalittici, pop
Sarebbe un segno di pigrizia critica liquidare come Pop Surrealista tutta l’arte italiana contemporanea che abbia un carattere insieme pop e immaginista. Le genealogie delle ricerche pittoriche e plastiche in questo campo sono, infatti, le più variegate e, spesso (ma non sempre), poco o nulla hanno in comune con quelle dei colleghi americani.
La storia di Massimo Giacon (Padova, 1961), ad esempio, parte alla fine degli anni Settanta, durante il periodo aureo del fumetto italiano, quello che ha dato i natali a personaggi come Andrea Pazienza, Filippo Scozzari, Tanino Liberatore e Massimo Mattioli. Dopo l’esordio in riviste di culto come Frigidaire, Linus, Alter e Nova Express Blue, Giacon ha collezionato una serie di esperienze in diversi ambiti creativi, passando dal fumetto alla musica, dal design alla performance multimediale, fino alla pittura e alla scultura. Tutta la sua produzione – che include numerose graphic novel,oggetti realizzati per Memphis e per Alessi, dischi di band new wave e post-punk (come gli Spirocheta Pergoli e I Nipoti del Faraone), e naturalmente illustrazioni, disegni e dipinti – è attraversata da una vena di bizzarria, da una gioiosa e anarchica stravaganza che ritroviamo anche nelle sue ceramiche, oggetti disfunzionali che raccontano storie fantastiche, in bilico tra il comico e il noir.
Pur avendo esposto in diverse occasioni con una delle gallerie portabandiera del Pop Surrealism americano, la Jonathan LeVine di New York, il retroterra in cui si sviluppa la pittura di Fulvio Di Piazza (Siracusa, 1969) è quello delle espressioni neofigurative italiane dei primi anni Duemila. Immaginifico, metamorfico, alchemico, il suo codice visivo è incentrato sulla trasfigurazione. Come un novello Arcimboldo, l’artista tramuta le forme dei luoghi e dei volti in una nuova morfologia terrestre, sospesa tra l’incanto dei paesaggi vulcanici della sua terra, la Sicilia, e le visioni distopiche della fantascienza. Il risultato è una pittura dettagliata, iper-tecnica, che seduce lo sguardo dell’osservatore attraverso la resa mimetica di un cosmo di pura invenzione, dove monti, colline, avvallamenti e radure sembrano il prodotto di un cataclismatico progetto di terraforming.
L’arte ipermanierista di Nicola Verlato (Verona, 1965), ossessionata dalle torsioni anatomiche e dalle ipertrofie muscolari, è il prodotto dell’influenza delle moderne tecniche digitali di modellazione 3D, combinate con la lezione della pittura rinascimentale e lo stile dei fumetti fantascientifici e horror pubblicati su Metal Hurlant tra gli anni Settanta e Ottanta. Le opere dell’artista sono il prodotto di un processo che combina tecniche classiche e tecnologie digitali. Molti dei suoi soggetti, infatti, vengono prima realizzati in forma di studio plastico, poi passati al filtro della modellazione 3D e infine tradotti in dipinti e sculture. Oltre all’immaginario surreale e fantastico, è forse proprio questa artigianalità complessa, un mix di tradizione e modernità, ad aver contribuito al successo americano dell’artista, che non solo ha vissuto per un lungo periodo a Los Angeles, ma è, di fatto, diventato un esponente del Pop Surrealism partecipando alla mostra In the Land of Retinal Delights (2008, Laguna Art Museum, Laguna Beach, California) e intrecciando relazioni con i collezionisti e i critici più significativi del movimento, come il compianto Greg Escalante, co-fondatore della rivista Juxtapoz e della galleria Copro/Nason.
Dalle fila di Italian Newbrow, provengono gli artisti Giuseppe Veneziano, Laurina Paperina e Vanni Cuoghi, che integrano nelle loro ricerche elementi dell’immaginario pop, sviluppandoli, però, in modo molto personale. Al crocevia tra realtà e finzione, arte e storia, cronaca e fantasia si colloca l’indagine di Giuseppe Veneziano (Mazzarino, 1971), architetto approdato alla pittura dopo un’esperienza come vignettista per il Giornale di Sicilia. I suoi lavori, caratterizzati da uno stile piatto e sintetico di marca new-pop, raccontano l’ambiguità della società contemporanea attraverso l’accostamento di elementi veridici e immaginari, che mostrano il progressivo assottigliarsi del confine che separa la realtà dalla fiction. L’artista si serve di personaggi riconoscibili della mitologia, della storia dell’arte, dello spettacolo, ma anche del fumetto, dei cartoni animati e della cronaca per raccontare, con un linguaggio chiaro e intellegibile, le vicende del nostro tempo. Attraverso un registro ironico e dissacrante, Veneziano mostra il carattere fondamentalmente equivoco della vicenda umana, una pantomima di maschere di cui svela vizi privati e pubbliche virtù.
Laurina Paperina (Rovereto, 1980) associa i riferimenti alla cultura pop a uno stile pittorico quasi infantile, per trattare con feroce ironia e cinico candore tematiche che spaziano dall’escatologico allo scatologico. Riprendendo e deformando l’iconografia dei trionfi della morte e delle danze macabre medievali, l’artista inscena una sorta di odierno inferno massmediatico, gremito di figure ripescate dai fumetti e dai cartoni animati, dal cinema horror e di fantascienza, ma anche dalla storia dell’arte antica e contemporanea. Le sue operesi possono leggere come una sequenza di racconti horror o, meglio, di novelle splatter che indugiano nella descrizione, insieme sadica e divertita, di una pletora di massacri e carneficine che paiono uscite dalle pagine – rigorosamente miniate – di una moderna Apocalisse nerd.
Abbandonati gli iniziali legami con la cultura pop, Vanni Cuoghi (Genova, 1966) ha sviluppato una pittura che insiste sulla costruzione di microcosmi metafisici in cui si avverte l’irrompere del perturbante o del weird, una dimensione estetica bizzarra, derivata dalla combinazione di elementi che non appartengono allo stesso contesto. Secondo Mark Fisher, infatti, “la forma artistica più appropriata al weird è quella del montaggio”[3]. I dipinti e i teatrini miniaturizzati di Cuoghi costruiscono universi improbabili attraverso la riproduzione di frammenti del mondo reale assemblati in maniera incongrua. Nella serie intitolata La messa in scena della pittura, l’artista rivela il carattere smaccatamente artificiale dell’arte, intesa come una forma di finzione che spalanca le porte a una dimensione sconosciuta, estranea, in cui si manifestano i segni di un’autentica esternalità. Quello rappresentato da Cuoghi non è più il vecchio mondo a misura d’uomo, ma la realtà fuori di sesto e definitivamente destabilizzata che ci attende alla fine dell’antropocene.
Dalla passione per i manga e gli anime giapponesi e, in generale, per i cartoni animati, nasce la grammatica artistica di Giovanni Motta (Verona, 1971), in perfetto equilibrio tra tradizione e innovazione. I suoi lavori, progettati con software tecnologici, possono assumere la forma di opere digitali oppure di sculture realizzate con la stampa 3D o di quadri meticolosamente dipinti a mano. Tema della sua ricerca – stilisticamente affine a quella del movimento Superflat di Takashi Murakami – è il bambino interiore, personificato nella figura di Jonny Boy, un personaggio dall’anatomia ipertrofica che sembra disegnata da un mangaka. Questo puer aeternus, recentemente diventato il protagonista del primo fumetto digitale realizzato dall’artista, intitolato Megborg, è figura ricorrente di un immaginario scaturito dall’esplorazione delle memorie infantili, considerate come un inesauribile giacimento di entusiasmo e fonti d’ispirazione.
L’universo infantile è anche il soggetto delle opere di Luciano Civettini (Trento, 1967), pittore innamorato delle atmosfere fiabesche dal carattere ambiguo e straniante. Nei suoi dipinti coesistono riferimenti ai personaggi del mondo disneyano, come ad esempio Topolino o Pippo, e figure di bimbi che incarnano lo sguardo ingenuo e innocente attraverso cui l’artista filtra la propria visione pessimistica di un mondo funestato da guerre e devastazioni d’ogni tipo. Il suo linguaggio è segnato da un lirismo sognante e stupefatto che rimanda alle grammatiche folk di artisti giapponesi come Makiko Kudo, Aya Takano e Yoshitomo Nara, o a pittori americani del calibro di Tim McCormick e Gary Baseman, rispetto ai quali si distingue per il gradiente marcatamente post-romantico ed emozionale delle sue creazioni.
Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) eredita dalla tradizione femminile del surrealismo – quella sotterranea di Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington e Remedios Varo -, la visione di una realtà in cui il quotidiano e il soprannaturale si fondono senza soluzione di continuità, come in certi romanzi della corrente letteraria del Realismo Magico sudamericano. Eppure, dal punto di vista strettamente formale, la sua pittura è anche figlia dell’altro Realismo Magico, quello degli artisti italiani e tedeschi a cavallo tra le due guerre, da cui Del Monte mutua l’atmosfera di sospensione in cui immerge le protagoniste dei suoi racconti. Al centro delle visioni si staglia l’immagine femminea, rinchiusa nelle asfittiche stanze di una prigione domestica, un luogo claustrale, stranamente permeato da germinazioni e inflorescenze naturali, uno spazio d’innesti rizomatici e di bestiali incursioni, che rendono labile il confine tra i generi del paesaggio e dell’interno borghese.
Nella sua pittura, vicina agli stilemi del Pop Surrealism, Nicola Caredda (Cagliari, 1981) rappresenta un universo distopico fatto di macerie e detriti dell’età post-moderna. I suoi paesaggi apocalittici, meticolosamente dipinti con colori saturi, mostrano, infatti, i residui di mondo definitivamente tramontato a causa di una catastrofe nucleare o ecologica. Un universo disabitato e silente, costellato di ruderi industriali e malinconici reperti della società capitalista, dove la natura torna a occupare gli spazi che l’uomo un tempo le aveva sottratto. I dipinti di Caredda mostrano ciò che resta alla fine dell’antropocene, l’attuale epoca geologica dominata dalle attività umane che, secondo le previsioni del biologo Eugene F. Stoemer, sono la causa delle irreversibili alterazioni ambientali e climatiche dell’ecosistema terrestre.
Marco Mazzoni (Tortona, 1982) è artista e illustratore che è stato in stretto contatto col mondo del Pop Surrealismamericano. Ha esposto, infatti, alla Jonathan LeVine Gallery e alla Roq La Rue di Seattle ed i suoi lavori sono stati pubblicati su riviste come Juxtapoz e Hi Fructose. La sua ricerca, però, è nata in Italia, dove ha maturato uno stile disegnativo unico, col quale ha creato immagini in cui il volto femminile si fonde con forme zoomorfe e vegetali. Mazzoni usa esclusivamente matite colorate per delineare i contorni di un universo fantastico in cui uomo e natura sembrano perfettamente integrati. Molte sue opere sono eseguite su taccuini Moleskine, sulle cui pagine l’artista dispiega il regesto delle sue metamorfosi organiche, tutte giocate sull’alternanza di luci ed ombre pazientemente ordite con la tecnica del chiaroscuro.
Zoe Lacchei è un artista nei cui lavori ricorrono spesso riferimenti alla cultura visiva giapponese, come, ad esempio, nel caso di The Girl Who Fight The Wolf (2020), un dipinto su carta che rimanda alla Principessa Mononoke, personaggio protagonista dell’omonimo anime di Hayao Miyazaki, o come nell’opera Neo Shunga #3 – Tigers (2019), dove l’artista reinterpreta l’antica tradizione erotica delle “immagini del mondo fluttuante” con un linguaggio che contamina fotografia e pittura. Altri suoi lavoriispirati alla tradizione erotica del Sol Levante (The Geisha Project) sono, invece, stati pubblicati sulla rivista Juxtapoz. Tra le sue collaborazioni più prestigiose c’è anche quella con il cantante Marilyn Manson, per il quale ha realizzato le illustrazioni dell’album The Golden Age of Grotesque (2004), poi pubblicate nella raccolta Marilyn Manson Metamorphosis: The Art of Zoe Lacchei. Oltre ad aver pubblicato le sue illustrazioni con case editrici americane e francesi, Lacchei ha esposto con importanti gallerie del circuito pop surrealista, come La Luz De Jesus di Los Angeles, la Vanilla Gallery di Tokyo e le italiane Mondo Bizzarro e Dorothy Circus. Tra i lavori qui esposti lavori qui esposti sono presenti anche due tondi, The Bleeding Heart of Daenerys Targaryen(2019) e The Bleeding Heart of Jon Snow (2019), originali tributi alla popolare saga televisiva di Game of Thrones.
Tra gli artisti provenienti dalla street art, e invitati a realizzare un dipinto murale in occasione di questa mostra, ci sono nomi storici del graffitismo italiano come Ozmo e Pao, che hanno partecipato alla storica esposizione del PAC di Milano, Street Art Sweet Art, ed El Gato Chimney, ex membro della Krudality Crew di Milano. Tra questi, El Gato Chimney(Milano, 1981) è forse l’artista più surreale, suggestionato non solo dall’arte sacra, tribale e folk e dalla letteratura alchemica, esoterica e spiritualista, ma anche dallo stile dei bestiari medievali e dall’immaginario di pittori come Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. La sua arte, popolata di figure zoomorfe simili ai grilli gotici di cui parla Jurgis Baltrušaitis in quel fenomenale catalogo di bizzarrie ed esotismi che è Il medioevo fantastico[4], è un distillato visivo che combina l’ansia catalogatoria di raffinati naturalisti, come l’italiano Ulisse Aldovrandi, con l’anelito trascendentale e fantastico dei miniaturisti di Libri d’Ore. El Gato Chimney costruisce, attraverso una partitura grafica minuziosa e dettagliata, un mondo di pura invenzione, che appare, però, come la trasposizione allegorica (e soprannaturale) dei dissidi e dei conflitti che agitano la dimensione interiore dell’uomo, eternamente diviso tra istinto e ragione, in perpetua guerra con sé stesso.
Legato alla storia del graffitismo milanese, Pao (Milano, 1977) ha iniziato la sua carriera dipingendo i suoi celebri pinguini sui paracarri di cemento sparsi nel tessuto urbano meneghino. Approdato poi alla pittura e alla scultura, ha ampliato il suo vocabolario visivo con uno stile che rimanda alle tanto alle illustrazioni per l’infanzia, quanto ai cartoni animati dello Studio Ghibli, pur mantenendo costante il riferimento alle proprie origini di street-artista. Ironiche e sognanti, le sue creazioni assumono la forma di grandi quadri o di sculture in vetroresina, ma anche di dipinti murali, grafiche e oggetti di merchandising che reiterano la sua grammatica fiabesca, connotata da un linguaggio pop immediatamente riconoscibile, e soprattutto universalmente comprensibile. La sua è, dunque, un’opera multimediale, che dissemina il proprio codice visivo fuori dai ristretti confini dell’arte contemporanea, penetrando ogni ambito della creatività.
Il lavoro di Ozmo (Pontedera, 1975), arrivato a Milano da Firenze nel 2001, si caratterizza da subito per la realizzazione di grandi dipinti murali in spazi alternativi e centri sociali (come il mitico Leoncavallo) grazie ai quali fa conoscere il suo stile eclettico, un esplosivo miscuglio di immaginario underground e riferimenti alla storia dell’arte. Artista curioso, in perenne evoluzione, Ozmo si distingue dagli altri graffitisti per lo sperimentalismo della sua ricerca, che lo ha portato, nel tempo, a modificare costantemente stilemi, materiali e modalità d’intervento, assecondando, così, una pratica metodologica che ha molto in comune con le indagini concettuali. I suoi murali possono infatti assumere, come in questo caso, le sembianze di un’installazione site specific dove la pittura, intesa come disciplina espansa che include supporti differenti, si offre come un condensato semiotico, una babele di riferimenti che spaziano dalla cultura alta a quella popolare.
Concludono questa rassegna, dedicata all’arte fantastica, i due cameo di Fatima Messana e di Vesod, che si offrono come ulteriori variabili di questa propensione eccentrica e bizzarra delle ricerche neofigurative italiane. Fatima Messana (Severodvinsk, Arkhangelsk Oblast, 1986) è una scultrice italiana di origini russe, che indaga il corpo come territorio di modificazioni e ibridazioni post-umane, confrontandosi con la tradizione dell’iconografia sacra e, talvolta, con il mondo della cronaca, da cui trae spunto per creare immagini simboliche e provocatorie. Un esempio è Capra!, opera, il cui titolo rimanda alla famosa e ripetuta esclamazione di Vittorio Sgarbi, che intende far riflettere sull’ignoranza come radice dei mali che affliggono l’umanità.
Vesod (Torino, 1981) è, invece, un artista urbano che ha esordito negli anni Novanta. Laureato in matematica e membro attivo della SCO crew, un gruppo che sperimenta l’interazione tra musica e disegno, Vesod è soprattutto autore di grandi dipinti murali e di opere su tela che sono il prodotto della fusione tra il dinamismo futurista e la tradizione anatomica dell’arte rinascimentale. Il risultato di questa compenetrazione di corpi e spazi è la creazione di visioni sospese, cristallizzate nelle forme di una geometria adamantina.
[1] Ivan Quaroni, Beautiful Dreamers. Il nuovo sogno americano tra Lowbrow Art e Pop Surrealism, 2017, Edizioni Falsopiano, Alessandria, p. 143.
[2] Gianni Canova, Idiota a chi?, «Il Fatto Quotidiano», venerdì 11 novembre 2011.
[3] Mark Fisher, The Weird and The Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2016, p. 10.
[4]Jurgis Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico. Antichità ed esotismi nell’arte gotica, Adelphi, Milano.
Alessandro Mendini, La famosa invasione degli artisti a Milano, disegno su carta, 2015
Milano e l’arte. Gli artisti e Milano. Come si fa a riassumere in poche parole il rapporto tra queste due realtà senza infilarsi in una pletora di luoghi comuni e di banalità da guida turistica? La città è, in fondo, un condensato di luoghi comuni, una summa di concetti condivisi, d’immagini costantemente reiterate, come certe cose che, a forza di essere ripetute, ci danno l’impressione di essere vere. E il fatto è che sono anche vere. O meglio, erano vere, ma adesso no. Questa non è più, infatti, la Milano di Leonardo e degli Sforza, né la città severa e controriformista di San Carlo Borromeo e dell’iconografia dei Procaccini. Non è il teatro tragico della peste manzoniana, né l’urbe efficiente e neoclassica degli Asburgo. Quella di oggi è un’altra realtà, lontana tanto dalle dinamiche visioni futuriste, quanto dai silenti scorci periferici di Sironi. E se volete saperlo, non è nemmeno più la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, con buona pace del bar Giamaica, che esiste ancora, ma è diventato un ritrovo per turisti e avventori nostalgici di un’epoca trapassata. E nonostante le masse vocianti che affollano i locali durante l’happy hour, anche la Milano da bere degli anni Ottanta è niente più che un ricordo sbiadito, un’impressione sospesa tra le immagini dello spot dell’amaro Ramazzotti e le note di Birdland dei Weather Report.
Aldo Damioli, MILANO, 2015, acrilici su tela, 50×50 cm
Io che in questa città ci sono nato e cresciuto non so dire che cosa sia diventata. So, piuttosto, che cosa non è. Nel suo rapporto con l’arte, ad esempio, è radicalmente differente dalla vicina Torino, dal suo snobismo culturale, ancora così avvinto dalle suggestioni poveriste e concettuali e così, tragicamente tetragono, salvo rare eccezioni, alla pittura. Ma Milano è soprattutto antitetica a Roma, alla sua grandeur salottiera e civettuola, che passa attraverso i filtri dei potentati politici, ecclesiastici e perfino nobiliari. Perché Roma è, come tutte le capitali, un centro d’immobilismo e conservazione, che riduce al minimo ogni fattore di rischio e tende a ribadire il successo, piuttosto che favorirlo. Con Napoli forma un asse di resistenza impenetrabile, che impedisce all’immigrazione artistica di trovare un terreno fertile per prosperare. A Bologna, invece, lo sappiamo tutti, non c’è proprio nulla, a parte una fiera in cui si consuma l’annuale, e in verità sempre più stanco, rito di rendez vous degli addetti ai lavori.
Intendiamoci, con tutte le dovute eccezioni, per quel che ne so, è sotto questo cielo plumbeo, sulle rive del naviglio, tra il Lambro e il Ticino, dentro e fuori i margini di questa pianura inurbata che si compiono i destini di molti artisti italiani. Come scriveva Maurizio Sciaccaluga, compianto animatore della scena artistica meneghina, “qui passa il mercato, convergono i grandi collezionisti, sono di casa le sole riviste che contano, e dunque, è qui che inizia la discesa, che si ferma il motore o che parte il viaggio”.[1] Magari i semi e le ceneri, le nascite e le morti avvengono altrove, ma è qui che le storie giungono a una svolta, in questa immensa sala d’attesa, dove le code scorrono rapide e presto o tardi arriva il tuo turno.
Paolo De Biasi, Eccetera, eccetera, 2015, acrilico su tela, 106×150 cm
Certo, Milano non è l’America, come cantavano i Timoria, ma è la cosa che più si avvicina all’utopica Land of Opportunities. Diceva Maurizio, che forse non è un’officina, un opificio, un laboratorio, ma per qualche strano motivo, è un posto di epifanie e di rivelazioni, dove “si può dare forma e peso specifico ai propri sogni e alle proprie speranze”.[2] Quel che è certo, e ne sono stato il testimone diretto, è che a Milano è fiorito il talento di molti artisti provenienti da tutta Italia.
Sarà l’aria cosmopolita, sarà la prossimità con l’Europa transalpina, sarà che questa città è da sempre un crocevia di traffici, una sorta di fiera permanente per mercati d’ogni genere, un ponte tra il nord e il sud, tra l’est e l’ovest, insomma una terra di mezzo, ma il fatto è che, proprio qui, convergono risorse, visioni e idee maturate altrove. Che qui, e non a Torino, a Roma o a Bologna, ogni tanto si compie un miracolo. Non è a causa di una qualche virtù magica della città, né della particolare lungimiranza della politica o dell’intellighènzia meneghine. Credo semplicemente che lo spirito pragmatico, un po’ sbrigativo, di Milano dia i suoi frutti. Le conoscenze si trasformano presto in occasioni professionali e i rapporti lavorativi sovente sfociano in amicizie durature. A me è capitato così. Molti degli artisti, dotati di talento e poche sostanze, ai quali ho consigliato di trasferirsi a Milano, anche a prezzo di strenui sacrifici, sono diventati miei amici.
Persone come Giuliano Sale e Silvia Argiolas, che ho conosciuto a Firenze, durante la mostra dei finalisti del Premio Celeste, e con i quali si è creato un profondo legame affettivo, o come Vanni Cuoghi, espatriato genovese folgorato sulla via dell’arte nelle aule dell’Accademia di Brera e poi nelle sale della galleria di Luciano Inga Pin, che considero non solo un compagno d’armi, ma un fratello acquisito.
Silvia Argiolas, Olgettine, via Olgetta, 2015, acrilico e smalto su tela, 100×90 cm
Qui dicevo – mi si perdoni la reiterazione, forse un po’ sentimentale, dell’avverbio di luogo – sempre secondo Sciaccaluga ci sono “le sole, uniche, obiettive, giuste e sacrosante leggi dell’evoluzione che l’arte possa darsi”. Perché nella città del business, anche l’arte corre veloce e sacrifica spesso le vecchie glorie sull’altare dell’ultima novità. Milano è generosa nel donare opportunità di successo, ma è tremendamente spietata e repentina nel revocarle. Il vero miracolo, semmai, è resistere alle mode del momento, non lasciarsi travolgere dalle tendenze di grido e imparare l’arte di resistere e perpetuarsi nel tempo. In verità, alla fine, solo pochi artisti sopravvivono agli scossoni e agli urti della storia, ma tutti hanno almeno una possibilità di partecipare a quel gioco feroce e crudele che chiamiamo arte.
Insomma, se non ce la fai qui, allora non puoi farcela in nessun’altra parte della penisola. Anche perché, dentro e fuori le due circonvallazioni che abbracciano il centro cittadino, sono disseminate, tra realtà effimere e consolidate, oltre duecento gallerie d’arte, più che in ogni altra città italiana. In mezzo a questo marasma di sedi espositive, senza contare quelle istituzionali, le fondazioni pubbliche e private, le banche, le associazioni culturali e gli altri innumerevoli luoghi di fortuna deputati alla fruizione di opere d’arte, sono pochissime quelle che hanno un’identità, un’atmosfera o un profumo particolari.
Tra queste c’è senz’altro la galleria di Antonio Colombo, dove ho incontrato per la prima volta tanti bravi artisti e dove ho fatto decine di scoperte e di riscoperte interessanti. Nel corso di quasi vent’anni al civico quarantaquattro di via Solferino sono passate molte delle migliori promesse della pittura italiana. Nei suoi locali, a un passo dalla chiusa di Leonardo, dalla sede storica del Corriere della Sera e da Brera, all’ombra del nuovo skyline, che ha spazzato via l’immagine triste e un po’ paesana delle ex Varesine, si sono avvicendate, in verità, tante storie dell’arte. Da Mario Schifano a Marco Cingolani, da Matteo Guarnaccia ai Provos olandesi, da Moby a Daniel Johnston, dalla Nuova Figurazione all’Italian Newbrow, passando attraverso incursioni nell’arte concettuale (ma non troppo), fino ad arrivare all’arte fantastica statunitense e alla Kustom Kulture californiana.
Infatti, anche se Milano non è l’America, Colombo è riuscito a portare in città anche un po’ della vivacità dell’arte contemporanea americana. Insomma, la galleria è stata (ed è tuttora) un luogo di gestazione fertile soprattutto per la pittura, ma non sono mancate le mostre di fotografia, scultura e design. L’idea di celebrare Milano nel bene e nel male, attraverso la visione agrodolce di artisti, architetti, designer e graffitisti è nata ai tavolini del bar vicino alla galleria, sotto la spinta, un po’ pretestuosa, dell’imminente Expo Universale.
A noi serviva un’idea diversa, qualcosa che non avesse niente a che fare col cibo, tema principale della manifestazione, e che non si confondesse con la pletora di mostre a tema che di lì a breve ci avrebbe sommerso. Perciò, mentre prendeva lentamente forma quella che inizialmente chiamavamo Gran Milano e che poi Cingolani avrebbe brillantemente ribattezzato La famosa invasione degli artisti a Milano, è diventato chiaro che l’arte era l’unico nutrimento che c’interessava, l’ingrediente che mai sarebbe mancato alla nostra tavola.
In questa mostra c’è di tutto, il contributo di milanesi doc come gli architetti Alessandro Mendini e Arduino Cantafora e gli artisti Aldo Damioli, Giovanni Frangi e Paolo Ventura, quello di cittadini d’elezione come Tullio Pericoli, Marco Petrus e Massimo Giacon, di espatriati come Nicola Verlato e Andrea Salvino e di un wild bunch di artisti americani americani composto da Zio Ziegler, Ryan Heshka, Clayton Brothers, Esther Pearl Watson, Fred Stonhouse, Anthony Ausgang e Mark Todd.
Siano residenti o turisti, una cosa è certa: gli artisti sono gli unici in grado dirci qualcosa su Milano che ancora non sappiamo. Ma questa, è bene avvertire il lettore, non è una mostra basata su premesse rigorose, non propone alcuna tesi sociologica e, di certo, non piacerebbe a Okwui Enzewor. Questa è una mostra confusa e felice, ma estremamente vitale. Come qualsiasi esperienza che valga la pena di essere vissuta.
[1] Maurizio Sciaccaluga, Ex voto per un miracolo, in Miracolo a Milano, a cura di Alessandro Riva, 19 giugno – 14 luglio 2005, Palazzo della Ragione, Milano, p.109.
Periodo mostra:
Dal 3 giugno 2015 al 24 luglio c/o Antonio Colombo Arte Contemporanea
Dal 3 giugno 2015 al 27 giugno c/o Sala delle Colonne – Fabbrica del Vapore
Opening: 3 giugno 2015 ore 18.00 / 21.00 (fino alle 23.00 c/o Fabbrica del Vapore)
Indirizzi:
ANTONIO COLOMBO ARTE CONTEMPORANEA – Via Solferino 44 – MILANO
orario mostra: martedì/venerdì 10 / 13 e 15 / 19 – sabato 15 /19
SALA DELLE COLONNE c/o FABBRICA DEL VAPORE – Via Procaccini 4 – MILANO
orario mostra: martedì/sabato 14/19
Artisti
108 | Aka B | Silvia Argiolas | Anthony Ausgang | Atelier Biagetti | Walter Bortolossi | Arduino Cantafora | Gianni Cella | Andrea Chiesi | Marco Cingolani | Clayton Brothers | Vanni Cuoghi | Aldo Damioli | Paolo De Biasi | Dem | Nathalie Du Pasquier | El Gato Chimney | Marco Ferreri | Enzo Forese | Giovanni Frangi | Daniele Galliano | Massimo Giacon | Alessandro Gottardo | Matteo Guarnaccia | Giuliano Guatta | Ryan Heshka | Hurricane | Massimo Kaufmann | Memphis – Galleria Post Design | Alessandro Mendini | Fulvia Mendini | Valerio Melchiotti | Olinsky | Tullio Pericoli | Marco Petrus | Giuliano Sale | Andrea Salvino | Salvo | Marta Sesana | Squaz | Fred Stonehouse | Toni Thorimbert | Mark Todd | Paolo Ventura | Nicola Verlato | Esther Pearl Watson | Zio Ziegler
Curatori Luca Beatrice
Luca Beatrice è nato nel 1961 a Torino, dove vive e lavora. Critico d’arte docente all’Accademia Albertina e allo IAAD di Torino, nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Ha pubblicato volumi e saggi sulla giovane arte italiana, tra cui Nuova Scena (G. Mondadori 1995), Nuova Arte Italiana (Castelvecchi, 1998), la monografia dedicata a Renato Zero dal titolo Zero (Baldini Castoldi Dalai, 2007). E’ autore del libro Da che arte stai? Una storia revisionista dell’arte italiana (Rizzoli 2010) e del volume incentrato sul rapporto tra musica e arte Visioni di suoni (Arcana 2010), mentre nel 2011 ha curato con Marco Bazzini Live! (Rizzoli) e realizzato Gli uomini della Signora (Dalai 2011). Nel 2012 ha pubblicato per Rizzoli Pop. L’invenzione dell’artista come star e nel 2013 Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. A fine 2014 è uscita per Barney la raccolta Write on the Wild Side. Articoli di critica militante 2007-2014, mentre nel marzo del 2015 ha pubblicato il suo ultimo saggio Nati sotto il Biscione. L’arte ai tempi di Silvio Berlusconi. Collabora con Il Giornale, scrive inoltre sulle riviste Arte e Riders. E’ presidente del Circolo dei Lettori di Torino.
Ivan Quaroni
Critico, curatore e giornalista, ha collaborato con le riviste Flash Art e Arte. Nel 2008 ha pubblicato il volume Laboratorio Italia. Nuove tendenze in pittura (Johan & Levi editore, Milano). Nel 2009 ha curato la sezione «Italian Newbrow» alla IV Biennale di Praga. Nello stesso anno è stato tra i curatori di «SerrOne Biennale Giovani di Monza». Nel 2010 ha pubblicato il libro Italian Newbrow (Giancarlo Politi editore, Milano). Nel 2012 ha pubblicato il libro Italian Newbrow. Cattive Compagnie (Umberto Allemandi, Torino). Nel 2012 cura la Biennale Italia – Cina alla Villa Reale di Monza. Ha, inoltre, curato numerose mostre in spazi pubblici e gallerie private, scrivendo per importanti artisti, tra cui Allen Jones, Ronnie Cutrone, Ben Patterson, Victor Vasarely, Alberto Biasi, Aldo Mondino, Turi Simeti, Paolo Icaro, Marco Lodola, Salvo e Arcangelo. In Italia è tra i primi a scoprire e divulgare il Pop Surrealism e la Lowbrow Art americana, scrivendo su artisti come Gary Baseman, Clayton Bros, Eric White e Zio Ziegler. Dal 2009 conduce seminari e workshop sul sistema dell’arte contemporanea e, parallelamente, svolge un meticoloso lavoro di talent scouting nell’ambito della giovane pittura italiana.
La mostra presenta con oltre venti opere una ricognizione nell’immaginario surreale di otto pittori italiani contemporanei – Nicola Caredda, Anna Caruso, El Gato Chimney, Carlo Cofano, Jara Marzulli, Massimo Quarta, Tiziano Soro, Vania Elettra Tam – per restituire uno spaccato rappresentativo dell’arte fantastica in Italia.
LECCE, 8 DICEMBRE 2012 – E-lite studiogallery continua il suo percorso espositivo in un costante dialogo con il sistema dell’arte sia internazionale sia italiano e dopo la personale dedicata all’astrazione della pittrice newyorkese Mary Obering, presenta dal prossimo 8 dicembre al 26 gennaio 2013 la mostra collettiva Coexist. Eight different kind of fantastic art, a cura di Ivan Quaroni: una ricognizione nell’immaginario surreale di otto pittori italiani contemporanei, ciascuno dei quali affronta con originalità il tema della rappresentazione non ordinaria della realtà.
Una mostra che punta lo sguardo sulla figurazione italiana per proseguire l’attenta opera di esplorazione dei più promettenti talenti artistici della scena contemporanea portata avanti dalla galleria leccese e che vede nella curatela di Ivan Quaroni, critico milanese attivo nella ricerca e nella promozione delle più recenti tendenze dell’arte contemporanea, una conferma della mission della galleria di porsi come crocevia per l’arte, creando scambi e gemellaggi con altre realtà nazionali e internazionali.
Con oltre venti opere inedite, Nicola Caredda, Anna Caruso, El Gato Chimney, Carlo Cofano, Jara Marzulli, Massimo Quarta, Tiziano Soro e Vania Elettra Tam, questi gli otto artisti selezionati da Ivan Quaroni, accompagnano lo spettatore in un viaggio al centro di quella che può definirsi un’attitudine, un’inclinazione comune: la facoltà dell’immaginazione attiva.<< “L’immaginazione attiva”, ha scritto Alejandro Jodorowsky, “è la chiave di una visione più ampia, permette di mettere a fuoco la vita dai punti di vista che non sono i nostri, pensare e sentire partendo da prospettive diverse”. Gli artisti in mostra partono, appunto, da prospettive del tutto dissimili e adeguano la facoltà dell’immaginazione attiva ai propri interessi e alla propria sensibilità. E così nello spazio espositivo della galleria si viene coinvolti in un percorso che va dal realismo magico di Carlo Cofano all’universo parallelo (o Farbomondo) di Massimo Quarta, dalle fiabe attualizzate di Anna Caruso a quelle proiettate, come ombre, sullo sfondo delle tele di Vania Elettra Tam, dalle fantasie grafiche di Tiziano Soro, ispirate all’advertising americano degli anni Cinquanta, alle carnali visioni di Jara Marzulli, fino alle enigmatiche e alchemiche chimere di El Gato Chimney e ai misteriosi notturni arcadici di Nicola Caredda.
Coexist è dunque un saggio di coabitazione immaginifica, la dimostrazione che il campo dell’iconografia fantastica è, anche nella pittura odierna, quanto mai ricco di declinazioni e sfumature, poiché risponde a un bisogno fondamentale dell’uomo. Nell’epoca della modernità liquida, della crisi globale, delle emergenze umanitarie ed ecologiche, l’esercizio dell’immaginazione, lungi dall’essere una semplice forma di escapismo, resta – come affermava Giacomo Leopardi – “il primo fonte della felicità umana” (Ivan Quaroni)>>.
Cresciuto intellettualmente, emotivamente e spiritualmente nel clima postmoderno degli anni Ottanta, sviluppando una smodata passione per i gruppi post-punk e new wave della perfida Albione ed un’autentica perversione adolescenziale per la Letteratura Decadente e la Pittura Preraffaelita e Simbolista.
Continua a leggere (saggi e soprattutto letteratura di genere fantastico), ad ascoltare enigmatiche band britanniche, a comprare la rivista Rumore (di cui continua a non capire un cazzo!!!) e a guardare cartoni animati con le sue figlie Bianca e Giuditta. Adora Joe R. Landslale, The Commitments, Harry Potter, Franco Bolelli, Neil Gaiman, Tata Matilda, Pete Doherty, Robert Williams (il pittore), la Cool Britannia e l’arte senza “libretto d’istruzioni”.
Si arrende a due sole forme di depravazione: la ricerca spirituale e i manuali di auto-aiuto.